IL LINGUAGGIO, TRA BIOLOGIA E CULTURA

Appunti su un’ipotesi scientifica

 

Luca Gasparri

(l.gasparri@yahoo.co.uk)

 

 

 

1. Il genere Homo

 

Una qualsiasi determinazione di tempo si rende plausibile, in genetica, soltanto a partire da uno studio di effetti. L’analisi sequenziale effettuata sul DNA e l’esame delle proteine di cui i geni dirigono la sintesi, mostrano che le diverse specie attualmente esistenti non sono altro che l’accumulo di mutazioni antichissime, distribuite in modo altamente diversificato, il cui assetto diacronico può essere ricostruito attraverso metodi comparativi. Una volta appurata la differenza tra due specie nel numero di mutazioni accumulate, è possibile ricostruire il tempo evolutivo che le separa (basandosi su una datazione stabilita grazie alla differenza media tra due popolazioni nel numero di microsatelliti[1], o grazie allo studio dei mitocondri), e risalire a una cronologia precisa del momento in cui si sono verificate le mutazioni.

Si deve ripercorrere la storia all’indietro di almeno cinque milioni di anni[2] per trovare un antenato comune tra l’uomo e la specie geneticamente più affine, lo scimpanzé; più indietro, fino ad un massimo stimato attorno ai quattordici milioni di anni, per trovare la congiunzione con il gorilla; ancora più indietro per il progenitore comune all’orangutan. Il primo antenato che si stima fosse in grado di soddisfare i requisiti genetici per essere ammesso a pieno titolo nel genere Homo deve essere fatto risalire ad almeno due milioni e mezzo di anni or sono. Altri riscontri si sono potuti ottenere attraverso accertamenti di tipo anatomico: i reperti più antichi accreditati ai nostri diretti progenitori sono due (entrambi provenienti dal Sud Africa), e metodi scientifici hanno dimostrato che la loro datazione è sostanzialmente sovrapponibile. I reperti delle Border Caves oscillano tra i 130.000 e i 75.000 anni; tra 115.000 e 74.000 quelli scoperti nel sito alla foce del fiume Klasies[3]; i due reperti venuti alla luce nel 1967 in Etiopia vicino al fiume Omo (puntualmente ribattezzati Omo I e Omo II; soltanto il primo presenta però tutte le caratteristiche di un reperto moderno), che R. Leaky aveva datato attorno ai 130.000 anni, sono stati recentemente ridatati da F. Brown a 195.000 anni: Omo I è perciò il resto più antico di uomo moderno giunto direttamente a noi[4]. Con una certa semplificazione possiamo dire che la cronologia dei nostri antenati più prossimi sia questa: vari tipi di sapiens arcaico abitano diverse parti del Vecchio Mondo già 300.000 anni fa, forse più; Neandertal è in Europa 200.000 anni fa, l’uomo moderno (sapiens sapiens) in Africa del Sud attorno si 100.000 anni fa e più o meno nello stesso periodo in Israele. Successivamente, circa 60.000 anni fa, l’uomo di Neandertal è in Medio Oriente, mentre non vi è traccia contemporanea di uomini moderni nella regione. Poi l’Homo sapiens sapiens si comincia a trovare dappertutto[5].

 

 

2. Qualche dato craniometrico

 

Sembra del tutto naturale che, nello studio del genere Homo, l’interesse si sia concentrato soprattutto attorno alle dimensioni del cranio. Già con erectus le dimensioni del cranio conoscono un sensibile aumento rispetto a quelle del predecessore habilis, ed è facile collegare l’accrescimento di volume della scatola all’idea di un incremento delle prestazioni cerebrali[6]: il fossile di habilis ER 1470, il meglio conservato e in grado di fornire i dati più affidabili, non supera i 750 cc: un volume tutto sommato esiguo, se paragonato a quello dell’uomo moderno. Con erectus le dimensioni variano tra i 750 e i 1250 cc. La media dei primi esemplari sembra potersi aggirare sui 900 cc, quella degli esemplari più tardi attorno ai 1100 cc: lo splendido fossile KNM-WT 15000, ribattezzato “Turkana boy”, un maschio sui 12 anni di età, datato a 1.6 milioni di anni fa, ha una capacità di 880 cc e si stima che in età adulta avrebbe potuto raggiungere facilmente i 910 cc[7]. Il paleoantropologo P. Tobias ha potuto dimostrare, attraverso lo studio dei sei crani di habilis a noi pervenuti in una forma abbastanza conservata da dare indicazioni attendibili, che i reperti presentano nella parte frontale sinistra della scatola cranica una leggera protuberanza, la cui posizione corrisponde quasi perfettamente a quella dell’area di Broca. Il fatto ha incoraggiato i ricercatori all’idea che anche habilis potesse essere dotato di una forma di linguaggio organizzata in modo complesso, inaccessibile agli scimpanzé più evoluti, cui questa protuberanza manca sistematicamente[8].

Quantitativamente parlando, è facile osservare un incremento continuo nelle dimensioni della scatola cranica fino alla comparsa del primo sapiens, sulla soglia dei 300.000 anni. A questo punto la capacità craniale non presenta più differenze rimarchevoli con quella del sapiens sapiens: ci troviamo attorno ai 1350 cc di media. Secondo G. Burenhult[9], il 90% degli esemplari di uomo moderno possiede una capacità craniale compresa tra i 1040 e i 1595 cc, e i limiti estremi delle volumetrie tollerate devono essere fissati in 900 cc e 2000 cc. Nel famoso The Mismeasure of Man[10], Gould riporta i dati di un vecchio studio di S. G. Morton compiuto su 600 crani, che sosteneva un margine di variazione massima tra 950 e 1870 cc. C’è poca controversia sui limiti massimi, ma altre fonti (alcune di orientamento creazionista) tendono ad abbassare anche di molto i limiti minimi. Nel 1948 sir A. Keith[11] fissò il limite minimo della capacità craniale in 855 cc, di 200 cc superiore all’allora più elevata capacità craniale mai riscontrata in un gorilla, a sua volta di oltre 50 cc superiore al volume di molti microcefalici, che spesso però versano in una condizione di grave deficit intellettivo, e interessano poco la determinazione delle medie «normali». L’antropologo ceco A. Hrdlicka, in un lavoro del 1939[12], riporta i dati ottenuti dalla misurazione diretta di 12.000 crani conservati nel National Museum statunitense e segnala, come dato più basso sperimentalmente registrato, un volume di 910 cc. Poco più di un decennio fa il creazionista M. Lubenow fissa come minimo ideale (non sperimentale) della capacità craniale di un uomo moderno il valore di 700 cc.[13]. L’estremo è, per l’appunto, puramente classificatorio e va tenuto presente come tale, anche senza considerare il fatto che la notazione può avere il proponimento latente di rendere più appetibile la prospettiva creazionista[14]. Stando ai dati sperimentali, in ogni caso, il volume minimo mai registrato di capacità craniale nell’uomo moderno è di 790 cc.[15].

Le differenze dell’ultima specie del genere Homo rispetto ai suoi antecedenti restano, sotto questo rispetto, distanze quantitativamente esprimibili in termini di differenze di volume tra sostrati materiali. Tuttavia, la comparabilità relativa tra le volumetrie non rende conto del distacco tra le specie impossibilitate all’uso di una sintassi complessa (anche quelle evolutivamente più vicine, secondo una valutazione precisa della variazione genetica) e la competenza linguistica dell’uomo moderno, che non sembra presentare alcuna soluzione di continuità con le specie in cui risulta assente. Non ci si riferisce, qui, alla semplice capacità di apprendimento del significato di simboli (l’elaborazione semantica è largamente accessibile anche al di fuori del sapiens sapiens – è da qualche anno noto alla scienza il caso di Kanzi, un esemplare maschio di scimpanzé pigmeo, che è riuscito ad apprendere spontaneamente, senza diretto insegnamento, il significato di oltre 300[16] lessigrammi e pare sia persino riuscito ad inventare, vocalizzandoli spontaneamente, nuovi simboli fonetici), quanto piuttosto alla capacità di articolare un sistema combinatorio altamente specializzato, compito in cui i primati «falliscono in modo clamoroso»[17].

La vulgata (di cui potrebbe fare parte anche un’ipotesi molto fine, come quella di A. Gross[18]; un altro aspetto della vulgata è quello su cui si muove lo stesso Darwin, secondo cui lo sviluppo linguistico deriverebbe dalla progressiva complessizzazione vocale di un sistema di comunicazione gestuale[19]) tende a descrivere lo sviluppo del linguaggio nelle forme più primitive del genere Homo come un fatto interamente sovrastrutturale: secondo questa prospettiva il progresso della capacità linguistica sarebbe risultato dall’evoluzione dell’articolato simbolico senza richiedere una modificazione almeno simultanea, se non parallela, dell’organizzazione del cervello; in altri termini, dall’aumento di complessità di un sistema culturale autonomo, determinatasi attraverso la sola azione di forze di interazione, piuttosto che sulla base dell’apporto necessario (non certo sufficiente) di una mutazione dei correlati anatomici. Ora, è del tutto evidente che nell’aumento di complessità del sistema linguaggio la temporalità culturale giochi un ruolo importantissimo; ma l’idea di un andamento graduale della sofisticazione del sistema si concilia assai malamente, se proiettata in sede fondativa, con l’impossibilità di reperire sperimentalmente una forma intermedia della funzione simbolico-sintattica per come si presenta nel sapiens sapiens: essa non si trova nelle forme di vita attualmente esistenti, né ve ne è traccia nelle testimonianze ottenute dai reperti. L’obiezione storica al darwinismo classico che riteneva di poter far leva, a discredito della teoria, sull’impossibilità di reperire i tipi intermedi delle specie[20] (in qualche caso dell’impossibilità di crederli conservabili[21]) era facilmente liquidabile perché l’unica complicazione cui poteva richiamarsi era inerente alla mancanza di dati empirici pertinenti, difficoltà brillantemente superata con il progresso di paleoantropologia, geologia e discipline affini: il fatto è che tra la capacità di articolare una sintassi complessa e il suo contrario non sembra esserci un termine medio non soltanto reperibile, ma persino concettualmente concepibile.

 

 

3. Una biologia linguistica

 

Il cambiamento culturale avviene solitamente ad una velocità di molto superiore al cambiamento biologico: ciò fa sì che i tempi entro cui si ottengono differenziazioni culturali siano di molto inferiori a quelli richiesti per ottenere differenziazioni biologiche apprezzabili. Il teorema vale tuttavia soltanto se l’evoluzione culturale non richiede, per innescarsi, il contributo di strutture derivanti da un’innovazione biologica. La regolare discrepanza tra l’evoluzione culturale e l’evoluzione biologica resta conservata soltanto fino al momento in cui un ulteriore avanzamento della prima non richiede il sostegno della seconda[22]. In tal caso, il rapporto tra le velocità di miglioramento conosce una decisa inversione: l’evoluzione culturale deve attendere che l’evoluzione biologica produca i correlati necessari al suo avanzamento[23].

La tesi secondo cui lo sviluppo del linguaggio si sarebbe verificato come funzione della comparsa di nuove strutture biologiche, e secondo cui l’innovazione strutturale sarebbe stata condizione del progressivo insediarsi della novità culturale, può muoversi in due sensi[24]. Il primo è di attinenza anatomica in senso stretto, e riguarda la realizzazione concreta del gesto comunicativo, che presuppone un apparato fonatorio adeguato alla complessità del compito da performare: la ricchezza vocale di cui dispone l’uomo moderno richiede un’apparto di produzione del veicolo sonoro molto sofisticato. Pare che il tubo faringo-laringeo di Neandertal non fosse abbastanza profondo né largo per poter permettere la varietà di emissione del sapiens sapiens[25]. Il secondo si incentra sulla complessità “mentale” del compito linguistico. L’assestamento delle competenze sintattiche correnti risale a un momento posteriore a quello in cui il volume encefalico raggiunge le sue dimensioni moderne, ma il riferimento alla capacità cranica poco dice sulla storia dell’organizzazione della materia cerebrale: una riorganizzazione strutturale[26] non si accompagna di necessità a un incremento o un decremento volumetrico. Non disponiamo di elementi sicuri per sapere quali livelli di articolazione sintattica si presentassero presso i generi più antichi di Homo, sebbene ci sia lecito arguire che già nel passaggio tra i generi più arretrati si sarebbe potuta reperire una complessizzazione delle costruzioni culturali[27]. Si può sostenere piuttosto che l’emergenza della configurazione moderna della capacità linguistica si sposi con successo ai dati sperimentali, se la si interpreta alla luce delle frontiere della più recente ricerca linguistica (la language bio-program hypothesis): il mutamento intercorso a livello strutturale sarebbe la causa, e non il prodotto della crescita delle potenzialità sintattiche. La capacità di fare uso dei termini simbolici entro un sistema combinatorio complesso non sarebbe il risultato di un’evoluzione culturale cui strutture cerebrali preesistenti semplicemente si adattano, ma il portato della fissazione di alcune mutazioni costitutive, in una simmetria da un lato molto più stretta e vincolante di quella cui potrebbe far pensare un semplice effetto di fondazione; dall’altro svincolata dalla necessità di riferirsi a una performance adattativa, giacché nulla vieta che l’insediamento della predisposizione alla computazione sintattica possa essere, per quanto significativo, il semplice effetto secondario della selezione di una mutazione genetica realmente sottoposta alla prova della valenza evoluzionistica.

 

 

4. La lingua in potenza

 

La sorprendente stabilità dell’apprendimento linguistico[28], unita alla facilità con cui esso viene performato nei primi anni di vita, suggeriscono l’agevolazione di fattori determinati biologicamente. Si sa che i processi di apprendimento dipendono dalla plasticità sinaptica[29]: il livello di ricettività dei circuiti è a tal punto elevato nei primi anni di vita di un individuo, da costituire dei «periodi finestra» in cui la disposizione all’apprendimento di una capacità specifica si presenta con un’elevatissima vivacità, che poi viene inevitabilmente persa nel corso della vita spesso fino ad annullarsi quasi completamente[30]. Nel caso del linguaggio, il requisito attitudinale è sia fonetico che sintattico. Da un lato la capacità di apprendere i suoni caratteristici di una lingua resta fertile soltanto se l’apprendimento avviene entro il termine della pubertà, tra i due e i dodici anni di età: oltrepassato il limite, la capacità di padroneggiare l’emissione dei suoni caratteristici di una lingua scompare, fatta eccezione per un numero veramente esiguo di individui[31]. Dall’altro, la capacità di organizzare una sintassi normalmente articolata è legata ad una plasticità di ancora più stretta estensione; i dodici anni di età sono in questo caso un limite troppo generoso. Se l’apprendimento fonetico si basa su un processo per la gran parte mimetico, nel caso dell’apprendimento sintattico sembra innescarsi un processo che coinvolge una sensibilità all’acquisizione delle regole sorprendentemente più elevata della complessità informazionale computabile, in quella fase della vita, dai processi cognitivi espliciti. La difficoltà, infatti, sta nel dare una spiegazione plausibile di come un bambino possa arrivare ad acquisire la capacità di padroneggiare regole complesse come le combinazioni sintattiche senza essere in possesso di strumenti di apprendimento espliciti per farlo; un bimbo di due anni non è evidentemente un gran ragionatore, eppure manifesta una straordinaria propensione all’assimilazione di regole grammatiche molto tortuose[32]. I dati empirici mostrano che l’acquisizione di una sintassi limita il campo della possibilità di produzione di errori, attraverso l’adozione sistematica di regole di cui il parlante non è conscio, né riesce autonomamente a rendere conto. D. Bickerton ha mostrato che si tratta di una predisposizione altamente indipendente dagli stimoli esterni: sono stati osservati casi di complicazione spontanea di una lingua rudimentale (come le lingue pidgin) attraverso l’introduzione irriflessa di strutture sintattiche condivise[33]. Riscontri crescenti hanno suggerito che nei primi anni di vita la struttura cerebrale del bambino sia in qualche modo «cablata» per imparare una lingua, e che l’incentivo implicato dal contatto con la lingua materna determini l’apprendimento del linguaggio attraverso l’attivazione di strutture cerebrali predeterminate ad essere sensibili agli stimoli comunicativi.

Anche senza addentrarsi qui in un’analisi profonda della prospettiva generativista[34], resta più che soltanto plausibile che l’evoluzione culturale iniziata con la comparsa dei linguaggi moderni si sia potuta sviluppare grazie alla comparsa di un nuovo corredo biologico. Soltanto successivamente la storia del linguaggio come formazione e diversificazione delle lingue (cioè cultura) necessita il passaggio ad una prospettiva più articolata: a questo punto le modificazioni dell’oggetto linguaggio non sono più vincolate all’evoluzione biologica, ma al sistema delle interazioni tra i parlanti.

 

 

5. Una cultura della diversità

 

Gli elementi che ci hanno portati a ritrovare nella diversità delle lingue una matrice biologica comune sono anche quelli che ne suggeriscono una regolarità culturale: la differenza in questo caso sta nel fatto che se l’omogeneità costitutiva si fonda direttamente sull’analisi del sostrato cerebrale dell’evento linguistico, il tipo di affinità portato alla luce dall’analisi dei prodotti è di diverso tipo, nonostante non si precluda, almeno in via di principio, la possibilità di mostrare che in entrambi i casi il quadro è determinato dall’azione di principi affini.

Tra le 7000 lingue circa parlate oggi sulla terra[35] sembra esservi un’omogeneità di fondo. Al pari di quanto poco rilevanti sono le differenze evolutive tra gli uomini, la cui differenziazione somatica deriva piuttosto da un millenario processo di adattamento del gruppo all’ambiente di insediamento, anche la diversificazione dei linguaggi storici può essere interpretata come un fenomeno di complessizzazione superficiale. L’uomo moderno ha una sostanziale uniformità genetica anche a dispetto delle più palesi divergenze fenotipiche; si sa del resto che non si dispone di alcun argomento per stabilire quali caratteri sono propri di una specie evolutivamente migliore, giacché è la stessa teoria evoluzionistica a prescrivere che i concetti di «migliore» o «peggiore» abbiano una legittima funzionalità soltanto se riferiti al grado di adattamento rispetto a un certo ambiente; salvo trovare, poi, che le differenze tra le etnie della specie sapiens sapiens garantiscono al gruppo cui ci si sta riferendo, nella stragrande maggioranza dei casi, il miglior adattamento alle condizioni ambientali da cui proviene in origine[36]. Sia come sia, pensare che la differenziazione tra i linguaggi storici non escluda la possibilità di poter parlare di una loro uniformità, implica certo uno sforzo concettuale meno indifferente[37]. Tuttavia molti elementi suggeriscono la sensatezza dell’esperimento. Su tutti, la complessità strutturale delle lingue parlate nella più diverse zone della terra, indipendentemente dal grado di sviluppo tecnologico o scientifico della popolazione che ne fa uso, è un elemento sostanzialmente costante: le lingue dalle popolazioni aborigene economicamente più arretrate presentano una complessità pari se non addirittura superiore a quelle utilizzate dal mondo cosiddetto «civile», sia nella ricchezza terminologica, sia nella precisione simbolica, sia nella specializzazione delle compagini combinatorie.

 

 

6. L’omogeneità tra le lingue

 

È in questa direzione che si è mosso lo studio della somiglianza tra le lingue (la glottocronologia, che ha grandi affinità con l’«orologio molecolare» in biologia)[38], che ha portato a raggruppare le lingue esistenti entro nuclei di appartenenza e alla definizione di un’ipotesi di ricostruzione, anch’essa sviluppata su base comparativa, della storia delle famiglie linguistiche e delle loro dissociazioni nel tempo. Non entro nel merito delle dispute sui risultati delle ricerche: piuttosto, mi occupo di questioni di metodo.

Alcuni linguisti, direttamente impegnati nell’attività di classificazione, hanno avanzato l’idea che l’individuazione delle parentele tra famiglie o gruppi di lingue potrebbe essere sostenuta su basi condivisibili soltanto se il tentativo di ricostruzione riuscisse a portare alla luce un’unità originaria dei linguaggi da cui derivare le divisioni successive. L’intento programmatico disegna un’ulteriore spazio di affinità con la ricerca biologica: l’analisi del Dna mira a stabilire le sequenze ancestrali precisamente attraverso un metodo comparativo di tal genere. Il metodo, di per sé, si basa in biologia sulla comparazione di sequenze diverse di Dna, nel tentativo di individuare concatenazioni di cui si può appurare la condivisione presso molte (o tutte le) specie: nel momento in cui si verifica che una data sequenza è presente nel patrimonio genetico fondamentale di un numero elevato di specie, la si può ipotizzare come costituente della forma originaria del Dna. Ora, non si discute affatto della bontà della procedura come fatto teorico; mancano piuttosto in linguistica le condizioni per il suo impiego effettivo. La ricerca dell’elemento condiviso è soggetta ad un margine di errore ben più ampio che in biologia, per effetto della velocità con cui si avvicendano le mutazioni culturali. Un intervallo di qualche migliaio di anni è, nell’evoluzione delle lingue, un lasso di tempo più che sufficiente per eliminare qualsiasi traccia di corrispondenza, di modo che la riproduzione della sequenza condivisa rischia di restare congetturale, disputabile o comunque largamente non vincolante. Questa è un’affermazione che può valere generalmente: la velocità attraverso cui si susseguono mutazioni nell’oggetto è inversamente proporzionale alla sicurezza con cui il metodo comparativo ha possibilità di stabilire in esso classificazioni e divisioni corrette. In biologia evoluzionistica, al contrario, sono noti ormai da tempo proteine indispensabili per qualunque organismo vivente, che richiedono le stesse sequenze dedicate anche quando il campione sottoposto ad analisi è composto da specie separatesi da miliardi e miliardi di anni. Nel caso delle lingue ciò è molto più difficile: dopo intervalli di tempo relativamente brevi il tasso di somiglianza tra due famiglie linguistiche vicine può ridursi a una percentuale così bassa che l’analisi statistica impedisce di discernere quali sono le lingue oggettivamente derivanti da un unico antenato comune, o che non presentano somiglianze casuali, dovute a correlazione spuria. È già servito molto lavoro per arrivare a una demarcazione attendibile della famiglie linguistiche e in qualche caso, assieme a queste, della protolingua condivisa da ogni membro appartenente al gruppo; si è trattato tuttavia di ricerche in cui la protolingua ha fatto la parte del risultato, più che della condizione per lo sviluppo dell’indagine.

Le classificazioni dipendenti dall’individuazione della protolingua, in questo senso, risultano fortemente limitate nel momento in cui risalire al linguaggio originario si rivela problematico. La mass lexical comparison di J. H. Greenberg e allievi[39], al contrario, non presuppone la specificazione delle lingue ancestrali, ma realizza la divisione in phyla sulla base dell’analisi diretta delle somiglianze tra gli elementi linguistici degli idiomi esistenti: le analogie acquisiscono il valore scientifico di dato senza bisogno di essere legittimate dalla disposizione in una protolingua. Se attraverso la comparazione tra le forme ancestrali a capo delle famiglie è sembrato difficile arrivare a una definizione del sistema comunicativo virtualmente utilizzato dal primissimo gruppo umano a fare uso di un linguaggio «moderno», la ricerca linguistica ha così prodotto risultati sensibilmente più consistenti evitando il passaggio obbligato attraverso le protolingue[40]. È stato in questo modo che si è reso chiaro che, anche se non sembra necessario ammettere una sola lingua ancestrale, mentre appare più sensata l’ipotesi di una pluralità di queste, esistono comunque tra le famiglie abbastanza affinità profonde da permettere di pensare che le lingue attuali derivino da un insieme originario di idiomi, differenziatosi geograficamente entro uno spazio molto ristretto. La differenziazione dei linguaggi potrebbe far capo ad un gruppo limitato di popolazioni africane, esattamente come si ritiene appurato nella ricostruzione della storia del genere Homo; la storia delle dissociazioni dei gruppi linguistici sarebbe parallela alla diffusione geografica delle popolazioni biologiche; infine, l’analisi della diversificazione dei gruppi genetici a partire dalla popolazione originaria e lo studio della diffusione geografica delle lingue dovrebbero individuare alberi sovrapponibili[41]. Greenberg sembra essere riuscito a riscontrare almeno una radice trasversalmente presente in tutte le famiglie linguistiche, che vi ricopre la stessa sfera di significato: si tratta della radice *TIK[42], usata alternativamente per indicare il numero e il dito della mano[43]. Seguendo la strada tracciata da Greenberg, che nella ricerca di radici universali non è spinto mai ad affermare di averne trovate altre oltre quella citata, linguisti successivi come M. Ruhlen e J. Bengtson[44] si sono ingegnati a rintracciare molte altre radici universali o perlomeno, se non universali, almeno largamente condivise: p. es. la radice *AKWA per «acqua» o il fonema [ma] per «madre»; N. Marr aveva a suo tempo sostenuto che il protolinguaggio dovesse ridursi a quattro radici fondamentali: *SAL, *BEN, *YON, *ROSH[45].

Per ora, essendo aperto il dibattito, è difficile tirare una somma definitiva dei risultati; ci limitiamo a rilevare, da ultimo, che almeno un riscontro si muove in una direzione ragionevolmente prevedibile: oltre alle regole del sistema sintattico[46], subisce generalmente una mutazione molto più lenta quel gruppo di parole che vengono imparate per prime, e che di solito sono indicatori di parti del corpo, pronomi fondamentali, qualche avverbio e i primi numeri naturali.

 

 

7. Conclusioni

 

L’evoluzione dei linguaggi è un caso particolare dell’evoluzione culturale, e ne segue gli stessi principi di fondo. I principi in base a cui si sviluppa la differenziazione culturale delle lingue, infatti, agiscono in un modo largamente commensurabile a quello in cui si determina l’aumento della distanza genetica tra due popolazioni. Due popolazioni tra di loro isolate, impossibilitate per qualsiasi motivo (p. es. una barriera geografica) a scambiare l’una con l’altra il proprio materiale culturale tendono dapprima ad omogeneizzarsi internamente[47], dunque a seguire una linea evolutiva del tutto indipendente da quella della popolazione di confronto. Di qui in poi la differenziazione dei gruppi biologici e culturali in isolamento reciproco aumenta in proporzionalità diretta con il tempo – perlomeno da un punto di vista puramente ideale[48]. Il parallelismo continua a valere anche nel comportamento dei caratteri di fronte a una mutazione. In linguistica, la categoria presenta alcune partizioni interne: (1) la variazione può riguardare l’aspetto fonetico, e coinvolgere la differenza di verbalizzazione dei segni (accento), l’insieme dei suoni caratteristici posseduti da un parlante, o la ricchezza o povertà complessivamente considerata di questi suoni[49] . (2) La variazione, altrimenti, può essere semantica, e implicare il cambiamento di significato d’uso di radici simili, che restano foneticamente affini, ma sono adibite ad una funzione simbolica completamente diversa. (3) Infine la variazione può essere sintattica e interessare il sistema di combinazione degli elementi semantici. Come nel caso biologico, così anche in linguistica vi è almeno un momento in cui l’introduzione della novità riguarda un individuo, e ha possibilità di propagarsi alla restante parte della popolazione in base al numero di individui in cui riesce ad essere selezionata: alla trasmissione genetica corrisponde in questo caso l’adozione culturale.

È importante stabilire in che modo possano essere intesi in ambito linguistico i corrispettivi del drift e della selezione genetica (tralascio per il momento la migrazione). La deriva dà in genere maggiori chances di sopravvivenza a una mutazione il cui portatore ha un tasso riproduttivo più elevato; in termini linguistici potrebbe essere fatto una paragone ragionevole con la visibilità comunicativa. Altro elemento di interesse è la forza intrinseca (pressure) con cui la mutazione stessa tende ad imporsi, fattore che nel caso linguistico descrive sicuramente una gamma di fenomeni molto più sfaccettata: può valere l’esempio dell’impulso mimetico che attira naturalmente su di sé l’autorità politica. Non sono rari i casi in cui la minoranza linguistica dei “dominatori stranieri” ha una influenza sugli strati inferiori della popolazione locale, che tendono ad imitarla in virtù dell’ascendente esercitato dalla loro posizione preminenza. Da un punto di vista più generale, se la selezione biologica conserva il gene dell’individuo capace di dar vita alla prole più vasta, anche nel caso dell’invenzione culturale l’innovazione è selezionata a seconda del successo con cui l’individuo portatore riesce a trasmetterla, sia orizzontalmente che verticalmente, ad un pubblico più vasto. Vi sono poi fattori quantificabili con più difficoltà: basta pensare alla spiazzante varietà dei principi che regolano l’introduzione di una nuova parola di uso comune in un qualsiasi vocabolario moderno.

La migrazione, dal canto suo, ha sicuramente avuto un peso culturale molto più grande, rispetto ad oggi, nel millenario passato dell’umanità in cui i mezzi di comunicazione di cui disponiamo oggi sono stati del tutto assenti. Il fatto è di importanza determinante rispetto alla sovrapposizione degli alberi linguistici con gli alberi genetici, giacché è proprio attraverso la possibilità che lingue e geni non seguano una diffusione geografica differenziata che la convergenza può essere garantita. Fino a quando l’umanità si è trovata nelle condizioni di non avere altro mezzo che il movimento migratorio per far viaggiare il proprio bagaglio culturale, il materiale biologico e il materiale linguistico sono stati sottoposti a scambi esterni al nucleo-popolazione in gran parte simultaneamente; la diffusione delle lingue è stata perciò legata per lungo tempo al movimento delle popolazioni e ai fattori che favorivano o inibivano lo scambio del materiale genetico. Come una prolungata endogamia genetica inibisce di molto il presentasi di mutazioni, così in popolazioni escluse dal contatto con gruppi esterni[50] il tasso di mutazione linguistica tende ad una drastica diminuzione. Nell’evoluzione linguistica, di conseguenza, la scarsità di migranti ha un effetto simile a quello che, nell’evoluzione biologica, ha l’assenza di mutazioni entro una popolazione geneticamente omogenea. Lo scenario cambia tanto più radicalmente quanto più vicino ci si porta ai nostri tempi, in cui il contatto reciproco di lingue e culture diverse diviene sempre più indipendente dal contatto materiale tra le popolazioni; l’affinamento dei mezzi di comunicazione permette che il flusso informativo possa spostarsi senza richiedere il trasferimento materiale dell’individuo o del gruppo di individui che ne è portatore, in un raggio di riferimento e con una visibilità tanto più ampi in proporzione alla potenza del mezzo.

Fenomeni di mutazione si verificano infine all’interno di un sistema linguistico non sottoposto all’introduzione di alcuna novità esterna, che tende ad omogeneizzarsi in un modo del tutto singolare. Si tratta di un fenomeno chiamato lexical diffusion, puntualizzato per la prima volta da W. S.-Y. Wang[51], che oltre a dare importanti informazioni sul funzionamento evolutivo di un sistema linguistico non sottoposto ad interferenze esterne, dà qualche informazione anche a proposito del funzionamento del cervello, molto più facilmente studiabile in assenza dello scambio tra gruppi. Senza mutazioni introdotte dall’esterno si può pensare, entro certi limiti, che ogni trasformazione che intercorre nel sistema sia determinata dall’attività del sostrato adibito a computare la funzione linguistica; la propensione del sistema a portarsi verso uno stato di maggiore uniformità interna può, ancora una volta, rivelare importanti aspetti del funzionamento dei correlati neurali. Ogni lingua conserva nel tempo un buon numero di irregolarità e di eccezioni alle regole generali; c’è tuttavia una tendenza evidente all’omogeneizzazione, spesso attraverso l’estensione del campo di applicazione delle regole esistenti e l’eliminazione delle eccezioni, specie di natura grammaticale. Oltretutto, nel momento in cui l’omogeneizzazione coinvolge una parola, l’inclinazione alla semplificazione coinvolge sistematicamente tutti i termini fonologicamente affini[52]. Anche in questo caso, la necessità di seguire regole quanto più possibile includenti ha una probabile controparte nel funzionamento di aree corticali dedicate; molte delle patologie che inibiscono l’attitudine all’estensione casistica delle regole grammaticali[53] inducono a pensare che l’effetto culturale sia strettamente collegato al funzionamento di correlati neurali dedicati. Non è un caso che lo studio delle patologie del linguaggio sia oggi depositario, per la linguistica, del più grande interesse scientifico: ancora una volta, come sempre, lo studio delle anomalie rappresenta lo strumento principe per comprendere la reale natura delle leggi della vita.

 

 

[Prima versione: Dicembre 2006]



[1] Metodo che può oggi avvalersi di una teoria matematica esatta e che pertanto è altrettanto affidabile delle ricostruzioni attraverso il radiocarbonio, che però non può datare reperti anteriori ai 40.000 anni di età. I “microsatelliti” sono siti polimorfici del Dna nucleare che consistono nella ripetizione di 1-4 coppie di nucleotidi in lunghezza; se ne trova in media uno ogni 50.000 nucleotidi: la differenza nel numero di ripetizioni tra due popolazioni, letto da una teoria matematica in grado di dare una valutazione precisa della velocità con cui nel materiale genetico di un gruppo si sommano le ripetizioni, permette di ricostruire datazioni comparative di grande accuratezza. Cfr. Cavalli-Sforza L. L., Geni, Popoli e Lingue, Adelphi, Milano 2006, pp. 134-137, 194-200; l’affidabilità dei microsatelliti come marcatori è in genere molto alta, ma dipende in qualche caso dalla distanza genetica, che può diversificare tra loro due specie abbastanza per rendere poco utile la comparazione tra marcatori.

[2] Secondo Lewin R., Bones of contention: controversies in the search for human origins, Simon and Schuster, New York 1987, il periodo di scissione dell’antenato comune nelle due specie, che permise la comparsa dei primi ominidi, va situata in un intervallo di 5-10 milioni di anni fa, ma molti elementi portano a pensare che si sia verificata nella parte di questo intervallo più prossima a noi.

[3] L’oscillazione varia a seconda dei metodi di esame e tiene conto, in entrambi gli estremi, di un margine di errore statistico precisamente calcolato.

[4] Fonte: http://www.eurekalert.org/pub_releases/2005-02/uou-toh021105.php, curata dall’Ufficio per le Pubbliche Relazioni dell’Università dello Utah. Cfr. McDougall I., Brown F.H., Fleagle J.G., «Stratigraphic placement and age of modern humans from Kibish, Ethiopia», in Nature, n. 433 (2005), pp. 733-736

[5] Cfr. Cavalli-Sforza L. L., Cavalli-Sforza F., Chi siamo, Mondadori, Milano 2006, p. 89; Geni, popoli e lingue, cit., pp. 98-101; più diffusamente Manzi G., Homo sapiens. Breve storia naturale della nostra specie, Il Mulino, Bologna 2006.

[6] Sappiamo in realtà che non vi è alcuna proporzionalità necessaria tra dimensioni della scatola cranica, volume della materia cerebrale e grado di complessità gestibile dalle operazioni mentali. Ci è noto per esempio che le dimensioni della scatola cranica di Neandertal erano persino superiori a quelle dell’uomo moderno: ciò tuttavia non è affatto un argomento per concludere che egli fosse capace di operazioni mentali più complesse di quelle di cui siamo capaci noi. La neurologia insegna che nei compiti più complessi ed espliciti il rendimento è determinato dalla densità dei circuiti neuronali sulla superficie più esterna del cervello, la corteccia cerebrale. Ora, nell’uomo moderno il cervello presenta un gran numero di striature e ripiegamenti di superficie che aumentano di molto l’estensione effettiva della corteccia esterna, rendendola di gran lunga superiore a quella della scatola ossea. È facile inferire, a partire dall’aumento della superficie, un aumento della quantità di circuiti ospitati, infine una maggiore tolleranza a computazioni complesse. Non abbiamo però sufficienti elementi per stabilire in che misura Neandertal potesse avvalersi del vantaggio anatomico, sino a che disponiamo soltanto di reperti ossei. Sulle «striature del neopallio» cfr. Boncinelli E., Mente, cervello e anima, Mondadori, Milano 2004, p. 77 sgg.

[7] Cfr. Brown F., Harris J., Leakey R.E., Walker A.C., «Early Homo erectus skeleton from west lake Turkana, Kenya», in Nature, n. 316 (1985), pp. 788-92

[8] Cfr. Tobias P.V., «The brain of Homo habilis: a new level of organization in cerebral evolution», in Journal of Human Evolution, n. 16 (1987), pp. 741-61; Tobias P.V. , Olduvai gorge, volume 4: the skulls, endocasts and teeth of Homo habilis, Cambridge, Cambridge University Press 1991; Tobias P.V., «Encore Olduvai», in Science, n. 299 (2003), pp.1193-4; Leakey L.S.B., Tobias P.V., and Napier J.R., «A new species of the genus Homo from Olduvai gorge», in Nature, n. 202 (1964), pp.7-10

[9] Burenhult G., The first humans: human origins and history to 10.000 BC, Harper Collins, New York 1993.

[10] The Mismeasure of Man, W. W. Norton & Company, New York and London 1981.

[11] Cfr. A new Theory of Human Evolution, Philosophical Library, New York 1949. Un riferimento può essere trovato in Koenigswald G. H. R. von, «Early Man: Facts and Fantasy», in The Journal of the Royal Anthropological Institute of Great Britain and Ireland, Vol. 94, No. 2 (Jul. - Dec., 1964), pp. 67-79

[12] Hrdlicka A., «Normal micro- and macrocephaly in America», in American Journal of Physical Anthropology, vol. 25 (1939), pp. 1-91.

[13] La fonte a cui Lubenow fa riferimento è S. Molnar, Human Variation: Races, Types, and Ethnic Groups, Englewood Cliffs, N.J. Prentice-Hall 1983

[14] Lubenow M.L., «Palaeoanthropology in review. Creation Ex Nihilo Technical Journal», n. 10 (1996), pp. 10-7; dello stesso, per un approccio creazionista rigoroso allo studio dei fossili, Bones of contention: a creationist assessment of human fossils, Baker Books, Grand Rapids (Mi.) 1992.

[15] Cfr. Tobias P.V., «Brain size, grey matter and race - fact or fiction?», in American Journal of Physical Anthropology, n. 32 (1970), pp. 3-31.

[16] 348, secondo lo Smithsonian Magazine del Nov. 2006.

[17] Moro A., I confini di Babele, Longanesi, Milano 2006, p. 67 sgg.; di seguito sono registrati numerosi dati sperimentali sull’altrettanto famoso scimpanzé Nim Chimpsky.

[18] Una bibliografia è disponibile in http://language.home.sprynet.com/lingdex.htm.

[19] Darwin tornò più volte sul problema: avanzò anche l’ipotesi che il linguaggio potesse essersi evoluto da un rudimentale impulso «canoro», grazie al quale i nostri antenati erano portati a vocalizzare le loro emozioni o le loro pulsioni in modo del tutto simile a quello che si fa nel linguaggio moderno con le interiezioni. Cfr. Sereno M. I., «Language Origins without the Semantic Urge», in Cognitive Science Online, vol. 3.1 (2005), in: http://cogsci-online.ucsd.edu/3/3-1.pdf.

[20] In un passo di un pamphlet di Charles Watts, Evolution and Special Creation, trovo p. es.: The only objection, perhaps, of any weight that can be urged against the changes which evolution asserts to have taken place, is the fact that we do not see them occur. […] The objection to evolution, that no transformation of one species into another has been seen within recorded history, is entirely groundless, and betrays utter carelessness on the part of the objectors. The truth is, such transformations have taken place, as mentioned above in reference to the tadpole. Professor Huxley and other scientists have proved this to be the case. It should, however, be remembered that in most instances these great changes are the work of time. As Dr. David Page observes: "It is true that, to whatever process we ascribe the introduction of new species, its operation is so slow and gradual that centuries may pass away before its results become discernible. But, no matter how slow, time is without limit; and, if we can trace a process of variation at work, it is sure to widen in the long run into what are regarded as specific distinctions. It is no invalidation of this argument that science cannot point to the introduction of any new species within the historic era; for till within a century or so science took no notice of either the introduction or extinction of species, nor was it sufficiently acquainted with the flora and fauna of the globe to determine the amount of variation that was taking place among their respective families (all’url: http://www.skepticfiles.org/think/evoldx.htm).

[21]  Vd. p. es. l’obiezione del famoso ingegnere scozzese Fleeming Jenkin, che Darwin tenne sempre in grande considerazione. Cfr. Jenkin F., «Review of Darwin's The origin of species», in The North British Review, vol. 46 (June 1867), pp. 277-318.

[22] Si veda p. es. il grande avanzamento delle tecniche di fabbricazione e uso degli strumenti con la comparsa dell’uomo moderno. Ha dato molto da pensare il fatto che sia i Neandertal che tutti i sapiens arcaici si fossero arrestati a uno strumentario di tipo musteriano, e che per contro l’aurignaziano si imponga improvvisamente non appena fa la sua comparsa il genere moderno di Homo. Il fatto suggerisce che la neonata tecnica artigianale necessitasse dell’apporto di adeguate strutture biologiche che potessero fungere da motore del suo passaggio in posizione dominante.

[23] È uno dei sensi possibili dell’adagio «la mutazione propone, la selezione dispone».

[24] Cfr. nella stessa direzione J. Diamond, Guns, Germs & Steel, ed. 1997, p. 17: Obviously, some momentous change took place in our ancestors' capabilities between about 100,000 and 50,000 years ago. That Great Leap Forward poses two major unresolved questions, regarding its triggering cause and its geographic location. As for its cause, I argued in my book The Third Chimpanzee for the perfection of the voice box and hence for the anatomical basis of modern language, on which the exercise of human creativity is so dependent. Others have suggested instead that a change in brain organization around that time, without a change in brain size, made modern language possible.

[25] Ovviamente c’è chi sostiene il contrario. Una buona panoramica sia, per l’appunto, sulla tesi contraria che sull’argomento in generale in Boë L. J., Heim J. L., Honda K., Maeda S., «The potential Neandertal vowel space was as large as that of modern humans», in  Journal of Phonetics (2002), vol. 30, pp. 465–484, reperibile in http://www.phonetik.uni-muenchen.de/~hoole/kurse/hs_evolution/booeetal_jphon_30_3_2002.pdf

[26] Cfr. del resto quanto già puntualizzato supra, nota 6.

[27] Anche se, è bene puntualizzarlo di nuovo, nessun dato sperimentale per ora esclude che le competenze sintattiche attuali siano comparse ex abrupto con l’uomo moderno, in una specie di «Cambriano cerebrale», sebbene sembri molto più verosimile un’evoluzione modulata su aggiornamenti graduali del materiale preesistente. Cfr. Geni, popoli e lingue, cit., p. 142.

[28] Che anche in casi di grave deficienza mentale è l’ultimo a scomparire. Sempre che non si tratti di lesioni localizzate ad aree cerebrali competenti, i casi in cui la degenerazione è abbastanza profonda e invasiva da accompagnarsi ad una perturbazione nell’uso della sintassi sono statisticamente molto rari.

[29] Cfr. Boncinelli E., Mente, cervello e anima, cit., pp. 73-75.

[30] L’apprendimento può riguardare l’acquisizione di un gruppo di nozioni specifiche, oppure di una abilità; si pensa anche che tali periodi giochino un ruolo fondamentale nell’acquisizione di disposizioni psicologiche di lungo termine. Secondo E. Westermarck, per esempio, la vita comune tra due individui di età inferiore al limite della pubertà sarebbe la causa del tabù dell’incesto. La pretesa di spiegare l’istituirsi del tabù attraverso un processo spontaneo ha opposto Westermarck alla scuola psicologica freudiana, che al contrario ritiene ancora oggi naturale la presenza di un’attrazione sessuale tra membri di un unico corpo familiare, e sostiene che l’istituzione inibitoria sarebbe dovuta a un’imposizione mediata socialmente. Cfr. Westermarck E. A., The history of human marriage, Macmillan, London 1921; Spain D. H., «The Westermarck–Freud Incest-Theory Debate: An Evaluation and Reformation», in Current Anthropology, 5, vol. 28 (1987), pp. 623–635, 643–645; Paul R. A., «Psychoanalysis and the Propinquity Theory of Incest Avoidance», in The Journal of Psychohistory, 3, vol. 15 (1988), pp. 255–261.

[31] È in genere la ragione per cui se non si impara una lingua estera molto presto resta sempre uno sgradevole accento «straniero», che il lingua madre è in grado di riconoscere all’istante.

[32] A questo proposito non si può non caldeggiare la lettura di Pinker S., The Language Istinct, Penguin Books, London 1995.

[33] Bickerton ha analizzato diversi casi di bambini a contatto con lingue pidgin che, in modo del tutto indipendente l’uno dall’altro, nel giro di una generazione erano naturalmente in grado di «ricomplicare» il sistema impoverito e farne una lingua creola introducendo in essa, senza avere alcun contatto l’uno con l’altro, novità sintattiche comuni a tutti i casi analizzati. Cfr. ancora Moro A., op. cit., pp. 135-140; Bickerton D., «Le lingue creole», in Le Scienze, quad. n. 108 (1999), 24-31; Senghas A., Kita S.,Ozyurek A., «Children Creating Core Properties of Language: Evidence from an Emerging Sign Language in Nicaragua » in Science, vol. 305 (2004), pp. 1779-1782.

[34] Una buona panoramica in Baker M. C., Gli atomi del linguaggio: Le regole della grammatica nascoste nella mente, Hoepli, Milano 2003.

[35] L’autorevole www.ethnologue.com cataloga 6912 linguaggi attualmente in uso, il cui 96% è utilizzato da meno del 4% della popolazione mondiale. Alcune tabelle facenti uso degli stessi dati di Ethnologue si trovano anche in http://www.nvtc.gov/lotw/months/november/worldlanguages.htm.

[36] Un esempio classico in materia è quello dato dalla differenza nel colore delle pelle. Alcuni antropologi hanno sostenuto che la pelle di colore nero fosse un prodotto dell’evoluzione successivo alla pelle bianca, selezionato in virtù della maggiore resistenza alle bruciature solari e al cancro alla pelle. Altri (a partire da W. F. Loomis) hanno sostenuto che sia stata la pelle scura a venire prima, e che la pelle bianca sia il risultato di una selezione dovuta all’adattamento a ambienti dove la radiazione solare si presentava meno intensa. La radiazione solare è infatti responsabile, attraverso i raggi ultravioletti, della sintesi sottopelle della vitamina D, di cui il nostro corpo ha costantemente bisogno per trattare il calcio presente nel cibo e trasformarlo in materia ossea. Ora, la vitamina D è pressoché assente in quasi tutti i cibi e deve quindi la sua intera produzione all’esposizione al sole, che è tanto favorita quanto è grande la quantità di raggi ultravioletti che riesce a filtrare attraverso la cute. La pelle di un nero lascia passare soltanto dal 3% al 36% degli ultravioletti che la colpiscono, ma poiché l’intensità della radiazione solare è molto forte verso l’equatore (ambiente d’origine dell’uomo moderno), la potenza del filtro non rappresenta alcun fattore di svantaggio; non appena però cominciano le migrazioni verso climi più miti, l’uomo entra in una zona ove il filtro cutaneo del nero è troppo severo rispetto alla quantità di raggi che il debole sole nordico fa arrivare alla pelle. Poiché una carenza di vitamine D causa gravi svantaggi, le varianti chiare della cute, che lasciano passare in media dal 53% al 72% dei raggi ultravioletti, permettendo di capitalizzare al massimo l’apporto della radiazione solare, garantiscono condizioni di vita complessivamente migliori. Cfr. un breve articolo in http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,840985,00.html; Loomis W. F., «Skin-pigment regulation of vitamin-D biosynthesis in man», in Science, n. 157 (1967), pp. 501–506; oppure l’ampia discussione in Jablonski N. G., Chaplin G., «The evolution of human skin coloration», in Journal of Human Evolution, n. 39 (2000), pp. 57–106.

[37] Per quanto grandi possano essere le differenze tra uomo e uomo in dimensioni, attitudini, colore della pelle e via dicendo, serve uno sforzo comparativo virtualmente minimo per comprendere che si tratta di individui appartenenti ad una stessa specie, constatata la predominanza delle affinità anatomiche. Lo stesso gesto concettuale, nel caso delle lingue, non è così intuitivo, come vedremo: in esse l’uniformità è molto più latente. Persuadersi dell’uniformità di fondo tra due lingue incomprensibili l’una all’altra sembra molto meno semplice di convincersi dell’appartenenza ad una stessa specie di uno svedese e un pigmeo.

[38] Si tratta in effetti dell’approccio comparativo che affonda le sue radici più lontano nel tempo; la prospettiva generativista, a confronto, è recentissima; cfr. Geni, popoli e lingue, cit., p. 241-242.

[39] Detta anche «multilateral comparison»; una breve analisi in Kessler B., Lehtonen A., «Multilateral Comparison and Significance Testing of the Indo-Uralic Question», unofficial prepublication draft of chapter 3 (pp. 33–42) of: Forster, Peter, & Colin Renfrew (eds.), Phylogenetic methods and the prehistory of languages. Cambridge, England: McDonald Institute for Archaeological Research, 2006; Poser W. J., Campbell L., «Indo-european practice and historical methodology», in Proceedings of the Eighteenth Annual Meeting of the Berkeley Linguistics Society (1992), pp. 214-236.

[40] Cfr. Hock H.H., Joseph B. D., Language History, Language Change, and Language Relationship: An Introduction to Historical and Comparative Linguistics, Mouton de Gruyter, Berlin 1996, cap. 17.

[41] Cfr. L. L. Cavalli-Sforza, «Genes, peoples, and languages», in Proc. Natl. Acad. Sci. USA, vol. 94 (July 1997), pp. 7719–7724. Al pari di come i linguisti tendono a considerare insolubile il problema di stabilire se possa dirsi unica o meno l’origine del linguaggio moderno, la stessa difficoltà si trova in biologia nello decidere della plausibilità di un’unica origine della vita. L’unica notazione che possiamo fare, a riguardo, è che molti biologi sono portati verso una soluzione di questo genere perché tutti gli aminoacidi che vengono prodotti nella sintesi proteica sono di un unico tipo, laddove sarebbe possibile che ne esistesse un secondo tipo di struttura chimica speculare al primo.

[42] Basti cfr. Bengtson J., Ruhlen M., «Another look at *TIK “finger, one”», in California Linguistic Notes 24/2 (Spring 1994), pp. 9-11.

[43] L’omogeneità semantica è evidente: il dito della mano spesso è utilizzato proprio come sostituzione simbolica e gestuale del numero uno.

[44] Cfr. Ruhlen M., A Guide to the World’s Languages, Stanford University Press, Stanford 1987; Ruhlen M., «Postscript», in A Guide to the World’s Language, Stanford University Press, Stanford 1991, pp. 379-407. Bengtson J., «Global etymologies» in Ruhlen M. (ed.), On the Origin of Languages: Studies in Linguistic Taxonomy Stanford University Press, Stanford 1994, pp. 277-336. Questi, a titolo esemplificativo, i termini essenziali del protolinguaggio stability da Ruhlen: Ku = Who? / Ma = What? / Pal = Two / Akwa = Water / Kw = Drink / Kway = Wet / Tik = Finger, Toe, One / KanV = Arm / Bungn = Knee, Bend / Sum = Hair / PutV = Vulva, Vagina / Cuna = Nose, Smell. La lista compilata da Bengtson nel 1994 ipotizza molte altre voci fondamentali.

[45] Cfr. Thomas L. L., The linguistic theories of N. Ja. Marr, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1957.

[46] Cfr. una raccolta degli universali sintattici in Greenberg J. H. (ed.), Universals of Language.MIT Press, London 1963, pp. 73-113. Per l’aspetto semantico, cfr. Goddard C., «The search for the shared semantic core of all languages», in Goddard C., Wierzbicka A. (eds.), Meaning and Universal Grammar - Theory and Empirical Findings, John Benjamins, Amsterdam 2002., vol. I, pp. 5-40.

[47] Come insegna il calcolo del drift, a velocità tanto elevata quanto è piccola la popolazione di riferimento; nei casi di dimensioni particolarmente esigue, si può arrivare all’estremo del population bottleneck, dove, come è noto, lo stesso principio Hardy-Weinberg si rivela particolarmente instabile. Una semplice spiegazione del drift: If a population is finite in size (as all populations are) and if a given pair of parents have only a small number of offspring, then even in the absence of all selective forces, the frequency of a gene will not be exactly reproduced in the next generation because of sampling error. If in a population of 1000 individuals the frequency of "a" is 0.5 in one generation, then it may by chance be 0.493 or 0.0505 in the next generation because of the chance production of a few more or less progeny of each genotype. In the second generation, there is another sampling error based on the new gene frequency, so the frequency of "a" may go from 0.0505 to 0.501 or back to 0.498. This process of random fluctuation continues generation after generation, with no force pushing the frequency back to its initial state because the population has no "genetic memory" of its state many generations ago. Each generation is an independent event. The final result of this random change in allele frequency is that the population eventually drifts to p=1 or p=0. After this point, no further change is possible; the population has become Homozygous. A different population, isolated from the first, also undergoes this random genetic drift, but it may become Homozygous for allele "A", whereas the first population has become Homozygous for allele "a". As time goes on, isolated populations diverge from each other, each losing heterozygosity. The variation originally present within populations now appears as variation between populations. (Suzuki D.T., Griffiths A.J.F., Miller J.H., Lewontin R.C., An Introduction to Genetic Analysis, 4th ed., W.H. Freeman, New York 1989, p.704, cit. in http://www.talkorigins.org/faqs/genetic-drift.html). Ovviamente il drift si riferisce anche a situazioni accidentali di altro tipo che hanno influenza sulla frequenza degli alleli, p. es. gli eventi catastrofici. Un’importante variazione sul tema del drift è conosciuta come «effetto del fondatore»: un piccolo gruppo geneticamente omogeneo si stacca dalla popolazione di origine (non omogenea) e forma una popolazione del tutto nuova: si pensa che sia per una ragione di questo genere che tra gli indiani d’America manchi quasi del tutto il gruppo sanguigno B, i cui antenati potrebbero essere arrivati attraverso lo stretto di Bering verso la fine dell’ultima glaciazione (10.000 anni fa ca.) in un piccolo numero geneticamente molto omogeneo e, per l’appunto, privo del gruppo B.

[48] Il modello vale infatti se non si verificano perturbazioni dovute a fattori esterni ai principi di differenziazione: in questi casi è vero che la predizione del modello è falsificata, ma non per l’insufficienza della sua capacità di gestione dei dati, quanto piuttosto per condizioni ambientali particolarmente instabili, su cui esso non risulta più applicabile. È appena il caso di notare che, di principio, è la stessa assenza assoluta di perturbazioni a garantire la corrispondenza tra albero evolutivo e albero genetico, che così rappresentano teoricamente due aspetti di una stessa storia di mescolanze e scissioni. Per una lista di alcuni «fattori di perturbazione» cfr. Geni, popoli e lingue, cit., pp. 229-234.

[49] Vd. p. es. l’inglese, che modula oltre venti suoni vocalici sensibilmente distinguibili, di contro alle lingue polinesiane, che arrivano ad averne soltanto tre.

[50] P. es. gli abitanti di un’isola: è il caso dell’Islanda, la cui fondazione risale al IX secolo d. C. per opera di un gruppo di coloni norvegesi, dove si parla ancora oggi una lingua molto vicina all’antico scandinavo. Inizialmente i contatti dell’isola con il continente erano molto intensi, ma andarono progressivamente a diminuire praticamente fino a scomparire. Di qui in poi, l’assenza di influenze migratorie ha impedito la formazione di alterazioni linguistiche significative, eliminando a monte il fattore scatenante di mutazioni da sottoporre alla selezione culturale.

[51] Wang W. S.-Y., «Competing changes as a cause of residue», in Language, n. 45 (1969), pp. 9-25. Cfr. anche Wang W. S.-Y. (ed.), The lexicon in phonological change, Mouton, The Hague 1977; Labov W., Principles of Linguistic Change, Volume 1: Internal Factors, Blackwell, Cambridge (Mass.) 1994.

[52] Il processo resta comunque progressivo: la semplificazione ha il suo luogo di origine in un punto preciso del linguaggio e si estende gradualmente agli elementi di interesse. Non dimentichiamo che proprio l’attenzione alla gradualità del processo è ciò che differenza la teoria della lexical diffusion dalla scuola dei Junggrammatiker tedeschi.

[53] È nota l’incapacità, da parte di alcuni pazienti interessati da lezioni localizzate alla corteccia cerebrale, di formare plurali o coniugare verbi se non per concorso mnemonico: soggetti simili sono in grado di riprodurre applicazioni note di una regola grammaticale, ma si manifestano del tutto incapaci di fare uso dello stesso principio, per esempio, su una parola o su un verbo mai incontrati prima.



INDIETRO