Che cos’è la logica deontica?
di A. Pizzo
0. Introduzione.
Il problema della storia della logica deontica assume senso nel momento in cui ci si pone la questione intorno alla qualifica di verità (-tiva) della logica classica, se essa rappresenti cioè «la vera teoria della deduzione» (M. L. Dalla Chiara Scabini, Logica, ISEDI, Milano, 1974, p. 34) o se possano «esserci delle altre logiche altrettanto corrette o addirittura più corrette della stessa logica classica» (ivi). Ai nostri giorni, infatti, «è avvenuta una sorta di esplosione demografica di logiche diverse» (ivi, p. 35) che ha imposto l’esame della loro pertinenza nel novero della logica.
La logica deontica, di cui intendiamo discutere in questa sede, appartiene a giusto titolo a questo processo storico (l’esplosione di “logiche altre”, rispetto a quella cd. classica): problematicità teoretica del suo stesso esistere (“è logica la logica deontica?”) e del suo prodursi all’interno di una ben determinata cornice culturale (“che cos’è la logica deontica?”).
Rispetto alla molteplicità dei fronti problematici che al riguardo sarebbe possibile, e teoreticamente fruttuoso, oltre che importante, affrontare, intendiamo limitarci al seguente: tentare di dare una risposta alla domanda «che cos’è la logica deontica?».
Forse, però, e ciò apparirà chiaro solo in seguito, in filosofia è più importante porre domande che trovare risposte, ed essendo la logica deontica una logica prettamente “filosofica”, essa non sfugge certo a questa dinamica.
Ma entriamo, allora, in medias res.
1. Del contesto. Della questione. Del discorrere.
L’ambiente culturale entro il quale trova origine, e senso, la logica deontica è quello analitico, tanto per ammissione esplicita da parte del suo più importante cultore, quanto da parte di quanti si sono posti la problematica storiografica inerente all’orizzonte di senso di questa branca della logica (N. Rescher, The Logic of the Commands, Routledge and Kegan Paul, London, 1966, p. 6), così poco standard (G. Sartor, Informatica giuridica. Un’introduzione teorica, Giuffré, Milano, 1996, p. 87), così poca rigorosa o non ancora adeguatamente sistemizzata (G. Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione di ‘deve’ da ‘è’, Giuffré, Milano, 1969, p. 612), o di difficile iscrizione nel novero delle logiche cd. standard (A. N. Prior, Formal Logic, Cambridge University Press, Cambridge, 1955, p. 220 e sgg.). Ed è analitico almeno in duplice senso. Infatti, intanto la logica deontica nasce, e viene anche in seguito considerata, seppur in chiave differente dal senso originario attribuitole dal suo fondatore moderno (G. H. von Wright, Deontic Logic, “Mind”, 1951, p. 1.), quale una logica di proposizioni normative (N. Rescher, Topics in Philosophical Logic, Reidel, Dordrecht, 1969, p. 321 e A. C. A. Mangiameli, Diritto e Cyberspazio. Appunti di informatica giuridica e filosofia del diritto, Giappichelli, Torino, 2000, p. 128) in quanto ha origine la sua formulazione all’interno del dibattito neopositivista (P. Tripodi, La logica filosofica di Georg Henrik von Wright fra Wittgenstein e Carnap, “Rivista di Filosofia”, 3, 2002) intorno al significato [meaning] delle enunciazioni non assertorie. Infatti, scrive S. Cremaschi, L’etica del novecento. Dopo Nietzsche, Carocci, Roma, 2005, p. 64: «Negli anni quaranta iniziò a concentrarsi l’attenzione sulle possibili conseguenze per l’etica degli sviluppi della logica. Una delle linee di ricerca intraprese fu quella dello sviluppo di sistemi di logica formale specifici per il linguaggio deontico, cioè contenente prescrizioni (…) una seconda linea partì dalla riscoperta della critica humiana al passaggio is – ought».
In altri termini, l’origine storica della logica deontica è l’ambito della discussione neopositivista sulla logica (e sulla sensatezza) delle proposizioni non – assertorie, dibattito simbolizzato dal cd. dilemma di Jørgensen (J. Jørgensen, Imperatives and Logic, “Erkenntnis”, 1937 – 8, p. 290: «according to a generally accepted definition of logical inference only sentences which are capable of being true or false can function as premisses or conclusions in an inference; nevertheless it seems evident that a conclusion in the imperative mood may be drawn from two premises one of which or both of which are in the imperative mood»), e che ha informato tutta la posteriore elaborazione di logiche del dovere, di logiche delle preferenze (S. Danielsson, The Logic of Decision, Uppsala, 1969), di logiche valutative (A. Visalberghi, Esperienza e valutazione, La Nuova Italia, Firenze, 1968), e così via.
Infatti, se tradizionalmente, in una linea che si fa risalire sino ad Aristotele, la logica, innanzitutto e per lo più (secondo M. L. Dalla Chiara Scabia, Logica, ISEDI, 1974, p. 7: «il termine logica viene usato indubbiamente con molti sensi diversi»), è tale se, e solo se, ha come proprio oggetto enunciati descrittivi (P. Odifreddi, Il diavolo in cattedra. La logica da Aristotele a Gödel, Einaudi, Torino, 2004, p. 53 attribuisce ad Aristotele (Dell’interpretazione, 17 a) l’origine della definizione della logica quale studio dei discorsi «che possono essere veri o falsi», asserendo come «la cosa essenziale è che si intenda, in ogni caso, un’espressione che può essere vera o falsa»), allora ciò mal si concilia con l’impressione, anche immediata, secondo la quale anche gli enunciati imperativi appaiono godere di una certa logica (D’altra parte, scrive P. Odifreddi, Le menzogne di Ulisse. L’avventura della logica da Parmenide ad Amartya Sen, Tea, Milano, 2004, p. 11: «la logica è, per definizione, lo studio del logos: cioè, del pensiero e del linguaggio. O meglio, del pensiero come esso si esprime attraverso il linguaggio». Non sono forse gli enunciati normativi espressione del logos? Negare questo fatto, apparentemente incontestabile, vuol dire asserire l’assoluta irrazionalità degli enunciati normativi, e, dunque, della logica deontica).
In altri termini, prendendo a prestito la riflessione «analitica» sulla «Grande Divisione», da un lato abbiamo il parere fondato secondo il quale:
se le relazioni logiche (…) sono da interpretare in termini di valori
di verità, e se imperativi, norme e giudizi di valore sono aleticamente
adiafori, è impossibile che sussistano relazioni logiche fra imperativi, norme
e giudizi di valore (non si danno cioè, argomenti logicamente validi aventi
come premesse o conclusioni affermazioni normativo – valutative) (B. Celano, Dialettica della
giustificazione pratica. Saggio sulla Legge di Hume, Giappichelli, Torino,
1994, p. 326)
e dall’altro l’impressione secondo la quale la logica moderna appare sufficientemente matura e, dunque, in grado di fornire formalizzazioni adeguate anche di enunciati (non – significativi) originariamente non formalizzabili. Si ripropone, allora, la questione classica: «è possibile applicare i concetti di vero e di falso ad una norma?» (M. Panzarella, Logica deontica, tempo, deduzione, in G. Primiero – G. Rotolo, Mappe concettuali territori cognitivi. I Workshop di Studi filosofici Biblioteca tematica “Potere e Sapere”, Facoltà di Lettere e Filosofia, Università degli Studi di Palermo, 2004, p. 55).
La questione non è di poco conto se ancora tra gli anni ’60 e ’70 Kalinowski riteneva applicabile, senza
alcuna difficoltà il principio di bivalenza (espressione “forte” della
natura veritativa delle espressioni apofantiche) alle enunciazioni deontiche e
se al termine del secolo scorso Makinson avvertiva come, al contrario, la
logica deontica avesse tradito il suo mandato originario in quanto da un lato
sosteneva inapplicabile il criterio di verità alle enunciazioni deontiche e
dall’altro le trattava alla stregua di enunciazioni apofantiche (D. Makinson, On a Fundamental Problem of Deontic Logic,
in P. McNamarra - H. Prakken, Norms, Logics and Information Systems. New Studies in Deontic Logic and
Conputer Science,
IOS, Amsterdam, 1999, p. 29).
Questa è, forse, anche la causa della svolta compiuta dal suo fondatore il quale, rovesciando ogni aspettativa, riformula la logica deontica nei termini di una logica tesa a catturare la dimensione praxeologica della legislazione umana razionale (G. H. von Wright, Norme, verità e logica, “Informatica e diritto”, 3, 1983 pp. 16 – 7). Ciò perché la logica delle norme appare da sola insufficiente agli scopi prefissi (Infatti, scrive G. H. von Wright, Deontic Logic: a Personal View, “Ratio Juris”, 1, 1999, p. 30: «A Logic of Norms must therefore be supplement by, or stand on the shoulders of, a Logic of Action (…) Unlike the logic of normative concepts, the logic of action concepts has, to the best of my knowledge, no anticipation or roots in earlier formal theory») e perché l’attesa alla formalizzazione simbolica adeguata passa in secondo piano rispetto all’esigenza di individuare il senso delle azioni pratiche. La seconda ragione si lega al diffondersi nel corso della seconda metà del XX sec. delle tematiche metaetiche (Osserva, infatti, bene S. Cremaschi, op. cit., p. 240: «la logica deontica è rilevante per il ragionamento pratico, ma solo se vi facciamo rientrare sia la logica dei dover – essere sia la logica dei dover – fare e comunque soltanto per un suo ambito ristretto. Infatti per tutte le azioni indifferenti o permesse si applica il ragionamento teleologico e per i conflitti fra doveri le considerazioni teleologiche decidono quale peso dare a quelle deontologiche») e al rinnovarsi dell’interesse generalizzato in etica applicata.
In questo modo, la logica deontica muta passando dall’essere una logica degli enunciati deontici ad essere una logica della deontica (P. Di Lucia, Deontica in von Wright, Giuffré, Milano, 1992, p. 3. Anche: G. H. von Wright, Introduzione, a: G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 37).
La svolta non è da poco, e risponde, a suo modo, alla questione fondamentale ben espressa nelle parole dell’autore:
philosophically, I
find this paper [Deontic Logic] very unsatisfactory. For one thing, because it
treats of norms as a kind of proposition which may be true or false. This, I
think, is a mistake. Deontic logic gets part of its philosophical significance
from the fact that norms and valuations, trough removed from the realm of
truth, yet are subject to logical law. This shows that logic so to speak, ha a
wider reach than truth (G. H. von Wright, Logical Studies, Routledge and Kegan Paul,
London, 1957, p. vii)
2. La questione “logica deontica”.
Il fallimento degli scopi prefissi dà conto degli innumerevoli sconvolgimenti assiomatici svoltisi durante parecchi anni, anche senza trovare una soluzione soddisfacente, cui è andata soggetta (R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (I), “Verifiche”, 3, 1982, pp. 329 – 362 e R. Poli, La logica deontica: dalla fondazione assiomatica alla fondazione filosofica (II), “Verifiche”, 4, 1982, pp. 459 – 487), ma anche del perchè dei vari e non durevoli tentativi di utilizzarla in chiave sociologica (come p.e. in G. Di Bernardo, Logica, norma, assiomi. Un’introduzione metodologica, Istituto di Scienze Sociali, Trento, 1969) o di indagine della realtà sociale. Il che, infatti, spiega come mai tanto interesse sia stato rivolto nei confronti della logica deontica (P. Leonardi, Sulle regole, Libreria Universitaria Editrice, Verona, 1983, p. 1).
Tendenze queste che se assunte nella loro radicalità negano la possibilità di una logica deontica. Lo stesso riprendere il tema del dilemma di Jørgensen nel corso degli anni ’90 rientra nello stesso fenomeno: messa in questione della possibilità di una logica deontica (N. Grana, Logica deontica paraconsistente, Liguori, Napoli, 1990, p. 14. Anche: S. Coyle, The Meanings of the Logical Constants in Deontic Logic, “Ratio Juris”, 12, 1999, pp. 39 – 58 e S. Coyle, The Possibility of Deontic Logic, “Ratio Juris”, 15, 2002, pp. 294 - 318), peraltro sempre sfidata dal verificarsi di formule incoerenti (“paradossi”) presso qualsiasi calcolo di logica deontica (A. Al – Hibri Cox, Deontic Logic. A Comprehensive Appraisal and a New Proposal, University Press of America, Washington, 1978. Anche: T. Mazzarese, Antinomie, paradossi, logica deontica, “Rivista internazionale di Filosofia del Diritto”, 61, 1984, p. 419 – 464).
Tutto ciò ci spinge a domandarci: è possibile la logica deontica?
Certamente la risposta va oltre la considerazione secondo la quale essa è possibile per il solo fatto che storicamente si siano dati esempi di logica deontica (A. Ross, Direttive e norme, Comunità, Milano, 1978, p. 214 (ed. or. 1968)). Infatti, appare riduttivo porre la questione in questi termini. Soprattutto se sembra più utile indagare la questione della logica deontica prendendo in considerazione (solo) il problema definitorio. Infatti, è possibile considerare qualcosa possibile se si può indicare in modo univoco quella cosa, se si riesce e nominarla, a tematizzarla, a porla quale oggetto di discorso.
Allora, diventa possibile rispondere alla domanda se la logica deontica sia possibile (in generale: la questione della logica deontica), se, e solo se, è possibile dare una definizione di logica deontica.
La questione, al contrario di quanto possa (erroneamente) apparire, non è oziosa.
Molte ed innumerevoli sono state le logiche deontiche proposte (J. J. Meyer – R. J. Wieringa, Deontic Logic: A Concise Overview, in J. J. Meyer – R. J. Wieringa, Deontic Logic in Computer Science. Normative System Specifications, John Wiley and Sons, Chichester, 1993, pp. 3 e sgg. Anche: R. Girle, Modal Logics and Philosophy, Acumen, Teddington, 2000, p. 171 e sgg. V. pure Z. Ziemba, Deontic Logic, Appendice a: Z. Ziembiński, Practical Logic, PWN – Polish Scientific Publishers, Warszawa – Dordrecht, 1976, pp. 360 -430), raccolte sotto l’etichetta di Logica Deontica Standard [Standard Deontic Logic] (B. Hansson, An Analysis of Some Deontic Logics, “Noûs”, 1969, pp. 373 - 398. Anche: L. Powers, Some Deontic Logicians, “Noûs”, 4, 1967, pp. 381 – 400), e tale pluralismo mette capo alla necessità di fare chiarezza.
La letteratura al riguardo fornisce il seguente elenco, peraltro certo non esaustivo, di definizioni di logica deontica:
1. logica del comportamento dei concetti normativi (T. Mazzarese, Logica deontica e linguaggio giuridico, Cedam, Padova, 1989, p. 3; A. Ross, Direttive e norme, Comunità, Milano, 1978, p. 209; G. H. von Wright, Deontic Logic, “Mind”, 1951);
2. logica della deontica (P. Di Lucia, op. cit., p. 3; G. H. von Wright, Introduzione, cit., p. 37);
3. logica delle proposizioni normative (N. Rescher, Topics…cit., p. 321; A. C. A. Mangiameli, op. cit., p. 128);
4. logica delle inferenze normative;
5. «a branch of philosophical logic
involving reasoning about norms» (L. M. M. Royakkers, Extending Deontic
Logic for the Formalisation of Legal Rules, Kluwer, Dordrecht, 1998, p. 13);
6. «logic of deontic modalities, such
as ‘obligatory’, ‘fobidden’ and ‘permitted’» (H. Prakken, Logical Tools for
Modelling Legal Arguments. A Study of Defeasible Reasoning in Law, Kluwer, Dordrecht, 1997, p. 283);
7. logica degli enunciati deontici e delle loro funzioni di verità (N. Amato, Logica simbolica e diritto, Giuffré, Milano, 1969, p. 154).
Mentre, una lettura diversa suggerisce queste ulteriori definizioni di logica deontica:
8. logica dei comandi;
9. logica delle decisioni;
10. logica delle intenzioni;
11. logica delle promesse;
12. logica dei desideri (L. Åqvist, Interpretations of Deontic Logic, “Mind”, 290, 1964, p. 246 e sgg.).
Qualcuno potrebbe pure sostenere che alcune definizioni siano mere ripetizioni. In realtà, riteniamo come ognuna di queste definizioni rimandi ad una concezione differente di logica deontica (scrive: M. Martini (ed.), Dizionario di filosofia contemporanea, Cittadella, Assisis, 1979, p. 275: «la nuova logica deontica si occuperà dell’analisi e formalizzazione dei concetti e delle argomentazioni caratteristiche del discorso normativo (obbligo, proibizione di azione, ecc.) in forma simile a quella con cui la logica formale classica si occupa del discorso dichiarativo»).
In altre parole, all’apparente univocità dei sensi espressi dalle differenti definizioni di logica deontica, emerge un pluralismo di logiche deontiche che esprime una direzione diversa attribuita al significato di questa “branca” del sapere logico. Fermo restando, comunque, il piano filosofico (Scrive, infatti, G. H. von Wright, Proposizioni normative condizionali, “Epistemologia”, 6, (2) 1983, p. 189: «alla logica deontica si ricollegano interessanti e persino profondi problemi di carattere filosofico») sul quale si stagliano le varie proposte di calcoli logici.
Consideriamo, allora, la linea delle definizioni (1) – (7).
Che la logica deontica prenda in considerazione il comportamento (logico) realizzato dai concetti normativi appare cosa scontata, ma solo se si tiene in mente il dibattito storico all’interno del quale ha avuto origine il progetto deontico. Infatti, in ambito neopositivista, ci si pose il problema della significatività delle enunciazioni non assertive e se si potesse risolvere il problema della differenza tra proposizioni apofantiche e proposizioni non apofantiche per il ricorso o ad un’applicazione analogica (seppur problematica) della comune logica enunciativa o tramite la formulazione di una nuova logica. Curiosamente, la strada maggiormente battuta è stata la prima possibilità, salvo rari casi nei quali apparve chiaro come il tentativo compiuto non potesse essere fruttuoso, a meno di dichiarare (ma solo sino ad un certo punto) che il linguaggio umano è uno solo, e che a cambiare è solo l’uso che se ne fa (p.e. R. M. Hare, Il linguaggio della morale, Ubaldini, Roman, 1968; invece, I. M. Copi, Introduzione alla logica, Il Mulino, Bologna, 1964 introduce inizialmente le tre principali funzioni del linguaggio, lasciando, forse, intendere che uno solo è il linguaggio umano mentre a cambiare sono le funzioni attribuite dalle singole intenzionalità comunicative). Von Wright, che del Neopositivismo è un esponente a suo modo (un po’ come tutto l’ambiente culturale finnico) e che con l’originale elaborazione analitica aveva un rapporto diretto ad Oxford, anche con la versione certo non ortodossa del suo maestro Wittgenstein, segue una via diversa, pur non coincidente con la seconda strada indicata. Egli non formula una “nuova” logica, ma fonda una considerazione modale degli enunciati non apofantici, normativi in primo luogo. Per come Jørgensen indicava la differenza tra concetti descrittivi e concetti direttivi nel differente mood, così von Wright ritiene che, benché agenti i secondi in normali enunciazioni (umane), il loro comportamento logico sia coglibile sub specie modale, utilizzando, cioè, la logica enunciativa modale.
I concetti normativi, in altre parole, esplicano un loro comportamento che è formalizzabile (dunque, pienamente studiabile e valutabile) in logica (modale) (Fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/Deontic_logic). All’epoca egli distingueva, così, tra una logica delle modalità aletiche (possibilità; impossibilità; necessità) e una logica delle modalità deontiche (possibile; obbligatorio; vietato; facoltativo; indifferente), basandosi, comunque, su una correlazione stretta tra le prime e le seconde. La logica deontica, allora, appariva quale una sottobranca della logica modale tesa a catturare, entro forme logiche ben formate, il comportamento dei concetti deontici. Non una «nuova» logica, ma una rielaborazione della logica enunciativa.
La definizione (2) non sostituisce la prima, ma ne approfondisce un singolo aspetto nella direzione degli studi, differenti dalla mera logica, di deontica, considerata come un mondo possibile prodotto dall’effettuazione dei concetti deontici. Sarebbe, da questo punto di vista, la logica deontica una logica della dimensione deontica? Difficile dirlo, così come pure risulta difficile comprendere il senso di questa definizione, che ci limitiamo ad annotare perché storicamente importante.
Anche la definizione (3) non sostituisce la prima, ma ne approfondisce un aspetto. I concetti deontici hanno luogo non solo nel linguaggio normativo, ma in vere e proprie proposizioni normative. Dato che problematiche appaiono essere le inferenze normative, ecco che la logica deontica dovrebbe indagare il fondamento logico delle proposizioni normative. Come si vede, anche questa definizione intrattiene rapporti stretti col dibattito originario: Jørgensen considerava possibili le inferenze normative, pur distinte da quelle apofantiche, se interpretate analogamente a quelle enunciative nei cui termini le prime erano sempre riformulabili. A partire da quella pioniera intuizione, la quale però cozzava, e pesantemente, con il divieto neopositivista di derivare ‘deve’ da ‘è’ (e viceversa) [Legge di Hume], s’è proposta la logica deontica quale logica del comportamento delle proposizioni normative. Ma è possibile parlarne in questi termini? Non appare, ad un esame degli argomenti, sensato in quanto dovrebbe essere una logica episodica, non sistematica, che non può realizzarsi nella forma del calcolo perché molteplici sono le proposizioni normative. Come poterle considerare tutte? Eppure questa definizione ha avuto largo consenso se non altro per la profonda suggestione che produce.
La definizione (4) è una diretta conseguenza della precedente: come si realizzano proposizioni normative, così è possibile veder realizzate inferenze deontiche. Tali sarebbero, cioè, i risultati dei ragionamenti che hanno ad oggetto le proposizioni normative. Ma resta problematico definire cosa siano tali inferenze e se, sotto un punto di vista rilevante, siano possibili. Ovvio, però, che se assumiamo per buona questa definizione e sosteniamo come non esistano inferenze deontiche, diventi impossibile la stessa logica deontica. Conseguenza non desiderabile. Per di più, come per la precedente definizione, la mancanza di caratteri comuni a tutti i tipi di inferenze deontiche rende difficile realizzare l’attesa sistematica della logica moderna: costruire un calcolo di logica deontica. Il che, incidentalmente, riporta alla problematica in oggetto, alla “questione” della logica deontica.
La definizione (5) è imprecisa, ma ha il pregio di mettere in lue due aspetti sin qui occultati dietro le differenti proposte. In primo luogo la logica deontica è una logica filosofica, e, in secondo luogo, concerne i ragionamenti su norme. Che vuol dire tutto ciò? La logica deontica non è mero calcolismo, ma ha radici filosofiche. Ciò è mostrato dalla sua origine storica, ma è stato occultato dalla natura interdisciplinare che il suo sviluppo ha assunto, venendo ad interessare, per comprensibili interessi funzionalistici, filosofi, logici, ingegneri, matematici, sociologi, epistemologi, teorici del diritto, e così via. Ognuno ha così contribuito da parte della propria «ontologia regionale» di appartenenza allo sviluppo della disciplina. Ma ciò l’ha allontanata progressivamente dall’origine filosofica, considerata dagli altri settori non prioritaria. Definirla come una logica filosofia vuol dire, allora, ridare pieno vigore alla considerazione che di essa aveva il suo fondatore moderno, e assicurarle lo spessore suo proprio: essere una logica non matematica, ma permeata di profonde suggestioni filosofiche. Sin qui tutto a posto, quel che, invece risulta problematico è la seconda parte della definizione: come si realizza una considerazione logica dei ragionamenti su [about] norme? Eppure è questo il fronte delle ricerche di logica deontica a godere di maggiore considerazione nel settore degli studi di informatica giuridica. Tant’è che il paradigma di logica deontica utilizzato la distingue nettamente da quello classico, venendo incontro alle esigenze di sfumatezza; di vaghezza [Fuzziness]; di difettibilità [Defeasibility] del linguaggio legale (J. Hage, Studies in Legal Logic, Springer, Dordrecht, 2005; H. Prakken, Logical Tools for Modelling Legal Arguments. A Study of Defeasible Reasoning in Law, Kluwer, Dordrecht, 1997 e L. M. M. Royakkers, Extending Deontic Logic for the Formalisation of Legal Rules, Kluwer, Dordrecht, 1998) e di cui qualsiasi formalizzazione logica deve tener conto.
La definizione (6) intende la logica deontica quale «the branch of philosphical logic that i specifically concerned with obligations, prohibitions and permissions (the term deontic derives form the Greek verbo deomai which means being due or obligatory)» (G. Sartor, Legal Reasoning. A Cognitive Approach to the Law, Springer, Dordrecht, 2005, p. 453). Ma così espressa tale definizione non ci dice nulla di più di quanto non sapessimo già, al massimo ci dice che ha il pregio di esplicitare alcuni elementi che, altrimenti, resterebbero sullo sfondo, alla mercede di quanti fossero in grado di coglierne la presenza. Infatti, la logica deontica è una logica filosofica, e formalizza le nozioni (modali) di obbligatorio, permesso, vietato, facoltativo, e così via (V. Deontic Logic all’indirizzo (a cura di P. McNamara): http://plato.stanford.edu/entries/logic-deontic/). Così posta, tuttavia, da un lato consente di inquadrare in modo più compiuto la sua esatta collocazione nel novero degli studi sul logos, e dall’altro spiega anche il perché di tanto interesse e di tante confusioni da parte di quei settori della ricerca filosofica interessati alla spiegazione e alla determinazione (razionale) del comportamento umano e che, in certi ristretti casi, ha portato a forzare la finalità del progetto deontico ben oltre le sue strutturali possibilità.
La definizione (7) in parte riprende gran parte dei significati espressi nelle definizioni appena discusse, ma contiene un elemento in più: non solo logica di proposizioni deontiche, ma anche delle loro funzioni di verità. È una precisazione importante. Infatti, in logica non è certo sufficiente che le formule siano ben formate, bisogna che esse siano anche suscettibili di assunzione di determinati valori (di vero e/o di falso) in virtù dei quali è possibile valutare la loro connessione con la realtà [adaequatio intellectus et rei]. Oggigiorno esiste una pluralità di logiche per le quali non vige, non più almeno nella forma classica, il principio di verofunzionalità (bivalenza), abbracciando un’altrettanto pluralità di valori i quali, però, svolgono la medesima funzione intrasistematica di verifica delle enunciazioni formali. Si è, però, nel corso del tempo dimenticato il ruolo che la verità/falsità gioca nella formulazione delle proposizioni deontiche di una logica deontica, senza considerare il fatto che tali enunciazioni incorporino concetti deontici (di per sé atleticamente adiafori). Per di più, tale eclissamento consegue alla divaricazione subita dalla logica deontica dalla versione classica (per intenderci, di von Wright) alla versione standard. Infatti, mentre nella prima è esplicito il riferimento ai valori verofunzionali, nella seconda resta sullo sfondo il problema semantico, sebbene non manchi chi, al contrario, ritiene essere causa dei molteplici, e qui solo adombrati, problemi della logica deontica il presupporre la natura vero-funzionale (e costruire di conseguenza le sue espressioni formali di conseguenza) quando, invece, per restare fedeli al contesto neopositivista di origine bisognerebbe riformularla sulla eterogeneità ai valori di vero e di falso delle proposizioni deontiche (o, assiologiche o valutative) (D. Makinson, The Fundamental Problem of Deontic Logic, in P. McNamara – H. Prakken (eds.), Norms, Logics and Information Systems. New Studies in Deontic Logic and Computer Science, IOS, Amsterdam, 1999, pp. 29 – 30). Pertanto, la definizione corrente ha il pregio di render conto dell’excursus storico seguito dalla logica deontica e le conseguenze che ciò ha avuto sulla coerenza dei calcoli deontici standard e sulle connessioni (filosofiche) di questi con la coeva elaborazione culturale, spiegando anche come alcuni aspetti che sono prioritari nella sistemazione logica (p.e. le regole di verifica delle enunciazioni; la correttezza sintattica; etc.) siano stati, al contrario, tralasciati o ignorati.
A seconda della funzione svolta dalle enunciazioni deontiche otteniamo comandi, decisioni, promesse,intenzioni, desideri. In questo modo, assume chiarezza la proposta di interpretazione avanzata da Åqvist. Essendo la logica deontica logica delle proposizioni deontiche, a seconda che queste esprimano comandi, decisioni, promesse, intenzioni e desideri, la logica deontica può essere interpretata, rispettivamente, quale una logica dei comandi, delle decisioni, delle promesse, delle intenzioni, dei desideri. Ma la definizione (8), allora, non offre molto di più alla comprensione, non più di altre più illuminanti definizioni almeno.
Pertanto, realizzando una teoresi delle definizioni proposte e discusse, ci sembra possibile definire la logica deontica nel modo seguente:
una logica filosofica il cui intento è quello di render conto, attraverso il formalismo, della razionalità espressa nelle relazioni tra i vari concetti deontici all’interno di enunciati normativi.
Ma, com’è facile osservare, questa definizione “conclusiva” non risolve la questione capitale che ispirava questo lavoro: è possibile la logica deontica? Secondo le definizioni sì, resta da valutare se nel merito dei calcoli espressi sia lo stesso o meno.
Tuttavia, a causa di evidenti limiti di tempo, non ci è possibile sviluppare il discorso per come meriterebbe. Pertanto, onde salvare capra e cavoli, affronteremo la questione di sfuggita e senza discutere per esteso i passaggi formali.
3. Possibilità di una logica deontica
È caratteristica di tutti i calcoli di logica deontica standard l’imbattersi nella derivazione, diretta o mediata, di qualche formula (o teorema) particolarmente infelice ed indesiderata (S. Coyle, The Meanings of the Logical Constants in Deontic Logic, “Ratio Juris”, 12, 1999, p. 30). Queste formule, infatti assumono la caratteristica di essere paradossali rispetto agli assiomi dei vari calcoli e imbarazzanti rispetto alla considerazione della coerenza dei singoli sistemi. Infatti, a differenza dei comuni paradossi impongono un’antinomia: o accettare il risultato oppure modificare il calcolo (P. H. Nowell Smith – E. J. Lemmon, Escapism: The Logical Basis of Ethics, “Mind”, 275, 1960, p. 290).
Non potendoci dilungare oltre sulle forme paradossali, diciamo solo che il loro verificarsi mina la credenza in una razionalità di fondo della logica deontica, diventa, cioè, difficile stabilire se la logica deontica sia effettivamente possibile. Secondo alcuni, la logica deontica è possibile per il (mero) fatto che se ne diano storicamente alcuni esempi, ma questa è solo la constatazione dell’essersi proposti nel corso del tempo esempi di formalizzazione del comportamento logico dei concetti normativi ma senza che ciascuno di questi possa considerarsi veramente soddisfacente.
Onde evitare che si rischi l’incomprensione, chiariamo che un qualunque esempio di calcolo di logica deontica è pienamente soddisfacente (se e solo) quando le formalizzazioni delle forme logiche deontiche è adeguata allo scopo, quando davvero riesce a render conto del comportamento logico dei concetti deontici. E quando accade tutto ciò? Quando le esigenze logiche (razionalità; non contraddizione; etc.) riescono a riprodurre il comportamento dei concetti normativi.
Da questo punto di vista, allora, proprio il darsi di formule paradossali, anche per via della particolare strada formale seguita, appare negare la razionalità dei calcoli deontici presso i quali sono presenti formule paradossali. Se questo, ovviamente, non può che essere così per qualsiasi sistema logico, è ancora più preoccupante il quadro se si pensa che i paradossi deontici si presentano in tutti i calcoli di logica deontica. Così, sembra proprio che la logica deontica non sia (de jure) possibile, che il progetto deontico sia destinato a fallire in partenza.
Questa direzione di ricerca certo non impedisce che il fallimento logico, sempre che venga riconosciuto, non possa spingere invece a cercare altre formulazioni logiche che siano in grado di costruire logiche deontiche esenti di formulazioni paradossali. Tuttavia, il verificarsi di paradossi consente anche di seguire un’altra direzione di ricerca, stavolta di natura filosofica, non più soltanto formale. Allora, cosa vuol dire, da questo punto di vista, porsi la questione della possibilità della logica deontica? È possibile la logica deontica? E se sì, in che termini?
Non è possibile affrontare per esteso la questione, ma ci limitiamo a dire che, in modo analogo al senso della speculazione kantiana, chiedersi se la logica deontica sia possibile vuol dire indagare (filosoficamente) le condizioni di possibilità (teoretiche) di una logica deontica, cioè di una formalizzazione del comportamento dei concetti normativi. In altre parole, condurre queste ricerche, sul fondamento stesso della normatività, conduce a porsi la questione intorno alla razionalità del comportamento umano quale viene espresso nelle norme (praxeologia) (A. Pizzo, Una possibile spiegazione di «normativo». Lettura a partire dalla spiegazione di Ross, “Dialeghestai”, 7 Luglio 2005 (contenuto on – line: http://mondodomani.org/dialegesthai/ap01.htm)) o nel discorso normativo (G. H. von Wright, Introduzione, a: G. Di Bernardo (ed.), Logica deontica e semantica, Il Mulino, Bologna, 1977, p. 37).
E se la razionalità (ratio) nel linguaggio normativo non viene catturata entro forme logiche rigorose (quindi, se non si ha una logica deontica certa) non vuol dire che ne sia privo il formalismo deontico, ma che è l’oggetto di studio, in ultima analisi, ad esserne privo.
Vedere il limite del formalismo, comunque, non vuol dire che la logica deontica non sia possibile, ma che lo è a ben precise condizioni che purtroppo non possono essere oggetto di trattazione in questa sede ove, invece, la finalità di studio era un’altra: rispondere alla domanda “che cos’è la logica deontica”.