IDEOLOGIA E COMUNICAZIONE:

 

Societa', cultura e politica  nell'occidente “tecnocratico”

 

di Rosario Coco

 

 

 

 

 

“È contro il negazionismo la prima risoluzione adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu nel 2007. L’organo plenario delle Nazioni Unite ha approvato venerdì un testo, presentato dagli Stati Uniti e appoggiato da altri 103 paesi, che deplora «senza riserve» chi nega l’Olocausto, e incita «tutti gli Stati membri a rifiutare senza riserve ogni negazione, totale o parziale, della Shoah come evento storico, e ogni attività volta a tal fine». Nel testo viene sancito l’appoggio dell’Organizzazione a programmi di istruzione negli Stati membri finalizzati a combattere «i tentativi di minimizzare l’importanza dell’Olocausto».”[1].

 

“Chi nega l'Olocausto potrebbe essere perseguito penalmente. Ecco quel che prevede il disegno di legge - sei articoli in tutto - presentato dal ministro della Giustizia, Clemente Mastella, approvato oggi all'unanimità dal Consiglio dei ministri, un provvedimento che tuttavia non fa riferimento diretto al negazionismo della Shoah ma si riferisce, in generale, "ai delitti di istigazione a commettere crimini contro l'umanità e di apologia dei crimini contro l'umanità ”[2].

 

“Al termine di un processo durato poco più di un anno, l'ex dittatore iracheno Saddam Hussein è stato oggi condannato a morte per crimini contro l'umanità”[3] .

 

In modo forse un po’ inatteso, si è voluto esordire ponendo in rilievo questi fatti molto noti degli ultimi mesi. La presente riflessione è scaturita dalla loro risonanza presso l’opinione pubblica mondiale, nonché dal loro intrinseco carattere significativo. Si è, infatti, subito avuta la sensazione che i due eventi ai quali si è fatto riferimento fossero collegati da una latente quanto fondamentale problematica che, in qualche modo, facesse loro da comune denominatore. Con il riferimento ai passi della cronaca, si è voluto mettere in condizione il lettore di scorgere già da sé, intuitivamente, il principio che sta alla base del presente lavoro, il quale è stato poi sviluppato, innanzitutto, nell’ottica di chiarificare quanto possa darsi in comune tra  punti di partenza in apparenza tanto diversi.

Cosa lega insieme la condanna di Saddam Hussein con la risoluzione ONU contro il negazionismo e il disegno di legge Mastella?

Occorre riflettere, in primis, in termini di sostrato. In generale, la politica dell’ONU e dei paesi occidentali contro il negazionismo, trova le sue cause più evidenti nell’atteggiamento apertamente antisemita dell’Iran di Ahmadinejad, che pretende di dare, con tali manifestazioni, un fondamento teorico alle sue scelte politiche. Se tale orientamento di pensiero  è stato recentemente formalizzato in Iran, non si può negare quanto l’elemento antisionista che ne fa da sfondo sia diffuso in tutto il mondo islamico.

Approfondendo, vediamo poi anche la difficile situazione di Israele, l’inasprirsi delle tensioni in medio oriente, nonché il sostanziale fallimento della politica estera di G.W. Busch. In questo atteggiamento dell’ONU, ma anche di molti stati membri come l’Italia, vi è espressa, insomma, la necessità fondamentale di rispondere a quello che, per prima cosa, sentiamo spesso considerare come un attacco ai fondamenti teorici della civiltà occidentale. Le idee negazioniste, infatti, negano quell’evento catastrofico che ha determinato la moderna formulazione dei diritti dell’uomo e segnato, in buona parte, gli equilibri politici di quasi mezzo secolo. Questa risposta, ha bisogno di tingersi dei colori della giustizia universale e della civiltà; è la stessa esigenza che spinge il presidente G.W. Bush a dichiarare:

 

 "Oggi Saddam Hussein è stato giustiziato dopo aver ricevuto un processo equo, cioé quel tipo di giustizia negata alle vittime del suo regime brutale" [4].

 

In altre parole, la condanna di Saddam sarebbe un atto di giustizia. Ma cosa determinerebbe  questa crisi dei fondamenti teorici della società occidentale?

Rimanendo momentaneamente in epochè, in merito alla definizione del concetto di  occidente e accettando i rischi di usare il termine in modo relativamente superficiale, bisogna affermare che la minaccia ai fondamenti teorici dell’occidente si accompagna a delle concrete minacce politiche ed economiche; vi sono degli interessi concretamente in gioco che riguardano il petrolio iracheno e la sopravvivenza dello stato di Israele. Ma, quanto interessa maggiormente, è chiedersi per quale motivo  chi attacca questi interessi “occidentali” ha buon gioco nel colpire quelle che vengono definite le idee fondamentali della cultura occidentale. E’ questo che sostanzialmente avviene quando si nega la schoah o si definiscono gli americani un popolo semplicemente invasore e usurpatore. Per buon gioco, intendiamo il grande successo propagandistico della cosiddetta cultura fondamentalista, concetto che necessiterebbe di un’analisi a sé. 

Riassumendo, è possibile considerare questi due eventi come una risposta ad un ipotetico “attacco all’occidente”. Tuttavia ci si chiede perché, chi colpisce, con grande effetto sulle masse, “l’ideologia” occidentale si trova quasi automaticamente a rivendicare dei diritti, siano essi politici, economici o religiosi. 

La risposta è che questa ipotetica “ideologia” è stata ripetutamente esposta alla confutazione del fatto, la sua bandiera è stata troppe volte quantomeno incautamente sventolata, divenendo il  vessillo di campagne politiche, ideologiche e militari  volte a fini troppo spesso non dichiarati e decisamente discutibili nei contenuti. Per dimostrare questa tesi ricorriamo, ma solo momentaneamente, ad una sorta di principio di ragion sufficiente, affermando che non sarebbe sicuramente la prima volta nella storia che un’ideologia copre interessi strutturali (nel senso marxiano del termine struttura”)

Non si direbbe, quindi, nulla di nuovo se, rispetto a quanto ci insegna la storia, non vi fosse oggi una differenza di importanza capitale: l’ideologia è adesso costretta a difendersi, si scopre in contraddizione, non solo con la realtà empirica, ma anche con se stessa. I fatti citati in apertura si presentano come fenomeni di tale situazione ed è proprio questa  la tesi che si vuole qui dimostrare.

Bisognerà necessariamente passare attraverso quello che è forse il tratto maggiormente peculiare dell’attuale società globale: la comunicazione tecnologica; con questa espressione ci riferiamo, in particolare, ai  radicali cambiamenti avvenuti negli ultimi due decenni nell’ambito della comunicazione e della diffusione della cultura, i quali sono, comunque,  da vedere in un rapporto di  continuità con i grandi mutamenti dell’ultimo secolo. Quali alterazioni ha subito la natura dell’ideologia nel suo rapportarsi  con la massa?

 

- Per una definizione dei concetti di ideologia e occidente.

 

Bisogna, innanzitutto, partire da un’analisi dei concetti di ideologia e occidente.

Il termine ideologia ricorda, nel suo uso comune, esperienze politiche, sociali, intellettuali, di natura dispotica. Spesso si parla di posizioni politiche “viziate da presupposti ideologici” e si condanna tutto ciò che è “ideologico” come quell’insieme di forme culturali che minacciano la libertà; ci si culla troppo facilmente sul comodo dualismo tra democrazia e ideologia, specie dalla parte di certa cultura radicale e di sinistra, ma anche, e in un modo forse più pericoloso, da parte di una destra che si definisce moderata e che riesce ancora a “bollare” di “ideologismo comunista” le formazioni politiche dell’opposto schieramento. Da molti pulpiti, insomma, si gioca al tiro al bersaglio contro l’ideologia ma, come spesso accade negli ultimi tempi, quasi mai ci si accorge di come le parole perdano, cambino, ammorbidiscano, eclissino, secondo i casi, il loro potenziale semantico.

Intendiamo qui il significato del termine ideologia in un senso, prima di tutto, letterale: discorso sull’idea, ossia logos, parola, ragionamento, pensiero, preceduto da “idea”,

termine proveniente dalla radice  id del verbo greco orao , che significa vedere.

La lingua greca attribuisce alle forme del passato di questo verbo il significato di sapere. L’aoristo oida vale come presente; io so, proprio perché ho visto. L’idea è quindi originariamente visione, ossia un’azione del vedere nel passato che comporta la conoscenza nel presente. Per Platone conoscere significava ricordare le idee, ossia cose, appunto, già viste, dall’anima, prima della sua caduta dal mondo iperuranico. Nel corso dei secoli il concetto di idea ha perso il suo carattere ontologico, già con Aristotele, per essere poi mentalizzato con Cartesio, andando a costituire il fondamento di quel soggetto moderno “forte” che caratterizzerà la filosofia sino all’ottocento. In questo contesto, il valore  dell’idea come visione passata si trasforma in un valore di anteriorità fondazionale. L’idea è ciò che precede il pensiero e deve essere cercata nel soggetto stesso. Questo è il principio generale della fortunata teoria del “lume naturale”, che è stata il vessillo delle battaglie illuministe, del giusnaturalismo, di un pensiero che, per dirla con Kant, doveva segnare l’entrata dell’umanità nella sua fase di maturità.Al di là delle reazioni ottocentesche alla cultura illuministica, che arricchirono e integrarono in molti casi le idee del secolo precedente, l’attuale tradizione giuridica, politica, etica e, in gran parte, filosofica, è fondata proprio su quei principi espressi nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del 1789[5] e nella “Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America” del 1776[6]. Sono quei valori che sono stati in larga parte ripresi nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948, firmata dai membri delle Nazioni Unite quando fu necessario trovare un punto di partenza per ricominciare a parlare di dignità e di umanità dopo la catastrofe del secondo conflitto mondiale.

Le principali correnti di pensiero che ormai vengono comunemente definite “ideologie” sono quelle che hanno costituito lo sfondo teorico dei totalitarismi del ‘900, i quali divengono a loro volta ideologie politiche. Ci riferiamo non solo al pensiero di ispirazione marxista, ma anche al neoidealismo italiano, e a pensatori come Carl Schmitt. Tali posizioni vanno poste, comunque, nella dovuta linea di continuità con il pensiero dei secoli precedenti, anche nel caso in cui le si voglia considerare delle sfortunate parentesi. E’ importante, dunque, capire che l’ideologia non è assolutamente totalitaria tout court; essa è, comunque, presente in qualsiasi forma di agire politico, poiché, anche nel caso della politica più becera, squallida, corrotta e disinteressata che si possa immaginare, costituisce un riferimento indispensabile in quanto riserva di argomentazioni, nonché di possibili spunti concreti. Bisogna chiarire che non stiamo qui parlando di quella ideologia intesa nel senso mediatico del termine come pensiero “forte”, in qualche modo dispotico e autoritario, ma di quella ideologia che, innanzitutto, semplicemente esiste, ovunque si dia una forma di politica e di civiltà.

Occorre ora, invece, approfondire l’altro termine dell’espressione “ideologia occidentale”, ossia il concetto di occidente. Nel linguaggio comune il termine ha, innanzitutto, un significato oppositivo, un contenuto semantico che denota un elemento proprio nel  rimandare subito a ciò che è diverso da esso. Questo è il significato storico del termine, che predomina sin dalla classica distinzione tra Greci e Barbari. In tal modo è possibile sentire frasi come “ l’occidente è duramente critico nei confronti dei diritti delle donne nei paesi islamici”. Tuttavia, in base allo stesso principio, avveniva, ad esempio, l’appello di papa Urbano II per la crociata contro gli infedeli, in una Europa, quella del XI sec., profondamente divisa e lacerata, che si poteva considerare unita solo nel momento in cui si contrapponeva al nemico infedele richiamandosi alla sua identità  cristiana. In  quel momento storico, il concetto di cristianità aveva una funzione simile al nostro attuale concetto di occidente. L’era della globalizzazione ha determinato anche la diffusione, a livello di massa, di un uso connotativo del termine, cioè di una categoria di significato in cui  rientrano sommariamente  tutti quei paesi che sono legati alla storia e alla cultura  del continente europeo, la quale avrebbe avuto il suo grande inizio con la civiltà greca. In virtù di ciò è possibile sentire “la tradizione occidentale si fonda sul liberalismo e sulla democrazia”, oppure “ Il pensiero cristiano è alla base della tradizione occidentale”. A livello teorico , l’occidente è stato spesso concepito dal pensiero moderno e ottocentesco come una realtà ideale, come  un fine della storia, come culla di quella umanità predestinata alla civiltà. Tutto questo è frutto di una complessa eredità che va dal concetto di barbaro in età antica, alla concezione cristiana della storia come scenario delle vicende del popolo eletto da Dio; tale patrimonio comprende, anche, la violenta reazione espansionistica determinata dalla ferita narcisistica costituita dalla scoperta del nuovo mondo e, inoltre, i fenomeni di orientalismo accademico che ispirarono il colonialismo e l’imperialismo. La prima grande riflessione sull’occidente è probabilmente quella di Hegel, la quale costituisce, non a caso, anche il compimento di una profonda lettura filosofica della storia. Hegel, nelle Lezioni di filosofia della storia[7], delinea l’occidente come soggetto della storia stessa; il protagonista dello sviluppo dello Spirito che giunge, nella storia, alla piena realizzazione di se nel rapporto che lega l’individuo alla comunità e allo stato; quel rapporto che contempla la dimensione dell’eticità come superiore alla società civile, che non scinde la libertà individuale dall’azione dello stato; essa  prevede, infatti, una dimensione politica e, quindi, pubblica in ambito economico, sociale, culturale. La filosofia della storia di Hegel era forse la massima espressione di quello storicismo di matrice romantica che per primo si sforzava di dare un senso alla storia e alle “storie”, prescindendo dalla concezione lineare del processo storico di matrice illuministica. Il più influente prodotto storico della riflessione hegeliana può essere considerato il marxismo. Ma va ribadita anche l’importanza  del secolo dei lumi, in particolare nell’ambito del pensiero liberal-democratico, che trova i suoi fondamenti proprio in quella grande stagione filosofica. L’occidente odierno, democratico, custode dei diritti umani, della civiltà e della libertà, per qualcuno anche cristiano, è il frutto di questi orientamenti di pensiero. Questa è  l’idea cui bene o male si ispirano i  media. Se, però, ci addentriamo in una più attenta analisi storica, scopriamo che questo modo di pensare tende ad occultare pesantemente la realtà dei fatti, finendo per scontrarsi con le diversità e con i più disparati “topoi” dell’occidente. Basti pensare proprio all’occidente “moderno” dei secoli XVII e XVIII, che vedeva in realtà affermarsi questa “modernità” solo in paesi come l’Inghilterra, l’Olanda, la Francia. Essi sono teatro di quelle rivoluzioni politiche e sociali cosi dense di significato e foriere di mutamenti, ma seguono, tuttavia, distinti  processi storici legati a molteplici variabili di natura politica, sociale ed economica. Se poi osserviamo, nel medesimo periodo, la Germania l’Italia, la Spagna e più ancora l’ampia area dell’Europa orientale fino alla Russia, ci accorgiamo di come l’età “moderna” contempli ancora forme di rifeudalizzazione, imperi immobili nel loro assetto medioevale, enormi territori dove si mantiene una forma di società che conoscerà solo nel 1863 l’abolizione della servitù della gleba. Cosa resta effettivamente di questo occidente? Non serve a molto proseguire nella ragnatela dei distinguo, poiché dobbiamo innanzitutto partire dal fatto che un’idea di occidente esiste nella nostra cultura per l’appunto occidentale. A tal proposito ci sembra molto interessante la conclusione di Geminello Preterossi[8]:

 

“In definitiva, si può affermare che il concetto di occidente non ha di per se a priori un significato compiuto; semmai è oggetto di un travaso semantico di donazioni di senso stratificate e il più delle volte polemogene. E’ insomma, un termine simbolico, tendenzialmente polisemico, che ha prodotto e continua a produrre effetti politici”[9]

 

Potremmo aggiungere che sia un dato di fatto nella coscienza collettiva di un insieme di popoli; ciò che bisogna valutare è il valore di questo termine nel moderno contesto globale.

E qui è necessario tornare a parlare di ideologia.

 

- Il problema semantico

 

Al di là delle speculazioni teoriche, vi è un gruppo di nazioni e di individui che si riconoscono come occidentali, in un modo assolutamente inedito rispetto al passato.

Nell’ambito della nostra riflessione possiamo adesso chiarire cosa si intende per “ideologia occidentale”, ossia, nel modo più generale, la tradizione liberal-democratica che porta avanti i valori di libertà e di uguaglianza, testimoniata dai documenti storici ricordati poc’anzi e sintesi del pensiero di autori come Hobbes, Locke, Rousseau, Montesquieu, Kant.

Non è qui in questione il fondamento reale o, per cosi dire, l’opportunità di una simile ideologia; vi si fa, comunque, riferimento; ciò avviene anche per giustificare la condanna di Saddam Hussein, che poco o nulla ha a che fare con i contenuti reali del diritto moderno, oppure, per mascherare il fatto di essere costretti a limitare, per legge, quella che, effettivamente, è libertà d’opinione e di ricerca. Perché avviene questo? Bisogna, a questo punto, analizzare l’ideologia nella condizione della sua comunicazione.

Se ci riferiamo alle costituzioni di quasi tutti i paesi occidentali, notiamo che esse prendono spunto effettivamente da questi principi. Una costituzione è, però,  già legge e non riflessione filosofica; essa non può permettersi la stessa universalità e lo stesso spessore argomentativo della seconda, essendo condizionata da particolari necessità storiche. Inoltre, al di là della legge, si situa la propaganda.

Sorge qui una prima questione fondamentale legata alla semantica dei termini, che risponde in parte alla domanda precedente.

Quando si parla, a livello divulgativo, di occidente liberal-democratico, si prescinde per ragioni tecniche e pratiche dalla complessità che l’argomento comporta. Analizzando il mutamento dei contenuti, che avviene dal riferimento teorico alla propaganda, notiamo una decostruzione semantica funzionale allo scopo che appiattisce ogni possibile elemento di discussione. Cosi, per esempio, la cultura mediatica ha dimenticato quanti problemi teorici sussistano nel concepire insieme l’uguaglianza e la libertà. Hobbes,  Locke e Rousseau, concepiscono la stipulazione del  contratto sociale in modo differente, a seconda di quali libertà sia possibile alienare all’individuo( Hobbes e Locke) e sul  modo in cui debba avvenire questa alienazione( Rousseau). Alla base di tali riflessioni vi sono poi differenti visioni antropologiche, che si esprimono nella diversa concezione dello stato di natura. Anche questo soggetto razionale protagonista dell’occidente ha, infatti, un retroscena teorico decisamente controverso[10]. Basti pensare al dibattito sul sentimento morale[11], alla formulazione kantiana del dovere, e successivamente alla riflessione di  J.S.Mill. Uno degli effetti più rilevanti del processo decostruttivo è rappresentato dal pressoché totale oblio di un semplice fatto; la pena di morte è stata superata dalla moderna filosofia del diritto, in modo compiuto, già nel settecento: Quale percentuale in un campione più amplio e vario possibile di cittadini europei e americani conosce l’opera di Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene[12], capolavoro dell’Illuminismo europeo ed, in particolare, italiano?  Essa fa parte della stessa tradizione invocata dalla nota retorica di chi difende oggi  la libertà e la democrazia, innalzando, come abbiamo visto, la forca di Saddam a simbolo di giustizia. Beccaria argomenta proprio a partire dalla dottrina di Locke sul contratto sociale, lo stesso Locke che ha teorizzato niente meno che la moderna concezione della proprietà privata. Un altro elemento che sfugge sempre più alla divulgazione mediatica, è lo stretto rapporto che lega il pensiero liberal-democratico ottocentesco con lo sviluppo dei totalitarismi. Essi non sono, infatti, mere parentesi occasionali, errori di un sistema che è comunque il migliore possibile; la storia mostra come la crisi dei regimi democratici prima e dopo il grande conflitto del 1915-18, sia una delle cause principali della nascita dei movimenti nazionalisti. Gli ultimi decenni dell’ottocento hanno visto un’evidente crisi di mercato che ha alimentato, da un lato, le spinte imperialiste delle potenze europee, dall’altro, insieme ad altri fattori, la costituzione politica del pensiero marxista, con le tre internazionali comuniste. Le grandi ideologie del ‘900 trovano quindi origine nell’insufficienza del modello liberal-capitalista, ma dipendono, in modo innegabile, dai grandi cambiamenti portati dallo sviluppo industriale e sociale del secolo precedente, fondato sul liberalismo politico e sul liberismo economico. Non dimentichiamo la portata mondiale  della crisi americana del 1929, che spianò indirettamente la strada al nazionalsocialismo dando un colpo mortale alla fragile repubblica di Weimar. Ma ancora di più bisogna ricordare l’incapacità delle formazione liberali di fronteggiare autonomamente la minaccia comunista; elemento che spinse queste forze politiche ad appoggiare il fascismo in Italia e il franchismo in Spagna, solo per citare i più noti regimi dell’epoca insieme al nazismo.

Al di là dei legami storici, è stata individuata una continuità teorica molto forte tra il diritto moderno e la sua evoluzione totalitaria. A questo proposito si sono rivolte le analisi di R. Esposito[13] che, proprio per restare sul terreno della semantica, ritiene che la politica novecentesca sia più che mai interpretabile sotto la categoria della biopolitica.

Riprendendo le riflessioni di Foucault[14], Esposito afferma che la politica moderna abbia intrapreso un percorso di graduale rovesciamento del rapporto tra vita e politica. In età antica la vita, intesa come Physis, fondava l’agire politico e il diritto, l’uomo era un animale sociale e, anche quelle crudeli pratiche spartane[15] che oggi definiremmo eugenetiche, possono essere attribuite alla necessità di conservare un ordine comunitario in qualche modo “vero” e fondato nella natura. [16] In età moderna, la riflessione sulle categorie politiche coinvolge il soggetto, il quale, a partire da Machiavelli e Hobbes,

rifiuta un ordine naturale e trascendente della politica e dell’antropologia. Nasce allora una politica caratterizzata non più dal diritto di far morire e lasciar vivere, bensì di far vivere e lasciar morire[17]. Esposito, seguendo Foucault, analizza le categorie di sovranità proprietà e libertà alla luce del loro comune obiettivo di garantire la vita alienandola e proteggendola in qualche modo dalla vita stessa. Quello moderno diviene in questo modo un potere sulla vita in senso biologico, che si porrebbe in diretta continuità con il biopotere nazista. Esso era, infatti, animato da un orizzonte politico che per la prima volta adoperava il linguaggio della biologia:

 

 

“Mentre il trascendentale del comunismo è la storia, il soggetto è la classe, il lessico  l’economia, il trascendentale del nazismo è la vita, il soggetto è la razza e il lessico è la biologia.”[18]

 

La garanzia della vita giunge al suo stadio più estremo, diventa definizione politica dell’ortodossia biologica. Proprio per questo, non si può affermare che nel nazismo sia assente un’etica medica; Bisogna, inoltre, costatare che essa, dal suo punto di vista, si considerava anche un’etica in funzione della vita[19]. Quello che qui interessa maggiormente, è il problema dell’eventuale continuità o discontinuità tra il diritto moderno e l’ideologia totalitaria. Esposito nota, in merito, un’irrisolta empasse nel lavoro di Foucault e si propone di superarla attraverso il concetto di immunitas[20]. Esso è una costante storica secondo cui, sia la moderna categoria politica della libertà, sia i principi eugenetici del nazismo, hanno l’obiettivo di immunizzare l’individuo e, di conseguenza, la vita, garantendolo da ciò che è altro da se e ne costituisce minaccia. Esposito ritiene che la libertà in senso moderno sia “libertà da qualcosa” e non “di fare qualcosa”[21]; essa vuole, innanzitutto, essere una garanzia di potere su quanto ci circonda, cosi come l’idea di moderna proprietà. Il biopotere nazista, che detta le leggi stesse de bios, estremizza e segue la stessa logica, rovesciando però i termini ontologici del problema; Si costruisce teoricamente ( dal punto di vista medico-scientifico) il modello di ciò che si deve difendere e garantire. Si perde, in tal modo, la datità della vita stessa. Questo è, per sommi capi, il punto d’arrivo della riflessione di Esposito.

Questa lunga digressione mostra come, al di là del suo scadimento semantico, l’ideologia occidentale abbia anche un potenziale distruttivo che si distende da una prospettiva storica fino ad un ambito strettamente teorico. Si è già riflettuto in termini dialettici  sull’Illuminismo, con Adorno e Horkheimer[22], e sui limiti della civiltà occidentale democratica, ad esempio con Marcuse[23]. Ma, proseguendo nell’orizzonte qui prospettato, possiamo affermare di aver trovato una prima risposta alla domanda iniziale:

Il nuovo rapporto tra l’ideologia e la massa, comporta, innanzitutto, la decostruzione

semantica di cui si è parlato. La seconda questione fondamentale legata al problema della propaganda e dei media, chiama in causa gli aspetti storici e sociali  più caratteristici del nostro secolo: lo sviluppo senza precedenti della tecnologia e la comunicazione di massa.

 

- Tecnologia, comunicazione e democrazia.

 

Per introdurci nell’argomento, chiamiamo in causa Alexis de Tocqueville, un autore dell’ottocento un po’ scomodo all’attuale ideologia liberal-democratica. Se il nichilismo di fine ‘800 ha spazzato via l’intera tradizione filosofica occidentale, il filosofo francese ha visto, già al suo tempo, le potenziali contraddizioni di un fenomeno particolare e storicamente ancora attuale: La democrazia americana. Nell’importante analisi frutto della sua lunga permanenza negli Stati Uniti della prima metà dell’ottocento, leggiamo:

 

“Non conosco un paese in cui regni, in generale, una minore indipendenza di spirito e una minore vera libertà di discussione come in America”[24]

 

Cosa determina questa critica tanto radicale? Ciò che Tocqueville ha notato, ancor prima dell’epoca della società di massa contemporanea, è il potenziale massificatore dell’istituzione democratica. In particolare, sorge qui un problema sul quale già si era concentrato il monito di Rousseau sulla dittatura della maggioranza. Ma essa non è, secondo Tocqueville, una forma di dispotismo paragonabile a quella dello stato assoluto:

 

“[…] un re ha soltanto un potere materiale, che agisce sulle azioni ma che non può toccare le volontà, mentre la maggioranza è dotata di una forza, insieme materiale e morale, che agisce sulle volontà come sulle azioni e che annienta nel tempo stesso l’azione e il desiderio di azione”.[25]

 

L’essere maggioranza, ossia l’essere gruppo, presuppone una forza morale derivante non solo dal numero, ma dalla presenza di comunicazione. Ciò vuol dire che un potere che coinvolge al suo interno un gran numero di membri deve necessariamente trasmettere, mettere in gioco e, necessariamente, far accettare la sua azione. Ecco che si spiega la successiva affermazione:

 

“Le repubbliche democratiche mettono lo spirito di corte alla portata della maggioranza e lo fanno penetrare simultaneamente in tutte le classi”[26]

 

Potremmo immaginare lo stato democratico come una grande corte reale allargata alla cittadinanza. Per mantenersi tale la democrazia non può contare solo sulla forza materiale, ma ha bisogno di comunicare e di cercare il consenso. Non è sufficiente che un ordine venga eseguito con la forza ma esso deve essere accettato:

 

“Vi è d’altronde una grande differenza fra il fare ciò che non si approva e il fingere di approvare quello che si fa: l’uno è proprio dell’uomo debole, mentre l’altro appartiene alle abitudini del servo”[27]

 

Siamo sulla stessa linea della distinzione operata da Esposito tra la “libertà da qualcosa” e la “libertà di essere qualcosa” .La “libertà da” è una libertà, innanzitutto, fisica e, comunque, in ogni caso, negativa; essa non coincide con la “libertà di” , ossia  di essere qualcosa di originale e determinato. Cosa accade in una società democratica in termini di libertà? Qual è il prezzo dell’essere “liberi da”?

Per rispondere a questo interrogativo dobbiamo attualizzare la riflessione di Tocqueville.

Abbiamo evidenziato quale sia il ruolo della comunicazione nell’ambito della democrazia: la creazione del consenso. Tuttavia, il tessuto fondamentale attraverso cui operano attualmente la comunicazione di massa e la decostruzione semantica è la tecnologia. Non è possibile pensare al liberismo economico e al liberalismo politico ottocenteschi senza la rivoluzione industriale. Non è possibile concepire il secolo dei lumi con le sue  grandi rivoluzioni senza la stampa ; la stessa invenzione che diede voce a uno sconosciuto monaco tedesco del ‘500 di nome Martin Lutero.

Tecnologia significa diffusione della cultura; il problema è di quale cultura. Una cultura e un pensiero che, comunque, precedono la tecnologia stessa. Non si vuole qui sostenere che la tecnologia sia il motore del mondo. Bisogna vedere dove conducono le strade della techne.

In Europa, l’epoca dei totalitarismi ha lasciato una pesante eredità ai partiti democratici:

la necessità del consenso di massa. Ciò in una misura decisamente inimmaginabile anche per il lungimirante Tocqueville, il quale non conosceva la catena di montaggio, la radio, la televisione, l’informatica. Conosceva però la stampa di massa,  le prime ferrovie e, se può sembrare poco,  il primo secolo della storia dove si può forse parlare di mondo globalizzato.

Attualizzare la riflessione di Tocqueville, significa associare al problema della tecnologia il concetto di sviluppo. Lo sviluppo tecnologico non è una costante della storia dell’umanità , ma una caratteristica che segue un ritmo di crescita pressoché esponenziale. L’uomo è vissuto per decine di millenni senza l’uso della scrittura, la cultura scritta si è affermata definitivamente solo circa 2500 anni fa, la stampa ha solo 500 anni, il giornale quotidiano circa 250, le ferrovie e la macchina a vapore sono del primo ‘800. Tocqueville descrive, quindi, una società, quella americana, figlia di cambiamenti epocali  che, soprattutto, coinvolgono al massimo due o tre generazioni. L’occidente attuale è invece passato per  la radio, il telegrafo e il telefono, che hanno  meno di un secolo, la televisione meno di 50, il telefono cellulare e Internet, come tecnologie mature, orientativamente 10-15. Le ultime due innovazioni in particolare, hanno coinvolto una sola generazione e sono sicuramente quelle più rilevanti e di maggior peso nella vita dell’uomo comune. Ciascuna di queste invenzioni interessa l’ambito della comunicazione; bisogna, quindi, pensare che l’ideologia è costretta a passare per le nuove strade della comunicazione aperte dalla tecnologia.

La tecnologia novecentesca ha aperto le porte del privato alla comunicazione di massa in un modo qualitativamente e quantitativamente unico nella storia. Come si diceva prima con Tocqueville, il potere deve comunicarsi tra i suoi membri perché non è di uno solo, ma ciò adesso avviene fino a raggiungere gli aspetti più intimi della vita individuale e, cosa ancora più importante, fino ad oltrepassare la soglia di attenzione del soggetto, divenendo in tal modo subliminale. Ma questo deve necessariamente avvenire, poiché ne va della natura stessa del consenso politico.

L’essere “liberi da” ha allora un prezzo molto alto. Riportiamo qui un passo di Noam Chomsky, personaggio d’opposizione, all’interno del panorama culturale americano :

 

“Quando la maggioranza “ignorante e deficiente sta insieme, può capitare che si faccia venire strane idee. Se invece si tengono gli individui isolati, non è interessante se pensano e quello che pensano. Dunque bisogna tenere la gente isolata e, nella nostra società, ciò significa incollarla alla televisione. Una strategia perfetta. Sei completamente passivo e presti a cose completamente insignificanti, che non hanno alcuna incidenza. Sei obbediente. Sei un consumatore. Compri spazzatura della quale non hai alcun bisogno. Compri un paio di scarpe da tennis da 200 dollari, perché le usa Magic Johnson. E non rompi le scatole a nessuno.”[28]

 

Può essere utile a riguardo anche l’affermazione  di Herbert Marcuse:

 

“Nei paesi supersviluppati, una parte sempre piú larga della popolazione diventa un immenso uditorio di prigionieri, catturati non da un regime totalitario ma dalle libertà dei concittadini i cui media di divertimento e di elevazione costringono l’Altro a condividere ciò che essi sentono, vedono e odorano”[29] 

 

Qualunque discorso sui media rimane incompleto se non si tiene presente che l' aspetto politico della comunicazione è indissolubilmente legato a quello economico.

Se il liberalismo ottocentesco si fondava sull’economia industriale e sull’ascesa della borghesia, l’attuale modello liberal-democratico  si basa su una sistematica comunicazione commerciale coniugata ad un'oligarchia postcapitalista atta a gestire le formazioni industriali multinazionali. Di contro, tale modello esige, da un lato, una massa in grado di assorbire ogni imput presente, ossia un mercato sempre più artefatto e modificato nei suoi bisogni dalle molteplici forme del messaggio pubblicitario, e dall’altro lato, un orizzonte in continua espansione di manovalanza a basso costo che il modello Toyota[30] ha definitivamente collocato nei paesi definiti oggi “in via di sviluppo”.

Riflettendo, le teorie marxiste sulla fine del capitalismo sono fallite proprio in virtù dell’aumento di produttività dei mezzi di produzione e per la capacità organizzativa e delle aziende di reperire in altri paesi manovalanza a basso costo. In altre parole per ragioni tecnologiche.

Al termine di queste considerazioni, si individua, dunque, una seconda risposta alla domanda fondamentale relativa agli eventi di cronaca proposti in apertura e alla relazione tra ideologia e massa: L’ideologia, come già affermato, va incontro a decostruzione semantica; ciò accade nel suo rapporto con la tecnologia della comunicazione; tecnologia della comunicazione politica ed economica.

 

-  Condizione attuale dell’ideologia.

 

Ricordando quanto detto nelle battute iniziali, il nostro obiettivo non è semplicemente quello di denunciare la copertura ideologica di interessi economici.

Non sarebbe la prima volta che venissero denunciati gli  interessi personali di Bush sul suolo iracheno, ad esempio.

Il problema è di natura culturale e può essere espresso sottolineando un aspetto della nostra società che, per quanto evidente, resta, spesso, confinato in una sorta di limbo analitico:

l’occidente dei nostri giorni è una società più che mai tecnocratica. Alla luce di quanto detto prima sull’evoluzione tecnologica,  con questa espressione non si intende semplicemente che il potere sia di chi possiede e controlla la tecnologia, bensì che essa costituisca un potere a sé, portando avanti un “lavoro  occulto” fuori da ogni parametro di controllo. Tale azione si riversa sulla comunicazione ed è in grado di modificarne qualitativamente  il contenuto, ma viene, generalmente, valutata da un punto di vista  quantitativo, ossia come possibilità di mandare un maggior numero di informazioni a più classi sociali. Tecnocrazia non è, quindi, un potere “sulla” tecnologia, ma “della” tecnologia; non è più strumento del potere ma potere a sè stante. E’ chiaro a tal punto che essa, associata al potere di natura politica ed economica, dà vita ad una comunicazione piegata ad esigenze di dominio e soggetta a decostruzione. Ma non è tutto: essa produce un ulteriore effetto, legato al più  grande cambiamento apportato dall’innovazione tecnica; lo stravolgimento della dimensione temporale[31]. Specie in relazione agli altri fattori di distorsione (decostruzione e azione politico-economica), la minimalizzazione del fattore tempo tra un imput e l’altro determina la nichilizzazione della  capacità apprensiva e riflessiva. Un solo esempio. Se in questo momento avvenisse un attentato con 30-40 morti circa a Londra, Parigi, Roma, New Yorck,  occuperebbe le prime pagine dei giornali per due settimane. Ma sul fatto che in Iraq  muoia esattamente lo stesso numero di persone un giorno si e uno no, non ci si fa quasi più caso. Attenzione : non si critica qui  la stampa o media per il fatto che siano di parte o che non siano professionali, anche perché, purtroppo, per certi versi, tali eventi non “fanno più notizia”. In modo diverso, “non ci si fa più caso” non equivale a dire non se ne parla più,  bensì significa che si è perso il valore stesso dell’evento, non si è più portati a giudicarlo, ci passa sotto gli occhi troppe volte e troppo rapidamente (ecco il fattore tempo) e ci si è, ormai, quasi “abituati”.

Proprio in quanto si parla di tecnocrazia come potere autonomo,  si  potrebbe essere portati a  immaginare  scenari di gran lunga peggiori, nel caso di un uso definitivamente consapevole del potere tecnocratico(chiaramente dipende dai fini) ; Allo stato attuale, i suoi effetti sembrano , infatti, solamente  osservati (poco e male) e avvallati in modo taciturno e interessato.

 Ritorniamo adesso al primo degli interrogativi posti nel presente lavoro. In che senso oggi l’ideologia cade in contraddizione con se stessa e non solo con la realtà empirica?

La risoluzione ONU contro il negazionismo esorta i paesi membri a prendere provvedimenti legali contro tali posizioni. Ma del fatto che, per quanto opinabili, si tratti pur sempre di opinioni culturali non solo non si fa cenno, ma si tende ad imporre una visione acritica del fatto presso l’opinione pubblica, eliminando tout court la possibilità stessa di considerare l’evento in modo più profondo (discorso molto simile a quello fatto prima con l’esempio dell’ipotetico attentato). Il nostro ministro Mastella è arrivato anche a proporre di istituire un preciso reato contro la negazione  dell’olocausto, quando invece il decreto è  stato esteso in generale alla negazione o all’apologia dei crimini contro l’umanità. Cambiando argomento, abbiamo visto come la democrazia irachena sia, simbolicamente, passata attraverso l’impiccagione di Saddam Hussein.

Tirando le somme, da un lato, la legge è chiamata a difendere un’ortodossia storica, dall’altro la pena di morte diventa un viatico per la democrazia e un simulacro di giustizia. Tutto questo dipende certamente dalla perversione della comunicazione operata per via di  ingenti interessi economici. Citiamo, ad esempio, un testo non a caso semisconosciuto, che denuncia il pesante sfruttamento economico e mediatico dell’olocausto: Norman G. Finkelstein, l'Industria dell'Olocausto[32], che si spiega già dal titolo. Ma il punto è che,  per via di tutto ciò, la cultura mediatica ha quasi cancellato la distinzione semantica tra antisemitismo e antisionismo e che, l’autore in questione potrebbe essere, a discrezione di un giudice, accusato di negazione, quanto meno “parziale”, dell’olocausto e posto sotto processo.

Il punto è che, neanche tra le argomentazioni di coloro che si sono opposti alla condanna di Saddam, si trovano rilevanti cenni all’opera del Beccaria. Ci riferiamo, ovviamente, al livello fondamentale dell’informazione quotidiana, quello che passa per telegiornali radio e giornali. Per trovare argomentazioni simili, bisognerà cercare qualche articolo sperduto, in terza pagina, o qualche raro speciale televisivo in seconda serata,  aspettando magari che si concluda la fascia protetta e che i ragazzi vadano a letto con i vari  reality e telefilm  in testa. Affermare, infatti, con molta semplicità,  l’intima contraddizione che esiste tra democrazia e pena di morte non conviene nell’ambito del  “politichese” corrente; ma  sarebbe molto più semplice da comprendere rispetto a tante dichiarazioni che i politici rilasciano nei telegiornali. Forse perché la più grande democrazia del mondo ancora contempla  la pena di morte. Ma questi sono dettagli.

Diamo nuovamente voce a Noam Chomsky:

“Il punto fondamentale, il perno fondamentale della teoria democratica in realtà è quello di cercare di impedire il funzionamento della vera democrazia”[33]

 

Nella sua analisi della propaganda americana nel ‘900 leggiamo anche:

 

“Queste tecniche furono denominate “metodi scientifici per bloccare gli scioperi” e funzionarono molto bene, mobilitando l’opinione pubblica a favore di concetti futili e vuoti come quello dell’americanismo.  Chi può essere contrario? Oppure la nostra armonia. Chi può essere contrario? Oppure, come nel caso del Golfo Persico, “bisogna sostenere le nostre truppe” Chi può essere contrario?

[….]

Si vuole creare uno slogan al quale nessuno si opporrà e che incontrerà il favore di tutti.

Nessuno sa cosa significhi. Perché non significa niente”[34]

 

Anche alla luce di quanto si è detto prima, il passo si commenta da solo. Ma in questo “non significa niente”, che conclude la citazione, c’è la possibilità di chiarificare ancor meglio la situazione attuale dell’ideologia rispetto al passato. Si è già argomentato che la presente analisi si propone di superare il problema storico tra ideologia e prassi. A tal proposito, si faccia riferimento,  per un attimo, all’epoca delle crociate. Il fenomeno è stato più volte paragonato all’”invasione” americana dell’Iraq e dell’Afganistan; tali argomentazioni, fatte in un certo modo, lasciano il tempo che trovano. Partendo dal presupposto della verità e superiorità della religione cristiana, si combatteva contro gli infedeli per diffondere la vera fede e liberare la terra santa. Difendiamo la cristianità. Chi può essere contrario? Il quesito, posto in questi termini, presenta un concetto universale, la difesa della cristianità, che a sua volta si oppone ad un suo contrario universale, ossia la non difesa della cristianità, che viene posta sul piano dell’infedeltà. Tra due proposizioni di carattere universale e qualità opposta, sussiste un rapporto di contrarietà e non di contraddizione. Le proposizioni possono essere, infatti, ambedue false. La contrarietà lascia spazio ad una terza possibilità. Nella pratica, il fallimento della crociata, non implicava la non validità dell’ideologia, poiché si era sempre combattuto, in nome di un universale, contro un’altra universalità, la fede islamica; il fatto storico “falsificava”, in una situazione secolare e contingente,  entrambe le posizioni, e non scalfiva, nella sostanza, l’ideologia cristiana. Il crociato ha combattuto e ha perso, ma le vie della provvidenza sono infinite e la sua anima è salva. Di contro, l’esportazione della democrazia, cerca una conferma storica ed empirica della stessa, nella misura in cui si pretende che essa attecchisca tra i presunti “infedeli”. Ancora all’epoca dell’imperialismo, si parlava di esportare la civiltà, in un paradigma che può essere avvicinato a quello descritto prima. Ma adesso, in termini logici, una universalità, la democrazia come valore assoluto, si scontra con una particolarità opposta , ossia il fallimento della democrazia in Iraq[35], e, in tal modo, cade in contraddizione (che è in questo diversa dalla contrarietà). Di fronte alla verità dell’enunciato particolare, l’enunciato universale opposto non può che essere falso. Mutando i termini della formalizzazione logica, questo schema potrebbe essere utilizzato anche per interpretare altri eventi della storia.

Ma è proprio attraverso la necessità della comunicazione del potere, che deve necessariamente seguire le strade della techne moderna, che questa contraddizione risulta lampante.

E nel momento in cui è lampante e passa inosservata, che distrugge la possibilità stessa della critica. Si decostruisce semanticamente l’ideologia e se ne occulta il suo potenziale distruttivo. Questo è quanto  si intendeva in apertura parlando di ideologia in contraddizione con se stessa.

La tecnica propagandistica di cui parla Chomsky, riprende lo schema logico che abbiamo attribuito alle crociate. E’ un classico esempio di artificio mediatico decostruttivo, dove chi riceve il messaggio viene posto apparentemente in una situazione contraddittoria. In realtà, l’unico contrario del messaggio “sostenete le nostre truppe” è un messaggio altrettanto universale, del tipo “non sostenete le nostre truppe”. Ciò  implica la possibilità di una posizione particolare differente che invalida entrambi gli asserti universali (che possono sempre essere entrambi falsi), ad esempio, molto semplicemente: non sostengo(io particolare) le nostre truppe in Iraq(luogo e situazione particolari, proprio perché penso che sostenerle li sia come “non sostenerle).

Tale propaganda si presta ad essere analizzata alla luce dello stesso schema logico della crociata, universalità opposta ad universalità(rapporto di contrarietà); saremmo, infatti, in una situazione simile a quella dell’appello di Papa Urabano II; ma il vero asserto dovrebbe qui essere: Sostenete le nostre truppe che pretendono di imporre la democrazia dove non è possibile? Purtroppo non si può più fare affidamento a nessuna provvidenza divina, perché si tenta di mascherare quella che è una  contraddizione  chiara e sotto gli occhi di tutti; allo stesso tempo, però,   è occultata dall’immagine, dall’istante, dalla ripetizione e dall’inarrestabile susseguirsi degli impulsi visivi e verbali. A tal punto, facciamo riferimento nuovamente a Preterossi, che, nel delineare la concezione dell’occidente di Carl Schmmit[36], dichiara caduta la nozione di guerra reciproca. Ciò comporta che, proprio per ovviare alle contraddizioni, il nemico viene dipinto con colori quasi metafisici, posto al di fuori della civiltà e innalzato a simulacro del male:

 

“Cadendo la nozione di “guerra reciproca” le cui parti si situano sullo stesso piano, si innesca quel cortocircuito globalistico tra teologia e tecnica, che costituisce il frutto velenoso del mondo unificato”[37]

 

Qui è in atto la stessa costruzione oppositiva che dell’esempio di propaganda visionato prima. L’ideologia occidentale è stata condotta in un vicolo cieco che ha reso necessarie argomentazioni quasi teologiche in termini di opposizione tra bene e male, civiltà e inciviltà; Nello scenario del mondo globalizzato è la tecnica che si serve del contenuto, delle argomentazioni e dell’ideologia. E’ questo il senso dell’espressione cortocircuito “globalistico tra teologia e tecnica”. E’ questo il significato dell’espressione “occidente tecnocratico”.

La prospettiva più allarmante va cercata, però, nel fatto che una ideologia è, come abbiamo detto, sempre presente. Il fatto che essa possa contraddirsi e rovesciarsi nel suo opposto è nella sua stessa natura problematica, come ha dimostrato, ad esempio, l’analisi di Esposito. Lo stato attuale dell’ideologia determina l’occultamento del suo potenziale negativo, nella stessa misura in cui si va assottigliando il livello della coscienza critica media.

 

- Possibilità e prospettive future per la riflessione etico-politica

 

La cultura mediatica ci ha abituato a pensare l’ideologia come uno spauracchio dispotico e mortifero; Essa, di contro, viene bollata di ideologismo bersagliata da una critica vuota, che non riesce a pensare in modo costruttivo l’orizzonte etico e politico.

Di fronte a tutto questo è necessario ricominciare a ripensare l’ideologia. Non solo in termini di critica alla cosiddetta “ideologia occidentale”, ma in termini di tradizione e di valori etici positivi, ragionati e, cosa più importante, radicalmente innovativi. Proprio il fattore “sviluppo” di cui parlavamo prima, ha messo in crisi principi etici e politici che non riescono a tenere il passo con i tempi della tecnica.

L’autore che più si è reso conto di tutto questo è Hans Jonas, che, nel suo Principio responsabilità[38], prende spunto da una disamina dello sviluppo tecnologico degli ultimi 50 anni, per delineare uno scenario completamente nuovo in cui l’uomo dispone, per la prima volta nella sua storia, della chiave della sua stessa esistenza. Uno degli ambiti in cui, in modo inequivocabile, si manifesta il capovolgimento del rapporto tra tecnica e pensiero è quello della bioetica. Attraverso la retorica della libertà, si può tranquillamente arrivare a sostenere pratiche eugenetiche non dissimili da quelle del nazismo. Jonas rovescia i termini metafisici, il rapporto tra essere e dover essere, fondando il primo sul secondo[39]. Il principio responsabilità, infatti, è, esso stesso, principio,  non, semplicemente, il principio della responsabilità. Non è un caso il testo di Jonas contenga un ampio e approfondito dialogo con l’ideologia marxista. Essa è stata, infatti, l’ultimo grande prodotto storico della tradizione occidentale rimasto in concorrenza con il liberalismo americano dei nostri giorni. La confutazione di tale ideologia lascia aperta una sfida, quella di riuscire costruire un’etica fondata sulla responsabilità ontologica dell’essere umano.

Il termine “ontologica” comporta certamente il rischio di nuove derive dottrinarie, ma,  come abbiamo visto attraverso la chiave interpretativa della biopolitica, non si può più, dopo l’esperienza nazista,  parlare di politica senza fare riferimento alla vita. Comprendendo  il difficile problema del riferimento oggettivo, per via del quale entra in crisi l’etica tradizionale, Jonas parla del neonato come oggetto ontologico originario della responsabilità:

 

“Intendo sostenere davvero che qui l’essere di un ente, sul semplice piano ontico, postula in modo immanente ed evidente un dovere degli altri; e lo postulerebbe anche se la natura non venisse in soccorso di questo dovere con la forza degli istinti e dei sentimenti, anzi, anche se non lo alleggerisse dalla parte più gravosa dei suoi compiti”[40]

 

Il neonato rivolge un “devi” (soll) all’ambiente circostante indispensabile per continuare semplicemente ad esistere; egli necessita, per sua natura, di un progetto di senso da parte dell’uomo. E’ assolutamente insufficiente come singolo ente, ma gravido di un potenziale di sviluppo e di crescita che dipende, esclusivamente, dall’azione dei suoi simili, i quali  hanno di fronte la possibilità della scelta.

Bisogna comprendere la necessità di una riflessione di carattere epocale, della stessa portata dello sviluppo tecnologico cui stiamo assistendo,  poiché, ai nostri giorni, l’intera umanità  tecnocratica è nelle condizioni del lattante dipinto da Jonas.

 

“Con ogni bambino che viene partorito, l’umanità ricomincia il suo cammino sotto il segno della mortalità; e, in tal senso, è in gioco qui anche la responsabilità per la sopravvivenza dell’umanità”[41]

Ma per garantire la possibilità di una riflessione etica oggi, bisogna difendere la possibilità  di una comunicazione positiva. Perché il dominio della techne, determina anche il dominio della comunicazione sul contenuto. E questo, paradossalmente, significa una non comunicazione. Perché libertà è, innanzitutto, un modo di essere positivo e connettivo. Il termine nelle sue due radici, quella indoeuropea, leuth o leudh e quella sanscrita frya[42], rimanda a qualcosa che ha che fare con la crescita e, soprattutto, da origine ad una doppia catena semantica, quella dell’amore in tutti i suoi significati, libet, libido, lieben, lief, love, e quella dell’amicizia, friend, freund.

 

“Il concetto di libertà, nel suo nucleo germinale, allude a una potenza connettiva che cresce e si sviluppa secondo una propria legge interna, a un’espansione, o a un dispiegamento, che accomuna i suoi membri in una dimensione condivisa”[43]

 

L’idea negativa della libertà che prevale oggi, libertà “da qualcosa”, annulla, insieme alla comunicazione tecnologica, lo spazio della trasformazione, del contatto con l’alterità e  della riflessione,  che è alla base della libertà in senso positivo.

La sfida più importante è quella di riuscire a pensare in positivo l’ideologia partendo dalla responsabilità e dalla indisponibilità della natura umana[44], elemento tanto necessario quanto tutto da ridefinire nei contenuti e nei linguaggi, da intendere come orizzonte problematico in cui si stanzia quell’inconfutabile evento che è la vita con il suo bisogno di significato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Fonte “L’Unità”, 26- 01- 2007

[2] Fonte “La Repubblica”, 25-01-2007

[3] Fonte ANSA, 5-11-2006

[4] Fonte ANSA, 30-12-2006

[5] Cfr. A.Saitta, Costituzioni e costituenti nella Francia moderna, Torino, Einaudi, pp. 66-68.

[6] Cfr. Th. Jefferson, Antologia degli scritti politici, a cura di A. Aquarone, Bologna, Il Mulino, 1961, pp. 53-54,57.

[7] Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze, La Nuova Italia, 1981, voll 1,  e G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Roma-Bari, Laterza, 2003. 

[8] G. Preterossi, L’occidente contro se stesso, Roma-Bari, Laterza, 2004. L’opera sviluppa un’analisi della crisi  diritto moderno di fronte al problema della legittimazione della politica estera americana e delle conseguenze teoriche che essa determina.

[9] Ivi, pp. 6.

[10] Cfr J.J Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini, a cura di  R. Mondolfo, Milano, Bur, 1997, pp. 99, 120-121.Rousseau prende le distanze in modo significativo dalla concezione dello stato di natura di Hobbes e di Locke, sostenendo che essi avevano proiettato l’uomo contemporaneo in un ipotetico stato originario. La posizione di Rousseau troverà una compiuta traduzione antropologica nella teoria del male radicale di Kant, che però sacrificherà a sua volta il valore morale del sentimento.

[11] Su questo punto, è rilevante, l’argomentazione di Rousseau contro Mandeville (op. cit., pp.122), che rappresenta in generale un importante punto di frizione tra l’utilitarismo inglese rappresentato ad esempio da A.Smith, e la visione non solo rousseauiana dell’autonomia del sentimento morale.

[12] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, in Grande Antologia Filosofica, Milano, Marzorati, 1968, vol. XV.(ed. originale, 1764)

[13] Cfr. R. Esposito, Bios, Biopolitica  e Filosofia, Torino, Einaudi, 2004

[14] Esposito cita in particolare M. Foucault, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978 (ed. originale, 1976)

[15] R. Esposito, cit. pp 50 -51. Sull’argomento Esposito espone anche la posizione di Platone, giustificando alcune sue affermazioni proprio attraverso l’interpretazione del contesto culturale.

[16] Ivi, pp 51.

[17] Ivi,  pp. 28. Esposito cita a sua volta M. Foucault, La volontà di sapere, Milano, Feltrinelli, 1978, p 122.

[18] Ivi, pp.117

[19] Ivi, pp.121

[20] Ivi, pp.41

[21] Riguardo alla riflessione sulla libertà Esposito riprende le posizioni di F.Nietzsche, citando in particolare Il crepuscolo degli idoli, in Opere, Milano 1964.

[22] Cfr. M. Horkheimer , Th. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino, Einaudi, 1980.(ed. originale, 1947)

[23] Cfr H. Marcuse, L’uomo ad una dimensione, Torino, Einaudi, 1967(ed. originale, 1967)

[24] A. de Tocqueville, La democrazia in America, Bur, Milano, 1992, parte I, pp. 260

[25] Ivi, pp. 263.

[26] Ivi, pp. 264

[27] Ibidem.

[28] Noam Chomsky, Il potere dei media, Firenze, Vallecchi Editore, 1994, pp. 77-78.

[29] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., pp. 253

[30] Cfr. A. De Bernardi , S. Guarracino, La conoscenza storica, Milano, Mondadori, 2003, pp. 414.

[31] Il rifermento va dalla telefonia mobile a internet, soprattutto in relazione alle chat e a quei software che consentono di telefonare via computer gratuitamente in qualsiasi parte del globo.

[32] Cfr. Norman G. Finkelstein, L’industria dell’olocausto, Milano, Rizzoli, 2002

[33] Noam Chomsky, Il potere dei media, cit. pp. 80.

 

[34] Ivi, pp 25-26

[35]Anche se qualcuno potrebbe non essere d’accordo, ci si sente di dare per scontata questa tesi, semplicemente facendo riferimento alla cronaca quotidiana relativa all’Iraq, dal momento della caduta di Saddam Hussein a oggi. Se ciò dovesse risultare poco scientifico, la si prenda come un’opinione.

[36] Preterossi fa riferimento in particolare a C.Schmmit, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europeum, Milano, Adelphi, 1991

[37] G. Preterossi, L’occidente contro se stesso, cit. pp. 26.

[38]H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’ etica per la civiltà tecnologica. Torino, Einaudi, 2002 (ed. originale. 1979)

[39] Ivi, pp. 58-62

[40] Ivi .pp. 163.

[41] Ivi .pp. 167.

[42] R.Esposito, Bios, cit., pp. 69.

[43] Ibidem.

[44] Sul problema della indisponibilità della natura umana, un'altra delle riflessioni degli ultimi anni da cui si possono prendere importantissimi spunti è quella J.Habermas , Il futuro della natura umana, i rischi di una genetica liberale, Torino, Einaudi, 2002 (ed originale 2001).

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