VERITÀ E
LINGUAGGIO.
Sulle Teorie canoniche. Un’introduzione*
di
Emanuele Baiolini
Breve
introduzione con premessa
“Che cos’è la
verità?”
Ponzio Pilato (Giovanni,
XVIII, 38)
La verità è da sempre un muro
contro il quale, prima o poi, ogni filosofo (ma, direi, noi tutti esseri umani)
va a sbattere la testa. È qualcosa di profondamente, radicalmente
irrinunciabile per il dinamico pensiero di chi vuole – almeno tentare di –
afferrarla in tutto il suo fascino, lustro e importanza. Oggi giorno siamo
letteralmente circondati dalla verità – o meglio, siamo letteralmente
circondati da individui che la invocano come fulcro di ogni cosa, come fine cui
ogni operosità umana tende. Nel mondo della politica non si fa altro che
evocarla, e colui che vuole dimostrare il disprezzo che ha nei confronti del
suo avversario è sufficiente che lo accusi di non dirla o di non essere dalla
sua parte. Ma potremmo fare altri esempi: il bambino da educare si rimprovera
quando dice le bugie: “Devi dire la verità, se no ti si allunga il naso!”; il
detective Sherlock Holmes è sempre alla sua ricerca; ma anche nelle più comuni
vicende umane, compare ed è ciò verso cui noi tendiamo: “Sarà veramente, oppure
no, innamorato/a di me? Quale sarà la verità?”; “Ti sei scordato di innaffiare
i fiori, per questo sono morti. Ecco la verità!”. Persino in una canzonetta
italiana famosa, la protagonista tira in ballo una dura e spietata verità che
non le fa sopportare alcun giudizio.
Quello che non viene mai esplicitato, ed è forse naturale in ambiti come
quello della quotidianità, è che cosa sia la verità, o, perlomeno, che cosa si
pretende che sia. In questo articolo, cercherò di tracciare – al limite
dell’essenzialità – le linee principali della riflessione sulla verità in
Filosofia del linguaggio. Più precisamente, mi limiterò nel presentare le più
importanti teorie canoniche della
verità, cercando di fare luce su quelli che sono i pregi e i difetti di
ciascuna.
Tutto
ciò che andrò a trattare, quindi, imboccherà una strada diversa da quella che,
probabilmente, si è immaginata leggendo queste prime righe. Non mi soffermerò
su particolari sfumature della verità di certa filosofia: non la si prenderà in
considerazione, dunque, all’interno di un contesto religioso o prettamente
esistenziale, o altre cose di questo genere. Insomma, lascerò da parte (ossia
ad altri) tutte quelle circostanze che tradizionalmente vengono considerate
come “quelle che contano veramente”.
La
mia attenzione si focalizzerà dunque su queste teorie appena menzionate Esse
sono la teoria Coerentista, Pragmatista e Corrispondentista. È evidente che il campo in cui mi addentrerò è
quello della Filosofia (analitica) del linguaggio, e, lo preciso sin da subito,
quanto andrò a delineare non vorrà essere altro che una semplice presentazione
delle teorie in questione. Inoltre, mi asterrò dal trattare argomenti più
prettamente ‘tecnici’, ossia non mi soffermerò sulle teorie deflazioniste della verità, e quindi,
inevitabilmente, non troveranno spazio in questo scritto le questioni della ridondanza, della concezione semantica
della verità, la teoria della verità di Alfred Tarski, etc. Forse, sosterrebbe
qualcuno, la parte più interessante e stimolante dell’odierno dibattito in tale
disciplina, ma, da un punto di vista espositivo, sono convinto che le teorie
sostanziali siano la tappa di partenza più consona per gli obiettivi qui
proposti.
Premesso ciò – e nonostante tutto – permettetemi di aprire una parentesi
‘alternativa’ che possa preparare il terreno alla stesura dell’articolo. In
questo numero monografico, sono diversi i contributi intellettuali tributati
alla verità. Sembra proprio che essa ci coinvolga pienamente, ed è su questo
punto – quello dell’importanza – che
voglio soffermarmi.
Prenderò ora spunto dalla riflessione sulla verità del filosofo e logico
Michael Lynch. Egli, nel suo True to
life: why truth matters [1], si è chiesto quale sia il posto della verità
nella nostra vita. Per essere precisi, non tanto del posto della verità, quanto
piuttosto quello delle credenze vere
e delle asserzioni vere. Se
riflettiamo attentamente, noi non siamo mai particolarmente felici quando
qualcuno ci dimostra che stiamo sbagliando, e, ancor più realisticamente, da
più fastidio quando qualcuno ci dice che stiamo errando, piuttosto che siamo
bugiardi. Forse perché colui che afferma il nostro errore ci attribuisce un
radicale difetto dell’intelletto, mentre qualora fossimo degli incalliti bugiardi,
il difetto sarebbe morale.
Lynch
si occupa del valore della verità
nella nostra vita: perché ci importano le credenze vere e le asserzioni vere (e
le preferiamo a quelle false?)?
Potremmo dire che, a buon diritto, a noi importa perché essa è condizione
necessaria per la nostra felicità.
Introdotto quest’ultimo concetto, il filosofo ritiene opportuno introdurre la
nozione di senso di sé. In un certo
qual modo, per avere senso di sé occorre avere anche una conoscenza di sé, ossia conoscenza di ciò che ci importa davvero
(che non sono i comuni desideri, come per esempio il desiderio di bermi una
dissetante granita).
Senso di sé → Conoscenza di sé
Ma cosa significa, precisamente, ciò che mi ‘importa
davvero’? Questa è una domanda fondamentale. Ma lo è altrettanto quella di
chiederci perché è importante, pure, avere un senso di sé. Innanzitutto,
potremmo dire che è importante da un punto di vista ‘strumentale’: se non so
cosa voglio, non so, automaticamente, cosa perseguire. Ma, soprattutto, avere un
senso di sé è importante per l’autostima,
ossia il rispetto di sé. Inoltre, per avere autostima, dice Lynch, devo sapere
chi sono, e per sapere chi sono devo sapere che cosa mi importa davvero. Detto
in poche parole, il nostro filosofo vuole dare questo messaggio: non ho senso
di me stesso se non so cosa desidero veramente.
Ma il
discorso non termina qui. Infatti, avere senso di sé è anche condizione
necessaria per l’autenticità, ossia
l’atteggiamento di chi si identifica con i propri ‘reali desideri’ – cioè i
desideri che guidano effettivamente la mia vita. D’altro canto, non è detto
che, per forza di cose, io mi identifichi con essi, sia nel senso che potrei
benissimo non sapere quali sono (e quindi non ho un ‘mio’ senso di sé), sia
perché magari potrei credere, per esempio, di essere dedito ad aiutare gli
altri (e quindi mi identifico con questo desiderio di altruismo), ma essere –
in realtà – un autentico egoista; oppure potrei anche sapere quali sono i miei
desideri reali (per esempio, voglio solo bere perché sono un alcolizzato), ma
non identificarmi con essi (perché voglio smettere, ma non ci riesco). In
queste circostanze, la mia vita sarebbe inautentica.
Arrivati a questo punto, sembra quindi che la felicità richieda
principalmente sia autostima che autenticità. Una persona autentica è
generalmente più felice di una persona inautentica; lo stesso vale l’autostima.
Autostima
Senso di sé
Autenticità
Autenticità
Felicità
Autostima
Lynch
prende però in considerazione anche un altro percorso, che conduce sempre alla
felicità. Questo itinerario inizia con la nozione di onestà intellettuale, che è la disposizione a prendere posizione su
ciò che si ritiene ‘vero’, come, per esempio, l’avere coraggio delle proprie azioni
– magari sino al sacrificio estremo della propria vita (il martire). In un
certo senso, chi è onesto intellettualmente conferisce importanza alla verità,
alle proprie credenze. Significativamente, d’altra parte, possiamo affermare
che si può essere sinceri perché coatti alla sincerità (sinceri ‘per natura’) o
sinceri perché si sceglie di esserlo (sinceri ‘per scelta’). Lynch sostiene che
questa seconda forma di sincerità è quella che più si avvicina alla nozione di
‘onestà intellettuale’: chi è onesto intellettualmente è disposto a dire ciò
che ritiene essere la verità perché è
la verità. Cos’è che lo muove nelle sue scelte? Ovviamente, il valore intrinseco della verità stessa.
L’idea di Lynch è che l’integrità
di una persona richiede sia autenticità che onestà intellettuale.
Autenticità
Integrità
Onestà intellettuale
Infatti, se un individuo non è disposto a esprimere
quello che è essere la verità (dunque non è intellettualmente onesto) diciamo
che non è una persona integra, ma quantomeno subdola. Ed è difficile, d’altro
canto, avere rispetto di sé (autostima) se non sono una persona integra.
Autenticità
Autostima → Integrità
Onestà intellettuale
Ma, siccome sia l’autenticità sia l’onestà intellettuale
richiedono che la verità importi, ne segue che per essere felici occorre essere
integri e avere autostima.
Autenticità
Felicità → Autostima → Integrità
Onestà intellettuale
In realtà, potremmo dire che Lynch non prende in
considerazione esattamente queste relazioni. Egli sostiene non che l’autostima
è condizione necessaria per la felicità, ma solo che – a parità di altre
condizioni – una persona che ha autostima è più
felice di una che non ne ha. E questo, di per sé, non dice che non si possa
essere felici senza avere autostima.
Comunque, al di là di queste suggestive riflessioni, è fortemente
difficile stabilire filosoficamente qual sia il contenuto della felicità. Quello
di Lynch, infatti, non vuole essere altro che un ‘modo’ per dimostrare che la
verità ha un valore per noi.
Ritornando alla delineazione delle mie intenzioni, accennate prima di
questa breve digressione, il prezzo da pagare – di cui sono consapevole tanto
quanto nei suoi confronti scettico – è quello della vecchia critica che viene
mossa ad un certo metodo di indagine filosofica, ovvero quella d’essere arida e
fredda. La comune credenza è, infatti, quella che ritiene necessario e
irrinunciabile il solido riferimento alla componente passionale, istintiva,
sentimentale dell’uomo. Il filosofo deve smuovere gli animi, destarli e
infervorarli di dinamicità contraria e avversa alla sterile apatia di certi
“esercizi” mentali.
La
filosofia, ovviamente, può essere anche
altro, e permettersi di tralasciare certe sfumature e caratteristiche umane
che, entro determinate questioni, ritiene quantomeno devianti. Naturalmente,
per alcuni, tutto questo non è
filosofia. Lasciando al lettore questo disguido, e la decisione da che parte
stia la verità, mi addentro ora
all’interno del mondo delle teorie sostanziali
nella Filosofia del linguaggio contemporanea.
Premessa
all’esposizione delle teorie sostanziali
della verità
Potremmo iniziare il nostro discorso sulla verità, o meglio sulla teoria
della verità, con due fondamentali domande: 1) Che cosa si intende con ‘teoria della
verità’?; 2) Che cosa significa fare
una ‘teoria della verità’?
Per rispondere a queste due domande essenziali alla
comprensione, possiamo delineare gli obiettivi che una teoria della verità generale vuole perseguire. Essi sono
fondamentalmente quattro:
“Il Monte Bianco è in Francia”
è vero;
Con questo enunciato stiamo dicendo: “Il Monte Bianco è in Francia”.
Questo significa che quando diciamo che P è vero, stiamo semplicemente dicendo
P. Qui il predicato è ridondante, inutile. L’essenza della verità è perciò
quella di essere ridondante.
Tracciati questi quattro punti fondamentali, ora possiamo proseguire il nostro
discorso evidenziando ancora almeno due domande, le cui rispettive risposte ci
permettono di delucidare la questione della teoria della verità. Quel che
bisogna chiedersi riguarda più specificamente la nozione di verità:
1. La verità è definibile?
A questo quesito alcuni filosofi rispondono affermativamente, altri invece
credono che la verità non sia passibile di definizione. Vediamo,
sinteticamente, le argomentazioni che stanno a capo delle due differenti
risposte:
- No. Il discorso si chiude
qui, però è necessario motivare la risposta. Questa è la posizione sostenuta
dai cosiddetti primitivisti (Frege, Cartesio, Davidson e la “follia di
cercare di definire la verità”, etc.), che sostengono che la verità sia,
appunto, un concetto primitivo. A questo punto, precisato che non è
passibile di definizione, non resta altro che la possibilità di definire
solamente il nostro modo di accertarla.
- Sì.
Sono coloro
che credono che la verità si possa definire e sollevano la questione della
definizione in termini di altre proprietà:
Px ≡ Q1 x + Q2 x … Qn x
I filosofi che sostengono che la verità è
definibile in termini di altre proprietà sono i propugnatori di quelle che
vengono chiamate teorie sostanziali, mentre sostengono le teorie
deflazioniste coloro che non credono che la verità possa essere definita.
2. Il concetto di verità ha
una funzione? Il concetto di verità serve?
Risponderà, a quest’altro particolare quesito, in modo affermativo chi ritiene,
come abbiamo appena visto, che la funzione della verità sia quella di esprimere
approvazione su qualcosa di detto o sostenuto; negativamente, i sostenitori
della teoria della ridondanza.
Le teorie sostanziali della verità
Teoria Coerentista
- Cosa
dice la teoria coerentista:
La
teoria della coerenza dice che una proposizione, un giudizio o una credenza P è
vera se e soltanto se P appartiene ad un insieme coerente di proposizioni,
giudizi e credenze. In altri termini: vera è una cosa che è coerente con
le nostre conoscenze scientifiche, ossia deducibile in maniera dimostrativa
dalle teorie scientifiche, oppure approvabile con osservazioni o strumenti del
nostro sistema scientifico. Questa teoria, si badi bene, non afferma che le
nostre credenze sono vere se corrispondono ad una realtà che sarebbe
essa stessa coerente, ma significa che le nostre credenze sono vere se superano
un test interno alle nostre
stesse credenze.
Dire
che un enunciato è corretto, cioè vero, è dire che è inseribile (incorporabile)
nel sistema della conoscenza scientifica. Questa teoria della verità fece
discutere vivacemente, all’inizio del ‘900, il Circolo di Vienna; in
particolare O. Neurath e M. Schlick.
- I
difetti della teoria coerentista:
La
più forte obiezione alla teoria della coerenza afferma che il sistema di
conoscenze che prendiamo in considerazione può essere del tutto falso, anche se
qualcosa è coerente al suo interno. Inoltre, possono essere tanti i sistemi
coerenti. Quale usare? Questi problemi hanno indotto alla possibilità di
credere che l’unico modo di prendere sul serio la teoria della coerenza come
teoria della verità, sia quello di sostenere che ci sono enunciati di per sé
veri e altri enunciati che sono veri se coerenti con questi primi. Da qui,
l’evidenziazione di due modi di considerare la nozione di verità: 1) per gli
enunciati-base; 2) per gli enunciati coerenti con gli enunciati-base.
Chiaramente, sorge qui la necessità di chiedere come questi enunciati-base
siano veri, visto che non sono veri in base a nessuna coerenza. I coerentisti
hanno risposto che tale obiezione presuppone un concetto metafisico di verità,
perché in quale senso di “vero” la scienza potrebbe essere falsa? Lo sarebbe
solo nel senso metafisico di corrispondenza.
Questa possibilità di prendere in considerazione due modalità di nozione
di verità ha condotto a quello che è stato il dibattito sui cosiddetti enunciati protocollari. A riguardo, O.
Neurath sostiene che «ogni nuovo enunciato è confrontato con la totalità degli
enunciati esistenti precedentemente coordinati. Pertanto, dire che un enunciato
è corretto significa che esso può essere incorporato in questa totalità (…) Non
c’è nessun modo per formulare degli enunciati protocollari puri e
definitivamente assunti per veri, come base di partenza della scienza»[2].
Non tutti i neopositivisti sono d’accordo con il filosofo e sociologo tedesco:
M. Schlick obietta che una considerazione siffatta fa emergere «l’impossibilità
logica della teoria della coerenza; essa non può darci alcun univoco criterio
di verità, poiché con il suo aiuto possiamo formulare diversi sistemi di
enunciati, tutti in sé privi di contraddizioni e ugualmente incompatibili fra
loro. Tale assurdità si evita solo non ammettendo che qualsiasi asserzione
possa venire espunta o corretta, bensì, piuttosto, specificando quali
asserzioni debbano essere tenute ferme, affinché le altre vi si possano
conformare»[3].
Teoria Pragmatista
- Cosa
dice la teoria pragmatista:
La
teoria pragmatista cerca di fornire un criterio di coerenza – e quindi una
definizione della verità – che sia valido per le credenze e destinato a
controllare i loro insiemi pertinenti. Tale criterio è l’utilità. Colui
che ha esposto nel modo più raffinato questa teoria è stato C. S. Pierce. Egli
sostiene l’esistenza di un intimo legame fra la credenza e la disposizione ad agire. Credere che P
è vero, è essere disposti ad agire in certe maniere, o avere delle abitudini di
azione. La verità non è definita dall’utilità di ciò che crediamo effettivamente,
ma dall’utilità di ciò che crederebbe un agente ideale, collocato in
condizioni ideali o, per dirlo con Peirce, “al termine della ricerca
scientifica”. La teoria pragmatista è una concezione epistemica della
verità, che stabilisce un legame essenziale fra verità e giustificazione.
Infine, possiamo dire che la teoria pragmatista è anche una teoria coerentista:
una credenza è vera se è coerente con l’insieme delle altre credenze cui
potremmo disporre una volta in possesso dell’appropriato metodo di ricerca, cioè
quello che permette di ottenere delle credenze stabili.
- I
rapporti tra la teoria pragmatista e la teoria coerentista:
Ora,
è evidente che questa teoria pragmatista risolve il problema, sorto con la
teoria della coerenza, della corrispondenza con la teoria della conoscenza, e
in particolare della provvisorietà delle nostre conoscenze scientifiche. Peirce
ha sostenuto appunto che ‘vero’ sarà considerato vero quando i dati saranno
tutti incamerati, quando si raggiungerà, come dice lo stesso filosofo
americano, il punto Ω. Ora, dunque, non abbiamo più propriamente
una teoria della conoscenza a cui riferirci nell’ hic et nunc. Ma per un
coerentista una nozione siffatta del termine ‘ricerca’ è assurda, tanto quanto
inutilizzabile il concetto di verità ad essa collegato. Il coerentista guarda
ai procedimenti reali che ci conducono a dire che qualcosa è vero. Identificare
il punto Ω e la verità, vuol dire non avere il sistema dei termini della
ricerca (si deve aspettare che essa finisca), e a questo punto il coerentista
non può utilizzare un concetto di verità siffatto.
- I
difetti della teoria pragmatista:
Dire
che qualcosa è vero se è utile, è comunque in un certo qual modo imbarazzante,
anche se abbiamo visto che con Peirce ci si svincola leggermente da questa
visione. Qualcuno ha precisato che quella pragmatista non è propriamente una
teoria della verità, ma una teoria del valore
della verità.
Fatto sta che i pragmatisti sostengono che la verità serve. Se proprio
volessimo avvicinarci un po’ di più alla loro concezione, potremmo affermare
che hanno ragione nel senso che le credenze vere ci possono aiutare a
realizzare i nostri obiettivi nella vita, le credenze false no. Si possono però
addurre alcune obiezioni a danno del pragmatista: a volte, infatti, è utile
avere delle credenze false. Facciamo un esempio. Mettiamo che io abbia un
appuntamento con una persona alle undici. Guardo il mio orologio e vedo che
segna le undici: sono convinto – cioè credo – che siano realmente le undici e
quindi arrivo in orario al mio appuntamento. Più tardi, però, scopro che il mio
orologio in realtà non ha funzionato perché si è fermato da ieri, e solo
casualmente si è fermato quando erano le ore undici. Da questo esempio,
concludiamo che la mia credenza che fossero le undici mi è stata utile (ad
arrivare puntuale) sebbene fosse falsa. Dunque non solo le credenze vere, ma
anche quelle false possono essere utili. A questa obiezione il pragmatista si
difende sostenendo che le credenze devono essere vere e a lungo termine. Anche a questa contro-obiezione si può addurre un
esempio: credere che mia moglie mi sia fedele (quando invece mi tradisce
ripetutamente) è una credenza falsa e a lungo termine che mi è utile (perché
non mi fa star male, perché mi fa stare insieme a lei, etc.).
La
definizione di verità dei pragmatisti crea dunque parecchie difficoltà. W.
James era consapevole di questi problemi, e sostenne che se io, per esempio, ho
sete e credo che nel frigo vi sia dell’acqua, questa credenza è funzionale al
mio benessere. Quello che si deve ritenere importante – dice il filosofo
americano – è questo: devo potermi fare un’immagine integrata del mondo in modo
da potermi muovere in esso. Quello che è rilevante è che noi abbiamo elaborato
un interesse alla conoscenza: la curiosità, ossia l’interesse alla conoscenza
fine a se stesso.
Teoria corrispondentista
- Cosa
dice la teoria corrispondentista agli albori:
L’enunciato che evidenzia bene questa teoria è:
“vero è ciò che
corrisponde ai fatti”.
Rileviamo subito che il merito di questa teoria
è che fa salva l’oggettività della verità. Fa di essa relazione fra
proposizioni e fatti, e questa relazione oggettiva è indipendente da noi.
Aristotele è stato considerato il padre di questa teoria, ma studi
recenti hanno messo in difficoltà questa paternità, tanto che oggi non si crede
più che il filosofo stagirita fosse un corrispondentista. Ma cerchiamo di
capire meglio. Egli scrive nella sua Metafisica (Γ 7, 1011b 25-26): «Di ciò che è dire che non è, o di ciò
che non è dire che è, è falso; di ciò che è dire che è e di ciò che non è dire
che non è, è vero». Ora,
dobbiamo chiederci: come viene usata la copula da Aristotele? Vi sono tre
letture possibili:
1. Lettura esistenziale è = ‘esiste’
2. Lettura fattuale è = ‘ciò che si dà’; ‘ciò che accade’
3. Lettura predicativa è = ‘così e così’
Si è concordato che la lettura data da
Aristotele è quella ‘predicativa’. Comunque,
nel suo De Interpretatione, il
filosofo dice che la verità e falsità hanno a che fare con la conciliazione (synthesis)
e separazione (diaresis) di soggetto
e predicato. Dovrebbe risultare strano, ai fautori di un Aristotele
corrispondentista, che lo stesso Aristotele non parli di fatti. La questione è
che, storicamente, è stata operata una manovra neoplatonica dell’opera
dell’allievo di Platone, forzando il suo testo e facendolo diventare
corrispondentista. Con Plotino si attua una vera concezione corrispondentista e
viene divulgata dai commentatori di Aristotele del VI secolo. Nello stesso
tempo viene quindi interpretato e si cerca di far convergere queste due parti.
Questi corrispondentisti antichi sostengono che la verità è accordo
(loro dicono symphonia). Accordo, cioè, fra Logos e le cose (non tra
proposizioni e fatti). Essi avevano in mente che le asserzioni avessero degli
oggetti:
“Socrate è un filosofo”
ha come oggetto Socrate.
Noi diciamo che l’asserzione si accorda con il
suo oggetto se e soltanto se l’oggetto selezionato dal soggetto dell’asserzione
soddisfa la condizione espressa dal predicato. I neoplatonici invece non
dicevano propriamente che ‘corrisponde’ a Socrate. Secondo loro ‘si accorda’
significa precisamente che attribuisce a Socrate ciò che conviene a Socrate.
Questa concezione di verità come accordo fra predicato e soggetto sarà ancora
viva nel pensiero di Kant.
- I
difetti della teoria corrispondentista agli albori:
Questa
concezione ha creato difficoltà. Infatti, tutte le proposizioni dovrebbero
avere la forma soggetto-predicato. Ma prendiamo un semplice enunciato come:
“Piove è vero”;
qual è qui il soggetto di ‘piove’? Non esiste.
Ma prendiamo ancora quest’altro esempio:
“La moglie di Aldo è
bella” (…sappiamo che Aldo non è sposato)
L’enunciato ha la forma del soggetto-predicato,
quindi, restando a ciò che ci dicono i neoplatonici, o comunque i sostenitori
di questa tesi sino a Kant incluso, risulta vero. Il fatto è che qui il
predicato non conviene al soggetto, perché il soggetto non esiste, e noi
solitamente pensiamo che un enunciato come questo non sia vero.
- Cosa
dice la teoria corrispondentista contemporanea:
La
teoria della corrispondenza, come la conosciamo noi oggi, è quella che è stata
sviluppata a Cambridge, all’inizio del XX secolo, dai filosofi G. E. Moore e B.
Russell, e perfezionata da Wittgenstein nel suo Tractatus. L’idea di
fondo è molto semplice:
“Piove” è vero se e
soltanto se piove.
Moore pensava non vi fosse altro da dire in
riguardo. Non era vero. Prendiamo due enunciati come:
- “Caravaggio era un
mezzo delinquente”
- “Michelangelo Merisi
era un mezzo delinquente”.
Abbiamo ragione di argomentare e sostenere che
in questi due enunciati è in gioco un solo fatto? (come sosteneva Moore). Prima
di argomentare se vi sia un solo fatto, o due fatti, bisogna stabilire che cosa
è un fatto. E con ciò ci addentriamo nella riflessione di Wittgenstein. Egli
sostiene che:
“Il mondo è la totalità di
fatti e non di cose”.
Se il mondo infatti fosse fatto di cose, non si
riuscirebbe a capire per quale motivo i due enunciati sopra sono equivalenti
(come di fatto lo sono). Precisamente, secondo il filosofo austriaco il
linguaggio raffigura la realtà. La proposizione raffigura uno stato
di cose, è un’immagine dello stato di cose. E per ‘stato di cose’
egli intende una connessione di oggetti, ossia certi oggetti in certe relazioni
fra loro. Cosa significa tutto questo? Significa che A è immagine di B se A ha
una struttura dove i suoi elementi e relazioni tra gli elementi stanno per gli
elementi e le relazioni tra gli elementi di B.
A
questo punto quindi diremo che una proposizione è vera se e soltanto se
raffigura uno stato di cose sussistente, dove il concetto di ‘raffigura’ viene
definito dal concetto primitivo di ‘stare per’.
Wittgenstein sostiene che, che uno stato di cose
sussista è un fatto. Si risolve così il problema del Caravaggio: v’è un unico
stato di cose sussistente e dunque v’è un solo fatto. La nozione di
‘sussistente’ è anch’essa una nozione primitiva (o meglio quella di possibilità
ad essa connessa).
- I
difetti della teoria corrispondentista contemporanea:
Abbiamo visto dunque come la teoria della corrispondenza sia ridotta
alla nozione di ‘significato’ e di ‘sussistente’. Sono quindi le proposizioni
elementari ad essere immagini di stati di cose. Non vi sono, però, solo le
proposizioni elementari, ma anche quelle ‘complesse’, all’interno delle quali
sono presenti i cosiddetti ‘connettivi’. Il filosofo austriaco fa dipendere la
verità delle proposizioni complesse dalla verità delle proposizioni elementari,
cui queste prime sono costituite:
- “A e B” è vero se e
soltanto se A raffigura uno stato di cose sussistente e B raffigura uno stato
di cose sussistente;
mentre:
- “A o B” è vero se e
soltanto se almeno uno dei due disgiunti raffigura uno stato di cose
sussistente.
Per
essere completi, diremo che la verità delle proposizioni elementari è
analizzabile in termini di una teoria della raffigurazione, mentre quella delle
proposizioni complesse è solo indirettamente analizzabile in termini di una
teoria siffatta. Altresì, diremo che le proposizioni complesse non raffigurano
sempre stati di cose sussistenti; anzi, neanche le proposizioni elementari
raffigurano sempre stati di cose sussistenti. Vediamo degli esempi:
- “Giorgione era Giorgio
Barbarelli”
“2 + 2 = 4”
- “La Cappella Sistina è
bellissima”
- “Ad Alessandro piace
suonare il pianoforte”
In questi enunciati non vi sono connessioni fra
oggetti.
Quello che possiamo evidenziare è che gli
enunciati semplici che hanno la forma
R abc
come vorrebbe Wittgenstein, in realtà sono
pochissimi. A questa obiezione il filosofo come risponde? Da un lato pensa che molti
esempi del linguaggio naturale non siano proposizioni semplici, ma proposizioni
prive di senso (come quelle che abbiamo qui sopra elencato). Dall’altro, la
soluzione che adotta è quella dell’analisi. Le forme che si presentano nelle
proposizioni mascherano la forma logica, che sta nascosta sotto il linguaggio.
La mente analizza, ossia vede quale connessione di oggetti raffigura la
proposizione che superficialmente non fa vedere. Quando la nostra mente svolge
questa attività (a noi sconosciuta, perché non ce ne accorgiamo), le
proposizioni che sembrano essere semplici si scoprono essere proposizioni
complesse. V’è quindi tutta un’attività di comprensione, di conoscenza che
smaschera in un certo senso il linguaggio. Il problema è che Wittgenstein non spiega
e non fa esempi in riguardo a tale processo. Più tardi lui stesso respingerà
queste sue posizioni iniziali, sostenendo d’essere stato dogmatico e di non
aver perciò dato spiegazioni per questo motivo.
V’è
analogamente difficoltà con le proposizioni complesse, e cioè non funzionano
nel modo in cui dice Wittgenstein. Vediamo subito un esempio:
“La macchina non
funziona perché il carburatore è intasato”
Le due proposizioni semplici possono essere
vere, ma non la proposizione complessa, perché la macchina (mettiamo…) non
funziona perché ha la batteria scarica. In questo caso si dice che il
connettivo ‘perché’ non è vero-funzionale. A questo proposito,
Wittgenstein se la sbriga dicendo che gli enunciati causali sono insensati.
Possiamo dire, generalmente, che la teoria del filosofo austriaco è certamente
una teoria della corrispondenza, o meglio una teoria dell’interpretazione della
nozione di corrispondenza.
Ora
possiamo vedere tre obiezioni generali alla teoria della corrispondenza:
1) Frege, in questo preciso
ambito, è un filosofo cosiddetto primitivista. Egli dunque sostiene che la
verità è un concetto primitivo. Di conseguenza è contrario a una teoria della
corrispondenza. La corrispondenza perfetta, egli sostiene, è la coincidenza,
ma nel linguaggio la corrispondenza perfetta non c’è: un enunciato non può
coincidere con un fatto. Ma allora ‘corrispondenza’ non significa
‘coincidenza’, e quindi deve essere, per forza di cose, una relazione in qualche
modo imperfetta. La nozione di corrispondenza è per questo inutilizzabile per
la verità, e se essa non è coincidenza allora è solo parziale. Per essere
precisi, a Frege si potrebbe obiettare che ci può essere una corrispondenza
perfetta che non è coincidenza; per esempio: ci può essere un’immagine di uno
stato di cose perfetto, ma non essere coincidente con lo stato di cose.
2) La teoria della
corrispondenza sembra implicare il platonismo:
2
+ 2 = 4
Se seguiamo la teoria, questo enunciato
aritmetico deve corrispondere a un fatto. Allora, v’è un altro mondo che
corrisponde all’immagine cui è 2 + 2 = 4. È comunque strano che una teoria
della verità mi condanni al platonismo. Questi due aspetti dovrebbero essere
indipendenti. Vi sono tre vie d’uscita da questa difficoltà:
a)
Restringere
la teoria della corrispondenza: la verità non riguarda la verità della
matematica, ossia: un conto è dire che è vero che questo tavolo è marrone, un
altro conto è dire che è vero che 2 + 2 = 4. Questa restrizione ci conduce ad
una vera e propria teoria parziale della verità.
b)
No,
la verità che si considera è la verità in quanto tale, solo che il termine
‘verità’ non si applica alle proposizioni matematiche (è la posizione di
Wittgenstein nel Tractatus).
c)
La
verità è corrispondenza, ma le proposizioni matematiche vanno reinterpretate:
esse parlano di oggetti del mondo.
3)
La
terza obiezione, con la quale concludo il mio intervento, è quella del
cosiddetto argomento della Fionda. Esso
vuole dimostrare che se un enunciato corrisponde ad un fatto, allora
corrisponde a tutti i fatti. Se così
fosse, è chiaro che la corrispondenza perderebbe interesse. L’argomento della
Fionda è stato elaborato da filosofi, matematici e logici come Frege, Gödel,
Davidson, etc. Wittgenstein, a titolo di cronaca, non ha dato una precisa
risposta all’obiezione presentata da questo argomento.
Mettiamo di dire che l’enunciato
‘Napoli è a sud di
Torino’ corrisponde al fatto che Napoli è a sud di Torino
Dobbiamo prendere in considerazione il
Principio
*: Se x
corrisponde al fatto che p, allora corrisponde al fatto che q a condizione che:
a) p e q siano logicamente equivalenti, oppure
b) p sia diverso da q solo per il fatto di
contenere t1 al posto di t2 essendo t1 = t2
[esempio: p = Roma è in Italia, q = la sede
del Papato è in Italia]
Osservazione:
a = a
(l’x tale che x = a) = ( l’x tale che x = a) [è come dire a = a: l’x
tale che x = a è a stesso]
Consideriamo ora la descrizione ‘ l’x tale che
[x = a & p]’, dove p è un qualche enunciato.
1) Se p è vero, la descrizione è soddisfatta da
a (e solo da a);
2) Se p è falso, la descrizione non è
soddisfatta da niente (non esiste un x tale che sia vero ‘x = a &
P’,
perché p è falso).
Quindi se p è vero
(l’x tale che [x = a & p]) =
(l’x tale che x = a)
è vero;
Mentre se p è falso
(l’x tale che [x = a &p]) = (l’x tale che x
= a)
è falso.
In altre parole, p è logicamente equivalente a ‘(l’x tale che [x = a & p]) = (l’x
tale che x = a)’.
Torniamo ora a ‘Napoli è a sud di Torino’.
Abbiamo visto che p è logicamente equivalente a
(l’x tale che [x = a e Napoli è a sud di
Torino]) = (l’x tale che x = a).
Quindi – per il Principio * - ‘Napoli è a sud di
Torino’ corrisponde al fatto che
(l’x tale che [x = a e Napoli è a sud di
Torino]) = (l’x tale che x = a).
Ma allora corrisponde anche al fatto che
(l’x tale che [x = a e Pavia è a nord di Roma])
= (l’x tale che x = a)
[perché ‘Napoli è a sud di Torino’ e ‘Pavia è a
nord di Roma’ sono considerati coestensivi].
Ma [per l’Osservazione] ‘(l’x tale che [x = a e
Pavia è a nord di Roma ]) = (l’x tale che x = a)’ è logicamente equivalente a
Pavia è a nord di
Roma
Quindi ‘Napoli è a sud di Torino’ corrisponde al
fatto che Pavia è a nord di Roma.
* Il presente articolo si avvale dei seguenti supporti bibliografici: 1) Pascal Engel, La vérité. Réflexions sur qualques truismes, in Jean-Michel Besnier (digée par) Optiques Philosophie, Hatier, 1998. Trad. It. Verità, De Ferrari Editore, Genova, 2004. 2) Marco Messeri, Verità, La Nuova Italia, Firenze, 1997.
D’altro canto, mi è d’obbligo precisare – con senso di profonda gratitudine – che, nella sua (quasi) integrità, quanto è stato scritto ha trovato spunto di riflessione e base su cui costruire le fondamenta nelle lezioni universitarie del corso di Filosofia del linguaggio tenute dal Prof. Diego Marconi, presso l’Università degli Studi di Torino, durante il secondo semestre dell’anno accademico 2004/05. Altresì, non ho riserve nel sottolineare che la struttura dell’articolo non sarebbe mai stata tale senza le sue conoscenze trasmesseci durante quegli incontri. Con la stessa forza, voglio precisare che, ovviamente, qualsiasi incompletezza, imprecisione o errore concettuale eventualmente presente non è che da imputarsi al sottoscritto.
[1] M. Lynch, True to life: why truth matters, MIT press, 2004.
[2] M. Messeri, Verità, La Nuova Italia, Firenze, 1997, pp. 144-145.
[3] Ivi, p. 145.