Sulle orme del senso.
Senso e mondo in Heidegger
di Lorenzo Sieve
«Che significa senso?»[1]; questa domanda possiede a buon diritto tutta la pregnanza e l’importanza della domanda che titola una conferenza di Martin Heidegger dell’agosto del 1955 a Cerisy-la-Salle come introduzione ad una discussione sull’essenza della filosofia. Il titolo di tale incontro fu: “Che cos’è la filosofia?”. Il testo della conferenze, che venne poi pubblicato in volume nel 1956 dall’editore Günther Neske di Pfüllingen, apre con un’osservazione preliminare che può valere anche per la domanda sopra posta: «Con questa domanda tocchiamo un tema molto vasto, cioè esteso. Perché vasto sembra costretto a restare indeterminato. Perché indeterminato, può essere trattato dai punti di vista più diversi. In ogni caso, giungeremo comunque a qualche risultato»[2].
Per adempiere al compito di una chiarificazione del problema si impone innanzitutto l’urgenza di definire gli strumenti lessicali con i quali ci troviamo a che fare in modo tale da evitare possibili fraintendimenti che possano inquinare la sua comprensione. Per procedere nell’analisi risulta quindi indispensabile porre un chiaro discrimine tra gli ambiti semantici di senso e significato.
Per quanto riguarda la fenomenologia husserliana «La distinzione tra significato e senso risponde alla distinzione tra esperienza (έμπειρία, experientia, Erfahrung) e vissuto (πάθος, affectio, Erlebnis)»[3]. Con significato si intende il risultato, squisitamente intellettivo, che viene a depositarsi nel giudizio dopo aver avuto esperienza con la cosa interessata. L’esperienza qui intesa assume i tratti dell’assunzione di dati provenienti dalla cosa nell’averla compiutamente attraversata, nell’essersi quindi volto ad essa, e nell’aver così consolidato concettualmente il materiale sensibile da lei fornito; essa «rappresenta il culmine del processo di presa di contatto diretta con le cose»[4]. Con significato si definirà quindi l’informazione cristallizzata e stabile nel giudizio. Di sua pertinenza sarà, conseguentemente, la polarità del cognitivo.
Per quanto riguarda il vissuto, inteso propriamente come esperienza vissuta[5], Erlebnis, si tratta di una relazione caratterizzata da implicazioni vitali nella vivacità delle cose, di tipo partecipativo e fusionale. «È come un porsi fuori dell’umano, un trasferirsi, uscendo da se stessi, in un dominio che converge sull’umano ed è arcano»[6]. Un rapporto fondamentalmente contraddistinto dalla presenza dell’affettività. È un inabissarsi nell’ente, cingerlo e compartecipare con esso alla sua vita; emotivamente contrassegnata si evidenzia come polarità dell’affettivo. Qui «Si può strettamente intendere la matrice oscura della oscura della soggettività, il “sentire”, nella pregnanza delle sue ambigue valenze (sensazione/sentimento; atto/stato)»[7]. Il legame che si instaura con la cosa «si fonda sulla recettività del soggetto, poiché dipende dall’esistenza di un oggetto; duque appartiene al senso (sentimento) e non all’intelletto, che esprime una relazione della rappresentazione con un oggetto secondo concetti, ma non con il soggetto secondo sentimenti»[8]. Il vissuto si identifica quindi come genesi del senso, a significare che il senso è il cuore proprio del vissuto. Tali componenti - l’esperienza vissuta (Erlebnis) e l’esperienza (Erfahrung) - «ci fanno distinguere distintamente designandole, le due essenziali dimensioni del “fenomeno”, ossia di ciò di cui la fenomenologia husserliana vuole essere la “scienza rigorosa”»[9].
Per quanto riguarda la riflessione heideggeriana le cose non stanno propriamente così. Il senso non può essere inteso come nocciolo del vissuto, semmai al contrario il vissuto è possibile in forza del senso. Il senso, in Heidegger si configura anche come senso percettivo: ad esempio la vista. Grazie ad essa è possibile entrare in rapporto con l’ente che mi sta di fronte, comprenderlo e definirlo come disponibilità articolabile, determinandone poi il significato. Il senso si pone come a priori indipendentemente dall’esistenza dell’ente percepibile.
«“Esperienza” (Erfahrung) designa: 1) l’attività dell’esperire; 2) ciò che, tramite essa, è esperito. […] “Esperire” non significa “prendere conoscenza”, bensì il “confrontarsi con le forme di ciò che è esperito, l’affermarsi di tali forme»[10]. Esperienza, intesa in senso heideggeriano, si riferisce quindi al rapporto che si sviluppa nei confronti dell’ente e all’ente stesso. Legame che si sviluppa in forza del senso senza connotarsi immediatamente come conoscenza - significato determinato - ma ponendosi come confronto con le forme di ciò che è esperito. Questo confronto con le forme dell’ente è l’affermarsi di esse, il quale si configura come affermarsi dell’ente ovvero il suo essere accessibile da parte del senso.
Senso e significato si pongono uno innnanzi all’altro, non come termini che vicendevolmente si escludono, ma come modalità di coglimento[11] dell’ente interessato; con maggior precisione si osserva lo stagliarsi di un rapporto filiale tra i due, il quale è il medesimo che lega esperienza e rappresentazione. Il senso è in primo luogo inteso come facoltà percettiva e solamente esso può essere matrice delle idealità: identificandosi come il primo contatto con l’ente; dalla quale proviene lo sgorgare degli elementi che possono venire oggettivati, cristallizzati, concettualmente elaborati, in una loro possibile determinazione. Il significato soddisfa così una pretesa eminentemente teoretica, come sapere oggettivante ed analitico. Si può quindi a buon diritto stabilire il rapporto intercorrente tra i due termini come presa ed articolazione delle possibilità portata avanti dal senso e poi determinate in significato. In altri termini «il significato, vale a dire la riduzione o la elevazione, a seconda dei punti di vista, del senso come darsi originario del mondo, ad un nucleo di significatività logico-semantica»[12].
Questa interpretazione ha assunto nella fisolofia di Heidegger i tratti di un congedo nei confronti del pensiero del maestro Husserl: «Revocata ogni sospensione (epoché) “neutralizzatrice”, ad una filosofia come neutra cognizione universale e necessaria di significati se ne sostituisce un’altra, consistente nell’appassionato coinvolgersi del singolo nell’oggetto del suo comprendere»[13]. Il coinvolgimento che connota il rapporto tra il singolo e l’ente interessato apre l’indagine a un tema di importanza capitale nella riflessione heideggeriana: la situazione affettiva[14]. Questa rappresenta il terreno in cui affonda le radici il senso. Definita un «esistenziale fondamentale»[15] essa ha il compito di schiudere l’esserci nel suo essere-gettato e, dal momento che l’esserci è sempre in una situazione affettiva, rende possibile e connota, sul piano sensibile, l’incontro con gli enti[16]. Il fatto di trovarsi sempre in una situazione caratterizzata emotivamente trova fondamento nell’essere-nel-mondo dell’esserci. Questi si trova da sempre a contatto con una totalità di significati dal momento che per lui è dischiuso un mondo nel quale veicolano contenuti semantici che lo investono nel corso di tutta la sua vita e dal fatto che si trova in una comprensione di essi sempre aperta e rinnovantesi. Ciononostante è dischiuso per l’esserci un ambito diverso dove «le cose, cioè, non solo sono già sempre fornite di un significato in senso “teorico”, ma anche di una valenza emotiva»[17]. L’affettività si delinea come una «pre-comprensione, ancora più originaria della comprensione stessa»[18] dal momento che «la tonalità emotiva ha già sempre aperto l’essere-nel-mondo nella sua totalità, rendendo solo così possibile un dirigersi verso…»[19]. Questo “dirigersi verso” è rivolto all’ente, nei confronti del quale il nostro indirizzarsi è possibile in virtù di quella «prima prensione globale del mondo, che fonda in qualche modo la stessa comprensione»[20], intesa come il modo originario di trovarsi e sentirsi nel mondo. L’occasione di potersi rapportare alle “cose” è resa possibile dalla situazione emotiva dal momento che l’incontro assume i tratti dell’affezione. L’esserci può essere “colpito” dall’ente, ha la possibilità di essere affetto da esso «soltanto perché sono ontologicamente propri di un ente che ha il modo di essere dell’essere-nel-mondo in una situazione emotiva, i “sensi” possono essere “affetti” e “aver sensibilità per” ciò che si manifesta nell’affezione»[21].
Il vissuto (Erlebnis) non è esonerato dalla dipendenza nei confronti della situazione emotiva. L’opportunità di rapportarsi agli enti intimamente e compartecipare alla loro vita è possibile solo sulla funzione aprente della situazione emotiva dal momento che «essa ha così poco il carattere di una comprensione riflessiva che ogni riflessione immanente può incontrare “esperienze vissute” soltanto perché la situazione emotiva ha già aperto il Ci»[22]. Ed è per questo motivo che le radici del senso vanno rintracciate sul terreno della situazione emotiva. Il senso affonda in questa apertura resa disponibile dalla situazione affettiva: il singolo viene ad identificarsi con l’apertura resa disponibile dalla situazione emotiva in quanto «la situazione emotiva è un modo di essere esistenziale fondamentale in cui l’Esserci è il suo Ci».[23]
Ora, dopo aver meglio definito gli ambiti semantici dei termini che si presenteranno nella ricerca, e dopo aver mostrato il terreno in cui l’oggetto d’interesse affonda le proprie radici, si può prendere in esame la definizione stessa che Heidegger dà del senso esprimendosi in questi termini:
Senso
significa ciò in cui la comprensibilità di qualcosa si mantiene, senza venire
in luce esplicitamente e tematicamente. Senso significa ciò rispetto-a-cui ha
luogo il progetto primario, ciò in base a cui qualcosa può essere concepito
nella sua possibilità così com’è. Il progettare apre possibilità, ossia è tale
da render possibile.[24]
Questa definizione pone immediatamente all’attenzione una duplice valenza del senso. Nella prima parte dell’estratto il non venire in luce tematicamente, il rimanere in ombra dell’esplicitazione, allude a quell’aver a che fare con l’ente in cui si muove l’esserci, che si identifica come una più generale comprensione dell’ente e che vedremo in seguito definita come manifestatività dell’ente in quanto tale nella sua totalità. Il senso, qui, si configura come un orizzonte di inesplicità, uno sfondo, che deve essere inteso come una «potenzialità di esplicitazione»[25]. Potenzialità che sono possibilità di interpretazione, di articolazione, del darsi degli enti attraverso il senso, che trovano in esso la loro condizione di possibilità come in una «rete di riferimenti mai conclusa»[26]. Entro l’orizzonte del senso abbiamo quindi il collocarsi degli enti compresi, dal momento che il senso si configura, anche, come «sentire in generale o sentimento»[27]. Questa valenza è pensabile come modalità d’accesso agli enti dal momento che «quando con l’essere dell’Esserci l’ente intramondano è scoperto, cioè compreso, diciamo che ha un senso. A rigor di termini, però, ciò che è compreso non è il senso, ma l’ente o l’essere[28]». “Scoperto” è un modo di accedere a ciò che precedentemente era non scoperto, nascosto: nel configurarsi come facoltà di sentire in generale il senso scopre l’ente, permettendo così l’incontro dell’esserci con l’ente. Un incontro che si mantiene in una dimensione di “indifferenza”, indistinzione, dal momento che i significati non sono ancora stati articolati e il materiale a disposizione ondeggia nella comprensione non determinata degli enti. «Chiamiamo senso ciò che è articolabile dell’aprire comprendente»[29]. Senso è l’articolabile, ma va considerato tale solo dal punto di vista formale, nel senso che inerisce al compreso dal punto di vista strutturale, presentandosi come “griglia” capace di lasciarsi imbrigliare e di imbrigliare i contenuti degli enti.
Nella seconda parte dell’estratto l’attenzione cade sul carattere di orientamento, di direzionalità che il senso fornisce al materiale della comprensione grazie allo stretto rapporto che intrattiene con il progetto. Il «ciò rispetto-a-cui ha luogo il progetto primario»[30] definisce il rapporto tra progetto e senso: il senso è il confronto-con-che, il rispetto-a-che o per meglio dire, ciò-che-permette il progetto primario. L’ente “concepito nella sua possibilità” si riferisce ad un “qualcosa”, che sottintende il progetto. Ciò non è però evidente, dal momento che l’affermazione può essere riferita ad un “qualcosa” che non richiami immediatamente il progetto, ma valga in modo non meglio specificato, per l'appunto, di “qualcosa” in senso generale. Se così fosse varrebbe dunque una portata ben più ampia del senso dal momento che, «ciò in base a cui qualcosa può essere concepito nella sua possibilità così com’è»[31], farebbe valere il senso come condizione di possibilità di ogni “qualcosa” preso in esame, come l’orizzonte entro cui qualcosa è possibile: «Il progettare apre possibilità, ossia è tale da render possibile»[32] e ancora: «Mettere in chiaro il rispetto-a-che di un progetto significa aprire ciò che rende possibile il progettato»[33]. Il senso esibisce le possibilità dei rimandi degli enti compresi e collocati entro il proprio orizzonte, ai quali fornisce direzionalità ed orientamento, tracciando un sentiero esplicitabile ed attuabile dal progetto.
Il problema della “messa in opera” del senso richiede la trattazione del fenomeno del mondo. L’analisi avrà, ora, il compito di tratteggiare le concezioni del mondo offerte da Heidegger in due opere distinte: Essere e tempo e i concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine ponendo una particolare attenzione al problema del senso e osservando in che modo questo tema viene declinato all’interno delle due trattazioni.
Il senso all’interno di questo contesto gioca un ruolo centrale. Nell’“essere aperto pre-logico” - in questo spazio pre-categoriale, dove viene esibita la manifestatività dell’ente - il senso affonda le sue radici. Con ciò si intende il fatto che all’interno della dimensione pre-logica si rende fruibile ciò che il senso ammanterà come disponibilità articolabile: i possibili significati degli enti. In questo ambito avviene la prensione primordiale delle “cose”, l’effettivo «portarsi-incontro di un essere vincolante»[103]; il loro primissimo coglimento libero da determinazioni concettuali o giudizi. Solo sulla base del senso che apre la comprensione degli enti, è dunque possibile lo sviluppo di significati determinati, di concrete articolazioni, di interpretazioni delle “cose”.
[1] M. Heidegger, Sein und Zeit, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 200118; tr. it. di P. Chiodi, F. Volpi (a cura di), Essere e tempo, Milano, Longanesi & C., 2005, p. 384.
[2] Id., Was ist das – Die Philosophie?, Pfüllingen, Günther Neske, 1956; tr. it. di C. Angelino, Che cos’è la filosofia?, Genova, Il melangolo, 2003, p. 9.
[3] A. Masullo, Heidegger e la questione del «senso», in Heidegger oggi, a cura di E. Mazzarella, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 46.
[4] A. Masullo, Heidegger e la questione del «senso», cit., p. 47.
[5] In ogni vissuto è palesemente presupposto il carattere anche solo generale di esperienza, come possibilità di contatto. Ma non in ogni esperienza è manifesto il carattere del vissuto come qualità intimanente partecipativa.
[6] P. Celan, Der Meridian, in Gesammelte Werke, vol. 3, Frankfurt am Main, Surkhamp Verlag, 1983; tr. it. di G. Bevilacqua (a cura di), Il meridiano, in La verità della poesia. Il meridiano e altri scritti in prosa, Torino, Einaudi, 1993, p. 9. Il discrimine che Celan pone - studiando la poetica di Büchner - tra arte intesa come coglimento della vita nel suo proprio farsi, come sguardo posto sulla creaturalità delle cose ed arte considerata come volontà di sviluppare il bello in sé slegata dalla naturalità; si pone con forte analogia nei confronti del rapporto tra senso e significato. Per meglio dire c’è tra le due concezioni dell’arte il rapporto che si sviluppa tra esperienza e rappresentazione. Celan pone una contrapposizione di concezioni che si può considerare come la scissione di momenti di un unico percorso estetico: dall’esperienza alla rappresentazione, dalla creaturalità al bello. «Lenz, ovvero Büchner, riserva, “ah, l’Arte”, parole al quanto sprezzanti all “Idealismo” e a i suoi “burattini”. Egli contrappone a essi – e qui seguono le righe indimenticabili sulla “vita dell’essere più umile”, sui “palpiti”, sulle “allusioni” sulla “quasi impercettibile, finissima mimica” – a essi egli contrappone ciò che è naturale e creaturale». Ibidem, p. 8.
[7] A. Masullo, Heidegger e la questione del «senso», cit., p. 47.
[8] I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, Hamburg, Felix Meiner Verlag, 1985; tr. it. di A. M. Marietti (a cura di), Critica della ragione pratica, Milano, BUR, 20015, p. 137.
[9] A. Masullo, Heidegger e la questione del «senso», cit., p. 47.
[10] M. Heidegger, Einleitung in die Phänomenologie der Religion, in Phänomenologie des religiösen Lebens, Vittorio Klostermann Frankfurt am Main, 1995; tr. it. di G. Gurisatti, F. Volpi (a cura di), Introduzione alla fenomenologia della religione, in Fenomenologia della vita religiosa, Milano, Adelphi, 2003, p. 41.
[11]Qui si comincia ad intravedere quella che sarà una componente fondamentale di questa analisi, l’apriorità delle possibilità di coglimento: il primato del com’è? sul che cos’è?
[12] B. Moroncini, Mondo e senso. Heidegger e Celan, Napoli, Edizioni Cronopio, 1998, p. 9.
[13] A. Masullo, Heidegger e la questione del «senso», cit., p. 48.
[14] Per rendere Befindlichkeit utilizzo, indistintamente, situazione affettiva, situazione emotiva, affettività. Uso questi sinonimi per non andare incontro a eccessive ripetizioni del medesimo termine.
[15] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 167.
[16] Secondo G. Vattimo che pone la situazione affettiva è una dimensione ancor più originaria della comprensione, a causa della sua duplice funzione di apertura all’essere-gettato e di condizione di possibilità dell’incontro con le cose. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Bari, Editori Laterza, 200517, p. 33.
[17] Ibidem.
[18] Ibidem.
[19] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 170.
[20] G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, cit., p. 34.
[21] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 171.
[22] Ivi, p. 169.
[23] Ivi, p. 173.
[24] Ivi, p. 384.
[25] V. Costa, La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in Heidegger, Milano, Vita e Pensiero, 2003, p. 257.
[26] G. Vattimo, Oltre l’ interpretazione, Bari, Editori Laterza, 2002, p. 113.
[27] B. Moroncini, Mondo e senso. Heidegger e Celan, cit., p. 11.
[28] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 187.
[29] Ibidem.
[30] Supra, cfr., p. 5.
[31] Ibidem.
[32] Ibidem.
[33] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 384.
[34] M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann Verlag, 1983; tr. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, Genova, Il melangolo, 1999, p. 231.
[35] Ivi, p. 232.
[36] Ibidem.
[37] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 87.
[38] Ivi, p. 88.
[39] Ibidem.
[40] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, cit., p. 232.
[41] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 89.
[42] Utilizzo il termine cose tra virgolette come sinonimo di ente, ben conscio dell’ avvertimento di Heidegger: «in questo interpellare l’ente come “cosa” (res), è introdotta di soppiatto una caratterizzazione ontologica preliminare», in M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 90.
[43] A. Fabris, Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, Roma, Carocci editore, 2005, pp. 89-90.
[44] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 89.
[45] Ivi, p. 92.
[46] Ivi, p. 91.
[47] Ibidem.
[48] Ibidem.
[49] Ibidem.
[50] A. Fabris, Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, cit., p. 90.
[51] V. Costa, La verità del mondo. Giudizio e teoria del significato in Heidegger, cit., p. 273.
[52] Ibidem.
[53] Ivi, p. 257.
[54] R. Rorty, Il progresso del pragmatista, in Interpretazione e sovrainterpretazione, a cura di U. Eco, Bologna, Bompiani, 20043, p. 126.
[55] U. Eco, Replica, in Interpretazione e sovrainterpretazione, ibidem pp. 173-174.
[56] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 92.
[57] A. Fabris, Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura, cit., p. 91.
[58] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 92.
[59] Ivi, p. 93.
[60] Allo stesso modo l’opera rinvia ad altri mezzi e viene a configurarsi come mezzo di un’opera “maggiore”. L’articolo da scrivere rinvia all’uscita della rivista etc.
[61] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, cit., p. 231.
[62] Ivi, p. 232.
[63] Ibidem.
[64] Ivi, p. 233.
[65] Ibidem.
[66] ibidem.
[67] Ivi, p. 234.
[68] Ibidem.
[69] Ivi, p. 234.
[70] Platone, Fedone, tr. it. di M. Valgimigli, Bari, Editori Laterza, 20054, p. 43.
[71] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, cit., p. 242.
[72] M. Heidegger, Die Armut, in Heidegger studies, a cura di F. W. von Herrmann, Burg Wildenstein, 1945; tr. it. di A. Ardovino, M. Dolcetta (a cura di), la povertà, in «MicroMega», n. 3 (2006), p. 115.
[73] Ibidem.
[74] M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, cit., p. 253.
[75] Ibidem.
[76] Ibidem.
[77] Ivi, p. 255.
[78] «La pietra giace sul sentiero […]. Nel farlo “tocca” la terra. Ma ciò che qui chiamiamo “toccare” non è un tastare. Non è quella relazione che una lucertola ha con una pietra, quando giace al sole sopra di essa». Ivi.
[79] Ivi, p. 256.