LA GRANDE MACCHINA SENZA OROLOGIAIO.

LA METTRIE E LA CONFUTAZIONE DEL FINALISMO

 

di D. Fusaro

 

 

 

 

Sapete perché ho ancora qualche stima per gli uomini? Perché li credo seriamente delle macchine. Se non fosse così, ne conosco pochi la cui compagnia sarebbe da stimarsi. Il materialismo è l’antidoto della misantropia. (Sistema di Epicuro)

 

 

 

 

Con Julien Offroy de La Mettrie (1709-1751) ci troviamo al cospetto di un pensatore profondamente e volutamente asistematico, per non dire antisistematico e contraddittorio: egli non ha alcun rispetto per l’esprit de systéme, spesso cade in vistose contraddizioni che lo portano a svolgere considerazioni incompatibili non solo con quelle svolte in altre opere, ma anche con quelle svolte nelle pagine successive di una stessa opera. Ciò, forse, deve essere, almeno in parte, posto in relazione con la vita stessa condotta dal nostro autore, disordinata e assai movimentata (fu costretto all’esilio, le sue opere furono bruciate), che terminò in maniera davvero incredibile se, come vuole la leggenda, egli morì in perfetto stile epicureo, in seguito a un’abbuffata di paté di fagiano al tartufo. È anche in forza di questa sua contraddittorietà (questa sì, sistematica) che non è stato ancora possibile, ad oggi, identificare con precisione quali effettivamente siano i suoi scritti[1]. Essi – o, meglio, quelli che sappiamo con certezza essere suoi – si occupano degli argomenti più disparati, dalla biologia alla filosofia, dalla medicina alla morale, dalla botanica alla meccanica. E spesso queste discipline così diverse si fondono – non sempre coerentemente – all’interno delle sue opere. Per tutti questi motivi non è certo facile occuparsi del suo pensiero, e non lo è soprattutto qualora si pretenda di farlo in maniera sistematica. È questa la ragione per cui non tenterò di percorrere questa strada ma tenterò, più modestamente, di concentrarmi su alcuni punti del suo pensiero che mi paiono particolarmente fecondi ai fini dell’analisi del problema del finalismo. Mi si scuserà, pertanto, se talvolta la mia esposizione assumerà la forma di uno slalom tra gli scritti di La Mettrie, di cui comunque cercherò di sottolineare le contraddizioni e i punti aporetici. La prima considerazione da fare è che La Mettrie non solo non scrive un’opera specificamente dedicata al tema del finalismo, ma neppure se ne occupa pervicacemente nei suoi scritti: ciò non deve però indurre a pensare che il problema non fosse sentito dall’autore, o che ad esso prestasse scarsa attenzione; come cercherò di mettere in luce, si tratta di un problema costantemente presente nell’opera di La Mettrie, a tal punto che essa potrebbe essere con diritto intesa come una riscrittura costante di quel problema. Chi definisse l’opera di La Mettrie, nel suo complesso, come un grandioso tentativo di espungere le cause finali da ogni ambito fornirebbe una definizione sicuramente riduttiva ma, ciò non di meno, fondamentalmente corretta. I quattro punti in cui vorrei articolare la mia analisi (soffermandomi particolarmente sul primo e sul terzo) sono i seguenti:

 

1)      La meccanizzazione della natura e dell’uomo;

2)      L’eliminazione di ogni dualismo;

3)      L’espunzione di ogni causa finale;

4)      L’epicureismo eterodosso di La Mettrie;

 

1) Muoviamo dalla meccanizzazione della natura e dell’uomo operata da La Mettrie. Il punto di partenza della sua indagine filosofica è la distinzione radicale, operata da Cartesio, tra le due sostanze eterogenee dell’estensione e del pensiero. Questa distinzione appare a La Mettrie problematica, per il noto motivo che non riesce a rendere efficacemente conto della relazione tra le due sostanze nell’uomo. La soluzione cartesiana della ghiandola pineale appare anche al nostro autore insoddisfacente. L’intera sua opera si configura, a questo proposito, come un tentativo di risolvere il problema dell’interazione tra le due res, e lo fa eliminando l’anima a favore del corpo. In realtà, a questa posizione egli approda gradualmente, tramite un confronto serrato con Cartesio soprattutto in due opere: la Storia naturale dell’anima (1745) e L’uomo macchina (1747). Tra le due vi è solo in parte una continuità: per molti aspetti vi è una frattura radicale. Infatti, nella Storia naturale dell’anima, La Mettrie non nega l’esistenza dell’anima (come peraltro si evince dallo stesso titolo dell’opera), ma soltanto la sua immaterialità, in opposizione a Cartesio, che sottopone a dura critica; nell’Uomo macchina, invece, estende il meccanicismo di Cartesio (che viene riabilitato e assunto nel pantheon dei sommi filosofi) anche all’uomo e, per questa via, rende assolutamente superflua l’ipotesi dell’anima. Diverse (se non opposte) quanto ai contenuti, le due opere sono tuttavia accomunate dal destino a cui vanno incontro: la Storia naturale è condannata con decreto del Parlamento di Parigi (7 luglio 1746) a essere  distrutta insieme coi Pensieri filosofici di Diderot, e sorte analoga toccherà, un anno dopo, a L’uomo macchina. Partiamo dal primo dei due scritti: in quest’opera può essere fuorviante il confronto positivo che La Mettrie fa con Aristotele (che elogia a più riprese[2] e da cui addirittura riprende la tripartizione dell’anima in vegetativa, sensitiva e razionale) e con John Locke, dal quale mutua la convinzione che le essenze siano inconoscibili e che i sensi – e non i filosofi («non saranno né Aristotele, né Platone, né Cartesio, né Malebranche che vi insegneranno che cos’è la vostra anima»[3]) – siano la «guida più sicura»[4] di cui disponga chi voglia percorrere la strada della ricerca filosofica. In realtà, tali confronti, che pure sono importanti, potrebbero essere fuorvianti e nascondere il vero obiettivo della trattazione lamettriana, che è una disamina critica della teoria cartesiana delle due sostanze. Per questo motivo, non mi pare del tutto convincente la posizione di chi sostiene che la vera differenza tra le due opere risiede nel mutamento di paradigma conoscitivo e nella transizione dal «lockismo esplicito dell’Histoire al cartesianesimo dispiegato de L’Homme machine»[5]. Penso piuttosto che la vera differenza tra i due scritti risieda nel modo diverso in cui viene trattata l’anima, configurandosi L’uomo macchina come una radicalizzazione delle posizioni della Storia naturale; del resto, non credo debba essere esagerata l’influenza di Locke[6] sulla formazione di La Mettrie, perché il suo empirismo gnoseologico, come ha sostenuto Kathleen Anne Wellman, più che come un’adesione al pensiero lockeano, deve essere inteso come «il risultato della sua investigazione nel campo della medicina»[7]. Nella Storia naturale, La Mettrie sostiene esplicitamente che l’anima esiste e che essa è un’entità materiale, come tutto ciò che esiste. Più che argomentare la propria posizione, potremmo dire che il nostro autore tagli il nodo gordiano del problema dell’interazione tra res cogitans e res extensa, liquidando la prima come frutto della fantasia di Cartesio. Per dare una parvenza di legittimità alla sua posizione, La Mettrie tenta un’argomentazione quasi sillogistica: se l’anima fosse immateriale – argomenta La Mettrie –, allora non potrebbe agire sul corpo; ma dato che essa agisce sul corpo, allora essa è necessariamente materiale[8]. L’esistenza della sola res extensa è assunta come punto di partenza indiscutibile, quasi come una necessità metodologica a cui ricorrere se non si vuole ricadere nei problemi che la dicotomia ha creato a Cartesio, «genio fatto per aprire nuove strade e per smarrirvisi»[9]. Lo stesso Spinoza, tra gli altri, aveva congedato la ghiandola pineale come «la più occulta delle qualità occulte»[10]. Seguendo la ricerca medica di Boerhaave, di cui aveva seguito le lezioni e tradotto in francese le opere, La Mettrie tenta di definire materialisticamente l’anima e di spiegarne le relazioni col corpo, addivenendo a un recupero pressoché totale della dottrina aristotelica dell’inseparabilità e della reciprocità tra l’anima e il corpo; recupero che ha indotto qualcuno a parlare, molto opportunamente, di «aristotelismo eterodosso di La Mettrie»[11]. In realtà, tale reciprocità si risolve in un circolo vizioso, tale per cui il corpo accende l’anima e questa ne diviene il principio motore[12]. Tale circolo vizioso, con le aporie che ne scaturiscono, ha indotto Aram Vartanian a sostenere che «il tentativo di La Mettrie di combinare una definizione materialistica dell’anima con nozioni e terminologia tratte dalla scolastica sfocia solo in oscurità e in un continuo compromesso»[13]. Cartesio viene attaccato da ogni angolatura, in particolare per l’innatismo e per l’idea della «bête machine»: per La Mettrie, tra uomo e animale vi è, in sintesi, una differenza soltanto quantitativa, nel senso che la massa cerebrale dell’uomo è più estesa e presente in quantità più massiccia. Questo tema, come vedremo, sarà cardinale anche nelle successive opere del nostro autore. Un altro grande limite di Cartesio consiste, per La Mettrie, nell’aver limitato la materia all’estensione che, priva di forme concrete, si riduce a passività inerte: per il nostro autore, la materia non è solo estensione, è estensione più «forza motrice», ed è per questo motivo che la materia è capace di muoversi e di sentire. La nozione fisica di forza, quella biologica di vita e infine quella filosofica (leibniziana) di dinamicità energetica si fondono insieme nel discorso sviluppato nella Storia naturale, a tal punto che, per La Mettrie, la forza è l’elemento originario della realtà. Come ha rilevato Vartanian, gli anni in cui scrive La Mettrie coincidono con la transizione epistemologica che porta al superamento dell’idea della passività della materia e all’accesso al paradigma medico-biologico[14]: la visione meccanica del mondo, tipica del Seicento e caratterizzata – come spiega Paolo Rossi – da «un sistema di materia in movimento retto da leggi [...] determinabili con precisione matematica»[15] cede il passo a una visione più attenta al problema della vita.

         Ne L’uomo macchina, di appena due anni dopo, La Mettrie compie una vera e propria «rottura epistemologica»[16], per dirla con Gaston Bachelard: continua a occuparsi dell’anima ma abbandona in toto le teorie elaborate nella Storia naturale, giungendo a negare apertamente l’esistenza di un’anima. Con un movimento opposto a quello di Leibniz, accusato di aver spiritualizzato la materia, La Mettrie intende materializzare lo spirito. A sorpresa, Cartesio viene riabilito ed è direttamente al suo meccanicismo che il nostro autore si richiama per sostenere che l’uomo è una macchina: se, nella Storia naturale, la filosofia cartesiana era liquidata come filosofia della dualità tra anima e corpo, oltre che dell’innatismo, ora è intesa come filosofia dell’automatismo animale che prefigura l’automatismo umano. Nella prospettiva di La Mettrie, Cartesio non avrebbe avuto il coraggio e la forza di portare fino alle estreme conseguenze la sua teoria dell’automatismo: la applica agli animali e alla natura ma poi, dinanzi all’uomo, retrocede e si sente in dovere di ammettere un’anima, un principio che permetta di salvare in extremis l’uomo dal precipitare nella condizione di una semplice macchina. Per Cartesio, ciascuno di noi «è una persona sola, che ha insieme un corpo e un pensiero di tal natura che il pensiero può muovere il corpo e sentire gli accidenti che gli capitano»[17] e al tempo stesso – come Cartesio si lascia inavvertitamente scappare con un paragone compromettente – «il corpo di un uomo vivo differisce da quello di un uomo morto, come un orologio o un altro automa (ossia una macchina che si muove da sé) funzionante differisce da uno rotto»[18]. E, in effetti, nel Mondo Cartesio considera l’uomo una macchina capace di muoversi da sé, lasciando intravedere la non-necessità dell’anima come principio motore. Dal canto suo, La Mettrie si propone di portare a compimento ciò che in Cartesio è abbozzato timidamente: come è stato messo in luce dagli interpreti, si passa in questo modo dall’«animale macchina» all’«uomo macchina»[19]. Seguendo Cartesio, i medici e i testi della letteratura clandestina, La Mettrie si spinge a sostenere che l’essere umano è meramente materiale e macchinale, che tutte le sue facoltà (comprese quelle superiori) si spiegano mediante la sola materia in movimento e che, di conseguenza, non esiste un’anima immortale, né un’anima mortale, né un dio: «l’anima non è dunque altro che un termine vano, di cui non possediamo alcuna idea e di cui un buon intelletto deve servirsi per nominare quella parte che pensa in noi»[20]. Nell’uomo e fuori dall’uomo esiste una sola causalità, ed è quella meccanica. L’Uomo macchina è letteralmente costellato di riferimenti meccanici e di accostamenti dell’essere umano a una macchina, in particolare a un orologio: «domandare se la materia può pensare, considerandola solo in se stessa, equivale a domandare se la materia può segnare le ore»[21]; ancora, l’organismo è «un meccanismo che monta da sé le sue molle»[22] e «il corpo non è che un orologio di cui il nuovo chilo è l’orologiaio»[23]; un orologio che è talmente perfetto da poter procedere anche quando una o più delle sue parti si guastano:

«il corpo umano è un orologio, ma immenso e costruito con tanto artificio ed abilità che se la ruota adibita a indicare i secondi si ferma quella dei minuti continua a girare e a compiere il suo corso, ed anche la ruota dei quarti d’ora continua a muoversi come pure le altre, anche quando le prime, arrugginite o disturbate da una causa qualsiasi, hanno interrotto il loro cammino»[24].

         Il costante ricorso a  metafore di tipo meccanico non impedisce, tuttavia, a La Mettrie di far valere quella che Sergio Moravia ha efficacemente etichettato come una «immagine energetica dell’essere vivente»[25]: il nostro autore, infatti, intende la natura nel suo complesso come una materia percorsa da forze sue proprie e l’uomo come un orologio a cui sia stata fornita una carica in grado di determinare il movimento degli «spiriti animali» (retaggio cartesiano) che «vanno macchinalmente ad animare i muscoli e il cuore»[26]. Come già ho avuto modo di dire, La Mettrie è un autore contraddittorio: dopo aver ridotto l’uomo a una macchina semovente, ecco che introduce, in maniera ingiustificata, un enigmatico  «principio motore»[27], una forza che è innata (benché La Mettrie si premuri di precisare che è immanente alle concrete fibre dei corpi). Malgrado la sua battaglia antimetafisica, «Monsieur Machine» – come era stato ironicamente ribattezzato dai philosophes – cade nella tentazione di postulare un ente che è a tutti gli effetti metafisico: «questo principio esiste, ed ha la propria sede nel cervello, all’origine dei nervi, mediante i quali esso esercita il proprio volere sul resto del corpo»[28]. L’eliminazione della res cogitans e la riduzione dell’uomo a una macchina non diversa (se non per la superiore complessità) dagli animali o dalle piante deve essere posta in relazione, oltre che con la filosofia elaborata dal nostro autore e con la sua attività di medico[29], con il particolare momento storico in cui è vissuto, l’epoca della manifattura che stava gradualmente avviandosi verso la trasformazione in grande industria: prendendo spunto dalla considerazione di Karl Marx, secondo cui Cartesio, nella sua definizione degli animali come macchine, «vede con gli occhi del periodo manifatturiero»[30], potremmo dire che ciò vale ancora di più per La Mettrie, che considera come macchine gli uomini stessi.

 

2) Uno dei punti principali che affiorano dall’analisi di La Mettrie sia nella Storia naturale sia (soprattutto) nell’Uomo macchina è il rifiuto radicale di ogni dualismo tra uomo e animali, tra anima e corpo, tra pensiero e materia. Nella misura in cui La Mettrie espunge la res cogitans e riconduce ogni realtà alla res extensa (intesa però come realtà energetica e vitale), egli ammette l’unitarietà del reale; ben consapevole di questa conclusione a cui porta il suo ragionamento, La Mettrie la esplicita in molti passaggi della sua opera; in particolare, nell’Uomo macchina si diceva: «concludiamo dunque arditamente che l’uomo è una macchina e che in tutto l’universo non v’è che una sola sostanza diversamente modificata»[31]. Per La Mettrie, «l’uomo non è fatto di un limo più prezioso, la natura ha impiegato una sola e medesima pasta di cui ha variato soltanto i lieviti»[32]; tutti i fenomeni naturali possiedono, sotto apparenze diverse, strutture analoghe, e «l’uomo, organizzato come gli altri animali, per quanto possieda qualche grado d’intelligenza di più, è sottomesso alle stesse leggi e deve subire la stessa sorte»[33]. Per questo motivo, non ha senso pensare che tra animali e uomini vi sia un «salto» (come crede Cartesio): vi è, piuttosto, una diretta continuità, non inferiore a quella che sussiste tra gli uomini e le piante. A quest’ultimo tema, il nostro autore dedica il suo trattato L’uomo pianta, in cui si sforza di argomentare come tra l’uomo e la pianta sussista una forte continuità e come la differenza tra i due debba essere ricercata esclusivamente nella maggiore complessità del primo. In questo senso, per La Mettrie, uomini e animali sono, se così si può dire, «piante mobili»[34]. Quello che il nostro autore fa valere è uno schema della natura vivente profondamente unitario e compatto, di cui prova a rendere ragione anche da un punto di vista biologico e, per così dire, cosmologico. In particolare, nel Sistema di Epicuro, abbozza una ingegnosa concezione panspermica della generazione, in virtù della quale gli insetti, le piante e l’uomo sarebbero nati per l’azione di germi presenti nell’universo e diffusi nell’aria. Questa concezione panspermica, da un lato, spinge La Mettrie a rigettare esplicitamente ogni nozione di fissità della specie sostenendo che la materia ha subito un cospicuo numero di metamorfosi prima che si arrivasse agli animali quali oggi li vediamo[35] e, dall’altro, lo induce ad avanzare suggestioni innegabilmente pre-evoluzionistiche che alludono espressamente a variazioni casuali nei caratteri ereditari della specie:

 

«le prime generazioni debbono essere state assai imperfette. In un caso sarà mancato l’esofago, in un altro lo stomaco. […] Come per l’arte, così anche per la natura la perfezione non è stata l’opera di un giorno»[36].

 

         Il punto fondamentale che dobbiamo tenere a mente per il problema del finalismo è che – per La Mettrie – tra uomo, animale, piante e natura nel complesso non vi è frattura, vi è continuità: con la conseguenza decisiva per cui riconoscere il meccanicismo in natura equivale a riconoscerlo universalmente.

 

3) Analizzando la graduale eliminazione dell’anima, la riduzione dell’uomo a macchina e la continuità tra i vari livelli della natura, ci siamo avvicinati, un po’ alla volta, al cuore del problema: il finalismo. Come il medico cura i corpi malati, così il filosofo deve curare gli uomini dalle false concezioni di cui sono prigionieri: tra queste false credenze che devono essere estirpate La Mettrie individua la nozione di causa finale. Nella sua concezione del mondo (e questa è una delle poche costanti che ritornano invariate in ogni sua opera) non vi è spazio per il finalismo: né per quello interno alla natura (finalismo immanente), né per quello esterno alla natura (finalismo trascendente), né tanto meno per quello dell’agire umano (finalismo morale). Nel mondo quale se lo figura La Mettrie tutto accade in forza di cause meccaniche: viene rigettata ogni concezione provvidenzialistica e finalistica della natura, e viene fermamente esclusa la possibilità di ravvisare il motivo (o l’agente) di determinati processi naturali fuori dall’ordine materiale. La natura non agisce in vista di scopi precostituiti e non è stata creata (o ordinata) da un Architetto intelligente. Quanti ricorrono alle cause finali per spiegare gli accadimenti naturali introducono nella natura un principio che le è sconosciuto:

 

«tutto ciò che i medici e i fisici hanno scritto intorno all’uso delle parti dei corpi animati mi è sempre sembrato privo di fondamento. Tutti i loro ragionamenti sulle cause finali sono così frivoli che Lucrezio deve esser stato tanto cattivo fisico quanto grande poeta per confutarli così malamente»[37].

 

         L’aspetto forse più interessante è che La Mettrie critica Lucrezio per aver confutato «debolmente» e in maniera non del tutto convincente i sostenitori delle cause finali, e poi egli stesso, poche righe dopo, li critica facendo suoi gli stessi argomenti del quarto libro del De rerum natura: in particolare – argomenta La Mettrie – «gli occhi sono stati formati così come la vista o l’udito si perdono e si riacquistano, come un certo corpo riflette il suono o la luce. Per costruire l’occhio o l’orecchio non c’è stato bisogno di maggiore artificio che per costruire un’eco»[38]. Gli organi sono nati in maniera aleatoria e lo stesso sviluppo successivo delle loro funzioni è il frutto del caso (prima viene l’organo e solo in un secondo momento si sviluppano le sue funzioni: la vista viene prima del vedere, le orecchie prima del sentire, la lingua prima del parlare, e così via); chi ricorre alle cause finali procede al contrario, ponendo il risultato al principio. Ed è esattamente quanto sosteneva Lucrezio:

 

«non son gli organi già del corpo che al fine son fatti

dei bisogni de l’uomo; son essi che, sorti per caso,

creano l’uso. Non nacque innanzi il vedere che l’occhio»[39].

 

         Lo stesso Spinoza riprende in buona parte questa critica del finalismo. Da Lucrezio, La Mettrie riprende, almeno in parte, anche la spiegazione del ricorso che gli uomini fanno alle cause finali: come è noto, per Lucrezio gli uomini applicano indebitamente al regno della natura ciò che vale per l’ambito della tecnica, nel quale l’uomo fissa prima il fine e, in seconda battuta, crea l’oggetto per realizzarlo: frecce, scudi e spade vengono creati in vista di un ben preciso scopo[40]. A differenza di quanto avviene con la tecnica, nella natura predomina l’aleatorietà, e l’uso degli organi è il frutto del caso, non di un progetto o di una provvidenza. Vi è del resto, ad avviso del nostro autore, un secondo motivo che induce gli uomini a ricorrere alle cause finali: infatti, vedendo la perfezione della natura, il suo ordine e la sua armonia, «non si è potuto evitare di attribuirle qualche fine o qualche progetto razionale. La natura è venuta dunque prima dell’arte, quest’ultima si è formata sulle sue tracce; ne è derivata come un figlio nasce dalla propria madre. E una disposizione fortuita, la quale dà le stesse prerogative che derivano da una disposizione elaborata con tutta la possibile industria, è valsa a questa madre comune un onore meritato solo dalle leggi del movimento»[41]. La Mettrie cerca di dimostrare, a suo modo, l’inesistenza della finalità nella natura, e lo fa tramite due diverse argomentazioni: in primo luogo, chiamando in causa quelli che potremmo qualificare come i cataclismi della natura o, più semplicemente, i fenomeni naturali manifestamente dannosi. Quale potrà mai essere – si domanda La Mettrie – il fine di un terremoto o di un’alluvione? Di fronte a simili eventi naturali, si dovrà riconoscere che la natura non è finalisticamente orientata oppure che essa mira a fini maligni, quali possono essere la distruzione di intere città o lo scatenarsi di epidemie. La conclusione che La Mettrie ne trae è coerente: «il sole non è stato fatto per riscaldare la terra e tutti i suoi abitanti – i quali talvolta ne vengono bruciati – più di quanto la pioggia non sia stata fatta per far crescere il grano – il quale ne viene spesso rovinato»[42]. L’esempio della pioggia e del grano, utilizzato già a suo tempo da Aristotele[43], basterebbe, di per sé, a confutare quanti si ostinano a scorgere, operanti nella natura, le cause finali. Ma la più grande confutazione del finalismo, su cui peraltro poggia quella precedente, è per il nostro autore costituita dal suo stesso sistema della natura, inteso come una grande macchina autoreferenziale e autonoma, che opera meccanicamente e non certo in vista di fini: configurandosi come un grande orologio senza orologiaio, l’intero sistema lamettriano è, in questo senso, quanto di più incompatibile possa esservi con il finalismo della natura. Ritengo che questo punto traspaia nel modo più efficace da una considerazione svolta nel Sistema di Epicuro: «avendo costruito, senza vedere, occhi che vedono, la natura ha costruito, senza pensare, una macchina che pensa»[44]. 

         La conseguenza che scaturisce dall’aver liquidato ogni dualismo è, come già accennavo, l’estensione delle leggi della natura anche all’uomo, inteso come una macchina tra le tante: lo stesso determinismo che regna in natura deve, pertanto, regnare anche nell’uomo. La Mettrie declina questo aspetto nella forma di una radicale negazione di ogni «finalismo morale». Come ogni altro ente di natura, l’uomo agisce in maniera puramente meccanica, benché si illuda di scegliere obiettivamente i fini in vista dei quali operare: dunque, pensiamo di essere onesti, buoni, coraggiosi o, ancora, di agire in vista di fini che ci prefiggiamo, quando in realtà il modo in cui agiamo «dipende dal modo in cui la nostra macchina è progettata»[45]. La causa dell’agire dell’uomo è sempre meccanica, mai finale:

 

«la causa di tutto ciò è il mio sangue, è ciò che lo condensa, lo ferma, lo scioglie e lo precipita. Allo stesso modo, sono gli spiriti filtrati dal sangue nel midollo cerebrale per esserne poi rinviati nei nervi che percorrono una strada invece di un’altra facendomi così voltare in un parco a destra piuttosto che a sinistra. Ciononostante credo di essere stato io a scegliere, e mi compiaccio della mia libertà»[46].

 

         A ben vedere, non esiste, propriamente, in La Mettrie una dottrina morale, giacché quest’ultima non è che un’estensione della sua filosofia della natura: quella che si verifica nel nostro autore è l’«assunzione di un atteggiamento descrittivo nell’esame della condotta dell’uomo»[47], un atteggiamento del tutto analogo a quello del fisico che descrive i processi che coinvolgono la natura. Questo atteggiamento puramente descrittivo, tendenzialmente esente da ricadute prescrittive, affiora chiaramente nell’Antiseneca, in cui La Mettrie dichiara programmaticamente: «io non moralizzo, non predico, non declamo: spiego»[48]. Non si tratta mai di approvare o di condannare la condotta dell’uomo (come se essa fosse orientata a un fine e ci si dovesse sforzare di raggiungerlo), ma di comprenderla nella sua origine. Nel Sistema di Epicuro, La Mettrie insiste sull’assenza di libertà dell’agire umano sostenendo che «siamo nelle mani della natura come una pendola è in quelle di un orologiaio, essa ci ha plasmato come ha voluto o meglio come ha potuto»[49]. Di qui l’assurdità di ogni prescrizione e di ogni etica:

 

«siamo trascinati da un determinismo assolutamente necessario, e non ne vogliamo essere schiavi, quanto siamo pazzi! Ma poiché siamo macchinalmente portati a realizzare il nostro bene e nasciamo con questa tendenza e disposizione invincibile, ne segue che ogni individuo nel preferirsi ad ogni altro non fa che seguire l’ordine della natura»[50].

 

         La conseguenza che deriva da questo meccanicismo radicale (e che è La Mettrie stesso a trarre con coerenza) è l’impossibilità di imputare all’uomo la responsabilità delle sue azioni: «non siamo più criminali di quanto non lo sia il Nilo quando compie le sue inondazioni e il mare quando si infuria»[51]. È interessante rilevare come ciò abbia anche risvolti in ambito giuridico, in quanto per La Mettrie la stessa punizione assicurata dalla legge, relativamente necessaria per contenere la malvagità, è assolutamente ingiusta quando si applica a individui governati da un «fatalismo assoluto»[52]. Alla luce di questi presupposti, La Mettrie può fondare la sua teoria dell’etica su tre punti fondamentali: a) la rottura del nesso tra felicità e virtù; b) la democratizzazione della felicità; c) la critica del concetto di rimorso. Senza addentrarmi nella pur interessante teoria dell’etica del nostro autore, mi limito a sottolineare come essa (soprattutto per quel che riguarda il primo e il terzo punto) sia la naturale conseguenza della sua riduzione dell’uomo a macchina tra le macchine: venendo a mancare il finalismo, crolla conseguentemente anche l’idea che per essere felici si debba essere virtuosi (di qui la battaglia che La Mettrie conduce contro lo stoicismo nell’Antiseneca, dichiarata fin dal titolo); i rimorsi, dal canto loro, sono del tutto ingiustificati, perché esprimono soltanto la vana sofferenza di chi avrebbe voluto agire diversamente da come ha agito. Come si sostiene nell’Antiseneca, per eliminarli è sufficiente spiegarli, mostrarne la genesi e, con ciò stesso, dichiararne l’infondatezza[53]. Come ho più volte ripetuto, La Mettrie cade spesso in contraddizione, e lo fa anche nella sua teoria dell’etica: dopo aver bandito il finalismo dalla natura e dall’agire umano, egli – come se ciò fosse una naturale conseguenza del suo ragionamento – sostiene che «la natura ci ha creati tutti unicamente per essere felici»[54] e che «l’universo non sarà mai felice se non sarà ateo»[55]. Per questa via, egli finisce per reintrodurre nella natura e nell’agire umano quel finalismo che aveva precedentemente espunto e criticato nelle diverse scuole filosofiche. Il vero fine dell’uomo è da La Mettrie individuato – in accordo con i canoni di buona parte dell’Illuminismo francese – nella felicità, la quale a sua volta consiste in tutto ciò che promuove il piacere e il benessere esistenziale. Il nostro autore finisce dunque per commettere, in ultimo, l’errore che aveva denunciato nella metafisica tradizionale e contro il quale si era schierato con tanto accanimento. 

 

4) L’ultimo punto su cui intendo concentrare l’attenzione, anche se solo cursoriamente, riguarda l’epicureismo di La Mettrie, che egli ha sempre ostentato (non solo nel Sistema di Epicuro e negli altri suoi scritti, ma anche – come abbiamo visto – nel suo stile di vita). Del resto, come è stato messo in luce soprattutto dalla Wellman, «il concetto di uomo-macchina era stato già delineato dagli scienziati greci»[56], in primo luogo da Leucippo e da Democrito e dalla loro convinzione che, in definitiva, l’uomo non fosse altro che un aggregato di atomi semovente. La Mettrie si richiama soprattutto a questa idea, oltre che al radicale determinismo degli atomisti, che già avevano consapevolmente espunto la causa finale dal regno della fusis, riconducendo ogni evento alla necessità naturale. È per questo motivo che, come nota ancora la Wellman, il nostro autore è stato talvolta «ridotto a ripropositore di Lucrezio o di Gassendi»[57].  Egli si è richiamato all’atomismo antico, ma soprattutto a Epicuro. Ma si può effettivamente leggere il pensiero di La Mettrie come una sorta di riproposizione dell’epicureismo? A me pare che ciò sia da escludersi, soprattutto in ragione del meccanicismo radicale che La Mettrie applica anche all’uomo, spingendosi ben oltre l’originale messaggio di Epicuro, che lasciava qualche margine all’aleatorietà (in natura) e al libero agire (nell’uomo). In questo senso, La Mettrie, in quanto pensatore della necessità assoluta (ancorché contraddetta dall’invito all’edonismo etico), sembrerebbe decisamente più vicino alle posizioni di un Democrito e di un Leucippo. Si potrebbe essere indotti a pensare che l’epicureismo di La Mettrie debba essere ricercato altrove, soprattutto nell’adesione all’edonistica: anche in questo caso, tuttavia, è necessario rilevare come, benché si richiami al filosofo greco, in realtà La Mettrie ne trasfiguri il pensiero, nella misura in cui l’edonismo radicale del nostro autore – edonismo che lo porta a tessere le lodi dell’oppio[58] – ha poco o nulla a che vedere con la teoria epicurea, che come è noto accoglie soltanto i «piaceri catastematici», rigettando quelli «cinetici». Mi pare, a questo proposito, che La Mettrie si ispiri alla vulgata dell’epicureismo più che all’originale verbo di Epicuro[59]. In definitiva, La Mettrie resta legato a una versione rigida del democritismo, venata di un edonismo sfrenato. In una simile posizione è possibile scorgere, in filigrana, la volontà di opporsi a chi, come Pierre Gassendi, aveva cercato di coniugare la dottrina atomistica di Epicuro con il cristianesimo, anche a costo di concepire gli atomi come creati (anziché eterni) e finalisticamente orientati, in modo tale che la natura risultasse, a propria volta, una grande macchina agente in vista di fini determinati dal suo creatore.

 

 



[1] Cfr. S. Moravia, introduzione a La Mettrie, Opere filosofiche, Laterza, Roma-Bari, 19923, p. IX.

[2] Cfr. La Mettrie, Histoire naturelle de l'âme, 1745; tr. it. Storia naturale dell’anima, in ID., Opere filosofiche, cit., pp. 57, 79.

[3] Ivi, p. 51.

[4] Ibidem.

[5] G. Panizza, La contentezza della mente: etica e materialismo in Descartes e La Mettrie, Theleme, Torino 2000, p. 15. Lo stesso Panizza sostiene che la cifra della Storia naturale è la «congiunzione di lockismo e tradizione aristotelico-scolastica, in funzione anti-cartesiana (e dunque anti-innatista)» (ivi, p. 53).

[6] Con ciò non intendiamo certo negare il ruolo che il pensiero di Locke ha svolto nella formazione della riflessione di La Mettrie. Come è noto, nella Storia naturale dell’anima, il nostro autore individua quattro leggi della sensazione, in sintonia con l’empirismo lockeano: a) più un oggetto agisce distintamente sul sensorio e più l’idea che ne risulta è netta e distinta; b) più è vivace l’azione esercitata dall’oggetto percepito e più è chiara l’idea corrispondente; c) il rinnovarsi dell’impressione esterna potenzia l’evidenza; d) più l’azione è intensa e diversa da qualsiasi altra e più l’idea è propria e originale. Cfr. La Mettrie, Storia naturale dell’anima, cit., pp. 79 ss.

[7] K. A. Wellman, La Mettrie. Medicine, Philosophy, and Enlightenment, Duke university press, Durham 1992, p. 139. Traduzione mia.

[8] Cfr. La Mettrie, Storia naturale dell’anima , cit., p. 86.

[9] Ivi, p. 61.

[10] B. Spinoza, Ethica more geometrico demonstrata; tr. it. Etica, a cura di G. Durante, Sansoni, Firenze 1963.

[11] G. Panizza, La contentezza della mente: etica e materialismo in Descartes e La Mettrie, cit., p. 72.

[12] Cfr. ivi, p. 76.

[13] A. Vartanian, Trembley’s Polyp. La Mettrie and Eighteenth-Century French Materialism, 1950; tr. it. Il polipo di Trembley. La Mettrie e il materialismo francese del Settecento, in P. Wiener – A. Noland (a cura di) Le radici del pensiero scientifico, Feltrinelli, Milano 1971, p. 535.

[14] Ivi, p. 89.

[15] P. Rossi, La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, Torino, Einaudi 1975, p. 238.

[16] Cfr. G. Bachelard, Le nouvel esprit scientifique, 1934; tr. it. Il nuovo spirito scientifico, Laterza, Roma – Bari 1978, a cura di L. Geymonat e P. Redondi.   

[17] R. Descartes, Les passions de l’âme, tr. it. Le passioni dell’anima, Laterza, Roma-Bari 1966, a cura di E. Garin, p. 127.

[18] Ivi, pp. 35-36.

[19] Cfr. E. Rosenfield-Cohen, From Beast-Machine to Man-Machine. Animal Soul in French Letters from Descartes to La Mettrie, New York 1941.

[20] La Mettrie, L’homme machine, 1748; tr. it. L’uomo macchina, in ID., Opere filosofiche, cit., p. 215.

[21] Ivi, p. 175.

[22] Ivi, p. 182

[23] Ivi, p. 222.

[24] Ivi, p. 227.

[25] S. Moravia, introduzione a La Mettrie, Opere filosofiche, cit., p. XXII.

[26] La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 222.

[27] Ivi, p. 217.

[28] Ivi, pp. 218-219.

[29] I primi del Settecento sono caratterizzati da tre grandi scuole di medicina: 1) la iatrochimica (codificata da Sylvius a Leyda), che interpreta i fenomeni vitali in base a processi di fermentazione o di effervescenza sulla base della teoria degli acidi e degli alcali; 2) la iatromeccanica (fondata da Borelli e sviluppata da Boerhaave), che descrive i fenomeni organici e le malattie richiamandosi alle leggi della fisica e dell’idraulica (le funzioni degli organi sono spiegate con analogie meccaniche ricavate da corde, filtri, molle, ecc); 3) l’animismo (fondato da G. E. Stahl), che ravvisa nell’anima il principio unificatore delle funzioni e del movimento dei corpi viventi. Cfr. L. S. King, The Philosophy of Medicine, Harvard University Press, Cambridge-London 1978, pp. 143 ss. La Mettrie si richiama alla iatromeccanica di Boerhaave e spiega ogni cosa in termini fisici, con un ostentato ricorso al linguaggio meccanico. «Boerhaave sembrava a La Mettrie una sorta di Cartesio ravveduto, che rinunciava a postulare la sostanzialità e l’immortalità dell’anima per concentrarsi su un approccio rigorosamente medico nello studio dell’uomo»: G. Panizza, La contentezza della mente: etica e materialismo in Descartes e La Mettrie, cit., p. 76). La Mettrie interviene anche nell’allora in voga polemica tra medici e chirurghi: difende un atteggiamento legato all’osservazione empirica e al ruolo del sintomo contro l’apriorismo teorico e l’insegnamento libresco impartito presso la Facoltà di Medicina di Parigi: «l’esperienza e l’osservazione devono, sole, guidarci; esse si trovano senza nome nei fasti di quei medici sapienti che sono stati anche filosofi e che ci hanno mostrato, studiando i meccanismi nascosti da involucri resistenti (il pregiudizio o il dogma), il labirinto dell’uomo e le sue tante meraviglie» (La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 178). «Di due medici il migliore è sempre il più versato nella fisica o nella meccanica del corpo umano» (ivi, p. 228).

[30] K. Marx, Das Kapital. Kritik der politischen Ökonomie, Band I, 1867; tr. it. Il capitale. Critica dell’economia politica, Libro I, Editori Riuniti 1964, a cura di D. Cantimori, p. 443.

[31] La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 236.

[32] Ivi, p. 205.

[33] La Mettrie, Discours préliminaire, 1750; tr. it. Discorso preliminare, in ID., Opere filosofiche, cit., p. 4.

[34] La Mettrie, L’homme plante, 1748; tr. it., L’uomo pianta, in ID., Opere filosofiche, cit., p. 247.

[35] La Mettrie, Système d’Épicure, 1750; tr. it. Sistema di Epicuro, in ID., Opere filosofiche, cit, p. 265.

[36] Ivi, p. 263.

[37] Ivi, p. 266.

[38] Ivi, p. 267.

[39] Lucrezio, De rerum natura, IV; tr. it. Il poema della natura, Zanichelli, Bologna 1941, a cura di P. Parrella, 2 voll., II, p. 53.

[40] Cfr. Lucrezio, De rerum natura, IV, 843-854, cit., pp. 53-55.

[41] La Mettrie, Sistema di Epicuro, cit., pp. 267-268.

[42] La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 212.

[43] «Che cosa vieta che la natura agisca senza alcun fine e non in vista del meglio, bensì come piove Zeus, non per far crescere il frumento, ma per necessità? […] E, parimenti, quando il grano, poniamo, si guasta sull’aia, non ha piovuto per questo fine, cioè affinché esso si guastasse, ma questo è accaduto per accidente»: Aristotele, Fisica, 198 b 15, tr. it. in ID., Opere, Laterza, Roma-Bari 1973, III, p. 44, a cura di G. Giannantoni.

[44] La Mettrie, Sistema di Epicuro, cit., p. 269.

[45] La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 183.

[46] La Mettrie, Anti-Sénèque, 1748; tr. it. Anti-Seneca, in ID., Opere filosofiche, cit., p. 330.

[47] G. Panizza, La contentezza della mente: etica e materialismo in Descartes e La Mettrie, cit., p. 11.

[48] La Mettrie, Anti-Seneca, cit., p. 332.

[49] La Mettrie, Sistema di Epicuro, cit., p. 279.

[50] La Mettrie, Anti-Seneca, cit., p. 330. Corsivi miei.

[51] La Mettrie, Sistema di Epicuro, cit., p. 279.

[52] La Mettrie, Discorso preliminare, cit., p. 17.

[53] La Mettrie, Anti-Seneca, cit., p. 305.

[54] La Mettrie, L’uomo macchina, p. 208.

[55] Ivi, p. 213.

[56] K. A. Wellman, La Mettrie. Medicine, Philosophy, and Enlightenment, cit., p. 171. Traduzione mia.

[57] Ivi, p. 172. Traduzione mia.

[58] Cfr. La Mettrie, Anti-Seneca, cit., p. 309.

[59] Su questo punto, e in particolare sulla storia dell’epicureismo, mi permetto di rimandare al mio lavoro La farmacia di Epicuro. La filosofia come terapia dell’anima, Il Prato, Padova 2006, pp. 179-204.

INDIETRO