di Claudia Bianco
Per comprendere la nozione aristotelica di tecnica e per riuscire a cogliere la distanza che la separa da quella platonica, è necessario fare un passo indietro e riprendere le parole di Platone stesso. In primo luogo, nel X libro, egli definisce il prodotto dell’imitatore come «una realizzazione frequente e veloce, anzi velocissima»[1] che consiste in «prendere uno specchio e girarlo in ogni direzione»[2] creando in tal modo «il sole e i corpi celesti, la terra, gli altri esseri viventi, gli oggetti, le piante»[3]; in secondo luogo, distingue l’arte di chi sa usare gli strumenti e gli utensili, l’arte di chi sa produrre questi strumenti e utensili e, infine, la pseudo-arte che li imita. Distinti questi tre tipi di arte («quella che ne farà uso, quella che lo realizzerà, quella che lo imiterà»[4]), Platone, per bocca di Socrate, domanda al suo interlocutore se concorda sul fatto che la virtù, la bellezza, la perfezione di ogni singolo oggetto, essere vivente e azione riguardino soltanto l'uso per il quale ciascuno di essi è fabbricato o esiste in natura e, dopo aver ricevuto esito positivo al suo interrogativo, sostiene che «chi adopera ogni singolo oggetto deve per forza averne la maggiore esperienza e riferire al fabbricante i pregi e i difetti che si rivelano all'uso; ad esempio un flautista dà spiegazioni al costruttore di flauti sugli strumenti che gli servono nel suo mestiere e gli ordinerà come deve fabbricarli, e quello obbedirà»[5]. Da ciò deduce, innanzitutto, che «il fabbricante avrà delle idee giuste sulla perfezione e l'imperfezione dello stesso oggetto, perché frequenta l'esperto ed è costretto ad ascoltarlo»[6]; in secondo luogo, che «solo chi lo utilizza ne avrà la scienza»; in terzo luogo, che l’imitatore, non potendo sapere dall'uso se ciò che ha dipinto possa essere giudicato positivamente e non potendo ricavare una corretta opinione dal suo necessario contatto con l'esperto[7], «non possiederà né la conoscenza né la retta opinione sui pregi e i difetti di ciò che imita»[8].
L’elemento centrale
dell’argomentazione di Platone è la distinzione tra il sapere di chi sa usare
un oggetto e di chi lo produce. Colui che conosce, in qualche misura, l’idea
degli oggetti prodotti è colui che sa usarli, mentre chi li produce ne ha
conoscenza per semplice opinione.
Dunque a questo livello vanno distinti due tipi di artigiano: uno che
conosce l’idea, usando lo strumento; l’altro che ne riceve l’opinione,
producendolo. Per Platone, infatti, conoscere lo scopo per cui è realizzato un
oggetto significa conoscerne una caratteristica ideale essenziale, cioè la
perfezione. Ogni gruppo di oggetti, quindi, avrà, tra le tante caratteristiche,
quella della perfezione, che consiste, nel caso degli utensili, allo scopo per
il quale essi vengono realizzati; la conseguenza a cui giunge Platone,
attraverso l’esempio del flautista sopra citato, è che tale conoscenza ideale
non potrà mai essere propria degli artigiani-produttori, in quanto questi
ultimi risulteranno essere possessori di un tipo di sapere volto ad altre
caratteristiche dell’oggetto in questione. Dunque vi sarà un artigiano che ha
scienza (episteme), e uno che ne avrà mera doxà (opinione); naturalmente, l’imitatore non possiederà
nulla di tutto ciò. Nasce, in tal modo, la figura di un «scienziato-artigiano»,
il quale non necessariamente produce oggetti, ma utilizza quelli creati da
altri per raggiungere i suoi obiettivi, in quanto conoscitore dello scopo vero
per cui tali oggetti vengono prodotti.
Uno dei motivi centrali, per il quale è stato
necessario riprendere la concezione platonica della tecnica e del sapere ad
essa inerente, è la possibilità di leggere, attraverso una prospettiva più
esterna, la filosofia aristotelica, la quale si posiziona su un versante
opposto rispetto a quella platonica. Aristotele nel I libro della Metafisica,
prima ancora di pronunciare l’interessante critica alla teoria delle idee di
Platone, attacca la concezione del rapporto tra scienza, sapere degli artigiani
e sapere degli imitatori, di cui si è appena trattato. In particolare, da un
lato Aristotele spezza questa continuità tra buon artigiano e scienziato (per
Aristotele, uno scienziato vero non è un artigiano di livello superiore, ma ha
qualcosa in più); per un altro verso, dimostra che anche colui che imita
possiede un certo tipo di sapere.
L’argomento, che si scontra con la teoria platonica, è rintracciabile
nelle prime pagine della Metafisica di Aristotele, ma, prima di entrare
nel merito della questione, è di nuovo
necessario fare riferimento a un altro testo aristotelico per poter comprendere
più facilmente la tesi sviluppata dallo Stagirita. L’Etica Nicomachea presenta
il carattere distintivo di utilizzare una terminologia specifica, introdotta da
Aristotele stesso, per parlare di coloro che Platone denominava artigiani. Qui,
Aristotele traspone la nozione di «prassi», che rappresenta il fulcro
argomentativo dell’opera, su un piano assolutamente astratto. La Praxis, secondo Aristotele, viene
condivisa dagli uomini e da qualsiasi altra entità naturale, in quanto essa è
propriamente azione, attività in generale (ad esempio anche il semplice
movimento) ed è quindi una caratteristica comune a più esseri viventi.
Aristotele afferma, poi, che esistono due tipologie di attività pratiche che
non possono essere attribuite agli altri soggetti presenti in natura (piante e
animali) e che, conseguentemente, sono proprie dell’individuo, ossia l’azione
umana e la produzione (poesis); esse si distinguono per il fatto che
l’azione ha il proprio fine in se stessa, ossia nel compimento dell’azione
stessa, mentre la produzione ha il suo fine fuori di sé, ossia nell’oggetto che
essa produce. Utilizzando esempi efficaci per chiarificare e confermare le sue
posizioni, Aristotele ammette quindi che:
«ogni tecnica praticata metodicamente, e, ugualmente,
ogni azione realizzata in base a una scelta, mirino ad un bene: perciò a
ragione si è affermato che il bene è "ciò cui ogni cosa tende"1. Ma
tra i fini c’è un’evidente differenza: alcuni infatti sono attività, altri sono
opere che da esse derivano. [5] Quando ci sono dei fini al di là delle azioni,
le opere sono per natura di maggior valore delle attività. E poiché molte sono
le azioni, le arti e le scienze, molti sono anche i fini: infatti, mentre della
medicina il fine è la salute, dell’arte di costruire navi il fine è la nave,
della strategia la vittoria, dell’economia la ricchezza. [10] Tutte le attività
di questo tipo sono subordinate ad un’unica, determinata capacità: come la
fabbricazione delle briglie e di tutti gli altri strumenti che servono per i
cavalli è subordinata all’equitazione, e quest’ultima e ogni azione militare
sono subordinate alla strategia, così allo stesso modo, altre attività sono
subordinate ad attività diverse. In tutte, però, i fini delle attività
architettoniche [15] sono da anteporsi a quelli delle subordinate: i beni di
queste ultime infatti sono perseguiti in vista di quei primi. E non c’è alcuna
differenza se i fini delle azioni sono le attività in sé, oppure qualche altra
cosa al di là di esse, come nel caso delle scienze suddette.»[9]
«Ammettiamo, dunque, che le disposizioni per cui l’anima coglie il
vero con un’affermazione o con una negazione siano cinque di numero: e queste
sono l’arte, la scienza, la saggezza, la sapienza, l’intelletto; il giudizio e
l’opinione no, perché ad essi è possibile ingannarsi. Che cosa è, dunque, la
scienza, se dobbiamo parlare con rigore e non tener dietro a similitudini,
risulta chiaro da quanto segue. [20] Tutti ammettiamo che ciò di cui abbiamo
scienza non può essere diversamente da quello che è: ciò, invece, che può
essere anche diverso, quando è fuori dal campo della nostra osservazione, non
si sa più se esiste o no. In conclusione, l’oggetto della scienza esiste di necessità.
Quindi è eterno: gli enti, infatti, che esistono di necessità assoluta sono
tutti eterni, e gli enti eterni sono ingenerati e incorruttibili. [25] Inoltre,
si ritiene che ogni scienza sia insegnabile e che ciò che è oggetto di scienza
può essere appreso. Ogni insegnamento, poi, procede da conoscenze precedenti,
come diciamo anche negli Analitici149: procede, infatti, o mediante l’induzione
o mediante il sillogismo. Ora, l’induzione è principio di conoscenza anche
dell’universale, mentre il sillogismo procede dagli universali. Ci sono, [30]
dunque, dei principi da cui il sillogismo procede, ma dei quali non è possibile
sillogismo: dunque, si ottengono per induzione. In conclusione, la scienza è
una disposizione alla dimostrazione, insieme con tutti gli altri caratteri che
abbiamo definito negli Analitici 150, giacché quando si è giunti ad una
determinata convinzione e quando i principi ci sono noti, si ha scienza.
Infatti, se i principi non sono più noti della conclusione, [35] si avrà
scienza solo per accidente. Si consideri conclusa in questo modo la definizione
di scienza.»[10]
Tutto questo presupposto, ampiamente argomentato nell’Etica Nicomechea, è il fondamento dell’affermazione pronunciata da Aristotele nel I libro della Metafisica.
La Metafisica e la gerarchia delle
conoscenze
«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: infatti, essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità, e, più di tutte amano la sensazione della vista: in effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose.»[11]
Si possono compiere alcune considerazioni circa il
passo sopra riportato: innanzitutto, la riabilitazione, sviluppata anche in
altre opere, delle sensazioni, a cui viene attribuita la capacità di fornire un
certo tipo di conoscenza; in secondo luogo, è possibile rilevare l’importanza
della distinzione tra scienza/sapere e utilità pratica, che implica una
naturale tendenza degli uomini al perseguimento del sapere fine a sé stesso,
indipendentemente dalla sua capacità di reggere attività pratiche rivolte a
qualche scopo. Terzo elemento, è la rivalutazione della capacità irrazionale e
naturale di provare piacere e dispiacere: secondo Aristotele, diversamente da
Platone, il piacere sensibile non deve essere ascritto ad una facoltà
dell’anima del tutto irrazionale, soggetta ad un controllo coercitivo
esercitato dalla facoltà razionale, ma può essere posto sotto l’influenza della
riconciliazione tra il piacere del sapere fine a se stesso e il piacere conseguibile
nell’esercizio della conoscenza. Accennati questi versi che allontano
Aristotele da Platone, si sviluppa un discorso la cui finalità sarà quella, in Poetica
e Retorica, di assegnare alle arti mimetiche e alle arti della parola la
qualifica di tecniche. Aristotele, asserisce poi:
«gli animali sono naturalmente forniti di
sensazione; ma, in alcuni, dalla sensazione non nasce la memoria, in altri,
invece, nasce. Per tale motivo questi ultimi sono più intelligenti e più atti
ad imparare rispetto a quelli che non hanno capacità di ricordare. Sono
intelligenti. Ma senza capacità di imparare, tutti gli animali che non hanno
facoltà di udire i suoni (per esempio l’ape e ogni altro animale di questo
tipo); imparano, invece, tutti quelli che, oltre la memoria, posseggono anche
il senso dell’udito.»[12]
Lo Stagirita incomincia, qui, a trattare le capacità
psicologiche che ricadono sotto il gruppo delle facoltà riconducibili all’aistesis;
infatti, Aristotele annovera, tra le facoltà strettamente legate alla sensazione,
la memoria. La base dell’argomento è la constatazione che anche alcuni animali,
e dunque non solo gli esseri umani, sono in grado di apprendere. Gli animali
non possiedono la ragione, non hanno la capacità di riflessione, ma va ammesso
che sono provvisti di qualcosa di analogo alla ragione; «analogo» in quanto
permette loro di mutare comportamento in modo vantaggioso in funzione
dell’acquisizione di esperienza, pur diversificandosi dagli uomini nella loro
incapacità di apprendere gli intelligibili. Gli animali, similmente agli esseri
umani, apprendono in quanto non possiedono solamente capacità percettive
immediate e momentanee, ma possiedono anche la memoria delle sensazioni;
conseguentemente, grazie all’accumulo di conoscenze minime date dalle sensazioni,
modificano i loro atteggiamenti.
Prosegue Aristotele:
«Orbene, mentre gli animali vivono con immagini sensibili e con ricordi, e poco partecipano dell’esperienza, il genere umano vive, invece, anche d’arte e di ragionamenti. Negli uomini, l’esperienza deriva dalla memoria: infatti, molto ricordi dello stesso oggetto giungono a costituire un’esperienza unica. L’esperienza, poi, sembra essere alquanto simile alla scienza e all’arte: in effetti, gli uomini acquistano scienza e arte attraverso l’esperienza. L’esperienza, infatti, come dice Polo, produce l’arte, mentre l’inesperienza produce il puro caso. L’arte si genera quando, da molte osservazioni di esperienza, si forma un giudizio generale ed unico riferibile a tutti i casi simili. Per esempio, il giudicare che a Callia, sofferente di una determinata malattia, ha giovato un certo rimedio, e che questo ha giovato anche a Socrate e a molti altri individui, è proprio dell’esperienza; invece il giudicare che a tutti questi individui, ridotti ad unità secondo la specie, sofferenti di una certa malattia, ha giovato un certo rimedio (per esempio ai flemmatici o ai biliosi o ai febbricitanti) è proprio dell’arte.
Orbene, ai fini dell’attività pratica, l’esperienza
non sembra differire in nulla dall’arte; anzi, gli empirici riescono anche
meglio di coloro che posseggono la teoria senza la pratica. E la ragione sta in
questo: l’esperienza è conoscenza dei particolari, mentre l’arte è conoscenza
degli universali; ora, tutte le azioni e le produzioni riguardano il particolare:
infatti il medico non guarisce l’uomo se non per accidente, ma guarisce Callia
o Socrate o qualche altro individuo che porta un nome di questi, al quale,
appunto, accade di essere uomo. Dunque, se uno possiede la teoria senza
l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è
contenuto, più volte sbaglierà la cura. Perché ciò a cui è diretta la cura è,
appunto, l’individuo particolare.»[13]
Aristotele utilizza più volte
alcuni termini particolari come pratica, tecnica, arte, prassi,
scienza, e affianca ad essi
l’elemento essenziale dell’esperienza; in sostanza, riportando casi empirici di
medicina e basandosi sulla capacità naturale di acquisire conoscenza, afferma
che il primo livello del sapere è l’esperienza acquisibile attraverso le
facoltà legate alla sensazione e alla memoria. Vi è, poi, un secondo livello di
sapere, in cui le facoltà, specificatamente umane, garantiscono la formulazione
di ragionamenti a carattere generale, i quali conducono all’osservazione di casi singolari,
permettendo l’elaborazione di giudizi. Per Aristotele vale la distinzione tra
il sapere dell’arte e quello della scienza; distinzione che si verifica non dal
punto di vista delle qualità del sapere ma da quello dell’efficacia pratica.
«E, tuttavia, noi riteniamo
che il sapere e l’intendere siano propri più all’arte che all’esperienza, e
giudichiamo coloro che posseggono l’arte più sapienti di coloro che posseggono
la sola esperienza, in quanto siamo convinti che la sapienza, in ciascuno degli
uomini, corrisponda al loro grado di conoscere. E, questo, perché i primi sanno
la causa, mentre gli altri non la sanno. Gli empirici sanno il puro dato di
fatto, ma non il perché di esso; invece gli altri conoscono il perché e la
causa. Perciò noi riteniamo che coloro che hanno la direzione nelle singole
arti siano più degni di onore e posseggano maggiore conoscenza e siano più
sapienti dei manovali, in quanto conoscono le cause delle cose che vengon
fatte; invece i manovali agiscono, ma senza sapere ciò che fanno così come
agiscono alcuni degli esseri inanimati, per esempio, così come il fuoco brucia:
ciascuno di questi esseri inanimati agisce per un certo impulso naturale,
mentre i manovali agiscono per abitudine. Perciò consideriamo i primi più
sapienti, non perché capaci di fare, ma perché in possesso di un sapere
concettuale e perché conoscono le cause.»[14]
Aristotele svolge qui un altro
argomento: pone la differenza tra semplice esperienza e arte. Precedentemente,
Aristotele distingueva tra il sapere dell’artista e quello dello scienziato,
sostenendo che il sapere dello scienziato mira alla conoscenza dell’universale,
mentre quello del tecnico punta a una conoscenza di casi particolari. Dunque,
giunge all’introduzione di un ulteriore caratteristica della conoscenza, ossia
la cognizione delle cause. Definire la scienza come conoscenza del «che» e non
del «perché» le cose vadano in un certo modo, serve ad introdurre la
distinzione tra esperienza e arte. Infatti l’avere semplicemente esperienza non
è sufficiente per avere arte; noi distinguiamo il capo mastro dal semplice
manovale su questa base. Il semplice manovale agisce come un essere inanimato
sulla base delle semplici conoscenze che possono essere attribuite anche ad una
animale; mentre, agiscono per arte coloro che conoscono il perché bisogna agire
in un certo modo.
La Retorica e
la Poetica. Verso la
riabilitazione etica dell’arte.
La concezione di tecnica e del
sapere inerente alle arti è rintracciabile tra le righe della Retorica,
opera che non solo non ammette la condanna degli imitatori mossa da Platone,
ma difende a pieno titolo l’attività
svolta dai retori. Per Platone era necessario espellerli dallo stato ideale
essenzialmente per due motivi: innanzitutto in quanto si proclamavano detentori
di una tecnica di cui non erano realmente in possesso, in secondo luogo, poiché
si appellavano a facoltà irrazionali
che, in quanto tali, non dovevano essere stimolate. Aristotele, contrariamente
a Platone, sostiene, all’inizio della sua opera, che la retorica oltre ad
essere una tecnica, non richiama facoltà irrazionali, ma bensì razionali. La
retorica viene definita da Aristotele come la capacità di trattare tecnicamente
ciò che è persuasivo riguardo a ciascun argomento; ciò significa che, di per sé
stessa, non si assume il compito di persuadere direttamente, ma quello di indagare e di esplicare quali
siano le «cose persuasive» in qualsiasi campo:
«Definiamo dunque la retorica
come la facoltà di scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persuadere.
Questa infatti non è la funzione di nessun’altra arte; ciascuna delle arti mira
all’insegnamento e alla persuasione intorno al proprio oggetto: così la
medicina intorno ai casi di salute e di malattia, la geometria intorno alle
variazioni che avvengono nelle grandezze, l’aritmetica intorno ai numeri, e
parimenti le altre arti e scienze. La retorica, invece, sembra poter scoprire
ciò che persuade, per così dire, intorno a qualsiasi argomento dato; perciò
affermiamo che essa non costituisce una tecnica intorno a un genere proprio e
determinato.»[15]
I mezzi di persuasione che
vengono utilizzati dalla retorica possono riferirsi al carattere morale di chi
parla o alla disposizione di chi ascolta, in tal caso sono studiati dall’etica
e dalla politica, oppure al valore
intrinseco del discorso stesso, in quanto esso riesce a dimostrare o ad avere
l’apparenza di dimostrare, e in questo secondo caso sono di stretta competenza
della dialettica. Infatti, Aristotele afferma vi sono tre specie di
argomentazioni procurate dal discorso, ossia «le une risiedono nel carattere
dell’oratore, le altre nel disporre l’ascoltatore in una data maniera, le altre
infine nello stesso discorso, attraverso la dimostrazione o l’apparenza di
dimostrazione»[16].
Se le cose stanno così, significa che la retorica è il punto di incontro tra
etica, politica e dialettica, dato che il suo oggetto di studio non contempla
solo il modo di suscitare le passioni negli ascoltatori, ma anche
l’individuazione delle regole secondo cui bisogna costruire le argomentazioni,
indipendentemente dalla loro verità o falsità. Ciò che distingue la retorica
dalla dialettica è il fatto che essa non si occupa di tutti i tipi di problemi
in generale, bensì di quelle argomentazioni che vertono su quanto è oggetto di
deliberazione, di scelta, e che si rivolgono ad ascoltatori qualsiasi e non ha
professionisti dell’argomentazione, scegliendo forme abbreviate di
dimostrazione, meno rigorose dei veri e propri sillogismi dimostrativi, ma più
persuasive e efficaci nel contesto della discussione pubblica. L’«arte del
discorso», ossia la retorica, viene considerata tecnica non solo per la non
condannabilità dei suoi scopi, ma anche per il sapere empirico su cui è fondata
che, essendo appunto esperibile, permette il miglioramento attraverso il
ricorso alla cognizione delle cause e dei moventi che hanno reso le azioni meno
efficaci.
In generale, la riabilitazione dell’arte poetica trova le sue radici da un lato nella teoria aristotelica dell’arte, dall’altro in una serie di concezioni relative alla psicologia e alla fisica, le quali sono soltanto accennate nella Poetica; ciò significa che per comprendere alcuni passaggi nodali della Poetica bisognerà fare riferimento al De Anima, dove la concezione di aistesis viene messa in connessione con una facoltà trascurata da Platone, la fantasia.
Partendo dall’analisi della Poetica, i luoghi centrali su cui essa erge il suo complesso teorico sono essenzialmente due: innanzitutto il paragrafo d’apertura, in cui Aristotele sembra voler ripercorre i passi compiuti da Platone nella Repubblica, ammettendo l’esistenza di una serie di arti imitative, intese però, ed è qui che si innesta la differenza con il maestro, non come tecniche che producono strumenti o beni di utilizzo immediato, ma come semplici riproduzioni di oggetti che esisterebbero anche senza codesta tecnica. Nell’incipit della sua opera, Aristotele fissa il fulcro della suo studio:
«Trattiamo dunque di poetica in sé e delle sue forme, quale
potenzialità ciascuna possegga e come debbano comporsi i racconti perché la
poesia riesca ben fatta, e inoltre di quante e quali parti consista, e anche, in modo simile, di tutti gli altri
argomenti che pervengono alla medesima disciplina, incominciando secondo natura
dapprincipio dai principi. L’epica, così come la poesia tragica, nonché la
commedia, la composizione di ditirambi e la maggior parte dell’auletica e della
citaristica nel complesso sono tutte imitazioni, ma si distinguono l’una
dall’altra sotto tre aspetti: nell’imitare o con mezzo diversi, o oggetti
diversi, o diversamente e nello stesso tempo. Come alcuni imitano riproducendo
molti oggetti con colori e figure (chi per arte, chi per pratica) e
altri usando la voce, così tutte le dette arti compiono l’imitazione con il
ritmo, la parola e la musica, separatamente oppure in combinazione.»[17]
In sostanza, dapprima afferma che l’opera tratterà della poetica in quanto arte imitativa, delineando una suddivisione delle sottospecie dell’arte poetica (l’epica, la poesia tragica, la commedia, la composizione di ditirambi, l’auletica e la citaristica), successivamente traccia un parallelo tra arte poetica e arte imitativa del pittore: infatti, come i colori e le forme sono il mezzo di cui dispone un pittore, così il ritmo, la parola e la musica sono gli strumenti di cui dispone il poeta per imitare. Se nella Repubblica Platone poneva l’esistenza delle arti imitative assumendo come paradigma l’arte del pittore e sostenendo, una volta definita quest’ultima, che l’arte del poeta è ad essa uguale, Aristotele, procedendo in modo diverso, prepara la soluzione secondo cui imitare non è produrre semplice copie, ma è un qualcosa di più complesso. In poche parole, Platone riduce tutto ai minimi termini, individuando un rapporto di uguaglianza tra poesia e pittura; Aristotele, invece, osserva come tra poesia e pittura si instauri un rapporto analogico, in cui l’arte poetica risulta essere solo analoga alla pittura. Si apre, in tal modo, la diatriba che ruota intorno alla corretta decodificazione del frammento oraziano, «ut pictura et poesis» tra due linee interpretative: da una parte la posizione platonica secondo la quale la traduzione letterale della formula consisterebbe in «così come la pittura così come la poesia»; dall’altra, coloro che assumono per intero la formula «ut pictura et poesis erit» (la pittura sarà come la poesia/la pittura deve essere come la poesia) e che dunque seguono le indicazioni aristoteliche di una mimesis ricalcata sul modello della poesia, a cui il pittore deve adeguarsi senza essere un mero imitatore di copie fedeli agli originali.
Il secondo luogo centrale si incontra nel quarto paragrafo dove lo Stagirita avanza più di un argomento in antitesi con il maestro Platone:
«Due cause appaiono in generale aver dato vita all’arte poetica, entrambe naturali: da una parte il fatto che l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo differenzia dagli altri animali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo delle imitazione le nozioni fondamentali), dall’altra il fatto che tutti traggono piacere dalle imitazioni. Ne è segno quel che avviene nei fatti: le immagini particolarmente esatte di quello che in sé ci dà fastidio vedere, come per esempio le figure degli animali più spregevoli e dei cadaveri, ci procurano piacere allo sguardo. Il motivo di ciò è che l’imparare è molto piacevole non solo ai filosofi ma anche ugualmente a tutti gli altri, soltanto che questi ne partecipano per breve tempo.»[18]
L’impostazione di stampo naturalistico rintracciabile in queste righe sarà il medesimo che troveremo nella psicologia e che abbiamo già incontrato nelle prime pagine della metafisica. Aristotele cioè imposta le sue considerazioni su una visione complessiva dell’universo e, conseguentemente, su una caratteristica comune e presente in tutti gli uomini, che risulta essere la giustificazione dell’arte imitativa, oltre che la prima riflessione naturalistica riscontrabile; secondo Aristotele, infatti, l’arte imitativa è equiparabile all’istinto naturale, e proprio in quanto tale non ha senso volerla eliminare. Sempre a questo proposito Aristotele, come già sosteneva nella Metafisica, ritiene quindi che se tutti gli uomini sono dotati di medesime caratteristiche, allora saranno tutti dotati, sin dalla fanciullezza, dell’istinto a imitare. La seconda considerazione naturalistica risiede nell’affermazione aristotelica circa lo scopo dell’imitazione, il quale è analogo a quello dell’acquisizione di esperienza: imitando si impara, si conosce, si apprendono dei comportamenti che è possibile perfezionare proprio sulla base delle esperienze. Il terzo motivo, sempre di base naturalistica, consiste nella connessione tra imitare per apprendere e provare piacere, già presente nella Metafisica; Aristotele, infatti, dicendo che è naturale provare piacere ogni qualvolta noi apprendiamo, tende non solo a giustificare il piacere in quanto tale poiché volto alla conoscenza e per questo non irrazionale, ma pone anche un problema scaturito da una constatazione empirica: noi proviamo piacere nell’osservare cose che, qualora fossero imitazioni, ci desterebbero disgusto. A ragione di questo, se osserviamo il cadavere di un animale spregevole siamo soggetti al disgusto, se invece ne abbiamo conoscenza mediante rappresentazione, proviamo piacere; ciò può avvenire solo in virtù del medium imitativo, il quale trasforma l’oggetto spregevole in un oggetto di conoscenza che dunque suscita piacere. Nonostante la centralità che il problema inerente al rapporto tra il piacere e l’imitazione ha rivestito, per lungo tempo, nei dibattiti tra critici e psicologi, è certo che esso permette allo Stagirita di rafforzare la sua tesi circa l’istanza conoscitiva dell’imitazione e di contrastare la mimesis platonica concepita come mera capacità di avere sensazioni:
«Da ciò che si è detto è chiaro che il compito del poeta non è di dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire, cioè quelle possibili secondo versomiglianza o necessità. Lo storico e il poeta non si distinguono nel dire in versi o senza versi (si potrebbero mettere in versi gli scritti di Erodono e nondimeno sarebbe sempre una storia, con versi o senza versi); si distinguono invece in questo: l’uno dice le cose avvenute, l’altro quali possono avvenire. Perciò la poesia è cosa di maggiore fondamento teorico e più importante della storia perché la poesia dice piuttosto gli universali, la storia i particolari. E’ universale il fatto che a una persona di una certa qualità capiti di dire o di fare cose di una certa qualità, secondo verosimiglianza o necessità, il che persegue la poesia, imponendo poi i nomi. Il particolare invece è che cosa fece o subì Alcibiade.»[19]
Non solo Aristotele sostiene l’istanza conoscitiva dell’imitazione ma la legittima attraverso il confronto tra poeta e storico, laddove la differenza non risiede nella veridicità di ciò che il poeta rappresenta ma nella sua capacità ad occuparsi degli universali: infatti mentre il poeta può inventare delle storie e raccontare eventi che non sono accaduti ma che sono suscettibili di accadere, lo storico si limita ad elencare gli eventi secondo cronologia. A tal proposito il criterio a cui deve aderire l’imitatore è quello della verosimiglianza, secondo il quale noi abbiamo la possibilità di imparare da una storia solo se verosimile e attinente alle leggi della possibilità. In questo modo ciò che noi apprendiamo è vicino alla conoscenza scientifica; infatti, se noi siamo a conoscenza delle leggi tali che le cose siano suscettibili di accadimento, significa che abbiamo anche cognizione di qualcosa di universale. Dunque, un buon pittore non si pone come scopo la riproduzione illusoria di un ente al fine di ingannarci, ma ha semmai l’obiettivo di illustrarci le leggi di tipo generale, ed è questo, in definitiva, il vero motivo che garantisce l’ammissione delle arti poetiche. Se volessimo realizzare un confronto tra l’arte della poetica e quella della retorica, vedremo come entrambe si prefiggano uno scopo ben definito: da una parte abbiamo la retorica che mira a cambiare il mondo, influire sulle valutazioni della vita pubblica e sulle deliberazioni dei tribunali; dall’altra abbiamo la poetica che vuole fornire la conoscenza universale, divenendo in virtù di ciò un’arte genuina.
Non deve però cadere nell’oblio il fatto che il valore conoscitivo dell’arte poetica è inserito entro una cornice trattatistica il cui scopo è quello di fornire indicazioni per la realizzazione di tragedie efficaci, in quanto solo il genere tragico è in grado di mostrarci le leggi del possibile che hanno portata etica; la tragedia ha il compito di farci conoscere dei modelli di uomo, di farci divenire consapevoli delle conseguenze dell’agire umano e di farci apprendere i problemi etici e religiosi. Resta esclusa da queste pagine la spiegazione del perché noi imitando giungiamo alla cognizione dell’universale, che verrà invece esposta in altre due opere aristoteliche, ossia nella Fisica e nel De Anima.
Fisica e De anima: scienza e
tecnica per il perfezionamento della natura
Se nella Poetica Aristotele si limita ad indicare le regole a cui un poeta deve attenersi per raggiungere la massima efficacia dei suoi prodotti, nella Fisica la nozione di tecnica non solo viene più ampliamente sviluppata ma acquista anche la capacità di perfezionare l’opera della natura; nuovamente, mentre la caratterizzazione della tecnica come azione volta al miglioramento della natura in un quadro platonico è un qualcosa di impensabile, in Aristotele trova la sua collocazione nel II Libro della Fisica. All’inizio del II libro, lo Stagirita pone una distinzione cruciale per la sua concezione di tecnica in quanto mimesis:
«Degli enti
alcuni sono per natura, altri per altre cause. Sono per natura gli animali e le
loro parti e le piante e i corpi semplici, come terra, fuoco, aria e acqua
(queste e le altre cose di tal genere noi diciamo che sono per natura), tutte
cose che appaiono diverse da quelle che non esistono per natura. Infatti, tutte
queste cose mostrano di avere in se stesse il principio del movimento e della
quiete, alcune rispetto al luogo, altre rispetto all’accrescimento e alla
diminuzione, altre rispetto all’alterazione. Invece il letto o il mantello o
altra cosa di tal genere, in quanto hanno ciascuno un nome appropriato e una
determinazione particolare dovuta all’arte, non hanno alcuna innata tendenza al
mangiamento, ma l’hanno solo in quanto, per accidente, tali cose sono o di
pietra o di legno una mescolanza di ciò.»[20]
La distinzione posta da Aristotele tra enti naturali
e enti artificiali permette di cogliere in che senso la tecnica, l’arte e tutto
ciò ad essa inerente si configuri come mimesis, come imitazione della natura:
allo stesso modo in cui gli enti naturali sono tali in virtù del principio di
movimento e cangiamento insito in loro, «similmente avviene per ciascuno degli
oggetti prodotti artificialmente: nessuno di essi, infatti, ha in se stesso il
principio della produzione, ma alcuni lo hanno in altre cose e dall’esterno,
come la casa e ogni altro prodotto manuale; altri in se stessi, ma non per
propria essenza, bensì in quanto accidentalmente potrebbero diventar causa a se
stessi»[21].
Dalla diretta osservazione dei corpi, sia naturali
sia artificiali, è possibile quindi notare come essi siano il risultato della
convergenza di quattro cause: sono dotati di materia, sono prodotti da
qualcuno, sono tali sia in quanto aventi una forma propria sia in quanto
possiedono un scopo per il quale sono stati creati. Nonostante in più punti
Aristotele affermi che «la natura è forma»[22], non
bisogna dimenticare l’esistenza di una materia che la condiziona, a tal punto
da divenire da essa inscindibile. Se quindi ogni cosa è dotata di materia per
poter raggiungere un fine, e se la forma è ciò che è in quanto organizzata in
vista di tale fine, allora la natura è «fine e causa finale (infatti, poiché il
movimento è continuo e vi è un fine del movimento stesso, questo fine è
l’estremo e la causa finale; perciò anche il poeta, se pur in modo goffo, fu
spinto a dire: “Ha quella fine per la quale nacque”, giacché non un estremo
qualsiasi, ma soltanto il migliore ha la pretesa di essere il fine)»[23].
Il «fisico» dovrà conoscere tutte e quattro le cause degli enti naturali, i
quali hanno in sé il principio del loro movimento e della loro quiete, il
«matematico» dovrà studiare ciò che è sotto l’aspetto della quantità, mentre
chi si occuperà di «filosofia prima» studierà l’essere in quanto essere; in
definitiva, per Aristotele, la fisica, la matematica e la metafisica
costituiscono la classe delle cosiddette scienze teoretiche il cui fine ultimo
è la verità. Ecco, allora che si innesta l’analogia ed il parallelismo tra
entità naturali e artigianali da un lato e scienza e tecnica dall’altro:
«Poiché anche le arti si costruiscono la materia, alcune in senso assoluto, altre solo per l’attuazione dell’opera, e noi ce ne serviamo come se tutto esistesse per nostro scopo (siamo, in verità, in un certo senso anche noi il fine, giacché la causa finale si intende in due significati; e ciò è stato discusso negli scritti Sulla filosofia) E sono due le arti che comandano sulla materia e la conoscono: l’una è quella che ne fa uso pratico, l’altra fa parte delle attività costruttive ed è l’architettonica. Perciò anche l’arte che ne fa uso pratico è, in un certo senso, architettonica; ma la differenza è nel fatto che l’architettonica ha la competenza della forma, mentre l’altra, in quanto attività costruttiva ha competenza della materia. Il nocchiero, ad esempio, conosce quale sia la forma del timone e la controlla; il costruttore, invece, sa da quale legno e da quali movimenti il timone potrà venir fuori. Nelle cose artificiali, dunque, siamo noia trar fuori la materia per raggiungere il fine dell’opera; nelle cose naturali, invece, la materia già esiste.»[24]
In primis, qui Aristotele sostiene la
distinzione tra tecnica, la cui azione ha fine fuori di sé, ossia nell’oggetto
che essa produce, e scienza, il cui oggetto è il necessario, ossia ciò che non
può essere o avvenire diversamente da come è o avviene. In secondo luogo
individua una differenziazione interna alla stessa tecnica tra chi sa usare un
oggetto, in virtù della conoscenza della forma (nocchiero), e chi, invece,
conosce ciò che produce relativamente alla materia (costruttore).
La legittimazione
della fisica come disciplina scientifica, la distinzione tra enti naturali ed
enti artificiali, la caratterizzazione della scienza e della tecnica, sono gli argomenti
maggiormente sviluppati nei primi due paragrafi del II libro e costituiscono il
fondamento teorico per i restanti sette, in cui il filosofo dipingerà,
all’interno del suo maestoso affresco gnoseologico, la relazione mimetica
intercorrente tra arte e natura. Ci sono infatti delle leggi che possono essere
osservate nei due ambiti: sia l’arte sia la natura producono cambiamenti
rivolti a degli scopi, ed entrambe sono fallibili e suscettibili di errore.
In primo luogo, è
deducibile che non è la natura ad imitare l’arte ma, viceversa, è l’arte ad
imitare la natura, almeno per quanto concerne il fine di raggiungere uno scopo;
dunque il tecnico sarà colui che dovrà adempiere al ruolo di imitatore sia
quando produce cose non esistenti in natura e sia quando ne imita i suoi
meccanismi interni (ad esempio, come la natura nel caso delle piante produce
foglie, allo stesso modo l’uomo realizza le abitazioni per proteggersi e ripararsi). Dunque, quella che si viene a configurare, è
una concezione teleologica della natura poiché le
«cose sembrano
generarsi o per fortuita coincidenza o in virtù di una causa finale, se non è
possibile che esse avvengano né per fortuita coincidenza né per caso, allora
avverranno in vista di un fine. Ma tutte le cose di tal genere sono sempre
conformi a natura, come ammettono i meccanicisti. Dunque, nelle cose che in
natura sono generate ed esistono c’è una causa finale. Inoltre, in tutte le
cose che hanno un fine, in virtù di questo si fanno alcune cose prima altre
dopo. Quindi, come una cosa è fatta, così essa è disposta per natura e, per
converso, come è disposta per natura, così è fatta, purché non vi sia qualche
impaccio. Ma essa è fatta per un fine; dunque per natura è disposta ad un tale
fine»[25].
Il nesso logico,
basilare per cogliere il concetto di mimesis, viene enunciato poco più
avanti attraverso un esempio, infatti:
«Se la casa
facesse parte dei prodotti naturali, sarebbe generata con le stesse
caratteristiche con le quali è ora prodotta dall’arte; e se le cose naturali
fossero generate non solo per natura, ma anche per arte, esse sarebbero
prodotte allo stesso modo di come lo sono in natura. Ché l’una cosa ha come
fine l’altra. Insomma: alcune cose che la natura è capace di effettuare l’arte;
altre le imita. E se, dunque, le cose artificiali hanno una causa finale, è
chiaro che è così anche per le cose naturali: infatti il prima e il poi si
trovano in rapporto reciproco alla stessa guisa tanto nelle cose artificiali
quanto in quelle naturali.»[26]
In secondo luogo,
il parallelismo natura/arte si svela sotto le sembianze dell’errore, della
fallibilità; infatti, così come si riscontrano errori nei prodotti dell’arte
(ad esempio, il grammatico scrive in modo scorretto e il medico sbaglia la dose
del farmaco), parimenti essi si verificano anche nei prodotti naturali (ad
esempio, nei parti mostruosi e nella nascite di esseri malformi). La
spiegazione di tali fenomeni risiede nel fatto che essendo la natura duplice,
cioè materia e forma[27], può
avvenire che la materia, opponendo resistenza, non si lasci dominare dalla forma: infatti, come
specifica lo Stagirita, «se vi sono, dunque, cose artificiali in cui ciò che è
esatto, è tale in virtù della causa finale, mentre nelle parti sbagliate pur si
è mirato ad un fine, ma non si è riusciti a conseguirlo, la medesima cosa
avverrà anche nei prodotti naturali, e i mostri risultano sbagli di quella
determinata causa finale.»[28]
Nonostante
l’uomo sia un essere per sua natura fallibile ha la possibilità di riscontrare
gli errori che si verificano negli enti naturali e di rimediare ad essi,
attraverso un opera di correzione e di perfezionamento dell’operato della
natura. Ciò è vero tanto per lo scienziato quanto per l’artista/tecnico:
infatti il medico, grazie alle sue pozioni e ai suo farmaci, può curare laddove
la natura ha commesso delle sviste; l’artista, invece, imita la natura non per
realizzare delle mere copie, ma per poterla trasfigurare giungendo ad una sorte
di idealizzazione di una natura priva di errori (ad esempio nei ritratti e
nelle sculture).
Ricapitolando i
fini del discorso aristotelico in sede psicologica risulta che, in primo luogo,
imitando si conosce; in secondo luogo, che è possibile acquisire esperienza
sulla sola base delle sensazioni senza la necessità di un ricorso
all’intelletto; infine, che vi è una stretta connessione con il sentimento di
piacere, su cui oltretutto Aristotele si sofferma per elaborare una sua
personale teoria. Tutte queste argomentazioni trovano adito nel trattato di
psicologia di Aristotele, il De Anima, che consiste in una ricerca
sull’anima, la cui conoscenza contribuisce «grandemente alla verità in tutti i
campi, e specialmente alla ricerca sulla natura, giacché l’anima è come il
principio degli animali»[29]; il
traguardo che Aristotele vuole vittoriosamente varcare è la conoscenza della
natura ed essenza dell’anima e di tutte le caratteristiche che le competono, di
cui «alcune sembrano affezioni proprie dell’anima, mentre altre pare che in
virtù sua appartengano agli animali»[30].
Secondo il
filosofo, ciò che rende un essere vivente tale è la presenza in esso di
qualcosa che lo animi, dove per anima si intende un «entelechia (atto perfetto)
di un corpo che ha vita in potenza»[31]; la
concezione aristotelica dell’anima, diversamente da quella platonica,
costituisce un insieme unitario con il corpo organico di cui essa è principio
vitale, non potendo in tal modo esistere separatamente e indipendentemente da
esso. Ancora in antitesi con il suo maestro, Aristotele dimostra come l’anima
non sia divisa in più parti, bensì sia un insieme di funzioni, a loro volta
distinguibili in tre livelli: funzione nutritiva e riproduttiva
(propria delle piante, oltre che di tutti gli animali, uomo compreso), funzione
sensitiva (propria di animali e uomini) e la funzione intellettiva
(specificatamente umana). Volgendo la nostra attenzione in particolar modo
sulla sensazione, lo Stagirita sostiene che:
«il senso è ciò
che è atto ad assumere le forma sensibili senza la materia, come la cera riceve
l’impronta dell’anello senza il ferro o l’oro: riceve bensì l’impronta dell’oro
o del bronzo, ma non in quanto è oro o bronzo. Analogamente il senso, rispetto
a ciascun sensibile, subisce l’azione di ciò che ha colore o sapore o suono, ma
non in quanto si tratti di ciascuno di questi oggetti, bensì in quanto
l’oggetto possiede una determinata qualità e secondo la forma.»[32]
Il senso, dunque,
riceve la forma, non la materia; e il paragone offerto da Aristotele è
piuttosto appropriato: facendo riferimento ad una metafora già utilizzata da
Platone nel Teeteto, in cui l’anima viene accostata ad una tavoletta di
cera e le impressioni alle forme che si imprimono su di essa, Aristotele
tematizza come anche nel processo percettivo ciò che i sensi ricevono non è il
materiale, ma più che altro la forma degli oggetti. Inoltre, la sensazione
provata lascia una sorta di residuo della forma che permane anche quando gli
oggetti percepiti non sono più presenti; ma tali residui costituiscono le
immagini, che sono l’oggetto della fantasia o immaginazione, la
quale può essere sia vera sia falsa e ha l’importante funzione di essere
stimolo dell’azione e alla base degli atti di locomozione: infatti tanto il
desiderio quanto gli atti di appetizione presuppongono l’immaginazione. A
questo aggiungiamo un ulteriore caratterizzazione della immaginazione: essa è
alla base della memoria, che si costituisce mediante immagini mentali; su di
esse poi, in quanto prive del loro supporto sensibile, opera anche l’intelletto
per poter ricavare le forme intelligibili, gli universali, i concetti, le
definizioni. L’insieme di tutti questi processi permettono ad Aristotele non
solo di spiegare l’esistenza di capacità inventive nell’uomo, ma anche di ricondurre
le abilità d’invenzione tipicamente umane alla facoltà della memoria; chi,
dunque, possiede la capacità di sentire è, conseguentemente in grado, di
ricordare e di immaginare e perciò di conoscere per esperienza. Per evitare di
incappare in errori di comprensione, Aristotele specifica che non tutti gli
esseri viventi sono dotati degli stessi sensi e delle medesime capacità di
apprendimento per esperienza: l’ostrica, come riporta Aristotele, possiede
unicamente il tatto, ma come gli uomini quando percepisce riceve una forma
immateriale che può memorizzare, facendo quindi esperienza di piacere e di
dolore. Nel III libro del De Anima non solo viene preso in esame
l’intelletto in quanto facoltà propriamente umana, ma viene messa in luce anche
la sua diretta interrelazione con la fantasia e la sensazione:
«E’
poi manifesto che la sensazione e l’intelligenza non sono la stessa cosa,
giacché di quella partecipano tutti gli animali, e di questa pochi. Quanto al
pensiero (che include quello retto e quello non retto; quello retto è saggezza,
scienza, e opinione vera, quello non retto i contrari di questi), neppure esso
è la stessa cosa che la sensazione. In effetti la percezione dei sensibili
propri è sempre vera ed appartiene a tutti gli animali, mentre si può pensare
anche falsamente, ed il pensiero non si trova se non in chi è fornito di
ragione.»[33]
Aristotele quindi sostiene che l’errore non si manifesta attraverso le
sensazioni, le quali sono sempre vere, ma piuttosto nel momento in cui
intervengono dei giudizi che non sono relativi al fatto che si sta provando una
determinata sensazione. Circa la terza facoltà, ossia l’immaginazione,
Aristotele prosegue dicendo che è «diversa sia dalla sensazione sia dal pensiero, però non
esiste senza sensazione, e senza di essa non c’è apprensione intellettiva»[34];
dal un lato dunque dipende da noi –
«quando lo vogliamo (è possibile infatti raffigurarsi qualcosa davanti agli
occhi, come fanno coloro che dispongono le cose nei luoghi mnemonici e si
costruiscono delle immagini)»[35]– ;
dall’altro – quando sogniamo – non è in nostro potere e dunque ci diviene
impossibile controllarla. Ma la facoltà dell’immaginazione è vera? A questa
domanda Aristotele risponde sostenendo che è falsa nel momento in cui noi ci
confrontiamo con la realtà (ad esempio l’ircocervo creato nella nostra mente
non possiede un referente nel mondo), ma è vera in relazione alle leggi della
verosimiglianza, le quali ci garantiscono la conoscenza dell’universale, ossia
la conoscenza della totalità dei fenomeni che non sono ancora avvenuti ma che
sono suscettibili di accadimento (i cosiddetti mondi possibili): in tal modo il
filosofo ha dimostrato che la capacità di imitare equivale alla capacità di
acquisire conoscenza.
Un altro
aspetto da non sottovalutare, ai fini di una ricostruzione dell’estetica nella
filosofia di Aristotele, è la teoria dell’immaginazione come movimento, infatti
«è possibile che, quando una data cosa è mossa, un’altra sia mossa da essa»[36]
e che l’immaginazione «non si produca senza sensazione, ma soltanto negli
esseri forniti di sensazione»[37];
queste ultime affermazioni permettono
di chiarire come sono possibili il piacere e il desiderio.
Mentre nel II libro il filosofo si era limitato ad una distinzione generale
delle funzioni dell’anima (vegetativa, sensitiva, intellettiva), attribuendole
in una sorta di gerarchia crescente che parte dalle piante sino ad arrivare
agli esseri umani, ora compie un ulteriore passo in avanti, osservando come
alcuni esseri viventi – le ostriche – possiedano sia la facoltà sensitiva che
quella immaginativa, mentre altri i – vermi –
sono dotati solo di capacità percettive e non di immaginazione: questo
permette ad Aristotele di spiegare come la capacità locomotiva volta al raggiungimento
di un fine si differisca negli esseri, divenendo automatica in alcuni (vermi),
mentre mossa da motivazioni più profonde in altri (ostriche, ragni…). Per
quanto riguarda l’essere umano la situazione appare più complessa; nell’uomo,
infatti, la facoltà locomotoria, a cui è legata l’immaginazione, si pone in
rapporto con quelle passibili di produrre la conoscenza: la facoltà di
desiderare e di provare piacere e dispiacere è quindi il risultato del gioco
tra la facoltà motrice e la facoltà di produrre conoscenza. Così dicendo la
teoria del piacere in Aristotele trova il suo fondamento: gli esseri dotati di
immaginazione e di aisteisis possono essere mossi o unicamente in base
alla orhexis, la quale è una facoltà passiva, oppure, attraverso la
valutazione delle circostanze sulla base delle conoscenze acquisite (facoltà
attiva), decidere se o no muoversi per il perseguimento del fine.
Alla luce
della teoria del piacere di Aristotele, si possono formulare alcune
considerazioni: in primo luogo, a differenza di Platone, per il quale il
desiderio è percezione di un’assenza, Aristotele sostiene che il desiderio si
generi dalla creazione di un’immagine volontaria; in secondo luogo, la sua
teoria può spiegare quei fenomeni, oggi definiti come «bilancio delle
motivazioni», che sono alla base del conflitto tra i desideri opposti. Circa
quest’ultima osservazione, si può ricorrere all’esempio dell’alcolizzato, in
cui al desiderio di bere si oppone quello di voler smettere, e questo
conferisce una valenza positiva alla sua teoria del desiderio e dell’imitazione,
permettendo ad entrambe di entrare nel novero delle teorie etiche.
Se, dunque, questo è il nostro modo di desiderare che motivo c’è di voler allontanare dalla società coloro che alimentano i nostri desideri? La chiave di volta risiede solo nella capacità di operare giudizi migliori.
[1] Platone, Repubblica; tr. it. a cura di M. Vegetti, Laterza, Roma–Bari 2005, p. 316.
[2]Ibidem.
[3]Ibidem.
[4] Ivi, p. 323.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Aristotele, Etica nicomachea, 1094 a; tr. it. a cura di C. Mazzarelli, Bompiani, Milano 2000, p. 51.
[10] Ivi, 1139 b 15 e ss., p. 233.
[11]Aristotele, Metafisica, 980 a; tr. it. a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 3.
[12] Ibidem.
[13] Ivi, p. 59.
[14] Ivi, p .6.
[15] Aristotele, Retorica; tr. it. a cura di Armando Plebe, Laterza, Roma–Bari 1961, p. 6.
[16] Ivi, p. 7.
[17] Aristotele, Poetica; tr. it. a cura di Diego Lanza, Bur, Milano 1987, p. 117.
[18] Ivi, p. 125.
[19] Ivi, p. 147.
[20] Aristotele, Fisica, in Opere; tr. it. a cura di Antonio Russo, Laterza, Roma-Bari 1973, p. 27.
[21] Ibidem.
[22] Ivi, p. 30.
[23] Ivi, p. 32.
[24] Ibidem.
[25] Ivi, p. 45.
[26] Ivi, p. 45.
[27] Ivi, p. 46.
[28] Ivi, p. 46.
[29]Aristotele, L’anima; tr. it. a cura di Giancarlo Movia, Bompiani, Milano 2001, p. 55.
[30] Ibidem.
[31] Ivi, p. 115.
[32] Ivi, p. 183.
[33] Ivi, p. 205.
[34] Ibidem.
[35] Ibidem.
[36] Ivi, p. 209.
[37] Ibidem.