di Francesca Roi
La storia di Roma in quanto città, e dunque implicitamente la storia del suo processo di formazione, costituisce e continua a costituire un tema di studio criticamente valido e sempre suggestivo. Le scoperte archeologiche avvenute durante gli ultimi decenni nel Lazio e nell’Etruria, la revisione critica delle tradizioni antiche sui tempi primitivi di Roma, l’uso delle testimonianze dei geografi e storici greci, il progresso delle ricerche linguistiche hanno a poco a poco rivelato gli aspetti di un mondo arcaico, che corrisponde all’età monarchica e ai primi anni della repubblica, fiorito nell’Italia tirrenica tra l’VIII e il V secolo a.C. , nel quale Roma ebbe una sua parte rilevante. La nascita della città sui colli del guado del Tevere va inserita in un più generale contesto di trasformazione ed accrescimento degli abitati preesistenti. Tale fenomeno ebbe il suo epicentro nell’Etruria marittima, dove sorsero in breve città floridissime come Cerveteri, Tarquinia, Vulci, Vetulonia, che intrapresero traffici navali sulle grandi rotte mediterranee, in gara con i Greci e con i Fenici. In pari tempo un analogo sviluppo investì le altre popolazioni del versante tirrenico della penisola, compresi i Latini, che vivevano frazionati in piccole comunità a sud, e in minor parte anche a nord del Tevere, congiunti tra loro in primitive leghe sacrali. Il formarsi di vere e proprie aggregazioni urbane, accompagnate dal diffondersi di forti influenze etrusche e greche, dovette avere conseguenze rivoluzionarie nella vita del Lazio, risolvendo antichissimi rapporti di consorteria e di alleanza tra i villaggi e soprattutto fissando tradizioni etniche, linguistiche e culturali che resteranno poi definitive nel corso dei tempi storici. Oltre un secolo di ricerca archeologica ha permesso di studiare sul terreno il primo sviluppo di Roma. Le più antiche tracce di occupazione umana possono essere datate al Bronzo Medio (1600- 1150 a.C. ) e sono costituite da frammenti di ceramica rinvenuti sul Campidoglio e nel Foro Boario (Sant’Omobono). Materiale simile, risalente al Bronzo Recente (1300- 1150 a.C. ) è stato riportato alla luce sul Palatino e nella valle del Foro [1] . Tali ritrovamenti indicano che il sito di Roma fu frequentato almeno dal secondo millennio a.C. , ma rimane aperta la questione sul carattere più o meno stabile di questi insediamenti, e dunque sulla continuità di occupazione fino al primo millennio. In ogni caso, sembra ragionevolmente certo che il sito di Roma fu abitato senza interruzione almeno dal 1000 a.C. , quando esistevano piccoli insediamenti abitativi sul Palatino e, forse, su altre colline che dominavano la piana tiberina. L’evidenza archeologica è costituita da un piccolo numero di tombe a cremazione rinvenute nella valle situata tra i colli, che in un secondo momento diventerà il Foro, in quella fase un acquitrino utilizzabile solo per le sepolture. Questo materiale segna l’inizio di quella che gli archeologi hanno definito Cultura Laziale. La prima fase della Cultura Laziale è al momento scarsamente documentata, mentre un numero maggiore di informazioni è disponibile per la seconda fase (ca. 900- 830 a.C. ), che segna l’inizio dell’età del Ferro laziale. Non c’è nessuna soluzione di continuità con il periodo precedente, anche se la quantità di materiale si accresce notevolmente e fanno la loro comparsa nuovi insediamenti latini, come Satricum, Decima, Acquacetosa Laurentina, Osteria dell’Osa .Durante le prime fasi queste comunità di villaggio erano piccole, ma verso la fine del IX secolo a.C. il panorama insediativo cambiò, in quanto gruppi di villaggi iniziarono a fondersi e a formare centri abitati più ampi. Tale fenomeno si verificò leggermente in anticipo in Etruria meridionale, e successivamente verso l’inizio dell’VIII secolo a.C. , anche nel Lazio, a Roma stessa, dove il villaggio del Palatino si espanse fino ad includere la Valle del Foro, la Velia e il Campidoglio; nella stessa epoca l’Esquilino divenne il più importante luogo di sepoltura. Per quanto si può vedere l’espansione dei villaggi non comportò nessun immediato cambiamento né nella struttura sociale né nella forma degli insediamenti, che continuarono ad essere costituiti da capanne primitive con tetto di paglia e sostenute da pali di legno. La loro struttura basilare può essere ricostruita grazie alle fondazioni che sono state rinvenute in molti insediamenti del Lazio arcaico, databili a partire dal IX secolo. Si impone a questo punto una riflessione su che cosa si intenda esattamente per città. Roma non nasce dal nulla, come prova l’archeologia, il suo sito risulta abitato almeno dal secondo millennio a.C. , e genti diverse si sono riunite sul suo territorio in raggruppamenti sociali estremamente eterogenei, quali bande, tribù oppure chiefdom. La nascita di Roma in quanto città, quale che sia la data effettiva di questo avvenuto processo, implica la nascita e la creazione di un’autorità e di un’organizzazione centrale, preposta a quella che noi oggi definiremmo pubblica amministrazione. Nel momento in cui un gruppo di genti si riunisce attorno ad un’autorità centrale e le affida funzioni economiche, sociali, religiose e cultuali, nel momento in cui emerge e prevale la dimensione del pubblico su quella del privato, ecco che nasce la città. In questo senso allora la Roma dell’ultimo periodo monarchico, la Roma dei Tarquini, può essere probabilmente definita una città compiuta, con una forte autorità centrale di tipo regale, che già a quell’epoca intratteneva relazioni, economiche e sociali, con altre società centralizzate. Risalendo all’indietro nei secoli più bui, perché meno documentati, della storia dell’Urbe, diventa difficile determinare il momento esatto in cui Roma divenne città, poiché a mano a mano che si arretra le notizie si fanno via via più imprecise ed i dati a disposizione più frammentari e lacunosi.
Proprio per questo motivo, nonostante l’evidenza costituita dai dati archeologici, gli ostacoli e le difficoltà con cui si scontra l’analisi del fenomeno che fu la nascita di Roma sono comunque molti e questo ha prodotto, nel corso dei secoli, discussioni e dibattiti vivaci tra gli studiosi del settore, ancora oggi ben lontani dal trovare un comune punto d’incontro.
Gli approcci sui quali divergono le diverse teorie sono essenzialmente due: il primo riguarda la tradizione letteraria, ovvero le testimonianze fornite da Fabio Pittore [2], Livio, Plutarco e Dionigi. Su di esse la cosiddetta ipercritica, una tendenza legata ai nomi storici di Giambattista Vico [3], Luis de Beaufort [4], B. G. Niebuhr [5], Andreas Alföldi [6] ed Ettore Pais [7] ha esercitato una forte revisione. L’atteggiamento di questi studiosi verso la tradizione letteraria fu di quasi totale negazione; la saga della nascita di Roma non aveva, a parer loro, alcuna attendibilità storica, ed era pertanto errato tentare di ricostruire il passato arcaico di Roma sulla base della leggenda. Attualmente, lo studioso che più si accosta a questo atteggiamento è Emilio Gabba [8]. La sua analisi accurata dell’opera storiografica di Dionigi d’Alicarnasso lo ha portato a vedere nella saga di fondazione una ricostruzione tardo-repubblicana e pertanto a negare qualunque corrispondenza tra i fatti ivi narrati e quelli storici realmente accaduti. Ben prima di Emilio Gabba, questo particolare tipo di approccio si scontrò con la cosiddetta critica moderata, esemplificata nella figura di A. Momigliano [9], che si accostò alla tradizione letteraria con un atteggiamento meno negativo; avvalendosi di tutte le fonti pervenute dall’antichità (dai testi letterari stessi alle epigrafi, dai papiri alle monete, dalla documentazione archeologica a quella linguistica) egli impostò un metodo di lavoro preciso ed accurato, basato sulla ricerca del vero, per arrivare alla ricostruzione storica più oggettiva possibile.
L’altro
approccio molto dibattuto e discusso, decisamente più recente, affronta il
problema delle origini e della formazione della città in base alla
documentazione archeologica. Con l’inizio del XX secolo la documentazione
archeologica sembrò donare nuovo respiro alla questione delle origini di Roma e
l’archeologia si vide riconoscere in questo periodo lo statuto di scienza
ausiliaria della storia. La documentazione più importante venne dallo scavo del
Foro, la cui direzione fu, dal 1898, di Giacomo Boni; sotto il pavimento del
Foro, il 25 gennaio 1899, gli scavi da lui diretti videro apparire una piccola
pavimentazione rettangolare, il cui colore nero contrastava con il bianco delle
altre lastre. Sotto il pavimento venne riportato alla luce un insieme confuso
di blocchi e tracce di una cinta consacrata, tra le quali si notava un cippo
ricoperto sulle quattro facce di caratteri incisi. Si trattava della più antica
iscrizione di Roma, redatta in latino arcaico, che lasciava chiaramente
riconoscere un termine la cui lettura non pose alcun dubbio, rex, re [10]. Dal
1902 le squadre del Boni cominciarono a
portare alla luce, nei pressi del tempio di Antonino e Faustina, i resti di una
necropoli antichissima, dalle quali emersero urne di terracotta scura,
visibilmente fatte a somiglianza della capanna del morto [11].
Con questi ritrovamenti i tempi della fondazione sembravano uscire dall’ombra e
caricarsi di una materialità e di una realtà sempre più tangibili. Queste importanti
scoperte, per quanto ambigue e di difficile interpretazione, imposero sul
momento l’idea di una conferma decisiva e definitiva della tradizione e fecero
abbandonare per un attimo l’approccio ipercritico.
Nel volgere della metà di quello stesso secolo l’archeologia andò pian piano
affrancandosi dalla tutela della storia e della filologia, affermando la sua
padronanza e la sua autonomia e di fatto ravvivando la fiamma dei conflitti e
delle discussioni del passato.
A partire dagli anni Cinquanta, l’archeologo svedese Einar Gjerstad dette inizio alla pubblicazione sistematica dei materiali archeologici relativi a Roma arcaica [12], quegli stessi materiali raccolti dal Boni. La speranza di poter ricostruire le origini di Roma in maniera più concreta, sulla basi di reperti e di documenti che, per il fatto di essere “materiali”, davano in apparenza maggiori certezze rispetto ad una tradizione letteraria che era stata più volte messa in dubbio, andò svanendo di fronte alle argomentazioni dell’archeologo. Rispetto alla data della nascita di Roma, Einar Gjerstad non ebbe infatti scrupoli a farla scendere alla data della prima pavimentazione del Foro, negli anni intorno al 575 a.C. Ancora una volta a essere grandemente sacrificata era la tradizione letteraria con i suoi sette re, che Gjerstad continuava ad accogliere come tali, compresi però in un periodo di tempo molto inferiore a quello della tradizione. Le critiche contro una simile interpretazione sono state numerose e radicali. Esse infatti si sono rivolte non solo nei confronti dei criteri su cui Gjerstad aveva fondato la propria cronologia (la pavimentazione del Foro ), ma anche contro la stessa ricostruzione delle modalità più complessive della nascita di Roma: una nascita che sarebbe avvenuta secondo Gjerstad attraverso un procedimento sinecistico, grazie all’unificazione intorno al Foro di singoli e diversi villaggi. Al contrario, per il suo grande oppositore Hermann Műller- Karpe, Roma non solo è una città vera e propria già nel corso del VIII secolo, ma il suo divenire città si sarebbe realizzato anche con uno sviluppo lento e graduale, con l’espandersi progressivo ed egemonico dell’insediamento del Palatino, dunque attraverso un procedimento che è stato definito mononucleare [13]. Tra i fautori dello sviluppo sinecistico dell’Urbe vi è il noto archeologo Andrea Carandini [14], che sostiene la presenza di una lega federale di villaggi (Septimontium) sul sito di Roma, preesistente alla fondazione della città. La sua cronologia rialzista presenta una Roma compiuta in quanto città già nell’VIII secolo, dunque nella prima età regia, andando contro coloro i quali, sulla scia di Gabba, vedevano soltanto nella Roma dei Tarquini le prime tracce di una città formata. Ma l’ondata carandiniana va ben oltre: egli crede infatti di aver individuato alle pendici del Palatino le mura romulee di VIII secolo, con tanto di solco di fondazione e capanne di guardia. Si può facilmente evincere che il suo atteggiamento nei confronti della tradizione letteraria sia di sostanziale accettazione: « Chi è che interpreta le mura in termini di fondazione di un primo re: Andrea Carandini o oltre venti generazioni di Romani? [15] » La saga di fondazione non può essere, per l’archeologo, una totale invenzione, ma semmai un accavallarsi di fatti storici e di fatti mitici, ai quali si deve accordare, fino a prova contraria, la massima credibilità. Di parere diverso è Augusto Fraschetti [16], che sostiene l’improbabilità di una nascita della città secondo lo schema lineare dei due modelli proposti, quello sinecistico e quello mononucleare. Egli analizza due rituali festivi che, a suo avviso, possono permettere di chiarire la sostanziale inadeguatezza di schemi interpretativi troppo rigidi, troppo legati alla ricerca e alla formalizzazione di un modello univoco e totalizzante di città. Il primo rituale esaminato è la festa dei Lupercalia, durante la quale, il 15 febbraio di ogni anno, i luperci lambivano l’antiquum oppidum del Palatino, con una corsa che si snodava dalla parte del Foro per la Via Sacra. E’ormai dato per sicuro il rapporto dei Lupercalia con il perimetro della città di Romolo, che dunque doveva limitarsi, come estensione, al solo Palatino. Il secondo rituale festivo, il Septimontium (punto centrale della ricostruzione carandiniana), celebrato l’11 dicembre, presenta una situazione più complessa. Questo rituale infatti coinvolge tutti e sette i monti elencati dal giurista Antistio Labeone [17] : Palatino, Velia, Fagutale, Subura, Cermalo, Oppio (in verità parte dello stesso Fagutale), Celio e Cispio; lo stesso giurisprudente però non mancava di precisare che nel giorno della celebrazione del Septimontium, erano soltanto il Palatino e la Velia, evidentemente i due monti principali, a ricevere un sacrificio. I due rituali presi in considerazione, secondo Fraschetti, contribuiscono a rendere improbabile l’ipotesi di una nascita della città secondo lo schema lineare di uno dei due modelli proposti. Al modello sinecistico si può opporre il ruolo egemone riconosciuto da sempre al Palatino, ruolo che emerge durante la festa dei Lupercalia, mentre al modello di sviluppo mononucleare si può opporre il ruolo della Velia nell’ambito del rituale del Septimontium [18], ruolo che risulta essere parallelo a quello del Palatino, nella misura in cui anche la Velia riceveva un sacrificio durante la celebrazione della festa. Anche a livello topografico va sottolineato il sorgere, alle falde del Palatino, in immediata contiguità con la Velia, di edifici pubblici di rilievo importantissimo, come la regia e il tempio di Vesta. Allo stesso modo, il continuo e progressivo dislocarsi delle case dei re all’interno della zona Palatino-Velia, rivela l’importanza strategica e la posizione preminente di questi due monti. Questa analisi sottolinea come nello studio di Roma arcaica, in cui la storia e l’archeologia si intrecciano con la leggenda, sia importante abbandonare gli schemi rigidi di interpretazione ed i modelli totalizzanti, che il più delle volte non sono applicabili allo svolgersi reale degli eventi storici.
Come si è sottolineato all’inizio, lo studio di Roma arcaica è in continua evoluzione e mutamento. Le fonti letterarie sembrano ormai aver esaurito la loro energia propulsiva, e la discussione sulle origini di Roma sembra essersi rivolta, negli ultimi anni, verso le scoperte archeologiche, forse le uniche in grado di dire qualcosa di nuovo in merito. Con una dovuta precisazione: il compito dell’archeologia non dovrà essere quello di adattare ed interpretare i dati archeologici alla luce di quelli letterari, in un eterno circolo vizioso di auto-sostenimento, bensì quello di valutare criticamente il materiale per poi metterlo a disposizione degli storici, dei filologi, dei linguisti.
[1] Una ricognizione generale dei materiale più antico proveniente da Rome è in A. P. Anzidei e altri, Roma e il Lazio dall’età della pietra alla formazione della città, Roma 1985.
[2] I frammenti pervenuti su Fabio Pittore sono raccolti in F.Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker, n. 809 (1958) e in H.Peter, Historicum Romanorum Reliquiae, Leipzig 1906. Per ulteriori approfondimenti sulla figura di Fabio Pittore vd. A .Momigliano, Linee per una valutazione di Fabio Pittore, in Terzo contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1966, e A. Momigliano, Did Fabius Pictor lie?, in Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1980.
[3] Vedi in generale C. Barbagallo, Il problema delle origini di Roma da Vico a noi, Milano 1926.
[4] Nel 1738, a Utrecht Luis de Beaufort pubblicò la Dissertazione sull’incertezza dei primi cinque secoli di storia romana, nella quale egli metteva in luce i maggiori ostacoli epistemologici a ogni conoscenza degli inizi di Roma: in primo luogo l’esistenza di uno iato cronologico di almeno cinque secoli tra i tempi della fondazione e l’apparizione dei primi storici; in secondo luogo l’incendio di Roma da parte dei Galli che, a detta degli stessi antichi, condusse alla distruzione di gran parte dei documenti anteriori (vedi p. 4 dell’edizione a cura di A. Blot, Millet, Parigi, 1866). Partendo da queste premesse l’atteggiamento dello storico non poteva che essere di sostanziale rifiuto della tradizione letteraria.
[5] B.G. Niebuhr nacque nel 1776 in Danimarca. Tutta la sua vita fu caratterizzata da un continuo intreccio di studi e di politica. Dal 1800 al 1806 fu al servizio dello Stato danese, come esperto in questioni economiche e commerciali. In Danimarca sentì molto forte l’accentuarsi della questione agraria, ovvero la dissoluzione degli ordini feudali e l’accentuarsi di sentimenti nazionali, ovvero i tentativi di sostituzione degli ordini aristocratici con gli ordini borghesi. Nel 1806 passò al servizio della Prussia, venendo a contatto con l’aristocrazia prussiana che si stava mettendo alla testa della nazione tedesca .Dal 1816 al 1823 fu ministro della Prussia alla corte vaticana; nel 1824 si stabilì a Bonn. Per Niebuhr rimase sempre costante l’attenzione verso la questione della libertà dei contadini che riconosceva equivalente alla distribuzione delle terre. Giudicava però di fondamentale importanza, per Roma come per la Prussia , un compromesso tra patrizi e plebei, identificati gli uni con l’aristocrazia feudale, gli altri con i piccoli contadini proprietari della nuova Europa, operando una sorta di equivalenza tra i problemi di Roma e quelli della Danimarca del suo tempo. Egli scrisse una Römische Geschichte, apparsa per la prima volta nel 1811, in 2 volumi pubblicati tra il 1811 e il 1830, più volte rielaborati; nel 1832 uscì un terzo volume, postumo (Niebuhr morì nel 1831), a cura di J. Classen. Su Niebuhr in generale, K. Christ, Von Gibbon zu Rostovtzeff, 1972, 26-49.
[6] A. Alföldi, Early Rome and the Latins, Jerome Lectures, 7th Series Ann Arbor, University of Michigan Press 1963, opera recensita da A. Momigliano in “The New York Review” il 16 settembre 1965. In questa opera Alföldi sosteneva la quasi totale inattendibilità di Livio e di Dionigi in merito alle origini di Roma arcaica perché entrambi usavano come fonte l’elaborazione propagandistica e poco scrupolosa di Fabio Pittore. Alföldi non fu il primo a scorgere dietro l’opera di Pittore una qualche forma di propaganda, ma fu il primo a sostenere che la sua opera non fosse nient’altro che una ricostruzione arbitraria e priva di fondamento del passato di Roma, con il solo scopo di abbellire l’immagine dell’Urbe agli occhi dei contemporanei greci.
[7] La sua Storia di Roma apparve per la prima volta a Torino nel 1898-99, e resta ad oggi il più durevole monumento della cosiddetta ipercritica. Così esordiva Pais: « Fin dalle prime righe di questo libro, noi possiamo in effetti affermare che gran parte di quel che pretende essere considerato come la più antica storia romana è soltanto frutto di una speculazione letteraria tardiva e anche di una voluta falsificazione. » (Storia di Roma, I, 1, Critica della tradizione fino alla caduta del decemvirato, Clausen, Torino, 1898, p. 2)
[8]
Nell’analisi che compie nei confronti dell’opera
storiografica di Dionigi d’Alicarnasso, Emilio Gabba mette in luce l’elaborato
progetto propagandistico che presiede alla stesura della stessa, volto a
legittimare Roma nei confronti del mondo greco, in un’età, quella augustea,
nella quale l’Urbe è ormai riconosciuta come potenza egemone. Tutta la
ricostruzione dionisiana dell’età romulea risponde dunque, secondo Gabba, a
questa precisa esigenza: a Romolo viene attribuita la creazione di tutte quelle
istituzioni, religiose e sociali, che mostrano una Roma perfettamente compiuta
come città già nell’VIII secolo, quindi già grande e in qualche modo
legittimata nel suo futuro ruolo di potenza egemone. Queste istituzioni
attribuite a Romolo, in realtà, non sono che la retroproiezione di istituti
molti più tardi, che Gabba fa risalire all’età graccana e sillana, dunque alla
tarda repubblica. La storiografia romana sulla prima età regia dimostra
pertanto, secondo Gabba, di non essere attendibile e dunque non utilizzabile
come fonte storica. Egli rifiuta pertanto non solo la fondazione di Roma come
stato nell’VIII secolo, ma respinge anche una riflessione sulla prima età
regia, a proposito della quale nulla converrebbe dire, in quanto ricostruzione
creata a tavolino e basata su avvenimenti risalenti ad epoche successive. Il
suo atteggiamento profondamente negativo, che ha ormai rotto con la critica moderata, lo porta a negare
anche la grandezza della seconda età regia, la cosiddetta grande Roma dei Tarquini, avendo negato in blocco una qualunque
forma di statalità e maturità proto-politica durante la prima età regia.
Secondo Gabba Roma diventerebbe grande
solo nel IV secolo, negli anni in cui si affacciò minacciosa sul meridione
greco della penisola, secondo una logica per la quale un qualsivoglia progetto
di espansione territoriale presupporrebbe l’esistenza di una compagine statale ormai
matura. Si rimanda a E.Gabba, Dionigi e
la Storia di Roma Arcaica, Bari 1996, tradotto e curato da Elvira Migliario
(titolo dell’edizione originale: Dionysius
and the History of Archaic Rome, California 1991), nonché a Id., Roma arcaica. Storia e storiografia,
Roma 2000.
[9] Arnaldo Momigliano nacque il 5 settembre 1908 a Caraglio (Cuneo); a 17 anni appena compiuti, nel 1925, approdò all’Università di Torino, dove fu allievo di Gaetano de Sanctis; nel 1929, dopo la laurea, si trasferì a Roma. Nel 1936 ritornò a Torino, come docente di ruolo ordinario di Storia Romana nella facoltà di Lettere e Filosofia .Dopo soltanto due anni le leggi razziali posero fine alla sua esperienza torinese, ed egli fu ufficialmente “dispensato dal servizio” il 14 dicembre 1938. Dopo questa data Momigliano visse tra Londra ( nel 1939 fu a Oxford, dopo la guerra fu a Bristol e poi nel 1951 all’University College a Londra) e New York ( fu in America per la prima volta nel 1959, all’Università di Chicago). Lo studioso si spense a Londra, il I settembre 1987. Attivo fin da prima della laurea, Momigliano ha costruito una monumentale bibliografia, fatta di studi monografici e di una ancora più significativa pluralità di interventi oggi raccolti nei nove Contributi alla storia degli studi classici, editi dal 1955 al 1992, i primi otto apprestati dallo stesso Momigliano, il nono uscito postumo nel 1992 a cura di R. Di Donato. (Si rimanda alla sua bibliografia edita in Quarto Contributo, Roma 1980, 667-727, in Sesto Contributo, Roma 1980, 843-860 ed in Ottavo Contributo, Roma 1987, 433-449). Numerosi furono gli incontri commemorativi a lui dedicati, immediatamente dopo la sua scomparsa, come quello di Chicago nell’ottobre 1987, quello della Fondazione Einaudi del gennaio 1988, quello dell’Accademia delle Scienze di Torino nel maggio dello stesso anno e quello organizzato nei suoi luoghi natii (Cuneo e Caraglio) il 22 e il 23 ottobre 1988. Puntuali informazioni sulla vita di A. Momigliano in C. Dionisotti, Ricordo di Arnaldo Momigliano, Bologna 1989 ; Omaggio ad Arnaldo Momigliano. Storia e storiografia sul mondo antico, a cura di L. Cracco Ruggini, Como, Biblioteca di Athenaeum, 1989; S. Roda, G. Filoramo , La Storia antica, in Storia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, a cura di Italo Lana, Torino 2000.
[10] E’ l’iscrizione del Lapis Niger, sulla quale si veda F. Coarelli, Il Foro Romano, vol. I, Roma 1983, pp. 178- 188.
[11] Si veda G. Bartoloni e altri, Le urne a capanna rinvenute in Italia, Roma 1987.
[12] Vedi E.Gjerstad, Early Rome, I- IV, Lund 1953- 73.
[13] Vedi H. Műller- Karpe, Vom Anfangs Roms, Heidelberg 1959, su cui vedi le dettagliate obiezioni avanzate in seguito da C. Ampolo, La nascita della città, in Storia di Roma, I, Roma in Italia,a cura di A. Momigliano e A. Schiavone, Torino 1988, pp. 160 sgg.
[14] Su Carandini si veda La nascita di Roma. Dèi,lari, eroi e uomini all’alba di una civiltà, Torino 1997, e Remo e Romolo, Torino 2006.
[15] Citazione da A. Carandini, Il mito romuleo e le origini di Roma,in Memoria e identità. La cultura romana costruisce la sua immagine, Roma 2003, pp. 3-19.
[16]
Su Fraschetti si veda Romolo il Fondatore, Roma 2002. Interessante è sottolineare il
particolare approccio con il quale lo studioso si accosta alla saga di
fondazione; egli tenta di individuare la rappresentazione che i Romani di epoca
storica hanno fornito del loro fondatore, della sua nascita miracolosa insieme
ad un gemello, della fondazione stessa della città, dell’attività legislatrice
di Romolo, del suo regno congiunto con il sabino Tito Tazio, delle sue guerre e
della sua misteriosa scomparsa. Trattare le origini di Roma da questo punto di
vista significa abbandonare per un attimo le discussioni su chi realmente fondò
Roma, come e quando, per cercare di vedere invece la leggenda romana come un documento importante che racconta, al
di là degli accadimenti, come i Romani dell’epoca scelsero di vedere se stessi
e su come essi vollero essere visti dagli altri. La saga romana offre dunque,
secondo Fraschetti, indizi importantissimi sulle strutture mentali che
presiedettero alla sua elaborazione e all’elaborazione di leggende di
fondazione analoghe, con le quali quella romana può essere paragonata.
[17] Vedi Antistio Labeone in Festo, pp. 474- 76 Lindsay; cfr. Varrone, Ling., 6, 24. Su questo argomento vedi A. Fraschetti, Feste dei monti, festa della città, in St.Stor 25, Roma 1984, pp. 46 sgg.; quindi A. Carandini, La nascita della città,op. cit. , pp. 267 sgg.
[18] Un’interessante analisi di questi due rituali è presente in D. Sabbatucci, La religione di Roma antica. Dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988.