di Stefano Marengo
Il problema fondamentale cui si deve far fronte è quindi la questione dell’oggettività e del superamento dell’opposizione soggetto-oggetto.
Questo tema è il punto di partenza dell’Enciclopedia, in cui la filosofia diventa dialettica della totalità, scienza dell’assoluto, per giungere alla verità del pensiero oggettivo, all’Idea, attraverso lo sviluppo della logica speculativa.
Tuttavia, prima di entrare
nel merito del sistema, Hegel passa in rassegna “le posizioni che sono state assegnate al pensiero rispetto
all’oggettività, per chiarire e mettere in luce il significato e il punto
di vista, che qui è stato attribuito alla Logica”[3]. Si
tratta cioè di operare una ricognizione critica della tradizione, delineando la
genesi del problema dell’oggettività e considerando gli strumenti e i criteri
con cui è stato affrontato, onde meglio evidenziare il senso del pensiero
enciclopedico.
Metafisica
La prima posizione è quella della metafisica[4]. Il suo è un “procedere ingenuo” che poggia sulla credenza che, grazie alla semplice riflessione (nachdenken), si possa conoscere e determinare la verità, ossia che il contenuto di sensazioni ed intuizioni sia anche il contenuto del pensiero: ciò che è, è conosciuto per il fatto che è pensato; l’assoluto è conoscibile mediante l’attribuzione di predicati. Ma ciò viene praticato del tutto arbitrariamente, senza interrogarsi se la forma del giudizio sia adatta a raggiungere la verità.
Tali predicati sono infatti
di per sé qualcosa di limitato, e quindi inadeguati alla rappresentazione
dell’assoluto. Vista la loro differenza di contenuto, sono inoltre reciprocamente
estrinseci e connessi solo da un semplice “anche” (i giudizi non mostrano cioè
una concatenazione e uno svolgimento necessari).
Questa inadeguatezza emerge
in tutta la sua portata in quella parte della metafisica, la teologia
razionale, che considera il concetto di Dio, le prove della sua esistenza e i
suoi attributi.
Non si può infatti
dimostrare l’esistenza di Dio o pretendere di dire qualcosa di vero e concreto
circa l’assoluto mediante determinazioni finite: così facendo si riduce l’infinito
e qualcosa di limitato e mediato. Basandosi su questa logica formale ed
intellettualistica, la metafisica diventa dogmatismo: muovendo da
determinazioni finite, bisogna necessariamente ammettere che tra due
affermazioni opposte circa uno stesso oggetto, una è vera e l’altra falsa.
“L’antitesi di realtà e negazione si presenta qui come assoluta; perciò nel concetto, come lo concepisce
l’intelletto, non resta infine se non la vuota astrazione dell’essenza indeterminata, della pura realtà
o positività, il prodotto morto del moderno rischiaramento”[5].
L’errore consiste quindi
nell’applicare il metodo di dimostrazione del conoscere finito al concetto di
Dio (immediatamente infinito), riducendolo a qualcosa di condizionato. “Il modo di dimostrazione, che è proprio del
conoscere finito, presenta, in generale, questa stortura, che si debba addurre
un fondamento oggettivo dell’essere di Dio, il quale diventa perciò qualcosa di
mediato da un altro”[6].
La contraddizione emerge poi
negli stessi attributi riferiti a Dio, i quali, da una parte, devono essere
finiti, in quanto relazioni dell’assoluto con il mondo, e, dall’altra,
infiniti, in quanto relazione dell’assoluto con se stesso. “Tale contradizione
non permette, da un siffatto punto di vista, altra soluzione che quella,
nebulosa, di spingere gli attributi, mediante un potenziamento quantitativo,
nell’indeterminato, nel sensum
eminentiorem. Se non che, a questo modo, l’attributo affermato è in effetti
ridotto a niente, e gli si lascia un mero nome”[7].
Nell’analisi della seconda
posizione di pensiero Hegel affianca empirismo e filosofia critica.
La necessità di far fronte
all’astrazione intellettuale e alla “possibilità
di dimostrare ogni e qualsiasi cosa sul terreno e col metodo delle determinazioni
finite”[8],
porta in un primo momento alla nascita dell’empirismo.
Questa filosofia non ricava
la verità dal pensiero ma, in forza della percezione interna ed esterna, la
ricerca nell’esperienza.
Ma se da una parte quello
dell’esperienza sensibile è il terreno comune a empirismo e metafisica,
dall’altra viene sottolineata la distinzione tra la singola percezione e
l’esperienza stessa. Il metodo empirico consiste infatti nell’elevare il
contenuto delle percezioni a rappresentazioni generali, proposizioni e leggi.
Questa posizione nega il
soprasensibile, dal momento che non è possibile determinare ciò che non si
trova nell’esperienza, e a cui non possono essere applicate le forme del
conoscere finito.
Va poi sottolineata una
caratteristica fondamentale del procedere empirico, rispetto a cui ha buon
gioco lo scetticismo humiano. Nell’esperienza si ritrovano infatti due
elementi: la materia, infinitamente varia, e la forma, che determina
l’universalità e la necessità della conoscenza. Ora l’empirismo, limitandosi
all’accumulo e alla generalizzazione di percezioni uguali, non raggiunge mai
tale universalità, che è ben diversa dalla semplice moltitudine. Esso, inoltre,
non è in grado di determinare alcun tipo di necessità: “l’empiria ci offre, sì,
percezioni di cangiamenti successivi
o di oggetti giustapposti; ma non già
una [loro] connessione necessaria”[9].
Da questo punto di vista universalità e necessità sono quindi qualcosa di
ingiustificato, così come paiono pure accidentali e non oggettivi il contenuto
della religione, le norme giuridiche e la morale.
È quindi evidente come anche
la posizione empirista non sia in grado di raggiungere la verità e di coglierla
nella sua realtà. La conoscenza, ristretta al campo della sola percezione
sensibile finita, è determinata solo in base alla soggettività, e non ha quindi
nessun tratto di scientificità.
Anche per la filosofia
critica l’esperienza è l’unico campo in cui si può conseguire conoscenza,
intesa però non come conoscenza della verità, ma come semplice conoscenza di
fenomeni, ossia della realtà in quanto si dà al soggetto.
A differenza dell’empirismo,
questa posizione di pensiero non individua però nella realtà sensibile i
caratteri di universalità è necessità, ma li considera forme a priori, ossia
appartenenti alla spontaneità dell’intelletto[10].
Questi concetti puri (le
categorie kantiane) sono a fondamento dell’oggettività delle conoscenze
sperimentali, che si formano coi giudizi sintetici a priori.
Anche in questo caso, la
forma del giudizio è considerata l’unico strumento di indagine e di ricerca
della verità.
Nella soggettività dell’io
conoscente rientra la totalità dell’esperienza, e quindi anche l’oggettività
nei suoi caratteri di universalità e necessità, nel suo a priori. A ciò rimane
esterna solo la cosa in sé.
Il fondamento
dell’oggettività delle categorie intellettuali è individuato da Kant nell’Io
penso, l’identità dell’io nel pensiero (appercezione, autocoscienza
trascendentale). Questo agisce da vero e proprio centro unificatore del
molteplice sensibile, che viene così ridotto ad una connessione originaria: il
fenomeno, dapprima “scomposto” nelle sue diverse determinazioni (quantità,
qualità, relazione, modalità, secondo le categorie), viene “ricomposto” nella
sua unità. Per questa sua funzione, dice Kant, “l’Io penso deve poter
accompagnare tutte le mie rappresentazioni”.
La filosofia critica
tuttavia non mostra come da questo io formale possano derivare le categorie,
ossia come da questa autocoscienza astratta possano essere ricavati gli
elementi oggettivi della conoscenza. “Com’è noto la filosofia kantiana nella ricerca delle categorie se l’è cavata a
buon mercato. L’io, l’unità dell’autocoscienza, è del tutto astratto e
pienamente indeterminato: come si può dunque giungere alle determinazioni dell’io, alle categorie? Per buona fortuna, si
trovano già nella logica comune, empiricamente indicate, le diverse forme del giudizio. Ora,
giudicare è pensare un determinato
oggetto. I diversi modi di giudizio, già belli e annoverati, porgono dunque le
diverse determinazioni del pensiero”[11].
Kant non ha derivato le categorie dall’Io originario, ma si è limitato ad
operare una sorta di trascrizione dalla tavola dei giudizi della logica
tradizionale. In questo modo la relazione tra l’Io penso e le categorie rimane meramente
estrinseca, come ha notato Fichte, cui “spetta il profondo merito di aver fatto
avvertire, che le determinazioni del
pensiero son da mostrare nella loro necessità;
che sono essenzialmente da dedurre”[12].
Se non si compie questo passo l’oggettività rimane vuota, non vera.
La seconda critica che Hegel
muove al kantismo ha di mira la conoscenza della cosa in sé,
dell’incondizionato.
In forza dei concetti dell’intelletto e dell’azione dell’io penso, la percezione può essere elevata ad esperienza. Ma le categorie, per sé vuote, risentono della materia data, e possono quindi essere applicate soltanto alla conoscenza sensibile. Esse sono perciò incapaci di essere determinazioni dell’assoluto, del soprasensibile e della cosa in sé.
La Dialettica trascendentale, nella Critica della ragion pura, indaga appunto questo proposito della
ragione di andare oltre se stessa, avventurandosi nella determinazione dei tre
incondizionati di anima, mondo e Dio.
Nel tentativo di determinare
la natura dell’anima la vecchia metafisica cade in paralogismi, scambia cioè
determinazioni empiriche con determinazioni di pensiero, e qui vale la critica
di Hume, secondo cui l’universalità e la necessità non si riscontrano nella
percezione, ma sono piuttosto abitudini.
Nel voler conoscere il
secondo incondizionato, il mondo, la ragione si imbatte in quattro antinomie,
in contraddizioni che non riguardano l’oggetto in sé, ma la stessa facoltà
conoscitiva.
Kant non si accorge però che
tali contraddizioni non emergono solo nella cosmologia, ma nella considerazione
di tutti gli oggetti, ed è proprio tale opposizione il motore della conoscenza
filosofica. “Il punto principale da osservare è, che non solo nei quattro
oggetti particolari presi dalla cosmologia si trova l’antinomia, ma piuttosto in
tutti gli oggetti di tutti i generi,
in tutte le rappresentazioni, i
concetti e le idee. Saper questo, e conoscer questa proprietà degli oggetti
appartiene all’essenziale della considerazione filosofica: questa proprietà
costituisce ciò che più oltre si determina come il momento dialettico della logica”[13].
Il terzo incondizionato
(Dio) diventa per l’intelletto un semplice astratto, essendo ogni
determinazione solo un limite, una negazione dell’infinito, che in quanto tale
va rimossa.
La ragione intraprende due
strade distinte per la conoscenza di Dio.
La prima muove dall’essere
all’astratto del pensiero. Qui l’essere è il molteplice accidentale della
sensibilità: pensarlo significa togliere quanto in esso è di meramente
possibile ed elevarlo a necessità e universalità. Questa per Kant è
un’inferenza ingiustificata. Egli stesso però non si accorge che questo
inferire, questo trapasso dall’accidentalità alla necessità, dal finito
all’infinito, questo elevarsi del pensiero sopra il sensibile, costituisce la necessità
del pensiero stesso. Negare questa evidenza equivale a negare il pensiero. Del
resto, sostiene Hegel, pensare la forma empirica significa già cambiarla in
qualcosa di universale.
La seconda via per la
conoscenza di Dio procede dall’astratto del pensiero all’essere. Qui Kant si
occupa della confutazione della prova ontologica dell’esistenza di Dio,
insistendo sulla antitesi di pensiero e essere, poiché, in base alla logica
formale dell’intelletto, ciò che è pensato non è necessariamente. A dimostrazione
di ciò viene proposto l’esempio dei cento talleri.
È ovvio, obietta Hegel, che
il concetto è diverso dall’essere, “ma Dio deve espressamente essere ciò che
può essere pensato solo come esistente, in cui il concetto
involge l’esistenza. Questa unità del concetto e dell’essere costituisce
appunto il concetto di Dio”[14]
Passando dalla dimensione gnoseologica a quella pratica, nel criticismo il comando morale è descritto come il volere che si determina da sé in leggi imperative e oggettive della libertà, fondate sul dover essere. Qui il pensiero è inteso come attività oggettivamente determinante, giustificata dal fatto che la libertà “può essere provata per mezzo di esperienza, nell’apparizione dell’autocoscienza”[15].
A tale pretesa della ragion
pratica di dare un fondamento oggettivo e universale al dover essere ben si
applica l’induzione scettica. Il diritto e il dovere sono infatti tutt’altro
che principi oggettivi ed empiricamente ricavabili; essi dipendono piuttosto
dalla soggettività individuale. La necessità di rendere oggettivo il bene, di
provare la sua esistenza nella realtà, è un’esigenza che non può essere
soddisfatta.
La filosofia critica viene
inoltre a trovarsi dinanzi a una netta separazione, un “immensurabile abisso”
(Kant), tra gli assunti della ragion pura, che propone una visione della realtà
in termini meccanicistici, e i postulati della ragion pratica della libertà
umana e dell’esistenza di Dio, che descrivono invece il mondo in un ottica
finalistica. Per far fronte a ciò Kant introduce il principio di un intelletto
intuitivo, attraverso cui il particolare accidentale viene determinato
dall’universale. È il sentimento, mediante cui l’uomo fa esperienza della
finalità intrinseca del reale, che la ragion pura esclude dal piano fenomenico
ed è solo postulata dalla ragion pratica in ambito noumenico.
È qui, afferma Hegel, che la
filosofia critica ha espresso il pensiero dell’Idea, con la rappresentazione
dell’universale concreto in se stesso, ed è solo qui che essa può dirsi
speculativa. Tuttavia, nella Critica del
giudizio, Kant stesso descrive il sentimento della finalità interna come
una semplice esigenza umana, un bisogno che non ha valore conoscitivo e
teoretico, e si pone non come sintesi, ma come mero punto di incontro tra
ragion pura e pratica.
Il fine viene quindi
spiegato non come qualcosa di oggettivo, ma come una rappresentazione solamente
soggettiva, la cui determinazione è un giudizio appartenente al nostro
intelletto. Questa finalità è il bene che viene realizzato nel mondo per mezzo
di un terzo principio, Dio, l’assoluta verità, in cui si risolve ogni antitesi
(particolare e universale, soggettività e oggettività). Ma questo bene è già
inteso, dalla ragion pratica, come nostro bene e nostra legge morale;
appartiene alla sola dimensione soggettiva e si rivela completamente privo di
determinazioni, astratto, come qualcosa che deve essere senza avere realtà.
L’impostazione della
filosofia critica mette capo alla semplice certezza soggettiva senza pervenire
alla verità oggettiva. L’errore in cui essa cade sta nel considerare la
conoscenza fenomenica come un limite naturale e invalicabile del sapere umano.
Ma un limite è riconosciuto come tale solo nel momento in cui viene
oltrepassato e negato, poiché le cose sono limitate non in sé, ma per noi,
soggetti conoscenti. Inoltre un limite è determinato “solo mediante il paragone con l’idea in quanto esistente dell’universale, di alcunché
d’intero e perfetto. È perciò semplice irriflessione il non vedere che appunto
la designazione di qualcosa come finito
o limitato contiene la prova della presenza
effettiva dell’infinito, dell’illimitato; che del limite si può aver
notizia solo in quanto c’è di qua,
nella coscienza, l’illimitato”[16].
La filosofia kantiana ha
comunque il merito, rispetto all’empirismo più radicale, di ammettere, accanto
alla percezione sensibile su cui si fonda il sapere fenomenico, il principio
della libertà e il soprasensibile, pur non risolvendone la contrapposizione.
Nella disamina della terza
posizione di pensiero rispetto all’oggettività, Hegel considera il sapere
immediato.
Il criticismo,
restringendosi alla soggettività, mette capo a un’universalità astratta, che in
quanto tale è opposta alla verità concreta e oggettiva. Il pensiero è qui
concepito come attività solo del particolare che, avendo come contenuto i
semplici concetti dell’intelletto, non è in grado di cogliere l’infinito.
Diretta conseguenza di ciò è
che di Dio e della sua verità si può avere solo un sapere immediato (la fede),
che si identifica con la ragione, intesa come facoltà dell’incondizionato in
opposizione alla finitezza dell’intelletto.
Il cardine teorico di questa filosofia consiste nell’ammettere la
realtà di Dio, dell’infinito, a partire dalla rappresentazione che ognuno ne ha
nella coscienza. L’oggettività dell’assoluto è così congiunta alla soggettività
del pensiero.
Qui si presuppone che nella
coscienza sia contenuta la verità, per raggiungere la quale è necessario
abbandonare ogni forma di mediazione. Tale sapere però non si accorge, venendo
assunto unilateralmente, di cadere in contraddizione con la mediazione stessa;
si illude di oltrepassare la finitezza semplicemente accantonandola, e non
considerandola decisiva nel percorso verso la verità.
La mediazione è invece un
elemento necessario nello svolgimento logico attraverso cui si perviene
all’assoluto; essa approda infatti all’immediatezza della verità solo in quanto
supera se stessa e ogni forma finita e limitata, la quale non va per questo
esclusa dalla conoscenza, ma piuttosto ricompresa nell’assoluto.
Del resto, nota Hegel, anche
nell’esperienza quotidiana ogni verità o conoscenza immediata è frutto di
mediazione e apprendimento: “l’immediatezza del sapere non solo non esclude la
sua mediazione, ma l’una e l’altra sono così congiunte che il sapere immediato
è perfino prodotto e risultato di quello mediato”[17].
Ciò è visibile soprattutto nella conoscenza di Dio, del diritto e della
moralità che, per quanto possa essere considerata immediata, deve essere
raggiunta attraverso una serie di mediazioni successive necessarie: presuppone
cioè un’educazione[18].
Questa filosofia, in
particolare nella sistemazione datale da Jacobi, si rivela quindi
contraddittoria, aggrappandosi da una parte al sapere immediato come unica
verità, e dovendo presupporre dall’altra un processo di mediazione.
Tornando all’assunto
fondamentale del sapere immediato, la “connessione originaria e priva di
mediazione” di idea soggettiva ed essere, si può vedere come già in ciò sia
contenuta la mediazione “realizzante sé in se stessa”. Infatti né l’idea né
l’essere presi isolatamente costituiscono verità, ma “l’idea solo per mezzo dell’essere, e per converso
l’essere solo per mezzo dell’idea, è
il vero”[19]:
l’unità di determinazioni distinte ha verità e concretezza solo se mediata.
Solamente l’intelletto astratto, che considera mediazione e immediatezza
determinazioni assolute, non riesce a risolverne il conflitto: ogni conoscenza,
e questa è la tesi guida dello sviluppo logico, risulta solo dalla relatività
di mediazione e immediatezza, che quindi non costituiscono determinazioni
indipendenti e isolate.
Inoltre questa terza
posizione di pensiero, avendo come criterio di verità la coscienza soggettiva,
di cui eleva il contenuto a “cosa che si trova nella coscienza di tutti”[20],
ricade nell’equivoco del consensus
gentium; ma non si può provare la necessità e l’universalità di qualcosa,
di un contenuto, basandosi semplicemente sul sentimento di una maggioranza.
Muovendo dai principi del sapere immediato si rischia del resto di legittimare
ogni superstizione, idolatria e azione immorale per il solo fatto che queste
vengono ritrovate nella coscienza, la quale ne attesta la verità.
Se poi si tengon ferme e si
applicano con rigore le tesi di questa filosofia, si giunge di necessità alla
ben misera conclusione che nulla si può dire di Dio se non che egli è, poiché
una determinazione ulteriore avrebbe come presupposto la mediazione, e
metterebbe quindi capo ad un sapere non vero e finito. L’oggetto della
religione è così ridotto ad una totale genericità, ad un minimum. L’immediatezza rende il contenuto di questo sapere
unilaterale e astratto, in quanto Dio è ridotto ad essenza indeterminata.
L’errore sta qui nel
considerare la verità (Dio) come qualcosa di semplicemente immediato; non ci si
accorge che tale immediatezza è lo sviluppo di un processo di mediazione,
intesa non come mediazione per mezzo di altro, di qualche cosa di estrinseco,
ma mediazione della verità in se stessa: questa è la logica speculativa, l’idea
(l’assoluto) che si svolge e realizza in sé e per sé. Solo questo metodo è in grado di determinare la
concretezza, la razionalità e la realtà dell’incondizionato, pensato non come
opposto e isolato rispetto al finito, ma come superamento dello stesso. Tale
superamento si configura come conciliazione degli opposti, come Aufhebung, che toglie la tensione della
contraddizione e ne conserva la verità, elevandola ad immediatezza.
In ultima analisi, il sapere immediato si presenta come un ritorno ai principi metafisici cartesiani, sia per quanto riguarda l’inseparabilità di pensiero e essere, espressa nell’immediatezza del “Cogito”, sia in merito all’inseparabilità della rappresentazione di Dio dalla sua esistenza, sia per quanto concerne la coscienza sensibile, ossia la coscienza immediata delle cose esterne, che realizza la più bassa e povera delle conoscenze, in quanto l’essere degli oggetti d’esperienza è un’illusione, un’apparenza, qualcosa di solamente accidentale.
Occorre tuttavia far rilevare che, se da una parte la filosofia cartesiana, muovendo da questi elementi, mette capo a uno sviluppo della scienza, dall’altra il sapere immediato si limita a denunciare come non vera la conoscenza mediata, aggrappandosi alla fede in un Dio generico e astratto.
Messa in luce l’unilateralità dell’intelletto che caratterizza le tre posizioni di pensiero rispetto all’oggettività, sia che procedano attraverso determinazioni finite (è il caso tanto della vecchia metafisica quanto dell’empirismo e del criticismo) sia che si affidino all’immediatezza esclusiva della ragione, si tratta ora di vedere come si possa arrivare ad una conoscenza piena e concreta dell’assoluto, ossia alla determinazione dell’oggettività: questo è il compito della logica e, più in generale, dell’intero sistema enciclopedico. Lo scopo della filosofia è allora quello di uscire dalle secche di un vuoto intellettualismo, riconoscendo nella mediazione dialettica degli opposti (la dialettica soggetto-oggetto) il motore e l’essenza del pensiero.
Questa è l’istanza che anima la prima sezione dell’Enciclopedia, La scienza della logica. Il punto di partenza, il cominciamento, non può essere, qui, né la certezza sensibile, che è mera considerazione del finito, né, tantomeno, l’immediatezza unilaterale dell’assoluto, che rimane astratto e quindi privo di verità. Si tratta invece di collocarsi nell’ottica della totalità, intesa non come aggregato estrinseco e accidentale di conoscenze e determinazioni, ma come sviluppo necessario e mediazione dell’assoluto in se stesso; mediazione in cui le opposizioni escono dal loro isolamento e divengono momenti della totalità stessa.
Il cominciamento è allora di necessità il puro essere, “perché esso è così pensiero puro, come è, insieme, l’elemento immediato semplice e indeterminato; e il primo cominciamento non può essere niente di mediato e di più particolarmente determinato”[21]. Proprio mediante l’articolazione dialettica di questo puro indeterminato l’oggettività trova la sua completa realizzazione (la sua formazione) nella soggettività dell’Idea, che va tuttavia ben distinta da una soggettività solo individuale, in quanto ricomprende in sé i due momenti oggettivi (l’essere e l’essenza) dello sviluppo del concetto.
[1] G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Roma-Bari 2002, § 25, pp. 38-39
[2] Ivi, § 1, p. 3
[3] Ivi, § 25, p. 39
[4] Qui Hegel si riferisce alla metafisica
nella forma datale da Christian Wolf, specie nell’opera Vernuenftige Gedanken von Gott, der Welt und der Seele des Menschen,
auch allen Dinge ueberhaupt.
[5] Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., § 36, p. 46. È da notare, qui, la polemica hegeliana con l’Aufklaerung, l’illuminismo
[6] Ibid.
[7] Ivi, § 36, p. 47
[8] Ivi, § 37, p. 47
[9] Ivi, § 39, p. 49
[10] E’ il risultato della rivoluzione copernicana di Kant. Nella Critica della ragion pura giunge a maturazione e si compie il passaggio, iniziato con Cartesio, dalla ragione oggettiva alla ragione soggettiva. Questa rivoluzione è in effetti il cuore della modernità. Il riconoscimento della soggettività del soggetto come fondamento della conoscenza scalza il concetto antico e medievale di una ragione oggettiva, concetto per cui il fondamento (ratio essendi e ratio cognoscendi) non è l’individualità dell’io, ma il sommo ente, l’oggetto assolutamente altro dal soggetto (come le idee platoniche o il Dio della teologia cristiana) che complica in sé la verità di ciò che è. Questo spostamento dal concetto oggettivo al concetto soggettivo di ragione può essere meglio compreso se si considera la storia della sentenza per cui la verità è adaequatio intellectus et rei. Nell’ottica della ragione oggettiva, essa deve essere intesa nel senso che la verità è un esser conforme della cosa (o dello stato di cose) all’intelletto divino, ossia al contenuto della mente di Dio. Nell’accezione soggettiva (kantiana), essa significa che la verità è adeguazione della cosa (o dello stato di cose) all’intelletto soggettivo, ossia alla legalità a priori delle categorie e al giudizio che, sul fondamento della soggettività, viene formulato ed espresso.
Non è difficile notare come tutta quanta la filosofia di Hegel, e in particolare i passi dell’Enciclopedia che stiamo qui considerando, sia il tentativo di superare la tensione e la contrapposizione radicale di questi concetti di ragione.
[11] Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., § 42, pp. 52-53
[12] Ibid.
[13] Ivi, § 48, p. 59
[14] Ivi, § 51, p. 66
[15] Ivi, § 53, p. 67
[16] Ivi. § 60, p. 73
[17] Ivi, § 66, p. 84
[18] Educazione come paideia, Bildung. È il processo di formazione, lo svolgimento dello Spirito in cui mediazione e immediatezza, dialetticamente, fanno tutt’uno: l’immediatezza dell’in sé (tesi) trapassa nella mediazione del per sé (antitesi) e la loro verità viene quindi tolta, superata e conservata (è l’Aufhebung) nell’immediatezza dell’in sé e per sé (sintesi). Questo concetto è del resto ribadito dal titolo stesso dell’opera: enciclopedia, infatti, non significa altro che “educazione circolare”, dove l’aggettivo “circolare” designa la circolarità dialettica dello Spirito.
[19] Enciclopedia delle scienze filosofiche, cit., § 70, p. 87
[20] Ivi, § 71, p. 88
[21] Ivi, § 86, p. 101