La
concezione morale di Immanuel Kant si sviluppa su un radicale dualismo metafisico ovvero su una netta distinzione tra due differenti ed
opposti ordini di realtà, uno fenomenico (sensibile) ed uno noumenico
(intelligibile). Da un lato, infatti, vi è la realtà sensibile costituita
dall’intero ordine naturale delle cose (quindi anche dal corpo e dalle sue
determinazioni) che l’uomo può conoscere attraverso le facoltà sensibili,
dall’altro lato una realtà intelligibile, che non è data attraverso i sensi, ma
solamente per mezzo di un’esperienza extrasensibile.
Questa
concezione dualistica permette a Kant di distinguere due diverse giurisdizioni,
riconoscendo un regno (mondo fenomenico) in cui vige la causalità meccanica e
necessaria e, per contro, un regno (mondo noumenico) nel quale vige una
causazione non necessaria, ma libera. Tale impostazione gli consente dunque di
trovare un “terreno” per la libertà proprio nel mondo noumenico, cioè in quella
sfera che si eleva al di sopra della realtà sensibile in cui è esclusa ogni
forma di causazione libera (libertà trascendentale). La possibilità della
libertà è dunque subordinata alla distinzione tra mondo sensibile e mondo
intelligibile e può essere intesa soltanto come libertà trascendentale, cioè come causa incondizionata (il soggetto
causante non è a sua volta effetto di una causa).
Già
nella Critica della ragion Pura Kant
ammette la possibilità della libertà, aldilà del determinismo
fenomenico, che non può essere verificata dalla ragione nel suo uso teoretico,
poiché si arresta di fronte ad un problema irrisolvibile. Nella Dialettica trascendentale - che è la
sezione della Critica della ragion pura
in cui Kant prende in esame le facoltà della ragione - si parla dell’idea di
mondo come totalità incondizionata di tutti i fenomeni e su cui si possono
sostenere affermazioni contraddittorie senza poter provare l’errore né dell’una
né dell’altra, giungendo a una serie di quattro antinomie della ragion pura. La terza di queste antinomie
consiste, infatti, nell’opposizione di una tesi, riguardo all’idea di mondo,
che afferma la libertà, ed un’antitesi che la nega: la ragione teoretica si
trova quindi di fronte ad un conflitto (tesi-antitesi) che non è in grado di
risolvere. La ragione, nella sua veste speculativa, può dunque solamente
ipotizzare l’idea di una causalità libera come logicamente possibile, cioè
pensabile senza contraddizione, ma mai obiettivarla in una conoscenza, in
quanto quest’ultima si dà soltanto di fenomeni
ma mai di cose in sé.
La soluzione che Kant dà di tale conflitto
consiste nel sostenere, sulla base del dualismo metafisico, la possibilità
reale della libertà non nel mondo fenomenico, retto dalla necessità, ma nel
mondo noumenico, cioè il regno della cosa in sé. Non essendo possibile
conoscere la libertà, che non è mai data nel fenomeno e non può essere oggetto
dei sensi, se ne può soltanto ammettere la possibilità in un regno
intelligibile.
Nella
prima Critica la libertà, pur rimanendo dunque soltanto una possibilità,
apre comunque una prospettiva che va aldilà del determinismo fenomenico. Ma la
strada verso il noumeno non può esser percorsa con gli strumenti conoscitivi
delle intuizioni pure (spazio e tempo) e categorie poiché in questo mondo gli
oggetti vengono fenomenizzati, cioè ricondotti ad una rete di connessioni
causali necessarie. Per giungere al noumeno occorre percorrere una via
alternativa, quella dell’esperienza morale.
Con la Fondazione della metafisica dei costumi
(1785) e la successiva Critica della
ragion pratica (1788), Kant risolve, infatti, la problematicità della
libertà supposta nella prima critica postulando l’esistenza oggettiva della
libertà sul piano pratico. Come egli stesso precisa già nelle prime righe della
prefazione della seconda Critica, la ragione teoretica cade
inevitabilmente in un conflitto“ se vuole pensare l’incondizionato nella serie
del collegamento causale”[1],
ovvero se intende pensare una prima causa libera nel mondo fenomenico in cui
vigono le leggi del meccanismo naturale. Ma “..la ragione pratica per conto
suo, e senza essersi messa d’accordo con la ragione speculativa, procura realtà
ad un oggetto soprasensibile della categoria della causalità, ossia della libertà.”[2].
La
questione morale è affrontata da Kant in forma differente nelle due opere anche
se entrambe approdano alla medesima soluzione. Nella Fondazione della metafisica dei costumi egli si chiede se sia
possibile una volontà buona di per sé, tale per cui la sua bontà non sia
funzionale ad un determinato obiettivo, ma sia intrinseca alla volontà stessa.
Invece, nella Critica della ragion
pratica, Kant si domanda se la ragion pura possa essere pratica, cioè se,
accanto alle funzioni conoscitive e teoretiche esercitate a priori, essa possa
anche determinare immediatamente la norma dell’agire umano. Il valore morale
contenuto nel concetto di volontà buona e di ragione pura pratica dipende dal
fatto che la volontà sia unicamente determinata dalla legge morale, escludendo
qualsiasi movente sensibile o inclinazione. Solo la pura forma della legge
morale nella sua universalità (espressione della ragion pura nel suo uso
pratico) può essere motivo fondante della volontà che si conforma pienamente
alla ragione. La legge morale giustifica la realtà oggettiva del concetto di
libertà conferendole anche il significato positivo di autodeterminazione e
autonomia. La ragion pratica permette dunque di saper di sapere che la libertà
è un oggetto reale, anche se inconoscibile, poiché sul piano speculativo rimane
un’idea della ragione.
Questa
soluzione del problema morale comporta che la volontà intrinsecamente buona
(cioè la ragione pura immediatamente pratica) sia espressione di universalità e
principio di autonomia in quanto, per essere universale, non può essere
determinata da passioni o interessi. L’unico elemento che può determinare
immediatamente la volontà senza renderla particolare, è la ragione stessa nella
sua universalità.
La legge morale è per Kant un “fatto” che
l’uomo scopre nella propria coscienza razionale: essa è universale (cioè ha
valore incondizionato per tutti gli esseri razionali), è a priori (quindi non può essere ricavata dall’esperienza) e si
presenta all’uomo sottoforma di imperativo
categorico : “tu devi!”. Poiché l’uomo è un essere razionale ma finito, la
legge pratica si presenta sempre con il carattere dell’imperatività cioè è una
regola che contiene un dovere come espressione della necessità dell’azione. Gli
imperativi categorici sono quindi i comandi della moralità e hanno il carattere
della necessità e universalità rigorosa.
”L’imperativo, oltre alla legge, contiene solo
la necessità che la massima sia conforme a questa legge, ma la legge non
contiene alcuna condizione a cui essa sia limitata, allora non resta altro che
l’universalità di una legge in generale come ciò a cui la massima dell’azione
dev’essere conforme, e solo questa conformità l’imperativo rappresenta
propriamente come necessaria“[3]
La
legge morale espressa dall’imperativo categorico non è una disposizione
soggettiva con cui decidiamo di agire ma un principio assolutamente necessario
ed universale che ci obbliga ad agire, anche quando le nostre inclinazioni o
disposizioni naturali gli sono avverse.“La legge morale è quindi, in quegli
enti, un imperativo che comanda
categoricamente, poiché la legge è incondizionata; il rapporto di una volontà
siffatta con questa legge è il rapporto di una dipendenza che è chiamata
“obbligatorietà “, che significa una costrizione
..”.[4]
Tale
imperativo assolutamente obbligante non può fondarsi su una materia particolare
come le inclinazioni o i sentimenti, sempre variabili e contingenti, poiché non
sarebbe possibile fondare leggi necessarie e valide per tutti. Per questa
esclusione di qualsiasi fine particolare, l’imperativo è puramente formale.
La
legge morale, infatti, non comanda altro se non di agire in vista di una
massima che ha un valore universale, ma non esplicita quale o quali siano
queste massime. Per questo aspetto la dottrina morale kantiana prende le
distanze da tutte le morali che invece si fondano su un principio materiale
cioè deducono la legge da un oggetto del desiderio (l’educazione, il
sentimento, la perfezione ecc): tutti i moventi soggettivi sono empirici e non
possono essere il fondamento di una morale che obbliga in modo
incondizionato.”La ragion pura deve essere pratica da sé sola, di per se
stessa, ossia deve poter determinare la volontà con la pura forma della regola
pratica, senza il presupposto di qualsiasi sentimento, quindi senza
rappresentazioni del gradevole o dello sgradevole come materia che è sempre una
condizione empirica dei principi (...). La ragione determina la volontà
immediatamente, non con la mediazione di un interposto sentimento di piacere o
dispiacere.’[5]
Solo la
convinta adesione alla legge morale permette all’uomo riconoscersi nella sua
natura di soggetto noumenico, cioè fa dell’uomo un soggetto libero, causa egli
stesso delle proprie azioni. Proprio perché la legge morale si costituisce come
fatto della ragione e si manifesta all’uomo nella propria coscienza razionale,
solo la volontà che assume la forma della legge come motivo fondante le proprie
azioni può dirsi propriamente libera ed autonoma, poiché sottomettendosi alla
propria ragione non fa altro che obbedire a sé stessa. In altri termini la vita
morale è la costituzione di una natura soprasensibile in cui la legislazione
morale prende il sopravvento sulla legislazione naturale.
La
volontà indipendente da condizionamenti sensibili e che presuppone come motivo
determinante la mera forma della legge presenta il carattere dell’autonomia,
nel senso che ha in se stessa la propria legge. “Autonomia della volontà è la
costituzione della volontà per cui essa (indipendentemente da ogni altra
costituzione degli oggetti del volere) è legge a se stessa. Il principio
dell’autonomia è dunque: non scegliere se non in modo che le massime della
propria scelta siano concepite nello stesso atto del volere, insieme, come
leggi universali.”[6]
L’autonomia della volontà esprime il senso
positivo della libertà, cioè la libertà propria di una volontà che si
autodetermina, facendo immediatamente propria la legge della ragione senza
condizionamenti da parte delle inclinazioni sensibili. La moralità non può
imporsi dall’esterno ma presuppone un essere razionale capace di
autodeterminarsi indipendentemente dagli impulsi sensibili, seguendo
esclusivamente la pura forma della razionalità, che è la razionalità universale
di cui tutti gli esseri partecipano. L’uomo trova questa forma in se stesso,
come se fosse parte della propria essenza e tuttavia le obbedisce doverosamente
e necessariamente.
Kant difende il carattere dell’autonomia
della morale dalle etiche eteronome, che si fondano su norme imposte
dall’educazione esterna o dalla società o su un sentimento morale, poiché oltre
a essere imposte esternamente al soggetto morale, esse mancano del carattere
universale di cui deve essere dotata la pura forma della legge morale. “Quando
la volontà cerca la legge che deve determinarla in un qualsiasi altro luogo che
non sia la conformità delle sue massime alla propria legislazione universale,
quindi quando essa la cerca, andando oltre se stessa, nella costituzione di un
qualche suo oggetto, ne risulta sempre eteronomia.”[7]
L’autonomia della volontà è strettamente
connessa con l’idea di libertà: in un senso negativo, infatti, la libertà
indica l’indipendenza da cause e motivi esterni, ma in senso positivo essa
implica una forma di autodeterminazione con cui la volontà, come si è visto, da
a se stessa la propria legge.
Escludendo dall’ambito etico emozioni, sentimenti e in generale
qualsiasi movente esterno alla pura razionalità, Kant approda ad un rigorismo
etico come condizione della perfetta autonomia. La presenza di una anche
minima inclinazione sensibile comporterebbe, infatti, il sorgere della
spontaneità al posto dell’imperatività della legge, della materialità in luogo
della formalità e dell’eteronomia anziché l’autonomia: verrebbero cioè meno i
caratteri fondamentali della morale. Tutto ciò conduce dunque ad una rigida
separazione tra ciò che appartiene alla sfera della sensibilità e ciò che
rientra nell’ambito del razionale. Il mondo sensibile rimane allora confinato
nel particolare e sotto la rigida necessità naturale della determinazione
fisica mentre, grazie alla ragione, l’uomo si eleva a legislatore universale e
realizza la propria autonomia (e quindi la propria libertà), conformandosi alla
forma della legge.
“L’azione compiuta in base alla volontà buona sarà quindi considerata
come l’effetto contemporaneo di due distinti ordini causali: l’uno conseguenza
di una causalità libera, come risultato della determinazione della volontà da
parte della ragione; l’altro determinato da una causalità naturale, come
effetto meccanico di una causa fenomenica, a sua volta condizionata a monte da
un’intera serie causale”[8]
Soltanto grazie a
questa impostazione dualistica, Kant riesce a mantenere la compatibilità tra
sensibilità e ragione.
”Mi occupo ora con molto fervore della filosofia kantiana. La mia decisione è irrevocabile: non la lascerò fino a che non l’abbia penetrata sino in fondo, dovesse ciò costarmi anche tre anni di lavoro.”[9] Erano questi i termini con cui Schiller, in una delle tante lettere a Korner,[10]descrive la sua “iniziazione” alla filosofia di Kant di cui, nel corso della sua riflessione, si serve per prendere coscienza delle proprie esigenze e rielaborare il proprio pensiero.[11]
In un primo tempo Schiller mutua dal pensiero kantiano la consapevolezza che l’uomo si costituisce di una doppia natura: l’uomo sensibile, che vive sotto l’impero dei propri bisogni, dei propri impulsi ed è sottoposto alla legge necessitante del mondo fenomenico, e l’uomo morale, l’uomo razionale, che nel mondo noumenico afferma la propria libertà. Nel corso della propria riflessione Schiller ritiene consapevolmente di superare il punto di vista kantiano, in forza del quale la libertà finisce con l’essere sempre monopolio del mondo noumenico, con la conseguenza di una netta scissione tra ordine della libertà e ordine della necessità, tra ordine della ragione e ordine della sensibilità. Tra sensibilità e ragione non sussiste la separazione pretesa dal rigorismo della morale di Kant, secondo cui, solo la totale repressione degli istinti e delle passioni sensibili, rende possibile il compimento del dovere.
Ciò cui Schiller mira è una rivalutazione della sensibilità, pur concordando pienamente con Kant sul fatto che il valore morale di un’azione dipenda solamente dalla sua diretta determinazione da parte della legge morale. Tuttavia, Kant, per non deviare da questo principio, svaluta eccessivamente la sfera del sensibile e considera erroneamente le inclinazioni come nemico da eliminare. Affermare che l’uomo deve essere determinato dal dovere, non significa che la volontà è buona solo se opposta alla sensibilità: se si esclude dall’uomo la sua sfera sensibile, come pretende di fare Kant, egli rimane impoverito e sminuito, privo di una parte di sé.
” Tento di affermare almeno nel campo del fenomeno e nel reale esercizio del dovere morale le pretese del senso, che nel campo della ragione pura e nella legislazione morale vengono completamente respinte”.[12] Per Schiller la perfezione morale è intesa in termini di totalità, ovvero è una complicità tra natura e spirito, per cui l’uomo veramente morale è colui che educa la propria sensibilità al fine di promuovere l’accordo con la ragione.
“Alla sua pura natura spirituale è aggiunta una natura sensibile, non per gettarla via come un peso o togliersela di dosso come un rozzo involucro, no, ma per accordarla il più intimamente possibile col suo essere superiore. La natura, già facendo di lui un essere razionale sensibile, cioè un uomo, gli impose l’obbligo di non separare quello che essa ha congiunto, di non lasciare dietro di sé la parte sensibile e di non fondare il trionfo dell’una sulla soppressione dell’altra”.[13]
La credenza dell’unità armonica tra natura e spirito conduce Schiller a modificare il punto di vista kantiano che aveva contrapposto la ragione all’istinto: l’uomo in cui si realizza l’armonia tra ragione ed istinto, e per istinto agisce moralmente, è l’anima bella. In un uomo veramente morale dovrà essere costante lo sforzo di educare la sensibilità a trovare un accordo con la legge della ragione e la condotta costantemente buona implica un’assidua educazione della sensibilità. Educare la sensibilità diventa un dovere morale fino a che questa consentirà spontaneamente con la legge della ragione.
Un aspetto essenziale del pensiero schilleriano è proprio l’idea che l’armonia di inclinazione e volontà è oggetto della volontà buona stessa cioè è dovere dell’uomo “istruire” la sensibilità fino a farle seguire spontaneamente la via della ragione. Compito dell’uomo è quello di radunare interamente la sua umanità, “l’uomo morale deve essere l’uomo naturale, un uomo che non deve separare quello che la natura ha congiunto, non deve lasciarsi alle spalle, anche nelle più pure manifestazioni della sua parte divina, la sua parte sensibile.”[14] L’anima bella, l’anima veramente morale è quindi quella che ha realizzato tale conciliazione e ha “superato” il momento dell’opposizione tra le due fazioni: la sensibilità non viene più vinta e oppressa dalla ragione ma è ad essa congiunta, è una sua alleata.
“L’armonia
fra sensibilità e razionalità è richiesta dal fatto stesso che l’uomo è unione
di sensibilità e razionalità, sì che l’ideale dell’uomo deve consistere in un
adeguato sviluppo delle sue due nature, senza che l’una sia sacrificata
all’altra”.[15]
L’uomo raggiunge la propria perfezione quando sviluppa armoniosamente entrambe
le proprie nature, quando diviene anima bella. “Si dice anima bella, quando il
sentimento morale è riuscito ad assicurarsi tutti i moti interiori dell’uomo al
punto, da poter senza timore lasciare all’affetto la guida della volontà e da
non correr mai pericolo di essere in contraddizione con le decisioni di esso.”[16] L’anima bella si configura come l’ideale di
perfezione umana cui tendere, e quando l’anima è bella si è sviluppato non solo
lo spirito, realizzando un valore morale, ma anche la sensibilità, realizzando
un valore estetico.
L’accordo spontaneo della natura con lo
spirito, realizzato dall’anima bella, prende il nome di grazia, ovvero
la bella espressione dell’anima, una bellezza non data dalla natura ma prodotta
dal soggetto morale. La grazia non s'identifica con la bellezza del corpo: un
corpo umano può essere contrassegnato dalla bellezza, per la sua armonia
architettonica, ma non è detto ch'esso si muova necessariamente con grazia;
viceversa anche un corpo disarmonico può muoversi con grazia. Essa è dunque
bellezza, ma prodotta dall'uomo, dallo spirito umano, e si rivela nei movimenti
volontari del corpo i quali sono prodotto della libertà: non c'è grazia senza
libertà. La grazia è quindi una conquista e un merito della persona integrale
poichè implica un particolare rapporto tra anima e corpo: si ha grazia quando
il corpo esprime docilmente i sentimenti dell'uomo, esegue senza opposizione o
resistenza le indicazioni della ragione. La grazia pertanto è il segno
dell’armonia tra anima e corpo, tra spirito e natura, tra ragione e istinto che
si manifesta nell'espressione verbale e gestuale. “La grazia lascia una
parvenza di spontaneità alla natura, là dove questa adempie gli ordini dello
spirito..dove invece la volontà comincia e la sensibilità la segue, là non può
dimostrare severità, ma deve usare indulgenza. Questa in poche parole è la
legge del rapporto delle due nature nell’uomo, così come si presenta nel
fenomeno.”[17]
La conciliazione tra sensibilità e ragione
viene affidata da Schiller al sentimento del bello: la bellezza, come si
è visto, è data dall’equilibrio tra sensibile e sovrasensibile, che nell’anima
bella si esprime perfettamente nella grazia. Schiller definisce il bello come libertà
nel fenomeno: bello cioè è l’oggetto autonomo, indipendente da un fine o
concetto che lo spieghi. La bellezza esclude un finalismo nell’oggetto. Il
“fondamento oggettivo del bello” trova una nitida espressione: “La bellezza non
può esserci quando la rappresentazione di un oggetto subisce la violenza della
determinazione di un concetto o della considerazione di un fine. Un’opera
d’arte o anche un’azione, non sono belle (non esprimono libertà nel sensibile)
quando obbediscono a una finalità pratica. Non c’è libertà nell’artista o
nell’uomo quando si lasciano sopraffare da fini esterni all’opera d’arte e
all’azione.”[18]
Per quel che concerne la bellezza dell’azione
morale, Schiller la definisce come autodeterminazione del sensibile:
l’azione morale è innanzitutto bella se risulta da un’azione della natura
stessa, se è spontaneamente e naturalmente morale. Per questo la bellezza
morale rappresenta il massimo della perfezione umana in quanto ha luogo solo
quando il dovere diviene natura, diviene libertà e spontaneità. L’ideale
dell’uomo è dunque quello di evitare la subordinazione di una sfera all’altra e
andare incontro alla loro conciliazione, mantenendole nella loro indipendenza e
nella loro correlatività, affermandole simultaneamente. Tuttavia ciò si
realizza raramente, l’uomo è alternativamente determinato da sensibilità e
ragione, che non sono mai compresenti nello stesso momento. Solitamente
l’umanità dell’uomo non è né armonica né bella ma sempre a rischio di ridursi
in modo unilaterale all’uno o all’altro dominio (fisico o morale). Dove trionfa
la sensibilità, la razionalità è impedita e, viceversa, dove prevale lo sforzo
della ragione la sensibilità è repressa e mortificata. Tale prospettiva appare
desolante ed è spontaneo chiedersi se vi sia la possibilità di una risoluzione,
la possibilità di una salvezza.
Schiller rinviene tale possibilità nell’arte
e nell’esperienza estetica, intesa tanto come creazione di opere d’arte quanto
come fruizione delle stesse. Nell’arte si trovano all’opera entrambe le
componenti della natura umana (razionalità e sensibilità): nell’esperienza
artistica tutte le facoltà sono parimenti coinvolte e distolte dalla loro
funzione abituale. L’arte risulta quindi una conferma alla concezione secondo
cui nell’uomo la natura sensibile e quella razionale debbano convergere.
All’origine, l’uomo è come immerso nella
sensibilità e lì deve trovare la via per elevarsi alla razionalità e alla
spiritualità: in questo processo è fondamentale, per Schiller, l’intervento
dell’arte che gli illustra la strada verso il bene e la verità. Il bello,
simbolo di bene e verità, apre all’uomo la strada verso la virtù ma la bellezza
appare solo ai sensi uniti con la ragione. La virtù non può essere raggiunta
dall’uomo con la pura razionalità, senza l’ausilio dei sensi: il primo modo di
apparire della verità è quindi la bellezza. “La bellezza, dunque, è la verità
resa sensibile e perciò l’arte è al tempo stesso primo gradino e perfezione
dell’umanità.”[19]
Grazie all’arte l’uomo non è dominato né
dalla sensibilità né dall’intelletto o dalla ragion pratica: nell’esperienza
artistica le opere d’arte non si pongono né come oggetti da conoscere né come
mezzi in vista di una fine. L’arte avvia nell’uomo un processo che permette
l’instaurarsi della bella umanità, perfetto equilibrio di tutte le facoltà,
creando una situazione in cui la sensibilità è complice della ragione, il che è
segnalato nell’esperienza estetica dalla compresenza di sensibilità e ragione
(chi crea o contempla l’opera d’arte lo fa con tutte le parti di se stesso). Lo
scopo dell’educazione estetica è di promuovere l’armonia dei due impulsi
affinché essa si prolunghi anche nello stadio morale: si tratta di abituare,
attraverso la frequentazione delle opere d’arte, i due impulsi alla convivenza
e alla collaborazione; in questo senso l’educazione estetica “educa la
sensibilità alla ragione e la ragione alla sensibilità”.
La moralità e l’estetica si intrecciano
vicendevolmente: solo attraverso la bellezza si giunge alla libertà e solo
attraverso lo stadio estetico si giunge a quello morale. “La bellezza
dell’opera d’arte, in quanto libertà nel fenomeno, diversamente dalla bellezza
dell’opera della natura, dipende dalla capacità, dell’artista, di rappresentare
oggettivamente l’oggetto che vuole rappresentare, senza lasciargli subire la
violenza del medium della rappresentazione e della sua soggettività”.[20]
Contemplando la libertà nel fenomeno, la bellezza, l’uomo può poco alla volta
educare l’inclinazione a esprimere il dovere, la sensibilità a riconciliarsi
con la spiritualità in un tutto armonico, come insegna di fatto la bellezza che
non è sottoposta ad alcuna eteronomia. L’autodeterminazione, la libertà nel
fenomeno, apre all’uomo la porta verso la libertà nel modo morale. Si delinea
allora un preciso compito della cultura: quello di garantire a ciascuno dei due
istinti i propri confini, cioè preservare la sensibilità dagli attacchi della
libertà e assicurare la personalità contro il potere delle sensazioni.
Il primo scopo è raggiunto con l'educazione
della facoltà del sentimento, il secondo con l'educazione della facoltà della
ragione. I due tipi di educazione inducono alla cooperazione tra i due istinti
e, da questa cooperazione, nasce un nuovo istinto, quello del gioco, che
è il segno della completezza umana, in cui si congiungono ed interagiscono le
esigenze naturali e la regola della ragione. L'educazione estetica è dunque
educazione alla bellezza, ossia educazione alla cooperazione armonica dei due
istinti fondamentali, alla espressione dell'istinto del gioco. E in quanto è
liberazione dal monopolio di ognuno dei due, essa è educazione alla libertà.
“L’arte
tuttavia ha una funzione morale nel senso che il suo oggetto, pur non essendo
necessariamente un modello di moralità, mette in luce la libertà e la potenza
della volontà umana rispetto alla natura sensibile, il che è la prima
condizione della moralità (…) L’arte esalta la libera volontà umana e opera
l’affrancamento della ragione dalla sensibilità.”[21]
Che cos’è dunque che distingue la posizione
schilleriana da quella di Kant?
Per quanto riguarda il valore della legge
morale e la valutazione della volontà buona, Schiller si trova in pieno accordo
con Kant. Tuttavia per Kant, l’esercizio della virtù è più che altro un ideale,
un punto d’arrivo: l’uomo che ha adempiuto con costanza il proprio dovere, ha
superato gli ostacoli opposti dalla sensibilità, è un uomo virtuoso.
In Schiller, le azioni virtuose, frutto dell’anima
bella, si conseguono, come per Kant, adempiendo il dovere ma chiamando in
gioco anche la sensibilità. La posizione kantiana è di tipo unilaterale poiché
finisce per metter in posizione altamente negativa l’inclinazione sensibile
che, per Schiller, deve diventare il braccio della ragione. Ciò a cui mira
Schiller è una rivalutazione della sensibilità, nonostante concordi pienamente
con il filosofo di Königsberg sul fatto che il valore morale di un’azione
dipenda solamente dalla sua diretta determinazione da parte della legge morale.
Per assicurare l’autonomia di questo principio, Kant svaluta la sensibilità,
escludendola dalla determinazione della volontà, e la considera in lotta e
contrasto (anziché in armonia) con la legge della ragione. La difesa della
sensibilità operata da Schiller, mira quindi a correggere l’eccessiva intolleranza
nei confronti della sensibilità tipica del rigorismo kantiano: se è il dovere
che determina l’uomo affinché questi sia virtuoso, non significa che la volontà
sia buona solo se è opposta alle inclinazioni. “Nella filosofia morale kantiana
l’idea di dovere è esposta con una durezza che fa indietreggiare spaurite tutte
le grazie e potrebbe facilmente indurre un intelletto debole a cercare la
perfezione morale sulla via di un’ascesi tetra e monastica.”[22]
Anche
la sensibilità deve rientrare nella sfera morale, pur senza determinare essa
sola le azioni umane. Per Schiller la perfezione morale è totalità, è
convergenza armonica di natura e spirito e l’uomo morale è colui che educa la
propria sensibilità affinché si accordi con la ragione. “La partecipazione
dell’inclinazione a un’azione libera non dimostra nulla per la pura conformità
di quest’azione al dovere, così credo di poter appunto da questo dedurre che la
perfezione morale dell’uomo può risultare chiara proprio solo da questa
partecipazione della sua inclinazione al suo agire morale (…) Il suo modo di
pensare morale è sicuro solo quando sgorga dalla sua umanità totale come
l’effetto unito dei due principi, quando per lui è diventato natura (…) Il
nemico che è stato soltanto schiacciato può risorgere, ma il nemico conciliato
è veramente vinto.”[23]
Ciò che conferisce originalità alla posizione
schilleriana, è l’assunto secondo cui l’uomo è per natura unione di sensibilità
e razionalità, così che l’ideale dell’uomo non è quello di sacrificare l’una
all’altra, ma semplicemente di riunire ciò che per natura esige essere
armonizzato. Tale aspetto non è in contrasto con la legge morale, ma la stessa
legge della ragione prescrive l’educazione della sensibilità. L’ideale morale
schilleriano è un ideale estetico secondo cui l’anima bella è la perfezione
morale , in cui i due principi si uniscono in perfetta armonia. Un ideale
estetico poiché più che la considerazione morale delle singole azioni egli pone
l’accento sull’educazione di tutte le facoltà umane in nome della realizzazione
della totalità dell’animo. Bella è l’anima buona, in cui la sensibilità si lega
spontaneamente alla legge morale.
Se
il concetto di libertà in Kant presuppone l’indipendenza da tutto ciò che non è
ragione nella determinazione delle azioni e veste i panni di una libertà di tipo trascendentale, cioè possibile soltanto nel mondo noumenico, in
Schiller essa si presenta invece come espressione della totalità armonica
dell’anima umana. “Realmente la libertà si trova nella natura e realmente
esiste l’unità di natura e libertà (…) La libertà è legge oggettiva del mondo
morale, così la spontaneità è legge oggettiva del mondo naturale.”[24]
E’ qui esplicitata la concezione della libertà come espressione di tutti i
principi che reggono la realtà: natura e spirito, necessità e libertà nel
mondo, riflettono la costituzione dell’uomo come essere razionale sensibile.
Non vi è un vero e proprio dualismo, poiché le parti, nonostante siano distinte
tra loro, sono finalizzate ad unirsi in armonia, a incontrarsi e compenetrarsi
sia nella realtà che nell’uomo stesso. La stessa natura si configura come
espressione sensibile della libertà.
In Kant ciò non avviene in quanto l’”accordo”
(se così si può definire) tra ragione e sensibilità si risolve tutto a scapito
della seconda: esse rimangono due sfere nettamente separate. Per Schiller,
invece, la sensibilità non è forzosamente, ma spontaneamente sottomessa alla
legge morale, e non c‘è traccia né della tirannide della ragion pratica né
dell’anarchia della sensibilità.
Tuttavia, sia Kant sia Schiller, convergono
nel mantenere una posizione idealistica riguardo all’effettivo realizzarsi
della moralità. Come per Kant solo la personalità santa, (che si configura come modello da emulare per gli uomini), è
di fatto libera dagli impulsi e può interamente derivare le proprie massime
dalla legge morale, così per Schiller l’anima
bella è considerata più un ideale che non una realtà concretamente
esistente, in quanto la moralità è quasi sempre in lotta tra passioni sensibili
e ragione.
In Schiller, l’ideale è sia quello dell’uomo
totale, e dell’umanità perfetta, sia anche l’eventualità che questo si
verifichi per via d’un educazione che sia estetica.
[1] I.Kant, Critica della ragion pratica, 1788, Prefazione
[2] Ibidem.
[3] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, 1785, Sezione II
[4] I. Kant, Critica della ragion pratica, 1788, par. VII
[5] I.Kant, Critica della ragion pratica, 1788, par. III, nota I
[6] I.Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, 1785, Sezione II
[7] Ibidem.
[8] M.Mori, Libertà, necessità, determinismo, Bologna, Il Mulino, 2001, cap. II, par. I
[9] Lettera a Korner, 1 gennaio 1792
[10] Gottfried Korner , giurista, filosofo kantiano e critico letterario, divenne intimo amico di Schiller. Egli contribuì alla sua maturazione spirituale e lo indusse a dedicarsi ad uno studio più profondo e metodico della filosofia e della storia.
Le lettere di corrispondenza tra Korner e Schiller, si trovano nella raccolta Kalliasbriefe.
[11] Schiller iniziò ad avvicinarsi alla filosofia kantiana sin dal 1787, tuttavia il periodo cosiddetto kantiano della sua riflessione va dal 1791 al 1795.
[12] F. Schiller, Grazia e dignità, 1793, in F.Schiller, Saggi estetici, (a cura di C. Baseggio), Torino, UTET, 1951.
[13] Ibidem.
[14] A. Negri,
Schiller e la morale di Kant, Lecce, Milella, 1968, p. 141
[15] L. Pareyson, Etica ed estetica in Schiller, Milano, Mursia, 1983, cap. IV, par. III
[16] F. Schiller, Grazia e dignità, 1793
[17] Ibidem.
[18] A. Negri, Schiller e la morale di Kant, Lecce, Milella, 1968, p. 289
[19] L. Pareyson, Etica ed estetica in Schiller, Milano, Mursia, 1983, cap. I, par. VI
[20] A. Negri, Schiller e la morale di Kant, Lecce, Milella, 1968, p. 296
[21] L. Pareyson, Etica ed estetica in Schiller, Milano, Mursia, 1983, cap. I, par. IX
[22] F.Schiller, Grazia e dignità, 1793
[23] Ibidem.
[24] L. Pareyson, Etica ed estetica in Schiller, Milano, Mursia, 1983, cap. III, par. IV