LA MACCHIA DI RORSCHACH.

La morte di Dio fra atti notarili e renouveau teologico.

 

di Simonfrancesco Di Rupo

 

Dio come argomento, Dio come pensiero, costituisce per l’uomo un enigmatico fardello tra creatività e prigionia.

Come nel test delle macchie di Rorschach, al suo cospetto ogni osservatore scorge cose diverse; l’uomo contemporaneo, della macchia ha decifrato lo svanire: la “morte di Dio”, infatti, oltre che oggetto della denunzia dell’ “uomo folle” ne La Gaia Scienza di Nietzsche, è vera e propria boa da più d’un secolo a questa parte delle considerazioni filosofiche dell’uomo circa se stesso e i suoi spettri. Con la “morte di Dio” è avvenuta una ricapitolazione del senso della teologia, la quale si è trovata a dover far fronte a sue interne mutazioni. Come scrive Giovanni Fornero: «questo stato di fatto ammette due spiegazioni: o l’oggetto della teologia non è Dio, bensì le rappresentazioni umane e i rosei sogni proiettati nel cielo, che si travestono da scienza delle cose sovrannaturali, oppure invece è volere di Dio che la teologia si trasformi»[1] A queste due possibilità la filosofia non può e non vuole dare un giudizio finale, e non perché non sia una efficiente ancilla theologiae, ma perché – se l’età della secolarizzazione ci ha insegnato qualcosa – è la teologia ad essere, in ultima istanza, misteriosa ancella della filosofia.

Fu proprio un teologo, Altizer, a scrivere nel ’69:

 

       «Se vi è una chiara via d’accesso al ventesimo secolo, essa consiste nel passare attraverso la morte di Dio, attraverso il crollo di ogni significato o realtà posta al di là della radicale immanenza recentemente scoperta dall’uomo moderno: un’immanenza che dissolve perfino il ricordo o l’ombra della trascendenza.»[2]

 

Se da un lato, non si può più pensare un Dio come “tappabuchi”[3], ovvero il Dio apotropaico che «cura al momento giusto il raffreddore, che ci fa salire in carrozza nel preciso istante in cui si scatena un acquazzone»[4] al punto tale che «dovrebbe essere per noi tanto assurdo che occorrerebbe eliminarlo anche nel caso in cui esistesse»[5] dall’altro lato la morte di Dio, soprattutto secondo la teologia Radicale (Death of God Theology), significa che c’è una maggiore fiducia in quelle forme non teistiche con cui spiegare le esperienze etiche dell’uomo. E’ la finitudine di quest’ultimo ad esigere uno sguardo più ampio, allorquando le verità veterotestamentarie del Creatore cedono il passo alla Rivelazione del Verbo Incarnato, secondo lo schema gioachimita che vuole l’Età del Figlio come seguente l’Età del Padre. Il processo storico della “vita” di Dio non sarebbe realmente immutabile, bensì sarebbe suscettibile di cambiamenti in base alla vita spirituale dell’uomo. Certo, lo schema delle età di Gioacchino da Fiore è in questa sede per lo più usato per la cosmesi della trattazione, ma è ben sovrapponibile ai concetti, che non godono certo di verificabilità scientifica. Le teorie della morte di Dio prendono passo, peraltro, proprio da questi passaggi, secondo tali teorie è fondamentale rivedere la figura di Dio nella vita incarnata, più che come formale istituzione; ciò avviene per una generale rivalutazione della nozione d’immanenza come necessario contrappeso all’accentuazione della trascendenza. E’ da qui che la vita del Dio distante viene messa in discussione: cosa significa, difatti, la venuta di Cristo per la gnosi e per le teologie della morte di Dio? In tale passaggio Dio si versa interamente nella carne – il sacro non è più in alcuna maniera distinguibile dai processi della carne. L’avvenimento è escatologico per antonomasia, tale da realizzare in anticipo la meta cui tende la spinta in avanti della storia. Ma se il fine è già compiuto, che ne è del suo rapporto con la fine? Da qui il nichilismo della contraddizione, dell’elisione vicendevole fra le metafore dell’uomo e del suo pensare la storia. Ma è pur sempre un nichilismo “formale”: sostanzialmente pensare la storia ( in guisa filosofica) è ancora possibile, e la storia stessa, seppur spesso in negativo, offre interpretabilità. Morte di Dio, non della storia. E nella storia, lo svanire di Dio: dalla prima annunciata Incarnazione, la kènosis, dove, versandosi nella carne, Dio si aliena dalla trascendenza e dall’astrattezza della sua forma preincarnata (Età del Figlio) al tempo della coincidentia oppositorum, della rarefazione dell’essere, della presentazione del nulla (Età dello Spirito).

 Le figure della Teologia Radicale (Bonhoeffer, Hamilton, Van Buren, Altizer) offrono un buon connettivo fra le due “età”. Sebbene, in linea generale, vedano nella figura di Cristo il punto di riferimento etico, non sono ciechi innanzi all’emergenza dello svanire di Dio nella secolarizzazione:

 

 «Io parto dal fatto che Dio viene spinto sempre più fuori da un mondo adulto[…]

L’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti senza l’ausilio

Dell’ ‘ ipotesi di lavoro: Dio’»[6]

 

Dall’idea dell’ “uomo adulto” di Bonhoeffer, da cui parrebbe venir fuori una sorta di psicologia dell’età evolutiva applicata alla teologia, alla teo-prassi di Hamilton, per cui la teologia deve poter parlare oltre il suo linguaggio tradizionale, considerato vuoto, irreale e alieno:

 

«La Teologia Radicale semplicemente non crede nella vita dopo la morte […]

ciò significa che la Teologia Radicale deve parlare, qui e ora, più seriamente della necessità di affrontare la morte accogliendola come amica […] abbiamo rammentato alle persone qualcosa che è loro accaduto, ed esse hanno deciso di prenderne nota»[7]

 

In Altizer, il lavoro del lutto (quale ritengo in generale essere il discorso preso in esame in questa sede) è ancora più radicale. Nel suo Vangelo dell’ateismo cristiano pone in rilievo come il Dio che si cala nell’esistenza creaturale non abbia così più vita indipendente, al punto che il suo essere lo ha solo nell’intramondanità. In tal merito Altizer sostiene che solo il cristiano può realmente conoscere la morte di Dio: Egli si autosacrifica per la sua creazione. Il Padre redime il Figlio da se stesso, dalla presenza autoritaria e normativa di veterotestamentaria memoria. La plenitudo dell’uomo sarebbe altrimenti impossibile.  Parrebbe così far sua, Altizer, una massima di Paul Tillich : «il paradosso che chi seriamente nega Dio lo afferma si è impadronito di me»[8] . In tal caso il Dio come quo maius cogitari nequit di Anselmo d’Aosta viene rigirato per la stagione fredda.

Ma con la stagione fredda, quel sopimento necessario per raggiungere in sogno la macchia di Rorschach è turbato. Dio è svanito: permane un’idea a metà tra lutto, intuizione artistica e insonne anamnesi. Cosa turba il sonno dell’Età del Figlio? – E’ forse che una nuova vita onirica è possibile, dove veglia e sonno non vengono distinti in due momenti, ma convergono asintoticamente verso un Uno, etsi deus non daretur, anche se Dio non esistesse. Il leitmotiv dell’Età dello Spirito è proprio la coincidenza fra gli opposti, a partire dalla filosofia come teodicea intesa alla maniera di Leibniz e Hegel: apologia del male, del dolore; liceità del negativo nella storia in generale. E’ il Venerdì Santo Speculativo[9]: il Cristo abbandonato da Dio sulla croce ci riguarda, ci racconta l’esperienza dell’Uomo.

Da Mircea Eliade a Altizer passando per Hegel e Nietzsche, sacro e profano sono dimensioni che si richiamano dialetticamente, abolendo di fatto il profano in quanto tale. Questa coincidentia oppositorum conferisce alla negazione del mondo del sacro un significato positivo, siccome mira alla rivelazione della totalità, postulata in toto dal senso della finitudine, l’eresìa vera è contro la vita, e la vita è fusione di opposti.

 

 

Ma non si deve commettere l’inesattezza di annoverare questa visione solo nella gnosi: il problema, in ambito cattolico, si pose concretamente soprattutto nel primo dopoguerra, quando, profilatasi l’idea di una Chiesa che dovesse tener conto del riemergere della realtà come dato di fatto originario, come coessenziale all’io e alla sua manifestatività – insomma non più come valore limite del soggettivo – autori come Erich Przywara e Romano Guardini elaborarono in maniera non dissimile l’uno dall’altro, sulla scorta della spannungseinheit (unità dei contrari) sistematizzazioni dialettiche per rinnovate antropologie filosofiche. Le polarità, nel caso di questi due autori, rimandano di certo a Dio come Essere al di sopra della dinamica dialettica – ed è ovvio che si sia anni luce dalla gnosi – ma l’approccio teoretico è comunque analogo rispetto a ciò al di là del quale quel renouveau cattolico voleva porsi. Se mi si permette, è curioso proprio come le due posizioni costituiscano a loro volta due polarità – per cui è indubbia la centralità della Vita.

Cosa perviene all’Età dello Spirito, riguardo all’eredità data dalla morte di Dio? Se la teodicea esonera l’Età del Figlio, prende il posto di Cristo, ovvero del mediatore tra uomo e Dio. Era però Cristo ad aver determinato la libertà oltre il Padre, ad aver determinato la posizione antropologica che fa da condizione trascendentale per il dominio della natura in senso moderno. Se dunque si recidono i legami con Cristo il dominio perde il suo contrappeso equilibratore: tale dominio è quindi asservito ala Volontà di Potenza. La tecnica sorge al crepuscolo degli dèi. Prometeo vede così a distanza i frutti del suo martirio. Ritornano le sue parole:

 

Io: Ma è mai possibile che Zeus decada dal potere? Da chi sarà privato dello scettro regale?

Prometeo:  Lo perderà lui stesso per I suoi stolti voleri. Il suo pensiero, privo di scienza e perciò arrogante, porterà Zeus prima all’umiliazione e poi all’annientamento. Io so la situazione e il modo. Questo modo sarà nell’uso più sapiente del fuoco […][10]

 

La prescienza storica di Prometeo è sbalorditiva. L’umiliazione (tapeinòs) può esser fatta corrispondere all’incarnazione nell’Età del Figlio; l’annientamento (àistos) all’Età dello Spirito. Quanta vicinanza, peraltro, tra l’ “uomo folle” di Nietzsche incompreso e nato postumo e il Prometeo che dice: «questo non è il momento di svelare il segreto, ma occorre tenerlo nascosto il più possibile»[11] . Anche Zarathustra pare consanguineo del Prometeo che dice:

 

Prometeo: Ho impedito agli uomini di prevedere la loro sorte mortale.

Coro: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia?

Prometeo: Ho posto in loro cieche speranze…[12]

 

L’età della tecnica incombe, dalla volontà di potenza e nell’Età dello Spirito. Ma l’età della tecnica non è volontà di potenza e non è Età dello Spirito. Lo scarto è essenziale: lascia la forza di sostenere e vivere il ritorno, anche di quelle categorie pensate come oltrepassate, o peggio, obliate. Io posso, come sinora ho fatto, rileggere la storia, ricordarla, dimenticarla, crearla. Ed è per volontà di potenza che mi trovo a farlo. La filosofia della storia non muore, bensì si espande, nella creatività che la volontà di potenza permette. Posso permettermi un Dio come macchia di Rorschach, posso permettermi un Dio come metafora, un Dio come opera d’arte, un Dio come mio miracolo.

Posso permettermi un ritorno, posso permettermi un epilogo eguale all’incipit.

 

Dio come argomento, come pensiero, costituisce per l’uomo un enigmatico fardello tra creatività e prigionia.

Come nel test di Rorschach, al suo cospetto ogni osservatore scorge cose diverse.



[1] Giovanni Fornero. Il pensiero contemporaneo: dagli sviluppi del Marxismo allo strutturalismo p.333 ne Storia della Filosofia di Nicola Abbagnano vol. VI

[2] Th. J.J. Altizer. Il Vangelo dell’ateismo cristiano p.40

[3] Espressione frequente in Bonhoeffer

[4] F.W. Nietzsche. L’Anticristo p.75

[5] Ivi

[6] Bonhoeffer. Resistenza e resa. Lettera del 30 giugno ’44 p.416

[7] W. Hamilton. Domande e risposte sulla teologia radicale.

[8] P.Tillich. the protestant era. pp.14-15

[9] Vedi a tale riguardo G.W.F. Hegel. Fede e sapere  p.253

[10] Eschilo. Prometeo incatenato vv.757-762

[11] Ivi, vv. 519-524

[12] Ivi, vv. 248-250

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