Freud: temi e sviluppi
estetici
(di Jacopo Agnesina)
• Prologo
Nelle
poche decine di righe di questo articolo si vuole illustrare, senza alcuna
pretesa di esaustività, la viva relazione che Freud ha intrattenuto col mondo
dell’arte in senso lato, con l’Estetica.
Chi ha familiarità con l’immensa produzione letterario-documentaria del padre
della psicoanalisi potrà dire con buone ragioni che in essa il discorso
estetico è marginale, occasionale; in effetti tali tematiche sono spesso
riflessioni a lato, punti di partenza per lo sviluppo di discussioni più ampie.
Ma, se ciò è vero, per altro verso si dovrà riconoscere che questi scritti
estetici sono, nella loro occasionalità, tutt’altro che estemporanei: al
contrario, «occupano un posto estremamente significativo – se non senz’altro
fondamentale – nell’estetica contemporanea»[1]. Lo
stesso Freud non è scevro da una preparazione letteraria – basterà ricordare i
prestiti che chiede alla mitologia – e la sua sensibilità artistica è viva fin
dalla adolescenza; a diciassette anni, in un missiva indirizzata all’amico Emil
Fuss, raccontando dell’Esposizione universale di Vienna del 1873, scrive: «Mi
hanno avvinto solo gli oggetti d’arte»[2].
Con vivo interesse, passione e riconoscimento di una natura artistica originaria – ma anche con una conciliazione dialettica, che riconduce ad una dimensione di intelligibilità conscia la brutale componente pulsionale, Freud apre le porte ad una critica estetica assolutamente attuale, dagli alti valori teoretici.
• Introduzione
Prima di passare alla trattazione di quelle opere, a latere dell’intero corpus freudiano, che trattano di arte e che ci danno la possibilità di scorgere riflessioni squisitamente estetiche, sarà utile avere chiari in mente alcuni punti cardinali nel pensiero del Nostro.
Ridurre in nuce una produzione dinamica che ha avuto il suo sviluppo in oltre 40 anni di studi, può forse risultare un tentativo goffo; per questo si accennerà solo agli elementi utili alla comprensione dello sviluppo di questa relazione, tralasciando parti pur fondamentali ma che esulano, o che comunque non sono direttamente implicate dal discorso presente.
Sigmund Freud, medico, neurologo, psichiatra è noto per essere il padre della psicoanalisi. La psicoanalisi è un procedimento che si realizza nella relazione medico-paziente sulla base di un dialogo; lo scopo è l’identificazione delle componenti rimosse dell’esperienza individuale, la loro comprensione e relativa liberazione.
Questa prassi psicoanalitica poggia sulla base di un assunto teorico profondo: l’esistenza dell’Inconscio[3], un “bagaglio” mentale nascosto che cela esperienze e pulsioni che non possono affiorare alla coscienza. Accanto all’Inconscio, nella cosiddetta “prima topica” freudiana, si trova il Preconscio: terra di mezzo dove abitano ricordi, rappresentazioni e desideri che possono emergere alla coscienza. Infine vi è il pensiero Conscio, luogo fluido composto da quelle attività che si svolgo “alla luce del giorno”.
La comprensione dell’Inconscio, come si è detto, sta alla base della prassi psicoanalitica; essa si avvale di un alleato fondamentale: il Sogno, «via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica»[4]. Nella fase onirica, venendo meno quasi per intero la forza di resistenza, si realizza l’appagamento dei desideri inconsci; essi però si muovono con dinamiche allucinatorie, attraverso mascheramenti e velature simboliche. La comprensione non può essere autoevidente ma, al contrario, ha bisogno di un percorso lungo che metta in luce ogni implicazione dei simboli, ogni loro possibile rappresentazione e significanza. Si può affermare che questo processo è pressoché infinito, ma non per questo inutile: v’è comprensione, ma una comprensione ulteriore è sempre possibile.
Polo dominante, stella polare dell’Inconscio è l’Eros, la pulsione sessuale che spinge al piacere. Questa componente erotica è presente, secondo la teoria freudiana, in ogni età della vita, seppur con dinamiche e zone di influenza diverse.
Una “seconda topica” viene formalizzata da Freud ne L’Io e l’Es. Si riconoscono ora tre luoghi psichici: l’Es, serbatoio dell’energia psichica, retto dal principio di piacere, “guazzabuglio” di desideri inconfessabili. L’Io, contenitore delle esperienze razionali, che vigila alle percezioni e media il compimento delle azioni. Il SuperIo, coscienza morale che si è andata formando a seguito dell’educazione; esso ha la funzione di censore ed agisce sull’Io elargendo – spesso ingenerosamente! – sensi di colpa atti a dissuadere dal compimento di determinate azioni.
• Arte, inconscio e psicoanalisi
Alla luce del pensiero psicoanalitico, quale ruolo tributare all’Arte? E’ difficile rispondere in modo sintetico ed unitario. Per cominciare si può dire che l’artista è mosso dagli stessi conflitti che portano altre persone alla nevrosi: l’Arte è una «attività che si propone di temperare desideri irrisolti, […] in primo luogo nello stesso artista creatore e in seguito nell’ascoltatore o nello spettatore»[5].
L’Arte è, almeno per un verso, una specie di terapia che riesce a mediare il desiderio e la realtà, un regno di mezzo nel quale l’uomo può vedere realizzate istanze inconsce altrimenti inesprimibili. Ma l’inconscio è lungi dall’essere presentato “così com’è” – Freud, come si avrà modo di illustrare, lo ripeterà continuamente –; infatti esso arriva ad essere «opera d’arte solo attraverso una trasformazione che (ne) mitiga l’aspetto urtante […], ne cela l’origine personale e offre agli altri, rispettando regole estetiche, seducenti premi di piacere»[6]. L’Arte – ed anche questo è un tema che ricorrerà ininterrottamente – conserva l’unità tensiva di dionisiaco e di apollineo; quasi come una di quelle statuette delle quali Platone parla nel Simposio raffiguranti i sileni, ma in questo caso “rovesciata”, l’Arte ha una scorza esterna che porta piacere, approvazione, che la fa accogliere alla percezione umana, ed un velato interno di contenuti forti, pulsioni o angosce, fantasie o drammi.
In un breve saggio intitolato Il poeta e la fantasia, Freud, mette in luce la connessione tra la produzione poetica e il gioco, il gioco che crea un mondo fantastico. «Anche il poeta fa quello che fa il bambino giocando: crea un mondo di fantasia, che prende molto sul serio; che, cioè, carica di forti importi d’affetto, pur distinguendolo nettamente dalla realtà»[7]. In effetti nel tedesco vi è una stessa parola per indicare sia la rappresentazione di lavori teatrali, Spiele, sia i giochi, Spiele.
Il bambino gioca, e nel gioco trova piacere, soddisfazione, realizzazione; egli racconta i suoi giochi, li condivide con i compagni e cerca di coinvolgere anche i genitori. Ma una volta divenuto adolescente questi giochi si fanno segreti, diventano fantasie non comunicabili, dei «castelli in aria»[8]. Di più: l’adulto si vergogna a comunicare questi «sogni ad occhi aperti» e spesso crede sia il solo a farli; se poi trovasse il coraggio di parlarne, il più delle volte provocherebbe nell’ascoltatore un freddo scetticismo o addirittura «una certa ripugnanza»[9].
L’artista,
il poeta, hanno al contrario una dote speciale: riescono a portare alla luce le
loro fantasie senza provocare disprezzo, ironia. Le loro espressioni destano
grande approvazione attraverso quel «piacere preliminare», o «premio di
seduzione»[10]
che si è testé citato. Così «il poeta
ci mette in condizione di gustare d’ora in poi le nostre fantasie senza
rimprovero e senza vergogna»[11],
svolgendo il suo ruolo di medico che è al contempo paziente e farmacista.
L’artista è architetto di quella cattedrale che sa ospitare la nostra
interiorità donandole una casa[12], un
luogo di gioco e di fantasia nel quale è lecito liberare il nostro essere più
profondo. Una casa comune, che ci è appartenuta e di cui abbiamo poco a poco
perso l’indirizzo; come intelligentemente scrive Mario Lavagetto, «l’opera
d’arte si configura, tanto per il suo produttore quanto per il suo
destinatario, come una sorta di ripetizione; il rimosso viene risvegliato
dall’esperienza estetica perché in essa prende corpo e rivive qualcosa di
nascosto e occultato nel passato sia individuale che filogenetico. Non si
corrono grossi azzardi se si sostiene che per Freud l’opera promuove sempre, sia sul piano formale che sul piano dei
contenuti, un riconoscimento del già noto [il corsivo è mio], la riscoperta
[…] di fonti di piacere un tempo disponibili»[13].
Freud tributa all’artista un dono
particolare, che non è, come una lettura troppo sbrigativa del suo pensiero
vorrebbe affermare, una “malattia mentale”, una patologia; certo, è vero, come
si è già affermato, che l’opera d’arte è mossa da forze che portano altre
persone alla nevrosi, ma essa ha anche una componente effusiva: l’artista
«nelle conoscenze dello spirito sorpassa di gran lunga noi comuni mortali,
poiché attinge a fonti che non sono state ancora aperte alla scienza»[14].
La sua non è una debolezza, è una super-abbondanza di energia unita ad una
singolare capacità di forgiarla costruttivamente; grazie ad essa acquista
poteri vedere “oltre” e di far vedere “oltre”.
Così, tralasciando questioni metodologiche,
«il medico e il poeta (hanno) in egual modo frainteso l’inconscio o entrambi lo
(hanno) compreso esattamente»[15].
L’Arte non è dunque sintomatica: ciò che
Freud considera Arte – e vedremo in seguito che porrà dei distinguo piuttosto
netti – è qualitativamente differente; per una cosa però il sintomo le si
avvicina: esso è «mitten im Leben»,
si dà “in mezzo alla vita”, trova uno spazio nella società ed è riconosciuto da
essa – proprio come l’opera d’Arte. Ma quest’ultima è un via costruttiva per
tornare alla realtà, è una “reizzazione” dei desideri tramite la quale
l’artista «ottiene per mezzo della fantasia, ciò che prima aveva ottenuto solo
nella fantasia»[16].
Sembra uscire forte in queste pagine il significato sociale della produzione
artistica, quasi che la società riconosca in essa un isola di liceità, ove la
fantasia può aprirsi come un fiore a primavera; questo fiore attirerà gli
ascoltatori, gli spettatori i lettori, che si poseranno sui suoi petali,
richiamati dalle “belle forme”: essi si nutriranno di un polline speciale, in
grado di liberare le proprie pulsioni, paure, fantasie, desideri, dischiudendo
nuovi orizzonti di comprensione e di autocomprensione.
L’Arte sa farsi accogliere in società
tramite quel premio di seduzione più volte accennato. «L’arte vera comincia con
le velature dell’inconscio»[17] così
«il poeta addolcisce il carattere della sua fantasticheria alterandola e
velandola»[18].
Un’Arte prettamente di forma, di simmetria, un’arte apollinea non avrebbe
ragion d’essere ma non sarebbe parimenti Arte una cronaca diretta
dell’inconscio, condotta senza filtri. Sarebbe inutile, dannosa e resterebbe
inascoltata.
Le ragioni di Freud, come possiamo facilmente vedere, si spostano su due piani
fortemente intrecciati: da una parte muove una valutazione opportunistica ossia
l’Arte velata ha più possibilità di suscitare emozioni costruttive nell’artista
e nello spettatore – questa è una valutazione, se vogliamo, “da medico”. Ma
sull’altro piano esprime un giudizio squisitamente estetico, il giudizio
sommamente estetico: ci arriva a dire cos’è l’Arte! E riconosce come
nell’inconscio preso di per sé non vi sia nulla di artistico, infatti «lo
scrittore non ha il diritto di fare poesia con le nostre analisi»[19].
L’artista scende a patti con l’inconscio,
stabilisce regole; con la forma dei suoi quadri, delle sue poesie, lo nasconde.
Ma nascondendolo lo fa trovare. Questa contraddizione in termini è l’essenza
del pensiero freudiano, esso è, come evidenzia Massimo Recalcati[20],
una razionalizzazione linguistica-formale di un contenuto che a stento si fa
contenere, dell’irrazionale, del folle. Di nuovo possiamo scorgere un velo di
similitudine tra l’artista e lo psicoanalista; la sola differenza sta nel fatto
che l’artista è platonicamente guidato a questo ritorno al reale da un istinto
artistico – una proprietà che, come Freud ripeterà, la scienza non è in grado
di spiegare – mentre lo psicoanalista procede con un metodo costruito a priori:
a guidarlo è un presupposto teorico.
Abbiamo detto che la forma dell’opera appaga
un «piacere preliminare» e che essa rimanda, catapulta in un mondo interno di
simboli che toccano e rievocano la sensibilità inconscia di ognuno, sia esso
artista o spettatore. Freud usa una parola per descrivere la tensione racchiusa
nell’opera d’Arte: Unheimlich,
Perturbante. «Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto
ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare»[21].
La parola tedesca Unheimlich ha la
sua radice antitetica in heimlich, da
Heim, casa, e in heimisch, ossia familiare, abituale. Insomma il Perturbante, ciò che porta angoscia è un
non-familiare, qualcosa che assomiglia al nostro ambiente domestico ma che in
realtà cela in sé un che di straniero, sconosciuto, enigmatico. «L’opera d’Arte sa spezzare l’incatenamento della
familiarità più prossima sa scuoterci dal sonno dell’io per risvegliarci al
reale»[22].
Questa estetica del Perturbante realizza
“l’urto” con una strategia simbolica, non diretta. Freud usa paradossalmente
parole dure contro i Surrealisti che, ispirandosi a lui, lasciano parlare
l’inconscio senza velature – ma per il nostro questa non è arte, «l’inconscio
di per sé non ha alcun valore artistico»[23]. Si
può estendere, con maggior pregnanza, questa critica all’arte a noi
contemporanea – mi riferisco a quella della Orlan, che si lacera il corpo, o a
quella di Stelarc, che si fa infilzare da ami per poi essere appeso nel vuoto.
Queste espressioni, seguendo l’estetica freudiana, sono tutt’altro che
artistiche: e «secondo l’insegnamento di Lacan [grande psicoanalista francese]
è proprio nella psicosi che il soggetto incontra il reale senza contorni
simbolici»[24].
La letteratura psichiatrica abbonda di automutilazioni, di ferimenti atti a
sentire la consistenza del proprio corpo; la persona fortemente depressa tende
a saggiare il proprio corpo facendosi del male. Insomma, interpretando à la Freud, questa forme di espressione
sono patologiche, non artistiche:
sono, ora sì, veri e propri sintomi.
Alcuni storici dell’arte come Yve-Alain Bois
e Rosalind Krauss si sono apertamente ispirati a questa concezione di
ispirazione freudiana e lacaniana, definendo l’arte contemporanea come
tendenzialmente «psicotica». Essa tenderebbe a mostrare la “cosa”, il
prelinguistico, senza alcun velo protettivo; ma «l’arte non è il vuoto della
rappresentazione quanto piuttosto la rappresentazione del vuoto. In questo
senso l’arte non può mai liberarsi dal linguaggio in nome di un originario
prelinguistico»[25].
• Prospettive. originarietà della bellezza
perturbante: il conflitto estetico
Se fino ad ora si è considerato
quasi esclusivamente il pensiero originario di Freud, in questo paragrafo si
vuole aprire il campo ad una riflessione – sviluppata da Donald Melzter,
psicoanalista di scuola freudiana dal forte daimon
filosofico – che ben si riallaccia alla tematica del Perturbante.
Melzter nota come tutti i suoi pazienti,
inclusi quelli con i problemi psichici più evidenti e profondi, descrivano
propria madre, in specie la madre intenta ad allattare, come bella. I seni ricchi di latte, le forme
dolci, il tepore dell’abbraccio, sono per il bambino «oggetto di travolgente
interesse»[26];
il piccolo si sente attratto, rapito da questa pienezza che gli si regala, da
questa sorgente che sgorga vita. L’esperire la Bellezza pare essere un
contenuto primario, originario e in possesso di ogni uomo.
Ma come interpretare gli occhi della madre,
il variare della sua voce? Il bambino è immerso in un mondo totalmente
sconosciuto. «Questo è il conflitto
estetico [il corsivo è mio], che può essere definito più precisamente nei
termini dell’impatto estetico dell’aspetto esteriore della “bella” madre,
fruibile dai sensi, e l’interno enigmatico che deve essere costruito da una
creativa immaginazione. Ogni cosa nell’arte e nella letteratura è testimonianza
di questa perseveranza attraverso la vita»[27].
L’originaria Bellezza ha un carattere
enigmatico che si rinnova in ogni espressione del bello. La Bellezza richiama
al desiderio, alla brama, alla necessità di conoscere; ci si interroga sul
significato dello sguardo della Gioconda, si immagina il suo mondo interiore:
questo vuoto inappagabile è una esperienza tragica. Ma «il conflitto estetico
si differenzia dall’agonia romantica: la sua esperienza centrale di sofferenza
risiede nel dubbio, che tende alla sfiducia, inclina al sospetto. L’amante è
nudo come lo è Otello di fronte alle insinuazioni di Iago, ma è salvato dalla
ricerca di conoscenza, il legame K. Il desiderio di conoscere più che di
possedere l’oggetto del desiderio. Il legame K indica il valore del desiderio,
esso stesso come stimolo alla conoscenza, non solo come uno struggersi per il
soddisfacimento e il controllo sull’oggetto»[28].
L’esperienza estetica è un vuoto da
riempire: si crea in noi una mancanza che è al contempo arricchimento, perché
polarizza la nostra mente alla ricerca di un significato che ci dia la misura dell’oggetto
al quale siamo attratti. Accade lo stesso con l’oggetto del nostro Amore,
vogliamo essere sempre con/in esso per conoscerne ogni singolo pensiero, ogni
singola sensazione; la professione di sincerità è inutile, il nostro sospetto e
la nostra incredulità sono la base fondante della vitalità di questo legame.
In questo senso la Bellezza ha un carattere
Perturbante: esperienza estetica che non si dà mai per intero, che mai ci può
bastare, che ci costringe ad un eterno interrogarsi alla ricerca di un
significato.
[1] Luigi Russo, La nascita dell’estetica di Freud, Editrice il Mulino, Bologna, 1983, p.21
[2] Briefe 1873-1939, a cura di Ernst L. Freud, trad. it. Lettere 1873-1939, Boringhieri, Torino, 1960, p.4. Traggo questa citazione da Luigi Russo, La nascita dell’estetica di Freud, cit., p. 24
[3] Per una sintetica analisi dello sviluppo storico del concetto di inconscio si veda Jacopo Agnesina, Sull’Inconscio, http://www.portalefilosofia.com/materiali/sullinconscio.php
[4] Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni in Opere vol. 3, Boringhieri, Torino, 1976, p. 282
[5] Sigmund Freud, L’interesse estetico della psicoanalisi in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, vol. 1, Boringhieri, Torino, 1980, p.180
[6] Ibidem
[7] Sigmund Freud, Il poeta e la fantasia in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, vol. 1, cit., p.50
[8] Ivi, p.51
[9] Ivi, p.58
[10] Ivi, p.59
[11] Ibidem
[12] Si vedrà in seguito come la relazione tra casa, famigliare e perturbante sia un caposaldo della teoria estetica freudiana
[13] Mario Lavagetto, Freud la letteratura e altro, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1985, p.333
[14] Sigmund Freud, Il delirio e i sogni nella Gravida di Wilhem Jensen in Opere, vol.V, Boringhieri, Torino, 1972, p.263. Traggo questa citazione da Luigi Russo, La nascita dell’estetica di Freud, cit., p. 15
[15] Ivi, p.333
[16] Sigmund Freud, Introduzione allo studio della psicoanalisi, in Opere, vol.VIII, Boringhieri, Torino, 1972, p.390. La citazione è stata tratta da Mario Lavagetto, Freud la letteratura e altro, cit., p.316
[17] Citazione di Lavagetto, Freud la letteratura e altro, cit., p.318, tratta da una relazione che Freud ha tenuto presso la Società Psicoanalitica il 22 dicembre del 1909, pubblicata poi a cura di Nunberg, H. e Federn, Protokolle der Wiener Psychoanalystiche Vereinigung, 1908-1910, Fischer, Frankfurt am Main, 1977, p.339.
[18] Sigmund Freud, Il poeta e la fantasia in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, vol. 1, cit., p.59
[19] Nunberg, H. e Federn, Protokolle der Wiener Psychoanalystiche Vereinigung, 1908-1910, cit., p.169. In Mario Lavagetto, Freud la letteratura e altro, cit., p.320
[20] Cfr. Massimo Recalcati, L’Arte corteggia la psicosi, pubblicato su Il Manifesto del 14 settembre 2003
[21] Sigmund Freud, Il perturbante in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, vol. 1, cit., p.270
[22] Massimo Recalcati, L’Arte corteggia la psicosi, cit.
[23] Cesare Baldini, Freud e l’arte contemporanea in Egon Schiele e l’espressionismo austriaco – XI quaderno della Fondazione Antonio Mazzotta, a cura di ANISA Per l’educazione all’arte – Sezione di Milano, Mazzotta editore, Milano, 2000
[24] Ibidem
[25] Ibidem
[26] Donald Meltzer e Meg Harris Williams, Amore e timore della bellezza, Borla editore, 1988
[27] Ivi, p.42
[28] Ivi, p.47