ANDRÉ GIDE: PASSIONE E ILLUSIONE IN “ISABELLE”

 

di Marco Menin

 

J'étouffe ici; je songe à tout l'ailleurs

qui s'entrouvre ... J'ai soif ...

                                                                                                                      A. Gide, Isabelle

 

 

1.         CONTESTUALIZZAZIONE DELL’ OPERA

Scritta tra l’aprile e il novembre del 1910, Isabelle fu pubblicata l’anno successivo sulla «Nouvelle Revue Française». Questo récit, nonostante sia spesso collocato in quella produzione gidiana cosiddetta minore, si rivela di grande interesse in quanto è una delle opere di più incerta interpretazione del controverso scrittore francese.

            Isabelle, infatti, si può probabilmente definire l’opera meno gidiana di Gide. Indubbiamente, è uno dei lavori che lasciò più perplesso lo stesso autore, il quale confidò la propria scontentezza all’amico Charles du Bos: «il n’y a qu’un de mes livres qui ait été fait pour ainsi dire de l’extérieur. C’est Isabelle. J’avais vu l’histoire du livre et je l’ai écrit un peu comme un exercice pour me faire la main. Cela se sent»[1]. André scriverà inoltre nel Journal: «je m’enfonce dans mon travail mais non point de tout mon cœur et non parfaitement assuré que j’écrive là ce que devrais d’abord écrire […] Cela est trop nuancé; de tons trop rompus»[2]. E a stesura ultimata: «fini mon roman avant-hier soir – avec trop de facilité, ce qui me fait craindre de n’avoir pas mis dans les dernières pages tout ce que j’étais chargé d’y mettre»[3].

            Nel leggere tale opera, effettivamente, si ha l’impressione che Gide abbia fatto violenza a se stesso e che, più attento alla forma che all’idea, più all’espressione che all’argomento, si sia imposto una rigorosa disciplina stilistica tesa a recuperare, non senza una divertita ironia, il paradigma del récit francese del XIX secolo.

            L’equilibrio formale, la piacevolezza e la fluidità della narrazione risultano chiari sin a partire da una sommaria esposizione della trama dell’opera. Il giovane studente e apprendista romanziere Gérard Lacase, giunto al castello di Quartfourche per farci delle ricerche erudite, vi trova quattro vecchi coniugi e un ragazzo storpio e ritardato mentalmente, Casimir, il quale un giorno gli mostra di nascosto il ritratto della giovane madre, Isabelle. Gérard, colpito dalla bellezza e dall’angelica innocenza di quel volto e dalle rivelazioni delle fugaci visite notturne di Isabelle, scopre per caso il mistero della vita di lei in una lettera indirizzata quindici anni prima dalla donna al suo amante, che morì assassinato il giorno stesso in cui avrebbero dovuto fuggire insieme. Ritornato la primavera seguente, Gérard incontra finalmente di persona Isabelle, la quale, dopo la morte dei genitori, sta vendendo la tenuta per saldare i debiti. Ancora bella, ma completamente corrotta, ella accoglie subito la dichiarazione d’amore del giovane, rivelandogli inoltre che la notte della sua fuga, presa dal terrore della libertà, fu lei a chiedere al giardiniere di uccidere il suo amante. Gérard, deluso nei suoi sentimenti e ideali, volta le spalle alla donna che immediatamente concede i suoi favori a un cocchiere.

            Appare subito evidente come l’opera sia un abile divertissement letterario, perfetto e chiuso in se stesso, che rischia quasi di irretire quell’elemento morale così fondamentale nella produzione gidiana, la cui presenza risulta qui tenuissima. In realtà, sarebbe ingiusto relegare Isabelle tra le composizioni di pura letterarietà. Tra il divertissement e il gioco dei rinvii parodici, infatti, emergono numerose tematiche fondamentali per Gide (prima tra tutte la tematica della passione amorosa), seppure non siano trattate in maniera convenzionale.

            Il modo più corretto di valutare Isabelle è probabilmente quello di considerare quest’opera il risultato di un momento di transizione; risultato che assume valore se inserito nel percorso gidiano nel suo complesso. A conferma della plausibilità di questa affermazione, si possono richiamare le parole dello stesso Gide che riteneva Isabelle un «intermède semi - badin entre deux œuvres trop sérieuses»[4] (La porte étroite e Les caves du Vatican). La portata e il valore di tale intermezzo, tuttavia, non sono stati valutati in maniera univoca dai critici: alcuni lo ritengono semplicemente come una battuta d’arresto della rivolta gidiana in atto sin dall’Immoraliste, altri come un importante esercizio preliminare alle Les caves du Vatican, nel quale Gide riesce per la prima volta a sciogliersi (almeno in parte) dall’autobiografismo, imparando a scrivere storie di altre persone[5]. Per questi motivi, Isabelle appare oggi, proprio in forza di quelle sue caratteristiche peculiari a cui si è accennato, un racconto ben più valido e interessante di quanto non sembrasse al principio sia alla critica che allo stesso autore.

            Al di là di ogni problema interpretativo, tuttavia, ciò che si può affermare con certezza è che la tematica delle passioni è dominante in tale récit, tanto da costituirne la vera molla narrativa.  

 

 

2.         IL DISPIEGARSI DELLE PASSIONI IN ISABELLE

Dopo aver pubblicato La porte étroite, Gide aveva dichiarato: «mais qu’il me tarde d’écrire autre chose! J’en ai pour dix ans avant d’oser employer de nouveau les mots: amour, coeur, âme, etc.» [6]. Anche una lettura superficiale di Isabelle rende consapevoli di come in questo caso Gide stesse mentendo: l’intero récit è infatti dominato da un dispiegarsi delle passioni in genere e, in particolar modo, della passione amorosa. Quest’ultima viene presentata - seppure con diversi gradi di evidenza - in tutte le sue diverse declinazioni: amour-passion, amore spirituale, amore carnale, ma anche amore famigliare.

            Tutte le passioni presenti nel récit finiscono per trovare la loro incarnazione e il loro sviluppo nell’animo dei due protagonisti del racconto, Gérard e Isabelle. Il fatto di trovare al centro della narrazione una coppia in cui l’uomo e la donna finiscono con il polarizzare passioni e sentimenti, anche molto differenti tra di loro, è tipico delle opere gidiane: basti pensare a Michel e Marceline ne L’immoraliste o a Jérôme e Alissa ne La porte étroite.

            Ciò che invece appare una peculiarità di Isabelle è il fatto che - per la quasi totalità dell’opera - è un solo personaggio (Gérard) a immaginare non solo le passioni dell’altro (Isabelle), ma addirittura a crearsene un’immagine del tutto arbitraria e completamente illusoria. La “vera” Isabelle (ammesso che nel suo caso si possa parlare di una verità pienamente oggettiva) non ha mai direttamente la parola, se non attraverso le poche righe della lettera di amore vergata prima del tentativo di fuga, e persino lo svelamento della sua vera natura e delle sue più intime passioni rimane sostanzialmente una prerogativa di Gérard.

            Lo stesso Gide si mostrò consapevole di questa unicità di prospettiva, tanto da scrivere, in un progetto di prefazione per Isabelle:       

«Pourquoi j’eus soin d’intituler “récit” ce petit livre? Simplement parce qu’il ne répond pas à l’idée que je me fais du roman. […] Le roman, tel que je le reconnais ou l’imagine, comporte une diversité de points de vue, soumise à la diversité des personnages qu’il met en scène»[7].

            È dunque necessario cominciare l’analisi del racconto dalla figura di Gérard, in quanto la stessa trama della narrazione non è altro, a ben vedere, che lo sviluppo delle sue passioni.

 

 

2.1       Gérard tra noia e curiosità  

Il personaggio di Gérard è caratterizzato da due passioni fondamentali (intendendo il termine nel senso etimologico del greco pathos e del latino passio, cioè come affezione) che lo porteranno a cadere in una condizione d’aveuglement: la curiosità e la noia.  Da questo ottenebramento, che gli impedisce di distinguere la realtà dall’immaginazione, egli non riuscirà a uscire se non alla fine del racconto, quando sarà ormai inevitabilmente troppo tardi (questo è un altro dei leitmotiv dell’opera gidiana).

            La curiosità di Gérard è strettamente connessa alla sua totale inesperienza della vita reale, in quanto la sua giovane personalità  è stata forgiata esclusivamente dalla cultura libresca, intesa nel suo senso più deleterio:

«J'ai presque peine à comprendre aujourd'hui l'impatience qui m'élançait alors vers la vie. A vingt-cinq ans je n'en connaissais rien à peu près, que par les livres; et c'est pourquoi sans doute je me croyais romancier» [8].

            La sua fervida curiosità è immediatamente risvegliata dalla possibilità di trascorrere un soggiorno nel castello della Quartfourche (che significa significativamente crocicchio), ospite di M. Floche, vecchio studioso in pensione disposto - sulla base dell’amicizia che nutre nei confronti del maestro di Gérard - a mettere a disposizione del giovane dei preziosi documenti per completare la tesi di laurea. Gérard in realtà non nutre il ben che minimo interesse nei confronti della cronologia dei discorsi di Bossuet, argomento del suo lavoro («déjà ma thèse n'était plus qu’un prétexte»[9]), ma prova un indefinibile slancio verso il senso della novità e dell’avventura:    

«La Quartfourche! je répétais ce nom mystérieux: c'est ici, pensais-je, qu’Hercule hésite ... Je sais de reste ce qui l'attend sur le sentier de la vertu; mais l'autre route?... l'autre route ...» [10].

            Tuttavia, questo sentimento sarà ben presto frustrato con l’arrivo alla tenuta e l’incontro con i  primi individui che si apprestano a riceverlo: il cocchiere Gratien, la domestica Mademoiselle Verdure, l’abate Santal, e i coniugi Floche. Si tratta di personaggi volutamente caricaturali, la cui descrizione delineata attraverso tratti nitidi ed essenziali occupa la quasi totalità dei primi due dei sette capitoli in cui è diviso il récit.

            La vita alla Quartfourche si rivela sin dal principio di una noia insopportabile: i personaggi che abitano tale luogo vivono in una condizione di isolamento assoluto (non dissimile da quello che sarà poi riscontrabile nella Symphonie pastorale), in una sorta di mondo separato che ha delle proprie usanze e delle proprie regole. Questa situazione è espressa con efficacia dalle parole di M. Floche :

 «Que voulez-vous? nous avons pris ici des habitudes, à nous enfermer loin du monde, un peu ... en dehors de la circulation. Rien n'apporte ici de ... diversion; comment dirais-je? oui» [11].

            Sin da subito l’animo di Gérard rimane engourdi par la moitiédeur de l'air et par une sorte de torpeur végétale», ma la sua curiosità è ancora accesa dall’interesse di fare una conoscenza più approfondita con gli abitanti della tenuta, i quali si rivelano tuttavia individui patetici e mediocri contemporaneamente (come del resto lo stesso Gérard).

            Il terzo capitolo del récit si apre, difatti, con un’impietosa descrizione dei coniugi de Saint-Auréol, i genitori di Isabelle. Si tratta di due vecchi baroni eccentrici, i quali sono imparentati coi Floche (le due mogli sono sorelle); questi ultimi sono andati a stare con loro per aiutarli economicamente, essendo i Saint-Auréol ridotti quasi in miseria. Ciò nonostante i baroni, ed in particolar modo la moglie, ostentano una finta ricchezza e sin dalla loro descrizione fisica è possibile capire come rappresentino la falsità e la dissimulazione:

«Madame de Saint-Auréol disparaissait toute dans un flot de fausses dentelles. Tapies au fond des manches frissonnantes, tremblaient ses longues mains, chargées d'énormes bagues. Une sorte de capote en taffetas noir doublé de lambeaux de dentelles blanches enveloppait tout le visage; sous le menton se nouaient deux brides de taffetas, blanchies par la poudre que le visage effroyablement fardé laissait choir» [12].

            Lo stesso atteggiamento affettato si ritrova nell’abate Santal, la cui rappresentazione costituisce indubbiamente una critica sarcastica all’esteriorità della virtù cristiana. Questo finto religioso, stipendiato dai baroni per occuparsi dell’educazione del nipote Casimir, sfrutta in realtà il ragazzino storpio come un segretario per fargli copiare i suoi studi su Averroé (non a caso il commentatore di Aristotele che ne ha dato l’interpretazione più radicalmente anticristiana).

            Circondato da persone di tale fatta e - come si è già accennato - assolutamente insensibile al fine erudito che dovrebbe essere lo scopo della sua visita, Gérard inizia a pentirsi del proprio soggiorno presso i Floche. Persino la sua curiosità, come si evince perfettamente all’inizio del quarto capitolo, è destinata a svanire:

« Ma seconde journée à la Quartfourche fut très sensiblement pareille à la première; d'heure en heure; mais la curiosité que d'abord j'avais pu avoir quant aux occupations de mes hôtes était complètement retombée» [13].   

            Durante tale lasso di tempo, inoltre, la pioggia finisce con il rendere impossibile qualsiasi occupazione al di fuori del castello, facendo insorgere inevitabilmente in Gérard il sentimento della noia, che prende il posto di quello della curiosità. Giunto al tramonto della giornata, narrata in poche righe in contrapposizione ai tre capitoli dedicati al primo giorno di permanenza,  tale sentimento è già opprimente: «la soirée commença tout pareille à la précédente; mais déjà je n'écoutais ni ne regardais plus personne; un ennui sans nom commençait de peser sur moi»[14].       

            Non appena Gérard si ritira nella camera e rimane da solo, la noia da opprimente diventa insopportabile e il giovane decide di abbandonare a qualunque costo la Quartfourche, che da luogo immaginario di avventura e di vita si è trasformato in un luogo reale di grigiore e morte interiore:

«Quand, ce soir-là, je me retrouvai seul dans ma chambre, une angoisse intolérable m'étreignit l'âme et le corps; mon ennui devenait presque de la peur. Un mur de pluie me séparait du reste du monde, loin de toute passion, loin de la vie, m'enfermait dans un cauchemar gris, parmi d'étranges êtres à peine humains, à sang froid, décolorés et dont le coeur depuis longtemps ne battait plus. J'ouvris ma valise et saisis mon indicateur: Un train! A quelque heure que ce soit, un jour ou de la nuit ... qu'il m'emporte! J'étouffe ici ...»[15].   

            Egli decide così di ricorrere a un espediente per anticipare la propria partenza: ricevendo durante la colazione del terzo giorno una lettera priva di importanza, finge che si tratti di una grave notizia che lo obblighi a ritornare immediatamente a Parigi. Il dispiacere degli ospiti è tale da far provare imbarazzo a Gérard, il quale tuttavia continua a fingere abilmente. Egli mostra qui nuovamente la propria mediocrità: non è realmente dispiaciuto né per i vecchi Floche, che avevano trovato nella sua presenza un motivo di gioia in mezzo alla grigia monotonia delle loro esistenze, né tanto meno per il piccolo Casimir, che in poco tempo gli si era affezionato. Egli decide, al contrario, di sfruttare la fiducia che il piccolo storpio riversa in lui per soddisfare un’ultima curiosità (ecco ritornare questa passione così centrale in Gérard) che gli è rimasta: «je m’étais promis de ne point quitter la Quartfourche sans avoir visité la chambre d'une des vieilles dames» [16]. Convince così il bambino a cogliere un mazzo di fiori da donare alla zia e lo accompagna nella camera dell’anziana signora. Il bambino, che nella sua innocenza ha capito perfettamente le motivazioni della partenza di Gérard («Vous vous ennuyez» [17]), riesce a strappargli la promessa di tornare l’anno successivo alla tenuta.

            Casimir incarna la figura dell’adolescente innocente, in quanto libero da rimorsi (questo è un prototipo riscontrabile anche in altre opere gidiane). La sua innocenza è strettamente collegata alla sua ignoranza e alla sua infermità sia fisica che mentale, che lo mettono al riparo dallo squallore della realtà. Sarà tuttavia proprio Casimir, il personaggio di tutto il récit che meglio incarna la purezza e si solleva da uno stato di mediocrità, l’involontaria causa del tragico equivoco di cui cadrà vittima Gérard. Infatti, nello slancio di gioia conseguente la promessa ottenuta dal giovane, Casimir decide di metterlo a parte di un proprio segreto e gli mostra alcune cose che sono nascoste in un cassetto della camera della zia e tra queste il ritratto della madre Isabelle.

 

 

2.2       L’Isabelle di Gérard

Fa così la sua comparsa, a ormai metà del récit, colei che ne sarà la vera protagonista. In realtà Isabelle non sarà per lungo tempo un personaggio in carne e ossa, ma il semplice ritratto dipinto su di una fragile miniatura incorniciata. Tuttavia, tale immagine percepita dalla vista di Gérard (non a caso il senso più superficiale ed ingannevole nella prospettiva di Gide) è sufficiente non solo a risvegliare l’ormai assopita curiosità del giovane, ma addirittura a farlo innamorare perdutamente della donna: «quel est ce conte où le héros tombe amoureux du seul portrait de la princesse? Ce devait être ce portrait-là»[18].

            La descrizione di Isabelle è inevitabilmente una descrizione puramente fisica (siamo così all’opposto dell’Alissa de La porte étroite, della quale era offerto al lettore solamente il dettaglio di un sopracciglio), dalla quale vengono ricavati arbitrariamente da Gérard delle virtù morali:

 «Peu m'importaient vous dis-je les qualités ou les défauts de la peinture: la jeune femme que j'avais devant moi et dont je ne voyais que le profil, une tempe à demi cachée par une lourde boucle noire, un œil languide et tristement rêveur, la bouche entr'ouverte et comme soupirante, le col fragile autant qu'une tige de fleur, cette femme était de la plus troublante, de la plus angélique beauté. A la contempler j'avais perdu conscience du lieu, de l'heure» [19].    

            Gérard non perde tempo a interrogare Casimir e apprende così che Isabelle – della cui esistenza nessuno ha mai fatto menzione – è ancora viva. Tuttavia ella, misteriosamente, non vive al castello, ma ogni tanto, di notte, viene a trovare il figlio in camera sua. La bellezza della donna e il mistero che aleggia sulla sua vita, induconono il giovane romanziere a tornare sui suoi propositi e a trovare una scusa per prolungare la propria permanenza.

            L’indagine sulla misteriosa figura di Isabelle risveglia la sua curiosità («ma pensée soudain tout occupée d'elle échappait à l'ennui»[20]), e la sua fervida fantasia finisce per crearsene un’immagine completamente idealizzata. La fanciulla è immaginata come una sorta di donna-angelo (questa dimensione è richiamata sin a partire dal cognome), la cui figura incarna un amore puro e malinconico:

«Isabelle de Saint-Auréol! Isabelle! J'imaginais sa robe blanche fuir au détour de chaque allée; à travers l'inconstant feuillage, chaque rayon rappelait son regard, son sourire mélancolique, et comme encore j'ignorais l'amour, je me figurais que j'aimais et, tout heureux d'être amoureux, m'écoutais avec complaisance»[21].  

            Tali fantasticherie sarebbero tuttavia destinate ad esaurirsi[22]; dopo quattro giorni di vane ricerche Gérard è ormai rassegnato al fatto di dover partire, quando un avvenimento imprevisto (che apre il quinto capitolo del récit) modificherà radicalmente il corso degli eventi. Bloccato a causa di un violento acquazzone in un padiglione abbandonato del parco il giovane è colpito da un nuovo e violento attacco di inquietudine amorosa e piange in preda ad un’atroce ed angosciante noia:

«Certes le mot Ennui est bien faible pour exprimer ces détresses intolérables à quoi je fus sujet de tout temps; elles s'emparent de nous tout-à-coup; la quantité de l'heure les déclare; l'instant auparavant tout vous riait et l'on riait à toute chose; tout-à-coup une vapeur fuligineuse s'essore du fond de l'âme et s'interpose entre le désir et la vie; elle forme un écran livide, nous sépare du reste du monde dont la chaleur, l'amour, la couleur, l'harmonie ne nous parviennent plus que réfractés en une transposition abstraite: on constate, on n'est plus ému; et l'effort désespéré pour crever l'écran isolateur de l'âme nous mènerait à tous les crimes, au meurtre ou au suicide, à la folie ... »[23].

            Mentre prova ad incidere il nome dell’amata sul legno ormai marcio del padiglione, Gérard trova una lettera indirizzata quindici anni prima dalla donna, allora ventiduenne, al suo amante. Per realizzare il suo amore la fanciulla era disposta alla fuga, evidentemente fallita, da una vita che (esattamente come a Gérard nel presente) le appariva noiosa e soffocante: «tu sais qu'ici je vis captive et que les vieux ne me laissent pas plus sortir qu'ils ne te permettent à toi de rentrer. Ah! de quel cachot je m'échappe»[24]. Dopo aver riposto la lettera proprio sul cuore, come richiede la tipologia dell’eroe romantico di cui egli è contemporaneamente incarnazione e parodia, Gérard decide di far luce ad ogni costo sul mistero della vita di Isabelle, che la lettera non ha fatto altro che infittire. Da questo momento in poi il sentimento predominante nel giovane non sarà più semplicemente la curiosità, ma l’amore [25].

            Egli riesce finalmente ad ottenere delle confidenze dall’abate Santal, e scopre che, lo stesso giorno in cui era stata vergata la lettera, il figlio maggiore dei Gonfreville, la cui proprietà confinava con quella dei Saint-Auréol, era stato trovato privo di vita ai piedi dei confini della tenuta che egli si preparava a varcare. L’abate Santal mette al corrente Gérard di come il giovane fosse l’amante di Isabelle, nonché il padre di Casimir, e di come la sua morte probabilmente non sia stata accidentale. Si  sarebbe trattato di un omicidio commesso dal giardiniere Gratien per difendere l’onore dei suoi padroni.

            Queste rivelazioni costituiscono un ulteriore incentivo per l’immaginazione di Gérard, che rivive immediatamente il dramma della giovane donna:

«Qui nous racontera, disais-je, ce que fit Mademoiselle de Saint-Auréol cette nuit-là! Sans doute elle n'apprit que le lendemain la mort du comte? L'attendit-elle, et jusqu'à quand, dans le jardin? Que pensait-elle en ne le voyant pas venir?» [26].

            Egli finisce con l’attribuire ad Isabelle le stesse due passioni che sono dominanti nel proprio animo, cioè la noia e l’amore: «imaginez cette délicate jeune fille, le coeur lourd d'amour et d'ennui, la tête folle: Isabelle la passionnée»[27]. A niente valgono i tentativi dell’abate Santal di metterlo in guardia dal pericolo della sua infatuazione («Jeune homme, méfiez-vous! vous commencez à en devenir amoureux!...»[28]): egli critica il comportamento peccaminoso della fanciulla, la quale sarebbe caduta dentro «l'horreur du péché de la chair »[29], il cui infelice frutto sarebbe proprio il suo discepolo Casimir. All’immagine dell’appassionata Isabelle viene contrapposta quella di  «Isabelle la dévergondée »[30], «une gourgandine»[31].

            Queste insinuazioni, tuttavia, non incrinano minimamente l’immagine idealizzata di Isabelle, la quale si ripresenta all’immaginazione del giovane, caratterizzata più che mai da una disperata e melanconica voglia di evasione:

 «Et je songeais à vous, Isabelle. De quelle tombe aviez-vous su vous évader! vers quelle vie? Là, dans la calme clarté de la lampe, je vous imaginais, sur vos doigts délicats, laissant peser votre front pâle; une boucle de cheveux noirs touche, caresse votre poignet. Comme vos yeux regardent loin! de quel ennui sans nom de votre chair et de votre âme, raconte-t-il la plainte, ce soupir qu'ils n'entendent pas? »[32]

            La conferma del fatto che i confini tra realtà ed immaginazione non hanno più alcuna validità per Gérard si trova nella descrizione del sogno che egli fa il giorno stesso del ritrovamento della lettera. Per quanto tale sogno sia definito dall’io narrante come una «continuation de la réalité»[33], si tratta in realtà di un sogno su di un’illusione, un fantasma creato dalla propria immaginazione. Isabelle è nuovamente presentata vestita di bianco, colore che richiama nell’immaginario gidiano la purezza e la castità sin dai tempi dei Cahiers d’André Walter. Tuttavia, «ce n'était pas là la véritable Isabelle, mais une poupée à sa ressemblance, qu’on mettait à sa place durant l’absence de la vraie »[34] . Improvvisamente, quando gli altri membri della famiglia si sono ritirati e Gérard è rimasto da solo, la bambola si anima ed abbraccia con le tiepide braccia il giovane, promettendogli che si sarebbe fatta viva per lui.

 

 

2.3       L’altra Isabelle  

            Proprio l’indomani del ritrovamento della lettera (che viene descritto nel sesto capitolo del récit) è l’ultimo giorno che Gérard può trascorrere alla tenuta, non essendo più riuscito a trovare alcun espediente per prolungare ulteriormente il proprio soggiorno. È durante la colazione di tale mattinata che la vera Isabelle manifesta la propria presenza: infatti, Madame Floche riceve una busta viola che prova subito ad occultare agli sguardi degli altri commensali. Gérard, tuttavia, non esita a riconoscere la calligrafia della sua amata, e viene a sapere, nuovamente dall’abate Santal, che tale epistola è un segnale convenuto per annunciare una delle sue visite notturne.

            L’agitazione e la curiosità di Gérard crescono oltre ogni limite: egli si rende conto razionalmente di non poter essersi innamorato di un’immagine, ma tale esile consapevolezza è completamente ottenebrata dalla convinzione  che la profondità e la grandezza del suo amore non possano ingannarlo: 

« Pouvais-je aimer vraiment Isabelle? Non sans doute, mais, amusé jusqu'au coeur par une excitation si violente, comment ne me fûssé-je pas mépris? reconnaissant à ma curiosité toute la frémissante ardeur, la fougue, l'impatience de l'amour»[35].

            Scesa la notte, il giovane si nasconde in una stanzetta disabitata attigua alla camera di Madame Floche e da qui riesce a spiare l’incontro di Isabelle con la madre e la zia. La giovane è venuta, come d’abitudine, a domandare del denaro alla famiglia:

« Je m'attendais à la trouver davantage vieillie; pourtant je reconnaissais à peine en elle la jeune fille du médaillon; non moins belle sans doute, elle était d'une beauté très différente, plus terrestre et comme humanisée; l'angélique candeur de la miniature le cédait à une langueur passionnée, et je ne sais quel dégoût froissait le coin de ses lèvres que le peintre avait dessinées entrouvertes»[36]

            Isabelle ha dunque mantenuto l’antica bellezza, ma si capisce dai suoi atteggiamenti che in lei qualcosa è irreversibilmente mutato. Ella non ha più l’angelica purezza originaria, ma incarna una sensualità differente (non è casuale che non sia più vestita di bianco). L’incontro con la madre, inoltre, è dominato da un’atmosfera di falsità e affettazione, che mostra l’assoluta assenza di un qualsiasi tipo di sentimento in ambedue le donne:

« J'étais comme au spectacle. Mais puisqu'elles ne se savaient pas observées, pour qui ces deux marionnettes jouaient-elles la tragédie? Les attitudes et les gestes de la fille me paraissaient aussi exagérés, aussi faux que ceux de la mère» [37].

            Ciò che interessa a Isabelle sono esclusivamente i preziosi anelli (ultimi residui di un patrimonio che si intuisce come ella stessa abbia sperperato) che la madre getta per terra cacciandola, e che la giovane donna afferra  immediatamente, «comme un chien affamé se jette sur un os »[38]. Ella riparte poi in tutta fretta, senza nemmeno recarsi a salutare il figlio.

            Nonostante l’evidenza, Gérard continua a nascondere a se stesso la vera natura di Isabelle, e si ripromette di seguirla per parlarle insieme. Il suo progetto è tuttavia destinato a fallire a causa del sopraggiungere della domestica Olympe Verdure e il giovane è costretto a tornare a Parigi senza aver potuto incontrare Isabelle faccia a faccia per confessarle il proprio amore.    

 

 

2.4       Il crollo dell’illusione

All’inizio del capitolo conclusivo del récit, il settimo, Gérard è tornato a Parigi, dove le occupazioni della vita quotidiana hanno finito con il fargli dimenticare il mistero legato alla Quartfourche. Improvvisamente, tuttavia, riceve la notizia della morte, avvenuta pressoché in contemporanea, dei due coniugi la Floche. Poco dopo gli viene recapitata una commovente lettera di Casimir, nella quale il bambino lo informa, seppure confusamente, di una serie di ulteriori eventi che hanno stravolto la vita nella tenuta: in particolar modo gli comunica il ritorno della madre Isabelle, reso possibile da un colpo apoplettico che ha colpito Madame de Saint-Auréol paralizzandola.  Quest’ultima notizia convince Gérard a ritornare al castello di Quartfourche: «ai-je besoin d'ajouter que la pensée d'y retrouver peut-être la mystérieuse Isabelle m'y attirait autant que ma grande pitié pour l'enfant»[39].

            Poco prima di giungere alla tenuta, Gérard incontra l’abate Santal, il quale non lavora più per i de Saint-Auréol. Ques’ultimo racconta al giovane di come Isabelle, non appena appresa la malattia della madre, sia ritornata per mettere la proprietà sotto ipoteca e portare via tutto il possibile. La donna, inoltre, non ha esitato a concedere i propri favori all’usciere, per facilitare una vendita illegale degli alberi della tenuta. Ella ha inoltre abbandonato il figlio alle cure del vecchio giardiniere Gratien e della moglie.

            Tutte queste rivelazioni, tuttavia, non incrinano minimamente la sicurezza di Gérard che le considera semplicemente «médisances de l'abbé»[40]. Così egli, nonostante la tristezza che nutre vedendo le condizione in cui versa la Quartfourche, prova anche un’irrefrenabile gioia al pensiero di poter incontrare Isabelle e confessarle il proprio amore: 

«Mais cependant, au loin, le chant tragique des cognées, occupant l’air d'une solennité funèbre, rythmait secrètement les battements heureux de mon coeur, et la vieille lettre d'amour, que j'avais emportée, dont je m’étais promis de ne me point servir, mais que par instants je pressais sur mon coeur, le brûlait. Rien plus ne saurait m'empêcher aujourd'hui, me redisais-je, et je souriais de sentir mes pas se presser à la seule pensée d'Isabelle; ma volonté n'y pouvait, mais une force intérieure m’activait»[41].

            Gérard è convinto di poter coronare il suo sogno d’amore e, identificandosi con il destinatario della lettera di quindici anni prima, fantastica di fuggire in carrozza con lei la sera stessa[42]. L’incontro è in realtà destinato a concludersi ben diversamente: egli incontra Isabelle, vestita a lutto, che rammenda un misero cappello di feltro seduta su di un tronco d’albero abbattuto attraverso il viale. La conversazione si apre all’insegna della finzione (Gérard finge di non sapere né in che luogo si trovi né chi la donna sia) e continua attraverso chiacchiere caratterizzate da «hypocrite banalité »[43].

            Il giovane si decide finalmente a raccontare a Isabelle la verità (tenendo tuttavia ancora celato l’episodio del ritrovamento della lettera d’amore), ma quest’ultima - prendendosi gioco dei suoi sentimenti - gli consiglia sarcasticamente di comprare il medaglione all’asta dei beni della tenuta che si terrà da lì a pochi giorni, come se l’amore fosse monetizzabile in pochi soldi. Tale atteggiamento inizia a incrinare le certezze di Gérard:    

«Je protestai de mon chagrin de la voir ne prendre pas au sérieux un sentiment dont l'expression seule était brusque, mais qui depuis longtemps m’occupait; mais à présent elle demeurait impassible et semblait résolue à ne plus écouter rien de moi»[44].  

            Il giovane decide così di mostrarle la lettera e, piangendo, prova ad esprimerle il proprio amore e tutta la propria comprensione per la tragica vicenda di quindici anni prima: « hélas! repris-je, je sais quelle mort misérable enlevait, ce même soir votre amant ... Mais comment avez-vous appris votre deuil? Cette nuit que vous l'attendiez, prête à fuir avec lui, que pensiez-vous? Que fîtes-vous en ne le voyant pas apparaître?»[45].

            Isabelle, come risposta, pronuncerà la frase che è destinata a far crollare ogni illusione e a far uscire Gérard dal suo stato di aveuglement: «puisque vous savez tout, dit-elle d'une voix désolée vous savez bien que je n'avais plus à l'attendre, après que j'avais averti Gratien»[46].  

Un’intuizione improvvisa dell’orribile verità («Quoi! c'est vous qui l'avez fait tuer?»[47]) folgora Gérard facendo sgretolare in un attimo ogni chimera e ogni innamoramento della fantasia. La ragazza, sopraffatta dall’angoscia e dalla paura della libertà aveva preferito tradire il suo amante piuttosto che ritornare sui propri passi e rinunciare alla fuga.

            La vera Isabelle è dunque completamente differente dall’illusione che aveva fatto innamorare la fantasia di Gérard. La stessa donna pare rendersi conto di ciò, tanto da dire al giovane: «vous savez à présent ce que vous désiriez savoir. Si je continuais mon histoire, ce serait celle d'une autre femme où vous ne reconnaîtriez plus l'Isabelle du médaillon»[48].

            La vera Isabelle non è affatto l’incarnazione di un amore puro, ma semplicemente una donna meschina ed egoista incapace di amare, che dopo il suo atroce gesto non trova parole di rimorso che per se stessa. L’illusione è definitivamente crollata e Gérard « subitement incurieux de sa personne et de sa vie»[49] rimane immobile, disgustato, dinnanzi a colei che aveva scambiato per un sogno dal quale si è finalmente (anche se troppo tardi) risvegliato:

«Hélas! vous sentez bien vous aussi qu’il vaut mieux maintenant que je vous quitte. Figurez-vous qu'auprès de vos parents, à l’automne dernier, dans la torpeur de la Quartfourche, je m’étais endormi, que je m’étais épris d'un rêve, et que je viens de m’éveiller. Adieu»[50]. 

            Il giovane, voglioso di trovare una qualche forma di riscatto, decide di acquistare un piccolo podere dove consentire a Casimir di condurre un’esistenza dignitosa, mentre Isabelle, vistasi respinta oltre che da Gérard anche dall’usciere, fugge il giorno prima del sequestro dei mobili con un cocchiere.

 

 

3.         TEMATICHE

 

3.1       La riflessione sul romanzo

In Isabelle, dunque, al di là dell’aspetto di pura letterarietà, è possibile individuare diverse tematiche che Gide aveva già affrontato in precedenza o che svilupperà in opere successive. Tra queste ultime, assume un particolare rilievo la riflessione sul romanzo e sulla narrazione, che troverà la sua massima espressione solo molti anni dopo in Les faux-monnayeurs .           

            Agli inizi del secondo decennio del ‘900 la problematica del romanzo è sempre più pressante per Gide. Infatti, come osserva Claude Martin, «vers 1911, entre Isabelle et Les caves, il avait en effet décreté qu’il n’avait ancore écrit aucun roman, et qu’il ne faisait que commencer d’en élaborer la théorie»[51].

            Sin dall’incipit del racconto, effettivamente, ci si rende conto di come questo récit sia attraversato da una, seppure a tratti sotterranea, riflessione sulla narrazione stessa. L’intera vicenda si basa sull’espediente narrativo della passeggiata che il protagonista Gérard compie in compagnia di due amici, il futuro uditorio, nel parco desolato della Quartfourche:

«Gérard Lacase, chez qui nous nous retrouvâmes au mois d'Aoüt 189., nous mena, Francis Jammes et moi, visiter le château de la Quartfourche dont il ne restera bientôt plus que des ruines, et son grand parc délaissé où l'été fastueux s'éployait à l'aventure» [52].

            Come si può notare da tale citazione, il narratore di primo livello non sarà il protagonista Gérard, ma un non meglio specificato “je” che riporta il racconto dello stesso Gérard, autentico io narrante nonché narratore di secondo livello. Un simile procedimento stilistico - ben noto a Gide - era già stato utilizzato, quasi dieci anni prima, nell’Immoraliste, dove il racconto di Michel era per l’appunto riportato da un narratore non meglio specificato. Nonostante tale analogia, la teoria della narrazione in Gide aveva subito da allora notevoli variazioni e la teoria del romanzo-teorema[53] esposta nei Cahiers d’André Walter, che aveva trovato la sua massima espressione in La porte étroite, incomincia ad essere messa in crisi proprio da Isabelle. Come ha osservato Jacques Rivière «Isabelle est une expérience ou pluôt une sorte de preuve que Gide se donne à lui-même : il l’écrit pour se convaincre qu’il est capable de tracer le décor d’un roman  et de dessiner l’apparence des héros»[54].

            Il protagonista, infatti, sostiene di voler raccontare agli amici «le roman dont la maison que vous vîtes tantôt fut le théâtre»[55]. Il récit sarà così interamente attraversato da una riflessione sul roman, ed in particolar modo sulla possibilità di riuscire a scrivere un romanzo in grado di cogliere la verità, invece di deformarla e mistificarla: «romancier, mon ami, me disais-je, nous allons donc te voir à l'oeuvre. Décrire! Ah, fi! ce n'est pas de cela qu'il s'agit, mais bien de découvrir la réalité sous l'aspect ... » [56].

            Gérard è, paradossalmente, un aspirante romanziere che si trova alle prese con una realtà che (a suo modo di vedere) assomiglia a un romanzo che egli tuttavia non riesce - se non alla fine - a decifrare. Il racconto è difatti narrato al passato, sia per creare il distacco tra gli avvenimenti e gli ascoltatori, sia perché tale esigenza corrisponde al passato soggettivo dell’io narrante. Seguendo la richiesta dei propri amici («Apportez à votre récit tout le désordre, qu'il vous plaira »[57]) Gérard evita di narrare i fatti nella successione in cui si sono prodotti, preferendo seguire l’ordine in cui li ha appresi. Seguendo le casualità delle sue scoperte e delle intuizioni (spesso errate) della sua fantasia, egli finisce con il ricostruire l’inquietante mosaico che narra le vicende della famiglia de Saint-Auréol.

            Queste motivazioni hanno portato Anna Paola Mossetto Campra a osservare come «Gérard è […] la controfigura di Gide nel momento in cui tenta di dominare la realtà e di compenetrarla con l’immaginazione»[58].

            In Isabelle, tuttavia, tale tentativo è destinato a fallire e l’intero récit non è altro che il dispiegarsi di un tragico equivoco tra l’illusione e la realtà: «j'ignorais encore avec quelle malignité les événements dérobent à nos yeux le côté par où ils nous intéressaient davantage, et combien peu de prise ils offrent à qui ne sait pas les forcer» [59].

 

 

3.2       La condanna della finzione e dell’incapacità di vivere nel presente

Tutto il récit, come si è visto, è dominato dall’imperdonabile confusione di Gérard tra la finzione e la realtà.  Come osservò lo stesso Gide, in una lettera del 21 settembre 1911 a Jean-Marc Bernard, «non bisogna cercare il soggetto altrove che nella delusione stessa di Gérard, allorquando la piatta realtà prende il posto dell’illusione»[60]. Significativamente il sottotitolo del récit doveva essere L’illusion pathétique[61]. Il conflitto fra il vissuto e la rappresentazione che l’artista cerca di darne (non bisogna dimenticarsi del fatto che Gérard è un aspirante romanziere) scaturisce dalla finzione che quest’ultimo inscena con se stesso.

            Per questo motivo Gérard incarna in pieno il modello dell’ipocrita, ricordando che in Gide «le véritable hypocrite est celui qui ne s’aperçoit plus du mensonge, celui qui ment avec sincerité»[62].  Egli è così caratterizzato da una fausse conscience. Come ha osservato Maurice Nadeau, «la bonne conscience (au sens moral) n’est que la fausse conscience (au sens de la perception des réalités). Par elle nous nous blousons sur les autres et sur nous-mêmes, ne voyons que ce qu’il nous plaît  de voir»[63]. D’altronde, tutti i personaggi del récit (ad eccezione probabilmente di Casimir) sono dei personaggi che mentono agli altri (come i coniugi Floche e i coniugi  de Saint-Auréol che non sono disposti a raccontare la vera storia di Isabelle) o, ancor peggio, a loro stessi. Emblematico è il caso di Isabelle la quale, dopo aver denunciato a Gratien il proprio amante e dopo aver udito lo sparo, continua ad aspettarlo come se egli potesse ancora arrivare:

« Je cherchais à me tromper moi-même, et par pitié pour moi j'imitais celle qui attend. Je m'étais

assise devant la pelouse, sur la plus basse marche du perron; le cœur sec à ne pouvoir verser une larme; et je ne pensais plus à rien, ne savais plus qui j'étais, ni où j'étais, ni ce que j'étais venu faire»[64].

            Ciò che accomuna le menzogne di Gérard a quelle di Isabelle è il fatto che si tratta di menzogne create per mascherare la loro sostanziale incapacità di affrontare la libertà, che insieme all’amore rappresenta l’altro grande polo del récit. La libertà si manifesta esclusivamente nel presente (il gidiano et nunc), ma entrambi i personaggi, a causa delle loro passioni dominanti, non riescono ad abitare questo terreno, essendo sempre proiettati nel passato o nel futuro. Secondo Gide, invece, il passato può sì avere una grande importanza nella formazione dell’individuo e il futuro può sì rappresentare il suo grande scopo, ma è nel presente, nell’attimo e solo nell’attimo che l’uomo vive, respira, prova dolore e gioia. Gérard e Isabelle sono invece condannati alla finzione in quanto non riescono ad affrontare il presente. La noia e la curiosità, che sono le due passioni predominanti nel giovane, rappresentano la negazione del presente stesso: la noia uccide il nunc e la curiosità rappresenta una continua tensione verso il futuro. 

            La stessa tensione verso il futuro e l’incapacità di affrontare il presente emergono chiaramente anche nella lettera scritta da Isabelle, uno dei pochi momenti del récit dove la donna ha effettivamente la parola. Ella ha progettato per anni il futuro, vivendo così in una dimensione finta e illusoria: «comment peux-tu me demander encore si je suis résolue et prête? Mais mon amour, voici des mois que je me prépare et que je me tien prête! Des années que je vis dans l'attente de cet instant!»[65].

            Tuttavia, nel momento in cui il futuro pianificato potrebbe diventare presente, ella è paralizzata dalla paura della libertà: 

«Mais sitôt de retour au château, lorsqu'elle s'était retrouvée dans cette chambre qu'elle voulait quitter pour jamais, une angoisse indicible l'avait saisie, la peur de cette liberté inconnue qu'elle avait si sauvagement désirée, la peur de cet amant qu'elle appelait encore, de soi-même et de ce qu'elle craignait d'oser. Oui la résolution était prise, oui le scrupule refoulé, la honte bue, mais à présent que rien ne la retenait plus, devant la porte ouverte pour sa fuite, le coeur brusquement lui manquait. L'idée de cette fuite lui devenait odieuse, intolérable»[66].

            Dunque «Isabelle n’a rompu qu’en imagination avec son milieu, sa famille: elle s’est dérobée devant l’acte qui l’eût rendue libre et, par sa couardise, est responsable de la mort de son amant»[67]. Ella, rifiutando di cedere una sola volta al suo istinto (la prerogativa umana maggiormente legata alla dimensione temporale del presente ed esaltata nelle Nourritures terrestres), si è preclusa per sempre la via della virtù, che nell’equilibrio gidiano è compensata dalla tentazione e dalla perdizione (ella diventerà una spregevole meretrice). 

 

 

3.3       L’impossibilità dell’amore romantico

Un’altra tematica che emerge con chiarezza dalla lettura di Isabelle - in particolar modo se si tiene presente il peculiare accento non solo drammatico, ma anche ironico che domina l’opera - è la critica di una determinata concezione dell’amore: l’amore romantico. Gide stesso aveva scritto, in risposta a un sacerdote cattolico: «L’immoraliste, La porte étroite e Isabelle sono tre libri ammonitori che, con la Symphonie pastorale lavorano nella vostra direzione e portano acqua al vostro mulino. Essi denunciano, successivamente, i pericoli dell’individualismo ad oltranza, di una certa forma di misticismo specificatamente protestante e del romanticismo»[68].

            L’amore romantico è incarnato tanto dalla passione di Gérard per il volto dipinto di Isabelle, quanto dalla stessa fanciulla la quale, «avant de tomber dans les liaisons sordides, se posait en héroïne romantique, soucieuse de vivre sa vie»[69]. Il messaggio di fondo è che tale tipo di amore non solo non è più possibile nel XX secolo, ma non è neppure sostituibile con un altro sentimento. L’unica soluzione possibile, per quanto non tematizzata apertamente, sembra essere una forzata rinuncia sentimentale, problematica molto presente non solo nelle opere, ma anche nella vita di Gide (basti pensare alla sua relazione con la cugina Madeleine Rondeaux).

            È dunque meglio la mancanza d’amore che l’illusione dello stesso. L’illusione amorosa, tuttavia, fa parte della natura umana: per questo la vita, e con essa la letteratura, tende a creare continue finzioni, di cui il drammatico equivoco nel quale cade vittima Gérard è l’emblema.

 

 

3.4       Il fallimento dell’erotismo femminile

Un’altra delle tematiche gidiane che si ritrova nella lettura di Isabelle è quella dell’erotismo, che merita di essere analizzata sotto due aspetti.

            In primo luogo, tale récit richiama una teoria già espressa in scritti giovanili (ed in particolar modo nei Cahiers d’André Walter), ove l’erotismo si configurava essenzialmente come amore spirituale per la donna angelicata, in uno sdoppiamento di corpo e spirito. Se questo aspetto dell’idealizzazione della donna è presente, è altrettanto presente la sua condanna: proprio tale concezione è alle radici del tragico equivoco su cui si basa la narrazione.

            In secondo luogo, bisogna tener presente come Isabelle sia uno dei personaggi gidiani caratterizzati maggiormente nella propria dimensione fisica e carnale (sin a partire dalla sua descrizione), tanto da ergersi a emblema  dell’erotismo femminile. Ella, inoltre, proverà proprio in seguito all’esperienza erotica e carnale (definita sprezzantemente dall’abate Santal «péché de la chair»[70]) a fuggire dalla propria condizione, fallendo miseramente nel suo intento e cadendo nell’aspetto più deleterio dello stesso amore carnale, sino a diventare una prostituta. Come ha osservato Anna Paola Mossetto Campra «Isabelle, l’unico esempio di tema gidiano dell’evasione riferito al sesso femminile, è rappresentato in forma derisoria e degradante»[71].

            Effettivamente, nei confronti dell’erotismo femminile ci si trova qui innanzi ad un doppio scacco: da una parte, l’amore spirituale per la donna (quello di Gérard) è pericoloso in quanto conduce ad una sovrapposizione di immaginazione e realtà; d’altra parte l’amore carnale della donna (rappresentato perfettamente da Isabelle) è portatore di morte e sciagure. Inoltre, come ha osservato Maurice Nadeau, il personaggio di Isabelle rappresenta «l’exception»[72], in quanto, a differenza degli altri protagonisti di Gide, la sua condanna è senza appello e non trova alcuna giustificazione né nell’opinione pubblica, né nella religione.

            Non è da escludere che una svalutazione così drastica dell’erotismo femminile sia da collegarsi all’affermazione di quel nuovo tipo di erotismo, maschile e omosessuale, di cui Gide acquistava via via maggiore consapevolezza. Proprio nel 1911, lo stesso anno della pubblicazione di Isabelle, con un atto di estrema audacia e insieme di autodifesa, André pubblicava anonimo ma riconoscibilissimo (seppure in una tiratura di soli dodici esemplari per gli intimi) Corydon, un trattato sull’istinto sessuale.

            La svalutazione e la fallimentarità dell’amore eterosessuale, per altro, resterà una costante dell’opera gidiana. Anche nel suo unico roman, Les faux-monnayeurs, l’amore tra uomo e donna, inteso nel suo senso più ampio, è destinato a non durare (come nel caso di Boris e Bronja), a trasformarsi in odio (come nel caso di Vincent nei confronti di Laura) o, in ogni caso, a procurare una scissione tra affetto e sessualità (tipica di Bernard).

 

4.         CONCLUSIONE

In definitiva, una lettura attenta di Isabelle - che non si fermi semplicemente all’aspetto “formale” -sembra mostrare la fecondità di quest’opera ricca di tematiche care a Gide, seppure alcune siano ancora semplicemente in nuce. La problematica gidiana, al di là della suspense dell’intreccio e  della costruzione narrativa, si manifesta nell’impossibilità dei personaggi ad essere soltanto personaggi al loro posto, maschere di un ruolo prestabilito. Infatti, «la complexité du monde gidien apparaît comme le fruit de la complexité même des attitudes possibles de l’homme devant la vie» [73]. Per questo sia Gérard che Isabelle si rivelano essere non solo attori di un avvincente intrigo, ma creature da un’inquietudine e da un’ambiguità tipicamente moderne. Si pensi alla disperata affermazione di Isabelle che,  accingendosi a fuggire, esclama: «j'étouffe ici; je songe à tout l'ailleurs  qui s'entrouvre ... J'ai soif ...» [74]. Questa “sete” e questo “altrove” possono assurgere a simbolo dell’universale desiderio d’evasione che caratterizza l’intera opera gidiana nella sua sottile complessità. Solo estinguendo tale desiderio l’essere umano potrà veramente bien comprendre qui l’on est, rendendosi così non indegno di vivere né di aspirare alla felicità. 

 



[1] Citazione tratta da Y. Davet, Notices, in André Gide, Romans. Récits et soties. Œuvres lyriques, introduction par Maurice Nadeau, notices et bibliographie par Yvonne Davet et Jean-Jacques Thierry, Gallimard, Paris, 1958, p. 1559.

[2] André Gide, Journal, 24 avril 1910; ivi, 20 octobre 1910. Citazioni tratte da Y. Davet, Notices, in André Gide, Romans. Récits et soties. Œuvres lyriques, cit., p. 1557.

[3] André Gide, Journal, 14 novembre 1910. Citazione tratta da Y. Davet, Notices, in André Gide, Romans. Récits et soties. Œuvres lyriques, cit., p. 1557.

[4] Citazione tratte da Y. Davet, Notices, in André Gide, Romans. Récits et soties. Œuvres lyriques, cit., p. 1557.

[5] Ė tuttavia sempre nei propri ricordi che Gide attinse gli elementi principali del racconto, modificando però a suo piacimento la storia reale dei proprietari del castello di Formentin, prossimo a La Roque, luogo dove André passava le vacanze estive da bambino.  Lo stesso Gide, d’altra parte, pose sempre l’accento sul fatto che Isabelle fosse un’opera di pura fantasia nata, per così dire, dall’esterno e non sgorgata da intime esigenze interne o autobiografiche: «je me persuade que […] tous ceux que j’ai relatés dans Isabelle sont, de part en part, inventés et ne prennent appui sur aucune réalité historique, en dépit de cette réputation que l’on m’a faite de manquer complètement d’imagination». Citazione tratte da Y. Davet, Notices, in André Gide, Romans. Récits et soties. Œuvres lyriques, cit., p. 1559.

[6] André Gide, Journal, 7 novembre 1909. Citazione tratta da Y. Davet, Notices, in André Gide, Romans. Récits et soties. Œuvres lyriques, cit., p. 1556.

[7] Citazione tratta da Y. Davet, Notices, in André Gide, Romans. Récits et soties. Œuvres lyriques, cit., p. 1561.

[8] André Gide, Isabelle, in ID, Romans. Récits et soties. Œuvres lyriques, cit.,  p. 603.

[9] Ivi, p. 604.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 613.

[12] Ivi, p. 617.

[13] Ivi, p. 624.

[14] Ivi, p. 625.

[15]  Ibidem.

[16] Ivi, p. 630.

[17] Ivi, p. 629.

[18] Ivi, p. 632.

[19] Ibidem.

[20] Ivi, p. 636.

[21] Ivi, pp. 636-637.

[22] «Je n'avais rien surpris de nouveau, ni dans les événements de chaque jour, ni dans les propos de mes hôtes; d'inanition déjà je sentais ma curiosité se mourir». Ivi, p. 636.

[23] Ivi, p. 638.

[24] Ivi, p. 639.

[25] «Lui seul [l’abbé Santal] peut m'éclairer le détour de cette ténébreuse histoire où m’achemine déjà moins de curiosité que d'amour». Ivi, p. 641.

[26] Ivi,  p. 644-645.

[27] Ivi, p. 645.

[28] Ivi, p. 646.

[29] Ivi, p. 645.

[30] Ivi, p. 646.

[31] Ivi, p. 636.

[32] Ivi, p. 647.

[33] Ibidem.

[34] Ivi, p. 648.

[35] Ivi, p. 652.

[36] Ivi, p. 654.

[37] Ivi, p. 656.

[38] Ivi, p. 657.

[39] Ivi, p. 660.

[40] Ivi, p. 666.

[41] Ibidem.

[42] «Qu'est-ce qui l'attachait encore à ces lieux, peuplés de hideux souvenirs? De la Quartfourche vendue, je le savais, rien ne devait lui rester ni lui revenir. Que ne s'enfuyait-elle? Et je rêvais de l’enlever ce soir dans ma voiture». Ibidem.

[43] Ivi, p. 667.

[44] Ivi, p. 668.

[45] Ivi, p. 669.

[46] Ibidem.

[47] Ivi, p. 670.

[48] Ivi, p. 671.

[49] Ivi, p. 672.