L’ “in quanto” ermeneutico e l’ “in quanto” apofantico

Studio sui §12-a e §12-b di

Logica. Il problema della verità di M. Heidegger

 

di Lorenzo Sieve

 

§1 Delucidazione sul carattere dell’ “in quanto”

 

Nell’articolo da me presentato nel numero scorso si è menzionato il carattere costitutivo dell’interpretazione: l’ “in quanto”. In questa sede si dovrà fornire un approfondimento della suddetta struttura e mostrare come essa si relaziona al senso.

«Ogni aver-davanti-a-sé e percepire qualcosa è in se stesso un “avere” qualcosa in quanto qualcosa. Il nostro essere orientato verso le cose e verso gli uomini si muove in questa struttura del qualcosa in quanto qualcosa; ha, in breve, la struttura dell’in quanto»[1].

Che cosa significa «questo “in quanto tale”, l’ente in quanto tale, qualcosa in quanto qualcosa, a in quanto b»[2]? L’ “in quanto” si presenta immediatamente come un rapporto: un legame che si pone tra due “qualcosa”. «Constatiamo facilmente che l’ “in quanto” significa una “relazione”, l’ “in quanto” per sé non offre niente. Rimanda a qualcosa che sta nell’ “in quanto”; e rimanda altrettanto a qualcosa d’altro, a ciò che esso è»[3]. Emergono, quindi, due dimensioni. Da un lato abbiamo la funzione dell’ “in quanto” come relazione tra due elementi (i qualcosa); per così dire la parte applicativa dell’ “in quanto”, la relazione effettiva che si interpone tra le due componenti, quelle che stanno in esso. Dall’altro lato, l’attenzione si può soffermare sull’ “in quanto”, per così dire, in se stesso; considerato per ciò che esso è. Passando ad una caratterizzazione più specifica dell’ “in quanto” si può dire «l’ “a in quanto b” […] a nella misura in cui è b»[4]. Queste formulazione sinonimica avanza una chiarificazione. “a” considerato “in quanto” “b” esprime la determinazione di “a” in forza di “b”. Ovvero l’essere di “a” è tale solamente dal momento in cui è “b”. L’essere di “a” è legato a “b”, questi deve in qualche modo essere dato. «L’ “in quanto” può dunque entrare in funzione solamente se l’ente è già dato in precedenza, e serve a rendere esplicito questo ente in quanto fatto in un modo oppure in un altro»[5]. L’ ente, “b”, è dato. In questo suo darsi esso è sempre fornito di significato, quest’ultimo va inteso come possibilità d’azione, quindi l’ente , “b”, è un utilizzabile inserito in una specifica appagatività. Si consideri ora “b” come il significato dell’ente suddetto. A partire da questa considerazione di “b” si può dire qualcosa di più anche rispetto ad “a”.

“a in quanto b” diviene ora: “a in quanto significato”. Ciò che è “in quanto significato”, è ciò che per tratteggiarsi deve emergere da un significato ovvero il senso. L’utilizzabile ha sempre un significato prestabilito di cui veniamo a conoscenza nel nostro commercio intramondano, dal momento che:

 

L’ente considerato è scoperto a partire dal per-cui della sua utilizzabilità; esso è già posto in un significato, è già significato. E questo non dev’essere inteso come se all’inizio vi fosse qualcosa privo di significato cui si incolla poi un significato, ma quel che è “dato” all’inizio […] è quel che serve per scrivere, per entrare ed uscire, per illuminare, per sedersi; vale a dire che scrivere, entrare ed uscire, sedersi e simili sono qualcosa in cui ci muoviamo sin dall’inizio: le cose che conosciamo quando ci orientiamo e che apprendiamo sono questi per-cui.[6]

 

Il nostro rapportarci all’utilizzabile, lo scoprirlo e comprenderlo, non avviene in modo, per così dire, “neutro”. «Ogni ente si svela solo sulla base di un’antecedente, anche se inconsapevole, comprensione preconcettuale di ciò che questo relativo ente è, e di come esso è»[7]. Quindi non siamo dinnanzi agli enti scevri di qualsiasi “conoscenza” preliminare; bensì ci rapportiamo ad essi con tutte le nostre esperienze culturali e personali vissute. La stessa definizione dell’ente che noi stessi sempre siamo, l’esserci, mostra in maniera esemplare la dimensione entro la quale da sempre ci troviamo: essere-nel-mondo. «Il reale è per essenza accessibile solo come ente intramondano. Ogni accesso a tale ente è fondato ontologicamente nella costituzione fondamentale dell’Esserci, nell’essere-nel-mondo»[8]. In tale radicalità dell’esistenza (in-essere) veniamo formati dalla nostra cultura di appartenenza; la quale ci fornisce una precomprensione grazie alla quale riusciamo a muoverci dentro i significati a noi familiari. Significati degli enti che sono veicolati, appunto, dalla tradizione, ma sempre passibili di una “rimessa in gioco” ermeneutica. Nel nostro commercio intramondano scopriamo e comprendiamo enti, questi si tratteggiano come utilizzabili all’interno della nostra visione con un determinato significato (il loro essere mezzo-per all’interno della totalità dell’appagatività). Quest’ultimo è il “b”, di cui si diceva precedentemente. Da esso, attraverso la comprensione, è possibile far emergere la sua disponibilità articolabile, i suoi sensi possibili, questo è l’ “a”.

Si consideri che, per quanto riguarda la struttura di “a in quanto b” vale che: «un a che-è-b è dato in precedenza; questo essere-b di a viene delineato esplicitamente nell’ “in quanto”»[9]. Ora se si legge senso al posto di “a” e significato al posto di “b” si ottiene: “un senso che-è-significato è dato in precedenza; questo essere-significato del (di) senso viene delineato esplicitamente nell’ “in quanto””. La formulazione modificata esprime quel che è stato detto sinora. Con: “un senso che-è-significato è dato in precedenza” si intende, l’ente immediatamente compreso nel suo significato specifico. Invece con: “questo essere-significato del senso viene delineato esplicitamente nell’ “in quanto””, si intende che il significato determinato, sopracitato, ha un’emersione, o, meglio, che si forma nel movimento dell’ “in quanto” che è l’articolazione.

Il “senso in quanto significato” non rappresenta ribaltare la tesi sostenuta fin dall’inizio della presente analisi; è solamente osservare il movimento di accesso, prensione ed articolazione da un’altra prospettiva: quella del significato specifico. Se sinora ci si è mossi a considerare il senso come matrice della significatività, l’atteggiamento qui proposto ripercorre la china nel verso opposto: dal significato si risale al senso, inteso come orizzonte entro il quale le possibilità articolabili degli enti sono esibite. La relazione tra senso e significato è propriamente quella della circolarità ermeneutica. Il significato si determina a partire da un orizzonte di senso il quale esibisce le possibilità degli enti. L’orizzonte di senso invece è, per così dire, occasionato dall’incontro con l’ente, il quale ha il suo significato e così viene compreso.

 

 

§2 L’ “in quanto” ermeneutico come comprensione prestrutturale: le possibilità articolabili entro l’orizzonte di senso

 

La struttura del “qualcosa in quanto qualcosa” necessita di ulteriori chiarificazioni poiché se ci si limita a determinare questa struttura «dell’ “in quanto” nel senso di una relazione, viene livellato l’intero fenomeno»[10] e così facendo «viene omessa la dimensione nella quale la relazione in questione può essere ciò che è»[11]. Il sito proprio dell’ “in quanto” è lo spazio pre-predicativo. Questa dimensione corrisponde all’essere aperto pre-logico del senso: in tale sito il senso affonda le sue radici dove la comprensione tratteggia la disponibilità degli enti. Questo “in quanto” è «l’ “in quanto” originario proprio dell’interpretazione ambientale comprendente»[12]. Esso è definito da Heidegger: «“in quanto” ermeneutico-esistenziale»[13]. «L’ “in quanto” ermeneutico si colloca su quel terreno pre-logico, antepredicativo che è il mondo nella sua rete di significati e correlativi comportamenti possibili, anzi è la condizione di manifestatività del mondo»[14].

Il commercio intramondano, il rapportarsi all’utilizzabile si configura come un afferrarne l’uso, ovvero comprendere il suo significato. «Nell’aver-a-che-fare con qualcosa non compio intorno alla cosa nessuna enunciazione tematicamente predicativa»[15]. In forza di questo contatto primario con l’ente, esclusivamente di tipo pragmatico, l’ “in quanto” ermeneutico non può che situarsi in una dimensione antepredicativa, che non ha a che fare con una considerazione tematico-assertoria intorno all’utilizzabile. La matita non è caratterizzata come lunga o corta, come rossa o blu, ma semplicemente nel suo significato ordinario, quello di essere un mezzo per scrivere, compreso nel suo specifico come, ossia nel suo essere afferrato nel modo in cui si dà alla visione dell’esserci.

 

Questo “come” che accompagna ogni rapporto all’ente è il fondamento dell’ “in-quanto ermeneutico”: esso è l’elemento strutturale della manifestatività dell’ente, ciò che lo manifesta in-quanto tale, co-includendo nella manifestazione dell’ente la specifica modalità posizionale che gli è correlativa, cioè il suo specifico modo d’essere.[16]

 

Ciononostante il movimento dell’ “in quanto” può essere comunque rintracciato in una determinazione assertoria, la matita è rossa, ma «allora bisogna capire che questo “in quanto” non è primariamente quello della predicazione come predicazione, giacchè esso precede la predicazione, tanto da renderne possibile la struttura»[17].

All’interno della visione ambientale gli utilizzabili si danno all’esserci nelle loro vicendevoli implicazioni; difatti «io preso strutturalmente, non accedo direttamente alla cosa schiettamente presa, ma […] la colgo essendo già, per così dire, sin dall’inizio in rapporto con essa, […] la comprendo in base a ciò cui essa serve»[18]. Così l’ente, scoperto e compreso, ha la struttura del “mezzo per”. L’utilizzabile è inserito all’interno dell’opera come anello della rimandatività funzionale. Con la scoperta dell’utilizzabile è sempre con-scoperto il suo “per”, il suo “rimando a”; quindi «io sono sempre, nel cogliere e nel comprendere, già oltre rispetto a quel che in un senso estremo è dato direttamente, io sono sempre già oltre nella comprensione di ciò per cui (in quanto che cosa) viene preso quel che è dato e incontrato»[19]. Tale essere “oltre” nella comprensione è il carattere di appropriazione della rimandatività degli utilizzabili.

Non è possibile, in questo rapporto, soffermarsi sull’utilizzabile, dal momento che sono già sempre “oltre” nella comprensione; proprio perché nel rapportarmi al singolo utilizzabile scopro contemporaneamente il suo contesto di appagatività[20]. «Poiché il mio essere è fatto in modo che io sia sempre avanti, devo, per cogliere qualcosa che mi viene incontro, retrocedere da questo essere-avanti a quel che mi viene incontro»[21]. Allo svilupparsi della comprensione nel suo essere “già oltre” va contrapposto un movimento contrario, un retrocedere, che permetta di soffermare l’attenzione sull’utilizzabile.

 

Questo trattenersi è il trattenersi nell’in-quanto-che-cosa l’oggetto incontrato viene preso, e nel retrocedere da ciò in base a cui comprendo, ossia dal per-cui; questo retrocedere è proprio quel che mi mette in rapporto con quel che mi viene incontro, ossia che me lo rende accessibile in quanto porta, in quanto gesso.[22]

 

L’utilizzabile sul quale mi trattengo - in questo movimento di avanzamento e retrocessione - è compreso effettivamente nel suo essere qualcosa in quanto qualcosa. Questo processo dell’«essere avanti-a-sé che retrocede»[23] è ciò che effettivamente pone la relazione tra l’esserci e l’utilizzabile e rende quest’ultimo accessibile in quanto quello specifico utilizzabile che è. La comprensione dell’utilizzabile, il suo essere considerato “in quanto” se stesso, è secondaria alla scoperta della rimandatività funzionale. L’incedere della visione, e il suo essere “già oltre”, porta all’appropriazione della rimandatività degli utilizzabili (la matita che è per il foglio, il foglio che è per la tesi, etc.). L’appropriazione dell’utilizzabile, inserito all’interno di questa catena avviene, per così dire, secondariamente. Il carattere del retrocedere che è appartenente all’ “in quanto” ermeneutico, apre alla comprensione dell’utilizzabile nel suo “in quanto” (la matita è compresa nel suo essere mezzo per scrivere sul foglio), al suo specifico significato. Difatti è «solo a partire dal per-cui e dall’in-quanto-che-cosa la cosa incontrata è utilizzabile, solo a partire da questo per-cui, presso il quale già sempre mi trovo, ritorno a quel che mi è venuto incontro»[24].

L’atteggiamento tenuto dall’ “in quanto” ermeneutico in questa sede è descrivibile come: «l’essere-avanti-a-sé che retrocede verso qualcosa e nel retrocedere mette in rapporto»[25]. Si è detto che tale movimento porta alla prensione del significato dell’utilizzabile, nel suo essere aperto alla comprensione della struttura del “qualcosa in quanto qualcosa”. Di fatti «l’in-quanto è ermeneutico poiché costituisce l’ente come un significato che è in una relazione di senso con noi»[26]. Tale processo dell’ “in quanto” è definito: «significare di qualcosa»[27]. Il “significare di qualcosa” può essere detto anche in altro modo: «Ciò da cui proviene il significato dev’essere condotto al che cosa della significazione e collegato con esso»[28]. “Ciò da cui proviene il significato” fa riferimento all’orizzonte di senso, come a ciò che è matrice dell’articolabilità, ovvero a ciò che è origine del processo che mette capo ad una determinazione di significato; il “che cosa della significazione” richiama all’utilizzabile sul quale ci si trattiene nel movimento di retrocessione. Ora il rapporto che si pone tra i due è precisamente il movimento di interpretazione che determina una possibilità dell’ente. L’ “in quanto ermeneutico” apre alla comprensione del significato, mettendo in relazione la comprensione all’utilizzabile, rendendo possibile il movimento di prensione ed articolazione della circolarità ermeneutica. «Nella comprensione primaria dell’aver-a-che-fare-con, quel che è compreso o significato è aperto al rapporto. In questo modo, alla comprensione stessa è data la possibilità di prendere per sé e di conservare il rapporto, il “risultato”, per così dire; il risultato del significare è sempre un significato»[29].

Il processo di articolazione è un processo di significazione dal momento che l’esserci nel suo essere aperto al compreso e retrocesso ad esso si appropria del significato ed ha la possibilità di rifoggiarlo: «nel significare, l’esserci è in rapporto con il suo mondo; questo rapporto stesso è lo scoprimento dell’appagatività di volta in volta corrispondente, in cui è presente l’ente in quanto ente»[30]. L’ “in quanto” ermeneutico gioca quindi un ruolo centrale all’interno del processo di comprensione ed articolazione, la sua struttura è «la fondamentale struttura ermeneutica dell’essere dell’ente che noi chiamiamo esserci (la vita umana)»[31]. Tale struttura è quella propria della comprensione, la quale apre agli intramondani. «L’ “in quanto” ha la funzione dello scoprire qualcosa, dello scoprire a partire da qualcosa, dello scoprire qualcosa in quanto, ossia in quanto questa cosa, ha cioè la struttura della comprensione in generale»[32]. L’ “in quanto” ermeneutico nel suo scoprire apre la comprensione come appropriazione dell’utilizzabile nel suo significato. Ovvero: l’ “in quanto” ermeneutico scopre una matita (“qualcosa”), tale utilizzabile è scoperto a partire dall’opera in cui è inserito (“lo scoprire a partire da qualcosa”); la matita è scoperta nel suo significato di essere un mezzo per scrivere (“lo scoprire qualcosa in quanto, ossia in quanto questa cosa”). L’ “in quanto” ermeneutico avviene all’interno della circolarità ermeneutica. Nell’affaccendarsi intramondano l’utilizzabile è scoperto e compreso a partire dalla struttura sopra indicata. Tale visione ambientale è una comprensione possibile degli utilizzabili; l’ “in quanto” ermeneutico schiude al plesso possibile delle articolabilità (interpretazioni possibili) dove la visione ambientale preveggente determina una ramificazione interpretativa (l’interpretazione). L’operazione svolta dall’ “in quanto” ermeneutico è il disporre la visione comprendente delle articolabilità possibili. In tale sito si collocano i caratteri della pre-disponibilità, della pre-visione e della pre-cognizione propri dell’interpretazione. In forza di ciò questo spazio aperto dall’ “in-quanto” ermeneutico è tematizzabile come la pre-strutturazione del senso. In questa sede rientrano le tre accezioni di senso sin qui trattate (accesso, disponibilità ed orientamento). Da un lato il senso come scoperta sensibile dell’utilizzabile (“lo scoprire qualcosa”), dall’altro lato il senso come disponibilità ovvero il “colpo d’occhio” sull’opera, la comprensione dell’utilizzabile nella sua rimandatività di essere mezzo-per e il tracciarsi dell’orizzonte entro il quale le possibili articolazioni si collocano (“lo scoprire a partire da qualcosa”) e, in ultima istanza, la prensione del significato dell’utilizzabile (dello scoprire qualcosa in quanto, ossia in quanto questa cosa”).

 

 

§3 L’ “in quanto” apofantico: la determinazione predicativa dell’articolazione

 

Precedentemente si è parlato del fatto che la struttura dell’ “in quanto” è rintracciabile nel luogo della predicazione[33], ma tale struttura che in esso si può trovare non è quella dell’ “in quanto” ermeneutico, la quale nella predicazione è «stata confinata nell’uniformità piatta di ciò che è solo semplice-presenza»[34] ed è ora definibile come “in quanto” apofantico. In questa parte dell’analisi si vedrà come queste due forme di “in quanto” si relazionino l’una all’altra: come nell’ “in quanto apofantico” avvenga una modificazione dell’ “in quanto ermeneutico”, inteso come momento prestrutturale dell’articolarsi del senso. «Poiché l’asserzione (il “giudizio”) è fondata nella comprensione e costituisce una forma derivata di attuazione dell’interpretazione, anch’essa “ha” un senso. Ma non si può definire il senso come ciò che nasce “in” un giudizio in seguito al suo pronunciamento»[35]. Il senso dell’asserzione dev’essere dunque considerato come un senso derivato, o meglio, come ultimo momento del processo di comprensione ed articolazione. Per far emergere il carattere dell’ “in quanto” apofantico si deve muovere da un’analisi dell’asserzione[36]. Heidegger attribuisce all’asserzione tre significati «in modo da definire, nella loro unità, l’intera struttura dell’asserzione»[37].

«1) Asserzione significa, in primo luogo, manifestazione. Teniamo così fermo il senso originario di λόγος come αjπόφανσις: far sì che l’ente si mostri da se stesso»[38]. In questa accezione l’asserzione è assunta come manifestatività dell’ente, questi deve mostrarsi. La manifestazione interessa l’ente stesso nel suo essere qui ed ora. L’asserzione: “la matita è troppo corta”, fa sì che la matita si esibisca nel suo “essere troppo corta”, così che essa si mostri nella sua semplice-presenza.

«2) Asserzione significa anche predicazione. Di un “soggetto” è “asserito” un “predicato”, quello è determinato per mezzo di questo»[39]. L’asserzione: “la matita è troppo corta”, qualifica la matita-soggetto, il suo essere “troppo corta” dice qualcosa sul suo stato, specificando il soggetto in questione: è questa matita qui ad essere “troppo corta”, non un’altra matita in generale. “La matita” nel suo mostrarsi è asserita nel suo “essere troppo corta”. «Ogni predicazione è ciò che è solo in quanto manifestazione. Il secondo significato di asserzione ha il suo fondamento nel primo»[40]. Affinchè si possa dire qualcosa sul soggetto (l’essere troppo corta della matita) tale soggetto dev’essere dato, ovvero deve rendersi manifesto.

«3) Asserzione significa comunicazione, espressione»[41]. Quest’ultima accezione è in riferimento ai significati precedenti di asserzione. «Essa è un far-sì-che-si-veda-assieme ciò che si è manifestato nel modo del determinare»[42]. La comunicazione è propriamente il porre un altro esserci nella condizione di compartecipare alla manifestazione e determinazione dell’ente. Ovvero nel far constatare a qualcuno che la matita è troppo corta. Tale comunicazione è anche possibile nell’assenza diretta dell’ente, dal momento che «l’asserito può essere “ri-ferito”»[43].

I tre significati di asserzione sopra proposti possono venir riassunti così: «l’asserzione è una manifestazione che determina e comunica»[44].

«Il manifestare proprio dell’asserzione si attua sul fondamento di ciò che nella comprensione è già aperto»[45]. Affinchè l’ente si mostri è necessario che esso sia preliminarmente scoperto, ovvero compreso: che si acceda ad esso. Difatti «l’enunciazione come lasciar-vedere dichiarativo è possibile solo in base a un essere-già-presso quel che dev’essere dichiarato, e in modo tale che quel che dev’essere dichiarato sia in un certo modo aperto al rapporto»[46]. L’essere-già-presso è per l’appunto l’essere aperto all’ente e scoprire quest’ultimo in modo tale che esso sia manifestabile, così facendo nel comprenderlo è possibile sviluppare un rapporto con esso. Il determinarsi dell’ente avviene sul fondamento della componente orientativa dell’interpretazione (pre-visione) la quale si sviluppa nella direzionalità del senso dell’interpretazione che predilige, a partire da una totalità compresa indifferenziatamente, una serie di articolazioni seguendo una traiettoria tracciata. L’articolazione, in questa sede, diviene determinazione la quale porta alla luce specifiche caratteristiche dell’ente. Infatti «l’asserzione abbisogna di una pre-visione in cui il predicato che fungerà da attributo, sia per così dire, sciolto dalla inesplicitezza che lo tiene chiuso nell’ente stesso»[47]. «Il lasciar-vedere dichiarativo si muove, qualunque struttura particolare esso possa avere come predicazione, nell’avere comprendente dell’intorno-a-che. Questo avere comprendente, l’orientarsi che sta alla base di ciò intorno a cui deve vertere il discorso, ha la struttura dell’in-quanto»[48]. Il manifestarsi dell’ente e la sua determinazione si muovono entro la dimensione dell’intorno-a-che la quale possiede la struttura dell’ “in quanto”. L’intorno-a-che è possibile solo all’interno dell’operazione svolta dall’ “in quanto” ermeneutico; esso avendo il carattere della comprensione rende possibile l’appropriazione dell’ente. Quindi solo dopo tale appropriazione è possibile l’asserzione che verte a tematizzare la “cosa”. «Nella realizzazione di un’enunciazione nella forma della predicazione, ossia nel senso dell’enunciazione categorica, l’ “in quanto” primariamente comprendente si porta al livello della pura e semplice determinazione della cosa»[49]. L’ “in quanto” presente nella forma della asserzione, appunto quello proprio dell’intorno-a-cui, l’ “in quanto” apofantico, è la «struttura del mero lasciar vedere che determina la semplice presenza»[50]. Esso, che rappresenta la struttura propria dell’asserzione è caratterizzato «per il suo concentrare l’attenzione sull’ente, nel tentativo di coglierne delle determinazioni che lo identificano»[51].

Nel nostro commercio intramondano, nell’avere-a-che-fare-con, scopriamo e comprendiamo gli enti nel loro essere mezzo-per, nel loro in-vista-di-cui; tale visione degli utilizzabili fa si che essi siano colti all’interno dell’opera, nelle maglie della rimandatività funzionale. Tale visione è appunto quella che si ha degli utilizzabili. «In questo aver-a-che-fare, il per cui da cui proviene la comprensione, nel senso dell’ “in quanto che cosa”, non è mai né tematicamente raggiunto né tematicamente pensato»[52]. Ovvero l’utilizzabile, nella visione comprendente, non è isolato dal suo rimandare per essere determinato, ma sempre collocato all’interno della rimandatività. L’appropriazione dell’utilizzabile, inserito all’interno di questa catena avviene grazie al carattere del retrocedere che è appartenente all’ “in quanto” ermeneutico, esso apre alla comprensione dell’utilizzabile nel suo “in quanto”, al suo significato, il suo con-che.

 

Quando il con-che di un semplice aver-a-che-fare è tale da produrre un’enunciazione, esso diventa un intorno-a-che. La tematizzazione che risiede nell’intorno-a-che dapprima non modifica nulla nel con-che, non modifica nulla nella sua comprensibilità; lo si incontra come ciò che è già stato anticipatamente compreso, nella struttura dell’ “in quanto” primario.[53]

 

L’ “in quanto” apofantico scopre, nella forma dell’intorno-a-che, qualcosa che è già stato scoperto e compreso. Si assiste quindi ad una scoperta ulteriore, dal momento che l’ente è già stato scoperto dalla comprensione nel suo “in quanto” ermeneutico per essere ora riscoperto ed esibito nel suo essere semplicemente-presente determinato dalle sue proprietà; in forza del fatto che «l’enunciazione è un aver-a-che-fare comprendente la cui cura è lo scoprire»[54]. L’asserzione ha quindi il compito di manifestare ed esibire l’ente; l’ “in quanto” apofantico si muove nell’ intorno-a-che, «in altri termini, l’enunciare in cui ora si pone il prendersi-cura procura in quanto tale puramente l’αjπόφαίνεσθαι, lo scoprire»[55]. Tale scoprire dell’asserzione non avviene sul terreno della rimandatività compresa, l’utilizzabile non è compreso nel suo essere mezzo-per, nel suo per-cui (qualcosa in quanto qualcosa ermeneutico). L’utilizzabile è “sganciato” dal suo riferirsi a qualcosa, è considerato nel suo essere presente, a partire da se stesso: «ora l’in-quanto-che-cosa-con non è raggiunto a partire dal per-cui di una effettuazione, ma a partire da ciò intorno a cui si realizza l’enunciazione»[56]. L’utilizzabile diviene ente, e nel suo essere presente viene scoperto ed esibito.

Nella dimensione dell’intorno-a-che, l’ente viene considerato tematicamente, esso, scoperto ed esibito, viene caratterizzato da come esso è nel suo manifestarsi. Ad esempio nell’asserzione: “la matita è rossa”, si ha che nello scoprire la matita essa viene caratterizzata dal fatto di essere rossa. L’ente è quindi determinato dal suo avere specifiche proprietà (secondo significato di asserzione). In questo significato di asserzione rientra la struttura dell’ “in quanto” apofantico: Qualcosa, la matita, è considerata, nel suo essere matita-rossa (in quanto qualcosa). Tale considerazione è appunto una tematizzazione dell’ente: esso è oggetto a cui si attribuiscono dei predicati. L’ente è interpellato nel suo essere semplicemente presente. L’ “in quanto” apofantico si muove sul terreno della semplice presenza: l’utilizzabile, divenuto ente, è considerato nella sua semplice presenza a partire da se stesso e culminante in se stesso (Vorhandenheit), omettendo la dimensione del per-cui della comprensione usante-manipolante (Zuhandenheit). «L’aver-a-che-fare con qualcosa si è ora, in quanto enunciazione, ritirato dall’effettuazione primaria, ossia, per esempio, dallo scrivere»[57]. In tale “ritiro” dell’aver-a-che-fare con qualcosa si assiste ad un occultamento dell’utilizzabile, difatti «mediante questo modo di vedere e per esso, l’utilizzabile è velato come utilizzabile»[58]. L’utilizzabile occultato assume i tratti dell’ente semplicemente presente in un certo modo e con certe caratteristiche. Ed è in questa modalità che l’ente viene scoperto ed esibito nell’asserzione.

Ora dopo che sono state delucidate le caratteristiche dell’asserzione, e del rispettivo “in quanto” apofantico, è possibile accostare ad essa la struttura dell’ “in quanto ermeneutico”. All’interno dell’ “in quanto” apofantico si è assistito ad una modificazione della struttura dell’ “in quanto” della comprensione primaria:

 

L’ “in quanto”, nella sua funzione di appropriazione del compreso, non arriva più a cogliere una totalità di appagatività. Esso è tagliato fuori dalle sue possibilità di articolazione dei rapporti di rimando proprio della significatività costitutiva del mondo ambiente. L’ “in quanto” è confinato nell’uniformità piatta di ciò che è solo semplice-presenza.[59]

 

L’ “in quanto” ermeneutico dallo scoprire l’utilizzabile - a partire dalla rimandatività funzionale dell’opera - nel suo significato (con-che), passa nell’asserzione a riscoprire l’utilizzabile, nel suo essere semplicemente presente, sganciato dalla rimandatività e tematizzato secondo la struttura dell’intorno-a-che. Tale ente così scoperto si caratterizza tramite la modalità del suo essere semplicemente presente qui ed ora. L’ente viene determinato dalle sue proprietà, le sue caratteristiche anch’esse semplicemente presenti. «Questo determinare in quanto dichiarazione è un modo dello scoprire e ha quindi necessariamente la struttura dell’in-quanto. Nella misura in cui è un modo, l’originaria struttura ermeneutica dell’in-quanto è modificata»[60]. Nell’ “in quanto” ermeneutico l’utilizzabile è compreso nel suo significato ed è risignificabile attraverso il processo di articolazione del compreso; l’ “in quanto”, in questa sede, apre alle determinazioni possibili, le quali stanno l’una all’altra come differenze di senso[61], le quali si collocano in quella dimensione ante-predicativa che è il mondo come totalità di significati disposti entro l’orizzonte di senso. La comprensione e la determinazione del significato, sotto il profilo dell’ “in quanto” apofantico, diviene invece la determinazione dell’ente tramite le sue caratteristiche presenti; tutto ciò si tratteggia come un modo possibile di cogliere e considerare l’ente, modo che trova la sua possibilità nella matrice dell’ “in quanto” ermeneutico: «questa modificazione della struttura dell’in-quanto nell’enunciazione presuppone sempre la struttura originaria dell’in-quanto, ossia la basilare comprensione di quel che nell’enunciazione e per il suo tramite viene livellato»[62].

Il senso all’interno dell’asserzione - venendo l’ “in quanto” ermeneutico livellato nella dimensione della semplice presenza - non apre più alla circolarità ermeneutica. Si assiste ad un passaggio dimensionale: dall’ante-predicativo al predicativo, dalla rimandatività utilizzabile alla semplice presenza. Cosicchè l’utilizzabile cristallizzato nel suo significato specifico (strutturato ed orientato) può solamente essere scoperto e mostrato per come si presenta, non avendo più nulla a che fare con il processo di comprensione ed articolazione.


 

 



[1] M. Heidegger, Logik. Die Frage nach der Wahrheit, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 1976; tr. it. U. M. Ugazio, Logica. Il problema della verità, Milano, U. Mursia editore, 1986, p. 97.

[2] M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt - Endlichkeit - Einsamkeit, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann Verlag, 1983; tr. it. di P. Coriando, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, Genova, Il melangolo, 1999, p. 367.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p. 368.

[5] Ibidem.

[6] M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., p. 96.

[7] Id., Phänomenologie und Theologie, in Wegmarken, F. W. von Herrmann (a cura di), Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 1976; tr. it. di F. Volpi (a cura di), Fenomenologia e teologia, in Segnavia, Milano, Adelphi, 20024, pp. 18-19.

[8] Id., Essere e tempo, cit., p. 246.

[9] Id., Concetti fondamentali della metafisica. Mondo - finitezza - solitudine, cit., p. 368.

 

[10] Ivi, p. 374.

[11] Ibidem.

[12] Id., Essere e tempo, cit., p. 195.

[13] Ibidem.

[14] G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, Roma, ARACNE editrice, 2005, p. 119.

[15] M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., p. 97.

[16] G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, cit., p. 119.

[17] M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., p. 97.

[18] Ivi, p. 98.

[19] Ibidem.

[20] Nell’aver a che fare con una matita - scoperta nel suo significato di essere mezzo per scrivere - scopro contemporaneamente il foglio su cui scrive, la gomma per cancellare ciò che si è scritto, etc..

[21] M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., p. 99. Corsivo mio.

[22] Ibidem.

[23] Ibidem.

[24] Ivi, p. 98.

[25] Ivi, p. 99.

[26] G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, cit., p. 120.

[27] M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., p. 100.

[28] Ibidem.

[29] Ivi, p. 101.

[30] Ivi, p. 100.

[31] Ivi, p. 101.

[32] Ibidem.

[33] Cfr. supra, p. 59.

[34] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 194.

[35] Ivi., p. 190.

[36] Tale procedimento di ricerca è il medesimo condotto da Heidegger all’interno del §33 di Essere e tempo.

[37] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 190.

[38] Ibidem.

[39] Ivi., pp. 190-191.

[40] Ivi., p. 191.

[41] Ibidem.

[42] Ibidem.

[43] Ibidem.

[44] Ivi., p. 192.

[45] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 193.

[46] Id., Logica. Il problema della verità, cit., p. 102.

[47] Id., Essere e tempo, cit., p. 193.

[48] Id., Logica. Il problema della verità, cit., p. 103.

[49] Ibidem.

[50] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 194.

[51] G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, cit., p. 121.

[52] M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., p. 103.

[53] Ivi., p. 104.

[54] Ibidem.

[55] Ibidem.

[56] Ibidem.

[57] Ivi., p. 105.

[58] M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 194.

[59] Ibidem.

[60] M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., p. 106. Corsivo mio.

[61] G. Chiurazzi, Teorie del giudizio, cfr., p. 121.

[62] M. Heidegger, Logica. Il problema della verità, cit., p. 107.

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