FUNZIONALISMO, MENTE ESTESA E SOGGETTIVITA’

Luca Gasparri (l.gasparri@yahoo.co.uk)

 

 

 

 

Abstract

 

Tenterò di fornire una panoramica dei problemi che il riferimento alla dimensione dell’unità della mente e della titolarità personale dei processi cognitivi pone (I) all’approccio funzionalista in teoria computazionale, (II) alla teoria della mente estesa (d’ora in poi MME), in cui si riversano spunti cruciali dell’analisi funzionalista dei processi cognitivi.

 

 

I.   La base funzionalista

 

1.   Introduzione

 

Fino alla metà del secolo scorso, i modelli del rapporto mente-corpo che avevano dominato la discussione filosofica erano sostanzialmente due: quello riduzionista, a cui detta gli stati cognitivi non erano che affezioni della materia cerebrale, e quello dualista, che sosteneva con forza la radicale irriducibilità degli stati mentali agli stati materiali. Una terza posizione si affermò di fatto soltanto a partire dal 1960, quando Putnam, nell’articolo Menti e macchine[1], rifacendosi alla distinzione tra la forma astratta di una macchina di Turing e la sua realizzazione fisica come alla divergenza tra due possibili approcci descrittivi a uno stesso strumento computazionale, avanzò l’ipotesi che la diversificazione tra la descrizione logica (la forma algoritmica, o l’insieme delle istruzioni che definiscono il comportamento della macchina in relazione a certi input) e la descrizione fisica della macchina (la tipologia e la forma strutturale del materiale che la compongono) potesse esser fatta valere con profitto nel campo della «psicologia umana». L’analogia suggeriva che: (1) i processi mentali avrebbero potuto esser descritti come sequenze di stati governati da leggi causali (tesi forte del carattere astratto delle computazioni); (2) come una macchina di Turing poteva avere realizzazioni materiali diverse restando di fatto la stessa macchina, una sequenza computazionale astratta poteva essere realizzata diversamente restando di fatto la stessa sequenza computazionale[2]. Si cominciò perciò a pensare che, buona l’equivalenza, l’identità dei processi mentali potesse essere fissata, prescindendo dal riferimento alla realizzazione materiale, vincolando l’identità delle computazioni alle sole istruzioni che controllavano l’ordine di successione causale delle fasi del processo. Le implementazioni computazionali furono definite serie di stati ciascuno identificato «funzionalmente» – di qui la denominazione funzionalismo – dalla sua posizione all’interno della sequenza, o dai termini della sua determinazione propria entro l’esecuzione complessiva del processo algoritmico[3]. Ci si sottraeva così sia dal riduzionismo, svincolando l’ascrizione identitaria degli stati e dei processi mentali dal riferimento alla realizzazione cerebrale, sia dal dualismo, perché l’indipendenza della forma logica dell’algoritmo non poteva sfociare in alcuna posizione animista, salvo dover concedere lo stesso privilegio immaterialistico alla descrivibilità astratta di una macchina di Turing «ordinaria». Agli stati veniva così attribuita realizzabilità multipla: secondo questo principio, i processi astratti possono essere realizzati, restando di fatto gli stessi processi, da supporti materiali variabili[4].

 

 

2.    Funzionalismo e soggettività mentale

 

Ben prima che MME fosse elaborato, il credo funzionalista è stato oggetto di due critiche entrambe legate, la prima direttamente e la seconda in via mediata, all’idea della componente soggettiva dei processi mentali.

 

(1)   Gli stati e i processi mentali manifesterebbero una componente soggettivo-esperienziale[5] di cui il modello funzionalista sembra incapace di dar conto[6]; l’identificazione logica del processo con una serie di computazioni al termine delle quali è posto uno stato mentale risultante, non sarebbe in grado di circostanziare le modalità in cui la messa in atto del processo di computazione e la determinazione dello stato terminale sono esperite dal soggetto: il ricorso funzionalista ignorerebbe, o non potrebbe fondatamente determinare, quella componente qualitativa della determinazione degli stati mentali derivante dal fatto che ne è titolare un soggetto personale che li esperisce come «propri». Soltanto con un riferimento adeguato alla dimensione qualitativa degli stati mentali, o con un resoconto plausibile della componente fenomenologica dei processi cognitivi, il modello funzionalista potrebbe evitare di essere ampiamente insoddisfacente. I sostenitori di quest’obiezione, inoltre, fanno notare come una penetrazione della componente fenomenologica non possa darsi se non «dall’interno», o se non si è il soggetto entro cui quei processi e quegli stati si determinano. La titolarità personale, che è un tratto decisivo del processo di cui ci si muove a render conto descrittivamente, non può essere oggettivato in un discorso «in terza persona», scientificamente avvicinabile su basi intersoggettive.

 

Ora, si può concedere all’obiezione un’indubbia forza persuasiva. Del resto, se la critica ha successo precisamente in relazione a quell’elemento del paradigma funzionalista cui afferma di rivolgersi, la sua pericolosità può essere neutralizzata di principio, lasciando intatta la legittimità del programma di ricerca della scienza cognitiva[7].  Sia pure buona l’imputazione di incompletezza all’orientamento del programma, lo scienziato cognitivo si accontenta di fatto di comprendere quell’aspetto degli stati e dei processi mentali oggettivabile in un discorso «in terza persona»: l’incompletezza del resoconto funzionalista non è necessariamente sinonimo della sua erroneità. Anzi, è nelle intenzioni esplicite della scienza cognitiva il tentativo di rivolgersi agli stati e ai processi mentali soltanto per quel versante in relazione a cui possono essere inseriti con profitto in un discorso quantitativo (la possibilità di interpretarli come elaborazione di informazioni): il fatto che altri aspetti della cognizione non rientrino negli oggetti di interesse del programma non è perciò problematico, al contrario è quanto garantisce la sua legittimità.

 

(2)    In alcuni casi il funzionalismo dovrebbe riconoscere stati e processi mentali a sistemi cui riesce assai controversa, da un punto di vista di senso comune, l’idea di accordare predicati mentalistici. Nel 1978 Ned Block pubblica un articolo[8] in cui prospetta questo esperimento mentale: supponiamo di riuscire a convertire il governo cinese al funzionalismo e di convincerlo a far partecipare la popolazione a un esperimento: ad ogni cinese viene ordinato di performare una singola istruzione di una macchina di Turing. Grazie ad un sistema di satelliti, predisposto per l’occasione, in qualunque parte della Cina è possibile sapere, grazie a un segnale costantemente visibile e immediatamente accessibile in qualsiasi momento, in che stato si trova la macchina. I cinesi, inoltre, comunicano tra di loro con una ricetrasmittente, che li mette in condizione di sapere qual è il simbolo che la macchina sta leggendo e dà loro le istruzioni complete per eseguire il compito assegnato (nelle istruzioni sono inclusi, completamente esplicitati, anche i comandi motori). La macchina ha una sua propria identità logica, il cui algoritmo è realizzato nel sistema materiale della popolazione in modo assolutamente cristallino, ovvero senza che vi sia una sola parte del processo di implementazione del compito che sia tralasciata dalla serie delle istruzioni che definiscono la macchina. Ma a questo punto, se gli stati mentali possono essere definiti secondo il criterio funzionalista, il sistema «popolazione cinese» dovrebbe in effetti avere uno stato mentale – ma questo è profondamente controverso[9]: riesce difficile pensare che il sistema così definito possa essere capace di "qualitative states," "raw feels," or "immediate phenomenological qualities”. Con questa osservazione, Block si congiunge alla linea di [1], insieme se ne differenzia per due ragioni.

 

(a)    L’esperimento mentale imputa in effetti al modello funzionalista la stessa incompletezza che rileva l’obiezione [1], fondata sul riferimento alla dimensione qualitativa, ma, se così è lecito dire, l’esperimento mentale di Block ha almeno un pregio in più rispetto a [1]: riesce a dare all’obiezione una fortissima accessibilità intuitiva (questo la rende a un tempo più efficace e precisa[10]). È in effetti difficile pensare che il sistema-popolazione possa essere titolare di stati mentali, che sia qualcosa in cui un processo cognitivo può essere esperito qualitativamente come «proprio» (è difficile p. es. pensare che il sistema-popolazione abbia accesso alla «dolorosità» del provar dolore nello stesso modo in cui io posso avervi accesso se mi capita un brutto mal di testa).

 

(b)   L’adozione dell’esperimento come banco di prova del paradigma funzionalista può risultare efficace a prescindere dal riferimento alla dimensione dell’esperienza qualitativa. Se è vero che con il riferimento al versante fenomenologico della cognizione l’esperimento coglie una difficoltà in cui effettivamente incappa il modello criticato, l’obiezione può rivolgersi al modello in un senso più ampio. A prescindere dal richiamo qualitativo, riesce difficile pensare di poter attribuire al sistema congetturato da Block processi come la comprensione di un atto comunicativo o un’esperienza percettiva, nonostante il principio della realizzabilità multipla (per esempio: in che modo la macchina potrebbe implementare un processo visivo senza essere in possesso di un organo di senso e di un apparato dedicato che le permetta di «vedere»?). In che senso, pertanto, la validità di principio dell’identificazione funzionale degli stati e dei processi cognitivi è compatibile con la finitezza della potenza realizzativa? Di fronte alla difficoltà si può sostenere:

 

(i)                  Occorre attribuire alla realizzazione della definizione astratta un’importanza ben più rilevante di quella preventivata nella formulazione originaria del paradigma funzionalista, rinnegando o quantomeno integrando pesantemente il paradigma stesso.

(ii)                Occorre continuare a sostenere il carattere astratto delle computazioni negando però che possa essere catturato da una macchina di Turing. Il problema a questo punto diventa quello, difficilmente superabile, di stabilire in che senso l’apparato logico che stabilisce l’identità delle computazioni, se in esso non sono presenti elementi non astratti, possa non essere ricondotto alla descrizione astratta di una macchina di Turing.  

 

 

Nella prossima parte, mi occuperò di mostrare che siccome MME si basa su un’assunzione forte del modello funzionalista (adottato nella versione esente dall’integrazione [i], col che implica un’accettazione pressoché incondizionata del principio di realizzabilità multipla), la sua interpretazione del carattere astratto delle computazioni deve essere messa in discussione dalla necessità di rivisitare le condizioni di fondo del principio di realizzabilità multipla, verso il riconoscimento che alcune performances cognitive, di contro al dogma della totipotenza architetturale, possono determinarsi soltanto se realizzate in configurazioni materiali di un certo tipo. Più ampiamente, proverò poi a mostrare che il ricorso al canone funzionalista  porta a implicazioni pressoché insostenibili nell’ambito del rapporto di MME con la dimensione della soggettività esperienziale.  

 

 

II.   La mente estesa

 

1.   Di cosa stiamo parlando?

 

Una delle critiche più radicali all’approccio funzionalista classico, nell’ambito della scienza cognitiva “nuova” o “post-classica”, si è rivolto alla concezione della mente come mediatore dell’interazione della soggettività con la realtà esterna. Il modello, così connotato, per quanto possa evitare l’ingenuità di connotare i termini di cui si compone di una rilevanza apertamente dualistica, resta centrale se si assume che gli stati e i processi mentali astratti devono essere istanziati su eventi interni all’organismo. La tesi del carattere astratto dei processi computazionali è stata di fatto sostenuta accanto all’idea che i processi mentali potessero emergere soltanto da eventi materiali interni a un organismo biologico: molti processi «cognitivi» hanno luogo all’esterno degli organismi biologici dotati di mente (si pensi all’intelligenza artificiale), ma i processi «mentali» possono determinarsi soltanto nello spazio interno.

È proprio questo che si chiede MME: perché la mente deve essere soltanto interna? Molti processi «cognitivi» hanno tutte le caratteristiche astratte per dirsi «mentali» al di là dell’interpretazione di senso comune dei confini interno/esterno, e si estendono al di là di confini del cervello e del corpo. Questa intuizione porta MME (a) a mettere in questione il principio di realizzabilità come cognitivamente vincolato e (b) a depurare la sua rilevanza mentalistica dal privilegio internista. [a] La mentalizzazione del processo cognitivo nel supporto materiale è svincolata dalla sua interpretazione intuitivamente soggettivistica – in questo modo la tesi della dipendenza locale dal contesto materiale si libera dal bisogno di riferirsi a un’unità mentale che «abbia» gli stati mentali. [b] L’estensione dei diritti determinativi della tesi della dipendenza locale non comporta alcun rimaneggiamento della sua forma concettuale, bensì (appunto) si limita ad ampliarne il terreno di applicazione, fino a interessare un insieme di fenomeni che eccedono dal campo dei dati considerato rilevante dalle prime formulazioni del funzionalismo. Criticando che gli stati mentali possano determinarsi soltanto all’interno del corpo soggettivo, e affermando che si debba riscontrare una distribuzione spaziale del mentale ovunque sia riscontrabile di fatto un’esemplificazione cognitiva che entra in relazione con la mente, (i) si dà rilievo al ruolo che l’ambiente esterno (o il corpo) hanno nelle preformances cognitive (ambito dell’esternismo attivo, che non è necessariamente una tesi sulla mentalizzazione della cognizione distribuita[11]); (ii) si pone che i supporti materiali che contribuiscono all’ottenimento della performance sono luoghi di una realizzazione del mentale[12] – in questo senso, la mente soggettiva è spread into the world[13]. Le usuali distinzioni tra interno e esterno perdono qualsiasi consistenza: la pretesa di poter individuare il luogo della realizzazione delle funzioni mentali nel cervello deve essere respinta a favore di un’estensione del mentale al di là dei confini della soggettività di senso comune. Il soggetto va considerato an extended system, a coupling of biological organism and external resources. Ma in base a che cosa le risorse esterne rientrano nel sistema del soggetto esteso? Serve un chiarimento, pena rischiare di dover individuare estensioni del mentale in situazioni del tipo “ho preso una pallonata sulla schiena” (è evidente che il pallone che, colpendomi la schiena, determina in me il pensiero del pallone che mi colpisce, non è un’estensione del mio sistema cognitivo – in questo caso qualunque accidente percettivo sarebbe un’occasione buona per individuare distribuzioni mentalistiche). Clark e Chalmers parlano a questo proposito di reliable coupling: le condizioni che garantiscono una continuità affidabile del mentale con il supporto esterno sono tre:

 

(a) Il supporto deve essere sempre disponibile ed essere usato regolarmente (deve essere una costante nella vita della mente soggettiva di cui è candidato a essere estensione)

(b) L’informazione contenuta nel supporto deve essere facilmente accessibile

(g) L’informazione contenuta nel supporto deve essere accettata come valida in modo automatico.

 

Secondo ME, una volta che il supporto esterno realizzi queste tre condizioni, può essere considerato una componente della mente estesa del soggetto che ne fa uso[14].

 

 

 

2.   Ne possiamo parlare?

 

Le condizioni predisposte da Clark e Chalmers possono sembrare intuitive. In realtà pongono una serie di problemi, più e meno gravi. Provo a elencare e discutere i principali:

 

(i)             Con l’esclusione delle connessioni casuali e contingenti dall’ambito delle condizioni rilevanti a attribuire uno statuto cognitivo al supporto, [a] non pone una condizione né necessaria né sufficiente perché il supporto contribuisca causalmente alla prestazione cognitiva del soggetto che ne fa uso; la facilità d’accesso cui allude [b] riproduce l’immediatezza d’accesso ai contenuti degli stati mentali che al soggetto appaiono come propri; [g], infine, riproduce in parallelo a [b] l’immediatezza del riconoscimento di autenticità al loro contenuto (p. es. nel manifestarsi di un ricordo, il ricordo mi appare immediatamente e indiscutibilmente come «mio» e non ho ragione di dubitare che l’informazione che recupero nel ricordo non sia attendibile). Si noti però che [a], [b] e [g] non sono ottenuti dalla teoria, bensì sono presupposti dalla teoria. La teoria deve allora le sue condizioni di validità a sottintesi che non può controllare; inoltre, indicativamente, le tre condizioni scaturiscono dalla rielaborazione astratta di caratteri decisivi di quell’esperienza «in prima persona» del mentale di cui muovono a certificare l’irrilevanza (cfr. [iii]): la razionalizzazione della fenomenologia della mente personale non può per giunta che concludersi con la restituzione in chiave empiricamente quantificata (perciò largamente inappropriata e controversa) di attributi qualitativamente salienti dell’esperienza dell’unità personale. Risultato: la trasparenza fenomenologicamente rilevante dell’esperienza della titolarità soggettiva, che è presente in un senso autentico soltanto nell’ambito della mente personale, non è realizzata o riprodotta dalle tre condizioni, bensì soltanto simulata.

 

(ii)           L’estensione della soggettività cognitiva al di là dei confini ritenuti sensati si basa su una struttura argomentativa fortemente controversa. Da un lato la teoria assume che bisogna rinunciare a riservare alla mente personale il diritto di determinarsi come l’ambito proprio di localizzazione degli stati e dei processi cognitivi, ossia rifiuta che tra l’«interno» e l’«esterno» della mente personale (there is nothing sacred about skull and skin. What makes some information count as a belief is the role it plays, and there is no reason why the relevant role can be played only from inside the body) possano riscontrarsi elementi consistenti dapprima per una diversificazione cognitivamente saliente dei due ambiti, dunque per riservare al solo ambito della soggettività personale l’attitudine a accogliere funzioni mentali. Ma se la teoria afferma di non poter porre alcuna distinzione rilevante tra l’ambito esterno e l’ambito interno, il livellamento della salienza mentalistica deve valere anche sui principi su cui la teoria attesta di strutturarsi. Curiosamente, nondimeno, i criteri [a], [b] e [g] si riferiscono con grande enfasi proprio alla dimensione qualitativa dell’esperienza interna, che viene di fatto assunta a fattore determinante dell’eliminazione della distinzione interno-esterno. Posto in questi termini, il ricorso alla dimensione qualitativa della titolarità personale rischia di essere non soltanto intuitivamente controverso, ma logicamente contraddittorio: (a) è infatti controverso se gli attributi cui si riferiscono i criteri sono esemplificati dagli stati esperiti, (b) è contraddittorio se i medesimi attributi sono esemplificati dall’esperienza degli stati – e tutto porta all’ipotesi [b], anche considerato che [a] è di necessità esclusa dal fatto che la forma mentis funzionalista su cui si istanzia ME considera gli stati cognitivi soltanto dal punto di vista del loro statuto logico (elementi come l’«accessibilità» non possono rientrare nella definizione astratta di una macchina di Turing), sicché la stessa possibilità che il ricorso alla dimensione personale possa non essere di necessità contraddittoria ma controversa è contraddittoria. La teoria afferma dunque che le modalità dell’accesso personale alla cognizione sono irrilevanti a stabilire i termini della localizzazione del mentale; insieme i termini dell’irrilevanza dell’accesso personale rispetto alla localizzazione del mentale sono stabiliti in funzione di attributi caratteristici dell’accesso personale alla cognizione.

 

(iii)          (Sulla stessa linea di [ii]) Detto altrimenti: è notevole che la formalizzazione delle condizioni del nesso causale affidabile sia modulata mantenendo come valida la distinzione tra interno ed esterno. La continuatività, l’immediatezza d’accesso e l’immediatezza autenticativa sono definite come tali rispetto alla dimensione interna. MME finisce per porre che il supporto è una parte della mente estesa del soggetto soltanto se entra in una particolare relazione causale con la mente del soggetto, ossia soltanto se contribuisce in certo modo alla determinazione degli stati e dei processi cognitivi interni – in cui, appunto, sarà pur vero che there is nothing sacred, ma è pur sempre la forma del contributo dell’esterno all’interno a definire, significandola come adottata, il criterio di eliminazione della distinzione.

 

(iv)         I criteri [a], [b] e [g] sono largamente approssimativi. Con la stessa facilità con cui, come fanno i sostenitori di MME, li si può ritenere condizioni dell’estensione del mentale al di là dei confini soggettivi, un’interpretazione severa dei criteri (severità che i sostenitori di MME non sono in grado di impedire) può rilevare che gli attributi richiesti dai criteri non sono riscontrabili in risorse cognitive che fanno ovviamente parte del sistema mentale. Si pensi alla memoria biologica. Un ricordo non è costantemente disponibile e non è usato con regolarità – le occasioni in cui vi si ricorre sono di norma discontinue (per cui non vale [a]); l’informazione contenuta nel supporto mnemonico non è di necessità facilmente accessibile – ricordare può comportare uno sforzo non indifferente, o richiedere processi associativi non immediati (per cui non vale [b]); non sempre l’informazione contenuta in un ricordo è accettata come valida – posso dubitare che i miei ricordi siano attendibili senza doverli dissociare dal mio sistema cognitivo (per cui non vale [g]). Le strutture biologiche interne che realizzano la mia memoria episodica non sono dunque interessate dal mio sistema cognitivo? L’applicazione dei criteri, che in MME ha l’intento di estendere il mentale oltre i confini della realizzazione corporea, può perciò comportare altrettanto conseguentemente, anziché l’estensione, la contrazione del suo spazio di realizzazione.

 

(v)           Affermare che non c’è una ragione di principio perché uno stesso elemento dell’ambiente esterno possa entrare a far parte dei processi di pensiero di più persone, comporta, in senso fortemente anti-soggettivista, una cesura tra processo e esperienza del processo che vale soltanto al di fuori della dimensione soggettiva. Il sistema espanso alla condivisione di una stessa risorsa esterna con altri sistemi estesi non è il risultato dell’estensione dello spazio privato della mente personale (cfr. [xv]). In questo caso si scontrano due prospettive del mentale radicalmente contrastanti e che non possono esser fatte valere insieme.

 

(1)   Se l’esperienza della mente personale è rilevante, l’impossibilità che una stessa risorsa entri a costituire lo spazio dell’esperienza personale di più soggetti implica di fatto l’inapplicabilità di MME.

(2)   Se l’esperienza della mente personale è irrilevante, ovvero una teoria dell’estensione mentale può esser presentata in concordanza con l’impossibilità di ampliare i confini intrinseci dell’unità fenomenologica del soggetto cognitivo (l’esperienza della mente personale diviene una sovrastruttura ininfluente del mentale, che resta in concreto un mero aggregato di fenomeni cognitivi), allora:

 

(a)   è data possibilità che alcuni componenti dell’aggregato siano esterni al soggetto e siano parte di un patrimonio pubblicamente condiviso;

(b)   la contraddizione che può originarsi dacché il patrimonio pubblicamente condiviso resta aperto all’essere esperito da una molteplicità di soggetti come «proprio» non ha alcuna ripercussione sulla tenibilità concettuale della dimensione pubblica, dacché la ridefinizione così proposta del mentale non prevede una ridescrizione bensì una eliminazione del soggetto: la strategia eliminativista priva l’esperienza della mente personale di qualsiasi consistenza in sé e argomentativa (vd. Dennet);

(c)   nel momento in cui viene negata l’esistenza di una differenza effettiva fra l’interno e l’esterno, sono tolte le basi giustificative dell’esperienza della mente personale, ma non è tolta l’esperienza in sé, che esige ancora di essere inquadrata alla luce di una strategia esplicativa eccedente il modello dell’indistinguibilità interno-esterno.

 

In questo senso, ME può negare la consistenza dello spazio soggettivo, ma deve ricorrere a un’integrazione che permetta al fenomeno della mente personale di beneficiare, anche se privo di rilevanza in ordine a una teoria del mentale, di un sottofondo esplicativo conciliabile con l’affermazione dell’indistinguibilità dello spazio esterno dallo spazio esterno. Se l’esperienza della fenomenologia personale non si riferisce ad alcuna determinazione oggettiva (perché l’interno non può essere distinto dall’esterno su basi fondate) resta da spiegare quali siano gli elementi in funzione dei quali può formarsi l’illusione prospettica dell’immediatezza del vissuto qualitativo. L’integrazione del modello resta però distinta dal modello in sé, che le modalità di integrazione non possono contribuire a rendere più o meno valido (cfr. [viii]). Pertanto:

 

(a)    Nella misura in cui si asserisce che il modello non fornisce alcuna spiegazione dell’esperienza della mente personale, l’accusa di incompletezza è più che ragionevole ma non intacca decisivamente la prospettiva di MME.

(b)   Si può asserire che il modello può essere ritenuto valido nell’ambito di una strategia di eliminazione della soggettività (l’esperienza dell’unità della mente personale è una distorsione cognitiva che non rimanda coerentemente ad alcuna ontologia rilevante).

(c)    Si può asserire che il modello non può essere ritenuto valido perché il riferimento alla dimensione della mente personale o alla questione del «chi» sia il titolare degli stati e dei processi cognitivi mette in difficoltà MME nell’intrinseco dei suoi assunti fondamentali e non nell’estrinseco della sua superficie integrativa.

 

(vi)         Se i supporti esterni realizzano processi mentali, questi processi devono essere omogenei ai processi che si realizzano nella mente di senso comune: ma non sembra che questa condizione sia soddisfatta. La connessione causale del supporto con l’elaborazione mentale può determinare l’apporto di un dispositivo di computazione, ma non una connessione interna ad una «mente» (MME, al contrario, invita a ritenere il collegamento della mente interna con il supporto esterno una connessione interna alla mente distribuita e perciò essa stessa «mentale»). È pur sempre doveroso distinguere tra connessioni causali che sono un processo mentale e connessioni causali che invece contribuiscono alla determinazione di una performance cognitiva interna pur non essendone un momento.

 

(vii)        A chi obietta loro che i processi esterni non hanno un formato fenomenologico, Clark e Chalmers rispondono che l’obiezione, così formulata, si basa sull’indebita confusione tra «cognizione» e «coscienza»; in Clark & Chalmers (1998) la questione è liquidata, molto brevemente, facendo notare che allo stato attuale si ammette senza particolari difficoltà l’esistenza di processi cognitivi «inconsci», che sono a tutti gli effetti fenomeni mentali pur non avendo alcun versante di esperienza qualitativa. La replica, però, rischia così di incorrere in una semplificazione un po’ azzardata: i processi sub-personali su supporto interno hanno caratteristiche differenti dai processi non-personali su supporto esterno, per due ragioni fondamentali.

 

(a)    Soltanto i processi sub-personali sono immuni da errore referenziale. Si pensi alla differenza tra il recupero delle informazioni immagazzinate in un taccuino o in un ricordo[15]: soltanto nel caso del taccuino posso dubitare che sia «mio» (p. es. posso riprendere un appunto scritto anni or sono e avere qualche esitazione a riconoscere la mia grafia, che nel frattempo è cambiata); nel caso del ricordo, non posso dubitare di esserne il titolare (la facoltà di dubitare della sua attendibilità è un’altra questione)

(b)   Soltanto dai processi sub-personali può emergere la mente personale. Se MME afferma che non vi è alcuna distinzione rilevante tra processi sub-personali e non personali, la mente estesa non è in grado di isolare uno spazio di processi la cui esplicitazione implichi il riferimento qualitativo ad uno spazio esperienziale unitario. Beninteso, ME non ritaglia lo spazio speciale e non può farlo, considerato il suo apparato concettuale: non le è concesso di frazionare l’aggregato cognitivo in un gruppo di processi relati al fenomeno della soggettività e un gruppo di processi irrelati al fenomeno della soggettività, visto che ogni distinzione interno-esterno è illecita. Inoltre, l’asserzione della convergenza del sub-personale e del non personale entro un’unica categoria è modulata secondo il principio guida di una linea di confine che può essere individuata soltanto a partire dalla mente personale, o da un atto di riconoscimento in cui lo spazio della relazione positiva con la soggettività è distinto dallo spazio dell’irrelazione[16].

 

(viii)      Se, coerentemente con MME, si assume una definizione di «credenza» secondo l’esternismo attivo, le credenze sono stati cognitivi ma non stati mentali. In MME si ripresenta perciò, pressoché identico, lo stesso problema considerato con l’esperimento mentale di Block: in un sistema esteso sono presenti «credenze» se il sistema ha accesso ad una serie di informazioni che interagiscono con esso e comportano una serie di reazioni (diciamo pure «comportamenti») – ma in che senso un flusso di informazioni distribuite nell’ambiente secondo questo schema costituirebbe uno stato mentale? In che senso, pertanto, le «credenze» che secondo ME è doveroso attribuire al sistema esteso, sono stati mentali? Il modello può rispondere che il riferimento al mentale è del tutto superfluo e non contribuisce in alcun senso consistente alla comprensione della natura del sistema; il fatto che un flusso di informazioni distribuito possa essere considerato mentale soltanto se funge da input per la mente personale, può essere considerato irrilevante. Di fatto, nondimeno, la trascurabilità della dimensione soggettiva, semplicemente assunta dal modello, richiede un supplemento argomentativo che MME non sembra in grado di fornire. MME può considerare ininfluente sulla caratterizzazione del sistema l’emergenza di un soggetto di esperienza, ma deve pur sempre spiegare in funzione di cosa si costituisca (anche in un senso debolissimo: se si pone che la componente qualitativa del vissuto personale è una distorsione prospettica, perciò la si elimina dall’ambito dei termini confacenti a una caratterizzazione del sistema esteso, resta da definire l’insieme di condizioni realizzate dalla costituzione effettiva del sistema in funzione di cui diventa possibile la distorsione prospettica). Il fatto è che non solo ME non fornisce alcun supplemento argomentativo in tal senso, bensì rende implausibile, sia pure come non rispondente a una discriminante reale dello spazio cognitivo, l’emergenza della rappresentazione di uno spazio soggettivo cui si attribuiscano i predicati mentalistici della psicologia di senso comune.

 

(ix)         Se si assume che la differenza qualitativa tra le modalità di stoccaggio di un’informazione in un supporto interno e in un supporto esterno non pone problema alla descrizione del mentale offerta da MME, sorvolare sulla distinzione qualitativa del modo di accesso al contenuto stoccato nei supporti non permette automaticamente di sorvolare sulla distinzione concettuale tra i supporti in sé. Il possesso del taccuino con contribuisce a rendermi «quello stesso soggetto che sono», mentre p. es. il fatto di possedere una memoria biologica mi caratterizza in modo decisivo: posso sopportare l’idea di continuare a essere «quella persona che sono» se mi vengono sottratti una serie risorse ambientali che concorrono alle mie performances cognitive; applicare lo stesso margine di tolleranza mi riesce più difficile immaginandomi privato di qualcosa come la mia memoria biologica (il risultato di [Luca + taccuino – taccuino] è Luca, il risultato di [Luca + memoria biologica di Luca – memoria biologica di Luca] non è Luca, proprio perché [memoria biologica di Luca] è un elemento necessario di [Luca], sicché lo stesso [Luca + memoria biologica di Luca] non ha alcun senso).

 

(x)           Nel caso del supporto esterno è possibile scollegare la percezione del supporto dall’acquisizione del contenuto stoccato; nel caso del supporto interno l’esperienza del supporto è immediatamente l’acquisizione del contenuto stoccato – o meglio, non può determinarsi alcuna esperienza del supporto in sé, bensì soltanto della serie dei contenuti in esso accumulati. Consideriamo ancora il caso del taccuino: posso avere esperienza di un taccuino senza avere accesso al contenuto in esso immagazzinato; l’«avere un ricordo», al contrario, comporta immediatamente un contributo informativo. L’accessibilità richiamata dai criteri del reliable coupling non elimina la possibilità di scindere l’accesso al supporto dall’accesso al contenuto del supporto: in questo senso, la distinzione dei criteri [a] e [b] è un sintomo decisivo dell’incapacità di MME di spingersi oltre la simulazione delle prestazioni dei supporti interni, giacché nel caso dell’immediatezza d’acceso al contenuto stoccato nel supporto interno, l’immediatezza dell’accesso al supporto e l’immediatezza dell’accesso al contenuto del supporto sono inseparabili proprio perché non si dà condizione per una relazione del soggetto con il supporto che non sia la presenza di un contenuto informativo. Il supporto esterno non è perciò assolutamente equivalente al supporto interno: soltanto nel supporto interno l’accesso al contenuto è assolutamente trasparente, giacché non si possono distinguere la relazione al supporto dall’accesso al contenuto veicolato. A ben vedere, anche nel caso in cui l’informazione scritta sul taccuino sia di facile comprensione, la scrittura è una serie di segni che necessitano di essere interpretati: e poco aiuta il sostenitore di MME far notare il fatto che l’interpretazione dei segni sia rapidissima e abbia modalità largamente irriflesse[17]. Resta comunque il fatto: il supporto materiale può essere esperito a prescindere dal significato contenuto (posso chiudere il taccuino, e allora in esso non c’è nessuna informazione immediatamente accessibile, cosa che accade invece se il taccuino è aperto; ma allora lo stesso taccuino è o non è una parte della mia mente estesa a seconda che ce l’abbia tra le mani aperto o chiuso? Il taccuino aperto e il taccuino chiuso non sono in fondo lo stesso taccuino?[18]); viceversa, non posso «esperire la mia memoria biologica» – non posso avere esperienza delle strutture cerebrali che contribuiscono alle mie funzioni mnemoniche, bensì ho accesso soltanto ai risultati delle mie funzioni mnemoniche, i ricordi, che sono immediatamente un flusso informativo.

 

(xi)         Una delle differenze fondamentali tra la mente soggettiva e la mente estesa, o tra il soggetto ordinario e il soggetto esteso, è che soltanto il primo può soffrire di una malattia mentale. In che senso, come «io» posso essere affetto da un disturbo mentale, può esserne affetto il soggetto esteso? In che senso i processi cognitivi in atto nei supporti esterni possono, che so, esemplificare una sintomatologia? Certo possono essere inappropriati: p. es. uno schizofrenico può scrivere sul suo taccuino un insieme di frasi tra loro contraddittorie e stoccare un flusso informativo gravemente incoerente, ma l’incoerenza dell’informazione contenuta nel supporto non implica che «il supporto sia schizofrenico». Le disfunzioni della mente personale e le disfunzioni della mente estesa, che ME è necessitata a normalizzare in una continuità epistemologica, sembrano piuttosto dover essere descritte attraverso due linguaggi distinti[19].

 

(xii)        La relazione di appartenenza di un processo cognitivo ad un complesso mentale si determina (tra uno stato realizzato nella risorsa esterna a una serie di stati internamente realizzati) in modo tale da non richiedere alcun riferimento alla componente personale. Nel momento in cui, accertata una connessione causale affidabile, si mettono in connessione il processo realizzato all’esterno con i processi realizzati all’interno, l’assimilazione del supporto all’aggregato degli stati interni non è concettualmente sufficiente a determinare un’estensione del mentale al di là dei confini interni, in cui la mente è esperita come unità: la «totalità» cumulativa dei processi cognitivi non è l’«unità» fenomenologica dei processi cognitivi come mente. ME, tuttavia parla apertamente di «mente estesa», non semplicemente di cognizione distribuita; non si accontenta di dire che il supporto esterno realizza un processo cognitivo che entra in relazione cumulativo-causale con i processi unificati dalla mente personale, ma dice che il supporto esterno realizza un processo che entra in relazione diretta con l’unità stessa della mente (tanto da determinarne un’estensione).

 

(xiii)      Alberto Oliverio[20] pur accettando l'importanza degli «amplificatori» della mente, ritiene che si debba rifiutare una concezione estrema che caratterizza le operazioni mentali in funzione del contesto ambientale perché così facendo si riduce l'importanza dei rapporti tra struttura cerebrale e funzione mentale. Per esempio, l'uso dei simboli esterni come mezzo per innescare funzioni mentali astratte altrimenti impossibili, non tiene conto che la mente, umana e animale, è di per sé capace di operazioni astratte anche senza l'aiuto di simboli esterni.

 

(xiv)      Consideriamo il caso: un soggetto A recupera le informazioni che gli servono per arrivare dal luogo X, in cui si trova, al luogo Y, attraverso la memoria biologica. B, invece, recupera le stesse informazioni attraverso un supporto esterno, diciamo pure il famigerato taccuino. Che tipo di relazione c’è tra l’informazione contenuta nel supporto e l’atto concreto di spostarsi da X a Y[21]? Nel caso di A, in cui l’informazione è recuperata attraverso un supporto interno, il supporto ha immediatamente una relazione motivazionale con lo spostarsi da X a Y; nel caso di B, al contrario, la percezione del supporto ha nell’immediato una relazione causale con lo stato mentale di B, in cui viene esplicitato il contenuto informativo, e soltanto mediatamente una relazione motivazionale con l’atto concreto di spostarsi da X a Y. L’esperienza introspettiva è perciò diversa da quella percettiva in un senso decisivo, e sembra confermare che la distinzione tra l’interno e l’esterno ha ragioni motivate nella differenza tra le capacità causali dei supporti[22].

 

(xv)       Argomento «delle ragazze pigre»[23]. Semplificando all’estremo: nel momento in cui la risorsa cognitiva di un soggetto A fosse immediatamente accessibile a un soggetto B, la risorsa cognitiva del soggetto A sarebbe parte della mente estesa di B. Tuttavia la risorsa cognitiva di A, per definizione, è parte della mente di A – ma allora a chi appartiene la risorsa, se il concetto di mente designa un’unità non condivisibile? Chi tra A e B è il titolare della risorsa cognitiva? E quanti soggetti ci sono nel momento in cui B fa uso della risorsa accessibile? Lo stato mentale «di A» è una componente della mente estesa «di B»? Ancora un volta il problema centrale è quello della titolarità personale dei processi. ME può non avere particolari difficoltà a ridescrivere la situazione come se nel momento in cui la risorsa cognitiva accessibile è adottata da B, soltanto la mente di B esistesse in senso proprio. Tuttavia è abbastanza chiaro che i soggetti in questione sono due, per il semplice fatto che A non si esaurisce nella messa a disposizione della risorsa computazionale: può darsi che la sua attività cognitiva rientri nel sistema esteso di B, ma A non si riduce all’attività cognitiva che rientra nel sistema di esteso di B – A ha una vita mentale propria anche nel momento in cui contribuisce alla performance cognitiva di B (ha un’attività percettiva, può trovarsi in uno stato d’animo particolare, etc.). La stessa possibilità di spiegare il fenomeno come una «temporanea fusione delle due menti», che poi tornerebbero alla loro originale indipendenza, non ha un riscontro adeguato: in effetti, se affermiamo che A si esaurisce totalmente nell’atto di contribuire alla performance cognitiva di B, allora A può fondersi temporaneamente con B; se invece il processo cognitivo di A che contribuisce alla performance di B è uno dei molti processi in atto in A, l’assimilazione è sì possibile, ma soltanto rispetto al processo cognitivo isolato. Ora, l’ipotesi dell’incorporamento del processo è ancora un ipotesi su cui quantomeno è possibile discutere, visto che l’assimilazione di A a B è interpretata prescindendo dal riferimento all’unità mentale – ma ME non intende rendere conto della difficoltà messa in luce dall’esperimento mentale accantonando il riferimento al mentale e parlando invece di una collazione di processi computazionali. L’obiezione di Marconi, pertanto, ha molto dell’obiezione decisiva.

 

 

 

III.   Conclusione

 

MME riduce i processi cognitivi a un agglomerato di flussi impersonali da cui restano esclusi la dimensione qualitativa della soggettività e il punto di vista della prima persona. Non è dunque in grado di fornire una concettualizzazione appropriata dei confini tra la mente e l’ambiente; né, conseguentemente, di difendere l’uso largamente indiscriminato della sovrapposizione tra il cognitivo e il mentale, in cui spesso incappa. Pur affermando che la distinzione tra i due termini è priva di consistenza, è costretta a farne uso in luoghi decisivi della concettivazione e della difesa argomentativa del modello. Con tutto ciò, il credo della mente distribuita non sembra soltanto incompleta: l’impressione è che i suoi principi di fondo siano inadatti a riabilitare una forma di discontinuità vincolante tra interno e esterno, le cui buone ragioni, facilmente accertabili a prescindere dal prender posizione pro o contro il modello, possono essere fatte valere con grande forza contro di esso.

 

 

 

 

Prima versione: Giugno 2008



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[1] Putnam (1960).

[2] Cfr. più ampiamente Paternoster (2005), pp. 595-599.

[3] Cfr. Putnam (1987), «Introduzione»: Secondo il funzionalismo, il comportamento, poniamo, di una macchina calcolatrice non è spiegato dalla fisica e dalla chimica della macchina calcolatrice, bensì dal suo programma. Tale programma, naturalmente, è realizzato secondo una fisica e una chimica particolari, dalle quali potrebbe forse essere dedotto. Ma ciò non fa del programma una proprietà fisica o chimica della macchina: esso è una proprietà astratta della macchina. Analogamente, nel caso degli esseri umani, ritengo che le loro proprietà psicologiche non siano proprietà fisiche e chimiche, benché possano essere realizzate da proprietà fisiche e chimiche.

[4] In questo senso, il principio della realizzabilità multipla è alla base del programma di ricerca dell’intelligenza artificiale, perché se l’identità dei processi è indifferente al supporto, è possibile ipotizzare che le funzioni cognitive umane, logicamente definite, possano essere realizzate da un sostrato non biologico.

[5] Cfr. Nagel, (1974); Jackson (1982).

[6] Cfr. p. es. Jackson (1982): I think that there are certain features of the bodily sensations especially, but also of certain perceptual experiences, which no amount of purely physical information includes. Tell me everything physical there is to tell about what is going on in a living brain, the kind of states, their functional role, their relation to what goes on at other times and in other brains, and so on and so forth, and be I as clever as can be in fitting it all together, you won’t have told me about the hurtfulness of pains, the itchiness of itches, pangs of jealousy, or about the characteristic experience of tasting a lemon, smelling a rose, hearing a loud noise or seeing the sky.

[7] Questo, si intenda, per quanto le fonti da cui l’obiezione proviene ritengano l’incompletezza del paradigma funzionalista e fisicalista un sintomo decisivo della sua inintelligenza della pur ristretta gamma di fenomeni che intende spiegare – le prime battute di Jackson (1982), su questo punto, sono altamente eloquenti.

[8] Block (1978).

[9] Cfr. Block (1978): Machine functionalism says that each mental state is identical to a machine-table state. For example, a particular qualitative state, Q, is identical to a machine-table state, Sa. But if there is nothing it is like to be the homunculi-headed system, it cannot be in Q even when it is in Sa. Thus, if there is prima facie doubt about the homunculi-headed system's mentality, there is prima facie doubt that Q = Sa, i.e., doubt that the kind of functionalism under consideration is true.

[10] Marconi (2001), p. 49 parla di [1], parafrasando, come un’obiezione ritenuta decisiva nonostante la sua indubbia oscurità concettuale (cui, a mio modesto avviso, l’esperimento [2] contribuisce a rimediare in modo significativo).

[11] Cfr. Tollefsen (2006): Active externalism is the view that aspects of an individual’s environment, to which the individual is linked in a two-way interaction, are as much a part of human cognition as are other parts of the human brain. Computers, calculators, palm pilots, even post-it notes, are artifacts which individuals use in their cognitive endeavors. The interaction between these artifacts and the individual constitutes a coupled system that functions as a cognitive system in its own right.

[12] Cfr. Di Francesco (2007), pp. 238-239: La mente si estende al di là dei confini del cranio, e permea di sé la struttura fisica del corpo e quella fisica e culturale dell’ambiente esterno. Un unico flusso causale integrato si estende dal cervello al corpo all’ambiente, rendendo la distinzione interno/esterno priva di valore esplicativo. Ciò suggerisce l’adozione di quello che potremmo chiamare il principio di parità: se in un supporto esterno si realizza un processo che chiameremmo “cognitivo” qualora fosse realizzato dal cervello, allora anche il processo ‘esterno’, ha diritto al titolo di cognitivo.

[13] Clark & Chalmers (1998). D’ora in poi, dove non precisato, le citazioni si intendono da questo articolo.

[14] Cfr. Di Francesco (2007),  p. 4: Cosa [si debba intendere] per abbinamento affidabile emerge con chiarezza nel celebre esempio di Otto […]. Ci viene chiesto di ipotizzare un personaggio, Otto, che sore di una forma blanda della malattia di Alzheimer e che supplisce ai difetti della propria compromessa memoria biologica portando sempre con sé un taccuino. Egli annota nel taccuino i dati rilevanti, a cui accede automaticamente ogni volta che ne ha bisogno (per esempio, se scrive che c’è una mostra al Museo d’Arte Moderna e che il museo è in Piazza Duomo, quando decide di andare alla mostra sa ricavarne l’indirizzo ricorrendo al taccuino). Otto è in grado di consultare il taccuino con facilità5, e non dubita mai della correttezza delle annotazioni che vi trova. Secondo MME il taccuino può a questo punto essere considerato una componente genuina della mente estesa di Otto.

[15] D’ora in poi, sulla falsa riga dell’esempio per cui cfr. supra, nota 14.

[16] È una versione debole della difficoltà vista in [iii].

[17] È impossibile per esempio sentir pronunciare una frase nella propria lingua madre come una frase nella propria lingua madre, piuttosto che come un aggregato insignificante di segni sonori; oppure, è impossibile sentir dire «elefante» senza associare istantaneamente al segno sonoro l’immagine di un mammifero piuttosto imponente, con due zanne, una proboscide, e via dicendo. La teoria modulare della mente computazionale, già nella versione fodoriana, spiega fenomeni come questi caratterizzando i processi cognitivi specifici per dominio come obbligatori (mendatory). Quando un sistema di elaborazione specializzato è in presenza in un input afferente alla classe dei dati che è innatamente deputato ad analizzare, non può fare a meno di attivarsi. Cfr. Marraffa & Meini (2005), p. 55.

[18] Almeno in un senso questa difficoltà può essere solo apparente: il fautore di ME può facilmente sostenere che lo spazio ricoperto dall’estensione mentale sia variabile, che possa espandersi e contrarsi a seconda dei casi (cfr. la «fusione temporanea» considerata in [xv]). Ma è proprio questo che intende dire ME? Che i supporti costituiscono un’estensione della mente soggettiva soltanto quando entrano di fatto a far parte in modo immediatamente accessibile dei processi della mente personale? Ma allora che senso ha il criterio [a], che invece significa come decisiva una caratteristica del supporto che lo riguarda indipendentemente dall’atto del suo apporto causale ai processi interni?

[19] Cfr. Di Francesco (2004), p. 131, modif.: La sua [del soggetto personale] razionalità può abbandonarlo, i suoi stati emotivi possono divenire gravemente inappropriati, le sue capacità percettive subire distorsioni sulla base di un eccesso di paure, ossessioni, fissazioni e così via, attraverso fenomeni descritti con un tipo di linguaggio intenzionale, motivazionale, valutativo ben lontano da quello causale-funzionale della mente estesa. Con ciò non si intende che [il sistema esteso] non possa soffrire di malfunzionamenti, né che esista un senso in cui questi malfunzionamenti non possano essere attribuiti a fallimenti delle procedure con cui elabora l’informazione (in questo senso sarebbero disturbi «mentali» – della mente estesa/distribuita). Ciò che si verifica è piuttosto l’impossibilità di trattare questi disturbi con quella forma di dualismo (o pluralismo) epistemologico che caratterizza la psicopatologia degli agenti cognitivi umani. Pp. 131-134 per approfondimenti.

[20] Cfr. Oliverio (2005).

[21] Si pensi a come Otto e Inga in Clark & Chalmers (1998) recuperano le indicazioni per arrivare al museo.

[22] Cfr. ampiamente Butler (1998).

[23] Cfr. Marconi (2005).

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