L’IMMAGINE MITICA DELL’ANTICHITÀ NEL PENSIERO DI ROUSSEAU: UOMINI ESEMPLARI E CITTÀ MODELLO
(di Marco Menin)
1. Introduzione
Anche una lettura superficiale delle pagine di Jean-Jacques Rousseau rivela un costante riferimento all’antichità, che occupa una posizione di assoluto rilievo nella sua opera e nel suo pensiero.
Questo ampio spazio potrebbe, tuttavia, essere giudicato semplicemente come un espediente retorico. Infatti, il richiamarsi al passato è connaturato all’imperioso bisogno di ricreare l’antico nel presente che gli uomini di ogni epoca hanno sperimentato ed il Settecento è forse l’età che più di ogni altra ha espresso questa necessità. Inoltre, soprattutto in Francia, il secolo fu dominato da paralleli e comparazioni tra antichi e moderni.
Non deve tuttavia stupire che Rousseau, pensatore poliedrico e autentico
simbolo della metamorfosi dei Lumi, abbracci anche in questo campo una
posizione del tutto peculiare e spesso dissonante rispetto a quella degli altri
philosophes. Questi ultimi incarnano, come sottolinea
Paolo Casini, «la tendenza più diffusa [che] consisteva nel saccheggiare il
repertorio convenzionale dell’antichità […] per travestire in panni classici
conflitti e stati d’animo affatto moderni: basti pensare ai trionfi tragici di
Crébillon e di Voltaire, alle imitazioni dei romanzi alessandrini di
Montesquieu, al fervido classicismo di Diderot, ai soggetti romani
d’innumerevoli pittori»[1].
L’interesse di Jean-Jacques per l’antichità, al contrario, non poteva concedere nulla all’anticomania corrente, perché era fondato su delle premesse etico-politiche del tutto personali. Tale peculiarità emerge con forza nelle pagine autobiografiche, indispensabile completamento per comprendere a fondo le posizioni teoriche di Rousseau in quanto, come ha osservato Cassirer, «in un pensatore di questo genere il contenuto e il senso della sua opera non possono essere staccati dalla vita personale: essi si possono cogliere unicamente fusi l'uno nell'altro, in un ripetuto rispecchiarsi e in un vicendevole illuminarsi dell'uno per mezzo dell'altro».[2]
Sin
dalla prima infanzia Rousseau sviluppa un precoce interesse per la lettura dei
classici, incoraggiato dal padre Isaac il quale - semplice orologiaio - teneva
Tacito, Plutarco e Grozio mescolati davanti a lui con gli strumenti del suo
mestiere[3].
Questo primo incontro con il mondo antico influenzò in maniera radicale ed
irreversibile l’animo impressionabile del giovane Jean-Jacques. Il candore del
neofita faceva rivivere nella sua fervida fantasia quelle storie e quei
modelli, facendo nascere in lui delle vere e proprie rêverie romanesque:
«Attraverso quelle letture
appassionanti, e le discussioni che occasionavano tra mio padre e me, si formò
quell’animo libero e repubblicano, quel carattere indomito e fiero . […]
Continuamente immerso in Roma e Atene, vivendo per così dire nella compagnia di
uomini grandi di quelle città, […] mi infiammavo al suo esempio, mi credevo
Greco o Romano, diventando il personaggio di cui leggevo la vita. Un giorno che
raccontavo a tavola l’episodio di Muzio Scevola, restarono tutti impietriti
dallo spavento vedendomi avanzare e mettere la mano sul braciere per
rappresentare il suo gesto»[4].
L’entusiasmo di autodidatta rendeva Jean-Jacques sempre pronto a vibrare all’unisono con gli eroi, i miti e gli exempla del mondo classico al punto che «non trovando intorno a sé nulla che realizzasse le sue idee, lasciò la sua patria ancora nella prima adolescenza e si lanciò nel mondo con fiducia, cercandovi gli Aristidi, i Licurghi e le Astrae, che riteneva lo abitassero»[5].
Lo stesso tono ricco di fervore e passione si ritrova nei passi in cui Rousseau evoca le proprie visite ai monumenti dell’antichità, ed in particolar modo al ponte del Gard:
«Era la prima costruzione romana che vedevo. Mi
aspettavo un monumento degno delle mani che l’avevano costruito. L’oggetto in
questo caso superò la mia aspettativa e fu l’unica volta nella mia vita. Solo i Romani potevano ottenere tale
effetto. […] percorsi i tre piani di quel superbo edificio che il rispetto mi
impediva quasi di calpestare. Il rimbombo dei miei passi sotto le volte immense
mi dava l’illusione di udire la forte voce di coloro che le avevan costruite.
Mi smarrivo come un insetto in quell’immensità. Sentivo, pur facendomi piccolo,
non so quale sentimento che mi elevava l’anima, e mi chiedevo sospirando:
“Perché non sono nato Romano?”» [6].
Questi brani, pur
rappresentando solo una ristretta selezione tra gli innumerevoli esempi
possibili, hanno il merito di mettere in evidenza come l’antichità per Rousseau
assuma un aspetto profondamente mitico. Ciò che a lui interessa è infatti un
mondo eroico ed etico completamente idealizzato. Come ha sottolineato Denise
Leduc-Fayette, «il richiamo all’Antichità in Rousseau testimonia, sotto una forma
sicuramente tradizionale, un certo ideale al tempo stesso politico, morale
pedagogico ed estetico, che è la stessa essenza della sua visione filosofica
del mondo»[7].
Non deve a questo punto stupire che il riferimento all’antichità svolga un ruolo fondamentale nel compito primario che Rousseau si era proposto, cioè quello di rimeditare ab imis fundamentis i massimi problemi dell’etica e della politica, a tal punto che l’opera che gli conferì la celebrità - il Discours sur les sciences et les arts del 1750 - è nella sua quasi totalità un’esaltazione dell’ideale classico contrapposto alla decadenza moderna. Tuttavia il ruolo dell’antichità non sarà limitato ad una semplice declamazione retorica, che pure caratterizza in maniera predominante il primo Discours, ma si estenderà alla chiarezza razionale del Discours sur l’origine et les fondemens de l’inégalité parmi les hommes e degli altri scritti politici, quando ad un’analisi dettagliata della malattia sociale si sostituirà l’esigenza di delineare un modello alternativo di società giusta.
La relazione sarà articolata analizzando i due elementi dell’immagine del mondo antico che, come si è potuto constatare anche dai passi citati, hanno maggiormente influito sul pensiero di Rousseau: (i) gli uomini illustri e (ii) le città modello. L’interesse di questa dicotomia, per certi aspetti indubbiamente arbitraria, risiede nel fatto che essa mette in evidenza i poli della contraddizione originaria entro cui ognuno si trova e che sono alla base di una dialettica tanto fondamentale quanto lacerante: l’io e il noi, l’unità e la frazione, la solitudine e la comunità[8], l’uomo e il cittadino. Per Rousseau, infatti, il singolo dipende dalla società nel suo insieme e non ha alcun significato al di fuori di essa[9] ma, simmetricamente, anche la società non ha senso se non nell’orizzonte delle inesplorate possibilità dei singoli individui, di cui le grandi figure classiche sono gli archetipi per eccellenza. Per questo i due elementi strettamente correlati dei grand hommes e delle città modello diventeranno nel pensiero di Rousseau veri e propri simboli, manifestazioni sensibili delle sue idee essenziali.
Prima di analizzare in maniera più esaustiva questi punti, può rivelarsi utile un accenno alle fonti principali che hanno contribuito alla nascita di questi simboli mitici.
2. Le fonti di Jean-Jacques
Una indagine, seppure sommaria, delle fonti che condussero Rousseau alla creazione del proprio mito dell’antichità richiederebbe uno spazio eccessivo. Limitandosi ad alcune indicazioni che non avanzano alcuna pretesa di esaustività, è importante sottolineare in primo luogo come Jean-Jacques non fu mai minimamente interessato alle ricerche degli “antiquari” [10], ignorando di conseguenza tutta la letteratura dell’epoca relativa a questi studi eruditi.
Tra le opere contemporanee la sua fonte principale di informazione storica era il Cours d’études di Charles Rollin, ma ciò che ebbe maggior influenza sul suo temperamento idealista e ipersensibile fu la lettura dei classici, che rappresentavano per lui la vera lezione morale degli antichi[11].
Per quanto riguarda le proprie preferenze letterarie in questo campo, è Rousseau stesso a comunicarcele apertamente nell’esordio della quarta promenade: «fra i pochi libri che talvolta leggo ancora, Plutarco è quello a cui sono più affezionato e che mi è più utile. Fu la prima lettura della mia infanzia, sarà l’ultima della mia vecchiaia»[12] . Lo scrittore di Cheronea è infatti il modello letterario per eccellenza di Jean-Jacques il quale, nella lettera a Malesherbes del 12 gennaio 1762, pare consapevole di questo influsso fondamentale: «a sei anni mi capitò tra le mani Plutarco, a otto lo sapevo a memoria»[13]. Secondo Rousseau «Plutarco eccelle proprio in quei particolari che noi non osiamo più affrontare. Ha una grazia inimitabile nel descrivere i grandi uomini nelle piccole cose , ed è così felice nella scelta dei tratti particolari che spesso una parola, un sorriso, un gesto, gli bastano per caratterizzare il suo personaggio […] Ecco la vera arte del dipingere. La fisionomia non si rivela nei tratti principali, né il carattere nelle grandi azioni; è nelle piccole cose che si scopre il temperamento»[14]. Si può dunque affermare a giusto titolo che Plutarco è l’autore maggiormente rappresentativo di quell’antichità pseudo-storica, simbolo di innocenza e di virtù, che Rousseau eleva a mito. Proprio per questo è definito «quasi l’unico autore che non ho mai letto senza trarne qualche frutto»[15].
Bisogna così domandarsi quali autori possano essere compresi in questo “quasi”. Probabilmente gli storici antichi greci e romani, la cui lettura non a caso costituisce la base principale della scarna conoscenza letteraria di Emilio, il quale «apprezzerà più i libri degli antichi che i nostri, per la semplice ragione che, essendo venuti prima, gli antichi sono più vicini alla natura ed il loro genio più personale»[16]:
«Non metterei tra le mani di un giovane né Polibio, né
Sallustio; Tacito è un libro per vecchi che i giovani non sono adatti a capire.
[…] Tucidide è a mio avviso il vero modello degli storici. Riferisce i fatti
senza giudicarli, ma non tralascia nessuna circostanza necessaria perché il
lettore sia in condizione di esprimere il proprio giudizio. Mette tutto ciò che
racconta sotto gli occhi del lettore; lungi dal frapporsi tra gli avvenimenti e
i lettori, si mette in disparte; non si ha più l’impressione di leggere ma di
vedere. Purtroppo parla sempre di guerra ed i suoi racconti sono quasi
esclusivamente costituiti dalla cosa meno istruttiva del mondo, ossia i
combattimenti. […] Il buon Erodoto, senza ritratti, senza massime, ma
scorrevole, semplice, ricco di particolari tali da interessare e piacere»[17].
Una buona conoscenza della storiografia antica da parte di
Rousseau è confermata dal fatto che nel 1754, a Ginevra, tradusse il primo
libro delle Historiae di Tacito[18]
per perfezionarsi nell’arte oratoria. All’ottima conoscenza del latino[19],
tuttavia, si contrapponeva una conoscenza pressoché nulla della lingua greca.
Nonostante questo, Rousseau aveva letto in traduzione Omero[20] ed
era rimasto profondamente affascinato dalla sua poesia. Se una eco omerica
risuona nelle pagine de La
nouvelle Héloïse dedicate alla descrizione del giardino di Julie[21], che
richiama inevitabilmente quello di Alcinoo, è l’Essai sur l’origine des
langues che consacra Omero nel ristretto numero di autori per cui
Jean-Jacques prova ammirazione. Il suo grande merito è stato quello di aver
ignorato la scrittura ; infatti «fu quando la Grecia cominciò ad abbondare
in libri e in poesia scritta che tutto il fascino di quella omerica si fece
sentire per confronto. Gli altri poeti scrivevano, Omero soltanto aveva
cantato, e i suoi canti divini hanno cessato di essere ascoltati con incanto
solo quando l’Europa si è riempita di barbari che si sono messi a giudicare di
qualcosa che non potevano sentire» [22].
L’aedo greco non è, tuttavia, l’unico poeta che ha fatto breccia nel
cuore di Jean-Jacques. Tra i latini bisogna ricordare Ovidio, le cui Metamorfosi
furono una delle precoci letture rousseauiane[23]. Proprio un verso di Ovidio «Barbarus
his ego sum quia non intelligor illis»[24],
espressione per Rousseau di estraneità e repulsione al mondo in cui
viveva, fu scelto come motto per
contrassegnare il manoscritto della sua prima opera edita, il Discours sur
les avantages des sciences et des arts [25],
presentato come di regola anonimo al concorso dell’Accademia di Digione.
Inoltre, lo stesso verso
costituirà l’epigrafe dei Dialogues di Rousseau juge de Jean-Jacques [26]. Con il poeta latino Rousseau
condivide il pathos verso un’età
dell’oro perduta, lo stesso pathos che
ritrovava nelle Georgiche di
Virgilio, un altro dei suoi modelli letterari.
Non solo
storici e poeti hanno contribuito tuttavia alla formazione del mito rousseauiano
dell’antichità, ma anche i filosofi. Tra i greci l’autore fondamentale è senza
dubbio Platone[27], che ha influenzato Jean-Jacques in
numerosi ambiti, dal politico al morale, senza dimenticare quello pedagogico:
Rousseau stesso ammette di comportarsi a volte «come un membro della repubblica
di Platone» [28].
Tra i
filosofi latini colui che influenzò maggiormente il Ginevrino fu Seneca.
Rousseau, oltre a cimentarsi – anche in questo caso – nella traduzione
dell’opera Apokolokintosis [29], riguardante la morte dell’imperatore
Claudio, rivela molte affinità generali di pensiero con il filosofo stoico, che vengono messe in
rilievo con concisione da Pire:
«Seneca e Rousseau
hanno tra loro una convergenza di opinioni in quello che concerne la natura
universale dell’uomo, la sua bontà originaria, le cause della perversione
attuale […], essi concepiscono alla stessa maniera il progredire dell’umanità.
Entrambi sono concordi sulla necessità di reagire in maniera moderata
all’influenza nefasta della società e di ritornare a uno stile di vita più
vicino alle leggi naturali, senza tuttavia augurarsi un regresso brutale dello
stato sociale»
[30].
È
a partire da queste fonti che Rousseau costruisce il proprio mito
dell’antichità, in «una sorta di globo magico che rispecchiava le immagini di
Sparta, Roma, Ginevra e della repubblica di Platone» [31]. Sotto la penna di Jean-Jacques
queste immagini dilemmatiche della tradizione retorica, ormai fruste,
acquistano nuova e originale pregnanza. Il mito rousseauiano dell’antichità non
sarà infatti semplicemente un riflesso nostalgico del passato, ma si proietterà
in un progetto per il futuro.
3. Uomini illustri
Il profondo interesse nei confronti delle gesta degli uomini illustri, che vorrebbe sfociare in una completa simbiosi con gli antichi, emerge già nel 1739, in uno dei primi testi di Rousseau, una composizione poetica dedicata a Maman:
«Con Socrate e con il divino Platone
Mi esercito a calcare le orme di Catone»[32].
Questa illusione di sentirsi a pieno titolo membro di una comunità ideale finì per scontrarsi con le frustrazioni della vita reale, facendo nascere in Jean-Jacques quella rivolta morale che sarà la vera radice del suo sistema filosofico. La lacerante contraddizione tra l’opaca miseria della realtà e la brillante chimera dell’immaginario è espressa da un Rousseau trentenne nell’Epistola a M. Parisot, vera e propria historia calamitatum del Ginevrino:
«Avendo per nascita
Il diritto di partecipare al potere
supremo
Per quanto fossi un cittadino piccolo,
debole e oscuro
Ero pur sempre un membro del sovrano»[33].
Come osserva Lionello Sozzi «già in questi versi […] la riflessione politica è strettamente intrecciata alla meditazione sulle personali vicende: ne scaturisce, anzi, come dalla sua prima sorgente. Rousseau è portato a costruire le sue prime alternative ed a sbozzare le prime linee della sua disamina muovendo dall’inquieto terreno del suo disagio esistenziale»[34].
È da tali premesse che nasce la sostanza politica del primo grande testo rousseauiano, che l’impose con perentorietà sulla scena culturale europea: il Discours sur les sciences et les arts. Il breve scritto, privo in realtà di una rigorosa struttura argomentativa tanto da non esssere mai annoverato dallo stesso Rousseau tra le sue opere migliori[35], è incentrato su una risposta volutamente provocatoria al bando dell’Accademia di Digione pubblicato sul «Mercure de France» («Si le rétablissement des sciences et des arts a contribué à épurer les moeurs»): secondo il Ginevrino «le nostre anime si sono corrotte via via che le nostre scienze e le nostre arti progredivano verso la perfezione. Diremo che si tratta di una disgrazia propria del nostro tempo? No, signori; i mali causati dalla nostra vana curiosità sono vecchi come il mondo. […] man mano che la loro luce si elevava sul nostro orizzonte si è vista la virtù dileguarsi e lo stesso fenomeno è stato osservato in tutti i tempi e in tutti i luoghi»[36].
Questa presa di posizione consente a Rousseau di articolare l’intero Discorso come un lungo excursus storico, che trova il suo momento di massima tensione etica proprio nell’esaltazione di una figura esemplare dell’antichità: il generale romano Luscino Gaio Fabrizio. Quest’ultimo, che era stato mandato da Roma a trattare con Pirro e ne aveva rifiutato l’oro, è agli occhi di Jean-Jacques il simbolo dell’antica virtù romana:
«O
Fabrizio! Che avrebbe pensato la tua grande anima, se, tornando in vita per tua
disgrazia, avessi visto l’aspetto pomposo di quella Roma che il tuo braccio
aveva salvato e che il tuo rispettabile nome aveva illustrato più di tutte le
sue conquiste? “o dei! Avresti detto, che è stato dei tetti di paglia, delle
case rustiche dove un tempo abitavano la parsimonia e la virtù? Qual funesto
splendore ha sostituito la semplicità romana? Ma che lingua straniera è questa?
Che sono questi costumi effemminati? Che vogliono dire questi quadri, queste
statue, questi edifici? Che avete fatto, o stolti? Voi, i signori dei popoli,
vi siete fatti schiavi degli uomini frivoli che avete vinto? […] Romani,
affrettatevi a demolire questi anfiteatri; mandate in frantumi le statue;
bruciate i quadri; cacciate questi schiavi che vi dominano e vi corrompono con
le loro arti funeste. Altre mani si illustrino con vani talenti; il solo
talento degno di Roma consiste nel conquistare il mondo e nel farvi regnare la
virtù. Quando Cinea scambiò il nostro senato per un consesso di re […] vide,
cittadini, uno spettacolo che mai offriranno tutte le vostre ricchezze o tutte
le vostre arti; lo spettacolo più bello che mai sia apparso sotto il cielo:
l’assemblea di duecento uomini virtuosi degni di comandare a Roma e di
governare la terra» [37].
Oltre alla figura di Fabrizio, tra le immagini dei grand hommes evocati, è posta in rilievo la figura di Socrate. Il filosofo ateniese è infatti l’emblema del saggio che denuncia, in una Atene ormai irrimediabilmente corrotta, la pericolosità delle scienze e delle arti attraverso l’esempio della propria virtù:
«Ecco dunque il più saggio degli uomini a giudizio
degli dei e il più sapiente degli Ateniesi secondo l’intera Grecia, Socrate,
che fa l’elogio dell’ignoranza! Dobbiamo credere che, se resuscitasse tra noi,
i nostri scienziati e i nostri artisti gli farebbero mutar parere? No, signori,
quel giusto continuerebbe a spregiare le nostre vane scienze; non
contribuirebbe a ingrossare la pletora di libri da cui siamo da ogni parte
sommersi e, come ha fatto, lascerebbe ai suoi discepoli e ai nostri nipoti, un
solo insegnamento: l’esempio e la memoria della sua virtù. Questo è un bel modo
di istruire gli uomini»[38].
La figura di Socrate assume nel pensiero di Rousseau un’importanza particolare, al punto da comparire in numerose opere sino a rivestire un ruolo emblematico. L’ammirazione di Rousseau nei confronti del maestro di Platone è infatti resa ancora più forte dalla consapevolezza che presso i contemporanei «Socrate non avrebbe bevuto la cicuta; ma avrebbe bevuto in una coppa anche più amara, lo scherno insultante, e il disprezzo, cento volte peggiore della morte»[39].
3.1
Socrate
Bisogna rilevare come Socrate fosse diventato nel diciottesimo secolo un mito, un vero e proprio punto di riferimento ideale. Non a caso gli Enciclopedisti lo avevano deliberatamente scelto come patrono, assimilando le persecuzioni di cui loro stessi erano vittime con quelle subìte dal figlio di Sofronisco[40].
Rousseau condivide dunque l’ammirazione del suo secolo per il martire ateniese, e a sua volta ama confrontare il proprio destino con quello del maestro di Platone. In una risposta scritta proprio in occasione del primo Discours Jean-Jacques sviluppa questo parallelo:
«Socrate, per aver detto esattamente le stesse cose
che io dico, ha pagato con la vita. Nel processo che gli intentarono, uno degli
accusatori sosteneva gli artisti, l’altro gli oratori, il terzo i poeti, tutti
sostenevano la pretesa causa degli dèi. Poeti, artisti, fanatici e retori
trionfarono; Socrate perì. Temo proprio di aver fatto troppo onore ai miei
tempi affermando che oggi Socrate non avrebbe bevuto la cicuta»[41].
Inoltre, questo ardito parallelo era sostenuto anche da diversi intellettuali contemporanei: David Hume, durante il suo soggiorno a Parigi nel dicembre del 1765 scrisse al Reverendo Huge Blair: «io penso che sotto molti aspetti Rousseau assomigli a Socrate: il filosofo di Ginevra […] sembra solamente avere più genio di quello di Atene che non scrisse mai nulla»[42]. Anche il commediografo Palissot, che pure non aveva risparmiato le propria pungente ironia nei confronti di Rousseau gli scrisse «sono persuaso che vi abbiano reso giustizia paragonandovi a Socrate»[43].
Nonostante il suo tempo incoraggi Rousseau a questa identificazione e lui stesso - come si è visto - ami confondere il suo personaggio con la leggendaria figura del maestro di Platone, bisogna sottolineare, con Denise Leduc-Fayette, come «il Socrate di Jean-Jacques ha una sua personalità propria che […] essenzialmente si oppone di fatto a quello degli enciclopedisti […] Il Socrate di Rousseau non è un Aufklärer!»[44]. Socrate è infatti, nel pensiero di Jean-Jacques, il solo tra i filosofi che sfugga alle critiche mosse alla filosofia e, attraverso di essa, all’Età dei Lumi.
Per tracciare un ritratto fedele del Socrate di Rousseau è necessario descrivere la filosofia che egli denuncia: si tratta di una filosofia corrotta, che ha condotto ad una perversione dello stato di natura. L’uomo naturale (l’homme de la nature) provava spontaneamente, a fianco di un sentimento egoistico, l’amor di sé (amour de soi)[45], un sentimento altruistico, la compassione (pitié). Come viene osservato nel secondo Discours, «la compassione sarà tanto più energica quanto più l’animale che sta a vedere si identificherà intimamente con l’animale che soffre; ora è evidente che questa identificazione deve essere stata infinitamente più stretta nello stato di natura che non nello stato di ragione»[46]. È proprio un uso scorretto della ragione, incarnato da quella filosofia che ha condotto alla condanna del maestro di Platone, che ha perso l’uomo: «è la ragione a generare l’amor proprio ed è la riflessione a rafforzarlo; essa ripiega l’uomo su se stesso e lo separa da tutto ciò che lo mette a disagio e lo affligge; è la filosofia che lo isola, facendogli dire in segreto, davanti a un uomo che soffre: “muori, se vuoi; io sono al sicuro”» [47]. A queste parole fa seguito il celebre “ritratto del filosofo”, uno dei più violenti attacchi di Rousseau nei confronti di una filosofia accademica, basata su di una ragione arida:
«A turbare i sonni tranquilli del filosofo e a
strapparlo dal suo letto sono rimasti solo i pericoli che minacciano la società intera. Si può
impunemente sgozzare il suo simile sotto la sua finestra; non ha che da
tapparsi le orecchie con le mani e farci sopra un bel ragionamento per impedire
alla natura che si rivolta in lui di farlo identificare con la vittima»[48].
Per evitare questo è necessario un ritorno all’ignoranza, incarnato proprio dalla figura del saggio ateniese. Come osserva Pierre Burgelin «il ritorno a Socrate significa il ritorno all’ignoranza. […] L’ignoranza socratica non è la stupidità, brutale e feroce, che fu quella dei nostri antenati. Si tratta di alleggerire la conoscenza, per così dire, della cultura libresca. La filosofia comincia quando ciascuno rientra in se stesso per leggere lì la verità e comprendere il limite della sua conoscenza»[49].
Si è qui di fronte a un punto centrale della gnoseologia rousseauiana: la teoria della sensibilité («ma chi sono io?… Io esisto e dispongo di sensi per mezzo dei quali ricevo le impressioni»[50]) si basa infatti sull’assunto che il cuore contiene le verità che ciascuno di noi percepisce da sé come immediatamente vere. Il cuore è la natura dell’uomo in se stesso, che non scopre la verità, ma la sente; per questo la ragione è un difetto o un pericolo quando non è in accordo con il cuore.[51]
Ecco perché uno tra i più celebri motti di Jean-Jacques, Vitam impendere vero, non deve essere inteso semplicemente come un precetto teorico, ma in un vero e proprio senso morale. Uno dei motivi per i quali Socrate affascinò così tanto l’immaginario di Rousseau è il fatto che egli fu testimone di questa strenua ricerca della verità sino al martirio, forma suprema della testimonianza. Nel Morceau allégorique sur la révélation, opera in cui vengono raffigurati i momenti successivi dell’avvento della verità, la figura di Socrate svolge un ruolo fondamentale. La verità è rappresentata come una statua velata e Socrate «saltando agilmente sull’altare scoprì con mano ardita la statua e la espose senza velo a tutti gli sguardi. […] Schiacciava coi piedi l’umanità personificata, ma i suoi occhi erano rivolti con tenerezza verso il cielo»[52].
Per tutti questi motivi il maestro di Platone è inteso come un uomo eccezionale, in grado di superare lo iato tra ragione e sensibilità e di cogliere la trasparenza della verità anche nell’opacità della società corrotta: «giungere alla virtù per via di ragione può andare bene per Socrate e per gli spiriti della sua tempra, ma il genere umano non sussisterebbe più se la sua conservazione fosse dipesa soltanto dai ragionamenti di coloro che lo compongono»[53].
Il rischio, per tutti gli altri uomini, è infatti quello di cadere nella filosofia in senso deleterio. Quest’ultima «allenta tutti i legami di stima e di benevolenza che collegano l’uomo alla società, e di tutti i mali che genera questo è forse il più pericoloso. […] La famiglia, la patria, diventano per lui parole prive di senso: non è né parente, né cittadino (citoyen), né uomo (homme) , è semplicemente filosofo»[54].
Questo passo assume un’importanza capitale, in quanto introduce la coppia concettuale uomo-cittadino, fondamentale per approfondire il ruolo che la figura di Socrate riveste nell’immagine dell’antichità di Rousseau. È inevitabile introdurre a tale punto un ulteriore modello tra gli uomini illustri: Catone.
3.2 Catone
Un'altra delle figure di uomini illustri che viene evocata con maggior frequenza nelle pagine di Rousseau è quella di Catone. Ciò che sembra particolarmente significativo è che tale figura compare, in un significativo numero di casi, in concomitanza con quella di Socrate, sin a partire dal passo già citato del componimento poetico Le verger de Mme de Warens («Con Socrate e con il divino Platone / Mi esercito a calcare le orme di Catone»[55]).
Bisogna rilevare che in questo esempio, come in diversi altri passi delle opere di Jean-Jacques, non è lecito affermare con sicurezza a quale figura storica il Ginevrino si riferisca: egli sembra nutrire un’identica ammirazione tanto per Catone il Censore quanto per il pronipote Catone l’Uticense. Per quanto si tratti di due personaggi storicamente distanti[56], nell’immaginario di Rousseau - che a volte confonde il dato storico con le proprie idealizzazioni - vengono fusi nell’immagine simbolica del cittadino virtuoso.
Nel primo Discours prevale la figura di Catone il censore, il cui operato viene posto in sostanziale continuità con l’opera del maestro di Platone: «Socrate aveva cominciato ad Atene, Catone il vecchio, a Roma, continuò a scatenarsi contro i Greci artificiosi e sottili che corrompevano la virtù e infiacchivano il coraggio dei concittadini» [57].
Nelle opere successive, tuttavia, diventa sempre più centrale la figura di Catone l’Uticense, che trova in Julie ou la Nouvelle Héloïse un’esaltazione entusiastica che non sarà mai smentita. Per bocca di Saint-Preux, Jean-Jacques esclama: «grande e divino Catone, tu, la cui augusta e sacra immagine animava i romani di sacro zelo e faceva fremere i tiranni»[58].
Si nota qui come la figura di Catone, indissolubilmente legata al destino degli altri cittadini, rivesta un ruolo differente rispetto a quella di Socrate, e sotto certi aspetti quasi antitetico; tale polarità emerge con particolare forza nella voce Économie politique:
«Osiamo paragonare lo stesso Socrate a Catone: l’uno
era più filosofo, l’altro più cittadino. Atene era già perduta e a Socrate
restava come unica patria il mondo intero; Catone portò sempre la propria
patria in fondo al cuore; viveva solo per lei e non le poté sopravvivere. La
virtù di Socrate è quella del più saggio tra gli uomini; ma, fra Cesare e
Pompeo, Catone sembra un dio fra i mortali. L’uno insegna a pochi privati,
combatte i sofisti, e muore per la verità; l’altro difende lo Stato, la
libertà, le leggi, contro i conquistatori del mondo, e infine abbandona la
terra quando non ha più una patria da servire. Un degno alunno di Socrate
sarebbe il più virtuoso dei suoi contemporanei; un degno emulo di Catone
sarebbe il più grande. La virtù del primo farebbe la sua felicità; il secondo
cercherebbe la propria felicità in quella di tutti»[59].
Socrate e Catone rappresentano dunque due differenti percorsi: quello del saggio e quello dell’eroe o, per esprimersi con la coppia concettuale emersa precedentemente, quello dell’uomo (homme) e quello del cittadino (citoyen). Ciò che muta radicalmente in questi due approcci è il rapporto tra morale e politica, che in Rousseau riveste un’importanza imprescindibile: «è necessario studiare la società attraverso gli uomini e gli uomini attraverso la società: chi pensa di poter trattare separatamente politica e morale, non capirà mai nulla di nessuna delle due»[60].
Per questo la figura dell’uomo e quella del cittadino assurgono ad un ruolo paradigmatico: come osserva Paolo Casini, «il dilemma centrale che tormenta la coscienza di Rousseau […] - la scelta tra la “verità” filosofica e la “virtù” politica militante – s’incarna nelle figure chiave di Socrate e di Catone»[61]. Socrate, come si è visto, è condannato a morte dai propri concittadini ed accetta serenamente il proprio destino. Se è vero che egli si piega alle leggi politiche dello Stato, è altrettanto vero che concepisce ideali morali che sono ormai completamente differenti rispetto a quelli della póliV. Catone Uticense, invece, vedendo crollare la repubblica romana, resta privo di ciò che costituisce la base della sua esistenza individuale e non trova più alcuna ragione per continuare a vivere, finendo così con il suicidarsi. La morale è per Catone a tal punto radicata nella politica che egli non può vivere se non come frazione di quell’unità che è lo Stato.
Ecco ripresentarsi il metodo di analisi deliberatamente antinomico di Jean-Jacques: il saggio e l’eroe, l’io e il noi, l’unità e la frazione, la solitudine e la comunità; in ultima analisi l’homme e il citoyen. C’è nell’espressione del pensiero rousseaquiano una sorta di impressionismo, messo in risalto con vigore da Gustave Lanson: «se è troppo lontano in una direzione, lo sbigottimento che prova nello scoprire l’altra faccia delle cose lo getta bruscamente sul versante opposto. La sua maniera di ottenere la nota mediana è quella di giustapporre violentemente due toni»[62].
Non solo emerge una notevole differenza tra i percorsi dell’uomo e del cittadino, ma anche una sostanziale incompatibilità, che sembra evidenziare una delle scissioni più laceranti e dolorose del pensiero di Rousseau, descritta con particolare efficacia nell’incipit dell’ Émile[63]. Evidenziando il contrasto tra l’educazione privata dell’uomo e l’educazione pubblica del cittadino (quest’ultima è incarnata non a caso da Catone il Censore[64]) Rousseau non vuole dichiararle inconciliabili per principio, ma confessa implicitamente l’incapacità di immaginare e rappresentare in concreto un’educazione civile che non snaturi la personalità individuale: «quando, anziché educare un uomo per se stesso lo si vuole educare per gli altri, allora l’accordo è impossibile. Dovendo combattere la natura o le istituzioni sociali, bisogna scegliere tra il fare un uomo o un cittadino: giacché non si può fare ad un tempo l’uno e l’altro»[65].
Robert Derathé, in uno dei più importanti studi sul pensiero politico del Ginevrino, ha osservato come «in Rousseau, la teoria della coscienza e quella della volontà generale si sono formate indipendentemente l’una dall’altra. Sono due filoni di pensiero che seguono le rispettive strade senza mai intersecarsi. A seconda che pensi da politico o pensi da moralista, egli giunge a conclusioni diverse. […] In tutta l’opera di Rousseau ci si scontra con l’antinomia fra l’uomo e il cittadino senza che si possa affermare che l’autore è riuscito a risolverla»[66].
Le figure di Socrate e Catone, lungi da rappresentare un mero espediente retorico in omaggio al proprio secolo, incarnano invece una polarità - quella tra l’homme e il citoyen - assolutamente centrale nella storia dell’umanità. L’esempio classico potrebbe essere Antigone costretta, proprio come Socrate e Catone, a scegliere tra la legge dell’umanità e quella della città.
La centralità che l’immagine rousseauiana degli illustri uomini antichi assume nello sviluppo di questa polarità trova una conferma decisiva in un parallelo proprio tra le figure di Socrate e Catone Uticense, che Jean-Jacques abozzò probabilmente nel 1752 (periodo a cavallo tra i due Discours), ma che è stato portato alla luce solo nel 1972, dopo il fortunato ritrovamento negli Archivi Chasles ad opera di Claude Pichois e René Pintard [67].
3.3 Jean-Jacques tra Socrate
e Catone
Nei brevi e scarsamente elaborati frammenti che compongono l’incompiuto Parallèle de Socrate et de Caton, Jean-Jacques prova ad avvicinare le due figure esemplari attraverso le qualità che essi potevano condividere, a cominciare dalla semplicità invocata proprio nell’incipit dell’opera: «non piaccia Dio che trattando un così grande soggetto io infanghi il mio stile con vili ornamenti che Socrate e Catone avrebbero disprezzato. Io mi sentirei intimorito dall’immagine di questi due grandi uomini se osassi allontanarmi nel parlare di loro da quella semplicità che fu l’anima dei loro caratteri e che impiegarono in tutte le azioni della loro vita»[68]. Questa caratteristica li eleva entrambi al di sopra delle false glorie destinate a perire; infatti «non è il coraggio, né la fortuna, né il genio, né i talenti ad essere rari, bensì la virtù»[69]. Proprio la virtù conduce questi due modelli esemplari a combattere contro la corruzione che rende la Roma di Catone Uticense simile all’Atene di Socrate:
«La repubblica romana, prostrata dal peso delle sue
ricchezze e delle sue conquiste, cadde in rovina all’epoca della nascita di
Catone. Mario e Silla avevano quasi rovesciato l’edificio, ma il frontone era
ancora in piedi e la vecchia forma era tutto ciò che restava dell’antica
costituzione. Le cause della devastazione erano evidenti. Non ce ne sono mai
state altre che l’universale corruzione dei costumi, il Lusso dei ricchi, la
miseria dei poveri e l’avarizia di tutti che hanno contribuito maggiormente a
fare perire un governo fondato sull’orrore del vizio e mantenuto attraverso
l’amore della virtù»[70].
Questo passo, oltre che rimandare a tematiche che Rousseau aveva affrontato a più riprese nel primo dei Discours (di circa due anni precedente), rivela la difficoltà di fondo nel riuscire a costruire l’opera attraverso un parallelo basato su similitudini. Nel tentativo di fare ciò, Jean-Jacques ricorre alle sue indubbie capacità retoriche, costruendo un sottile incrocio di qualità contrastanti :
«I Romani erano tutti guerrieri per lo stato, così come
i Greci Filosofi – Questi due in qualche modo si scambiarono i ruoli durante la
guerra. Sotto le armi Socrate fu soldato e Catone esercitò la filosofia.
Conosciamo tutte le prove di coraggio che il primo fornì in diversi scontri ed
in particolar modo durante l’assedio di Potidea, quando cedette volontariamente
ad Alcibiade il premio per il valore che gli era stato assegnato. Per quanto
riguarda Catone, nell’inoperatività dei campi fu il predicatore della virtù.
Del corpo che comandò, e che aveva trovato pervaso dagli stessi costumi e
imbevuto dalle stesse massime che regnano oggi giorno presso i nostri militari,
ne fece una società di uomini moderati e di saggi»[71].
Si tratta di un equilibrio ben precario che è basato su una sostanziale inversione delle caratteristiche peculiari dell’homme e del citoyen. All’uomo Socrate vengono attribuite le virtù militanti dell’eroe, mentre al cittadino Catone vengono attribuite le caratteristiche del filosofo e del saggio: egli trasforma addirittura i suoi soldati in una “sociéte d’hommes” (termini per altro quasi antitetici in Rousseau).
A partire da questo punto, il parallelo è costruito attraverso ben più significative differenze tra il Greco e il Romano, a cominciare dal loro rapportarsi con la libertà. Entrambi nati liberi, si trovarono presto sotto la costrizione di un giogo arbitrario, ma «Socrate poté vivere sotto i Tiranni perché era certo di poter conservare completamente la sua libertà, Catone aborrì la tirannia poiché per lui non era sufficiente essere libero, ma voleva che tutti i cittadini lo fossero»[72]. Ecco presentarsi manifestamente l’opposizione e l’incompatibilità tra i due modelli: «se siete Filosofi, vivete come Socrate, se siete uomini di Stato vivete come Catone»[73].
Questa opposizione che, come
osservano Pichois e Pintard, «sorge in parte
inattesa alla fine di un’analisi equivoca e, nella sua brusca formulazione,
sembra a prima vista stabilire un vantaggio per il filosofo. Ma non è
così : questa brutalità provocante non può annunciare che un’antifrasi, e
delle più sarcastiche. Il filosofo ha già molta fortuna se riesce a rendere gli
uomini saggi: non è nelle sue possibilità procurar loro la libertà, non
saprebbe donar loro la felicità (bonheur[74]). È a colui che “governa” che è riservato tale privilegio: ciò che è
cominciato da Socrate, solo Catone potrà portarlo a termine» [75].
La conclusione di questo parallelo, nonostante la rigidità delle antitesi troppo formali e la mancanza di sfumature, sembra l’autentico preludio al magnifico passo - già citato - della voce Économie politique[76]. Entrambi i brani confermano una sorta di primato dell’azione sul pensiero e, dunque, del cittadino sull’uomo. La superiorità di Catone consiste nel fatto che la sua felicità (bonheur) dipende da quella degli altri. La ricerca attiva e altruistica della felicità testimonia la concezione combattiva che Rousseau ha della virtù; per lui solo il cittadino – e non il saggio – potrà essere un eroe: «non bisogna rappresentarsi l’eroismo sotto l’idea di una perfezione morale che non gli appartiene assolutamente, ma come una composizione di buone e cattive qualità, salutari o nocive a seconda delle circostanze, e combinate in una tale proporzione che ne risulta sovente la fortuna e la gloria per colui che le possiede, e qualche volta anche più felicità per i popoli, più che da una virtù perfetta»[77].
È a partire da queste premesse che Denise Leduc-Fayette trae la conclusione
che «l’eroe, per Rousseau, è incontestabilmente superiore al saggio»[78]. Infatti «Socrate è la figura del
filosofo autentico, e questa grandezza è anche la sua indegnità!» [79].
Una certa supremazia della figura di
Catone su quella di Socrate era, del resto, già stata sostenuta da Claude
Pichois e René Pintard, sebbene sulla base di differenti motivazioni. Secondo
questi autori «Rousseau non è effettivamente mai arrivato a caricare di un
contenuto veramente positivo la vita del maestro di Platone [ma …] è condotto a
distinguere in Socrate diversi personaggi, che gli ispirano dei sentimenti
assai differenti»[80]. Al contrario, «la venerazione per
Catone acquista decisamente, nel corso di più anni, un calore che non aveva mai
avuto l’equivoca ammirazione per Socrate» [81].
Diversa è la posizione di Tzvetan Todorov, uno degli esegeti che maggiormente ha insistito sulla polarità tra l’homme e il citoyen nella sua interpretazione rousseauiana. Essendo i percorsi del cittadino e quello dell’uomo sostanzialmente inconciliabili, non si può stabilire una gerarchia tra le figure di Socrate e Catone, se non analizzandole all’interno della linea dell’evoluzione intellettuale e morale di Jean-Jacques:
«L’uomo ha un ideale duplice, contraddittorio; ma non può essere felice che nell’unità. La conclusione di questo sillogismo si impone da sola: l’uomo vivrà infelice. […] Ciascuno dei due percorsi considerati, quello del cittadino come quello dell’individuo, avrebbe potuto aiutare gli uomini ad uscire dalla sventura in cui lo aveva immerso la caduta nello stato sociale. Ma, portato a seguire entrambi i percorsi simultaneamente pur non essendo in grado di farlo, egli è condannato alla miseria. […] Socrate e Catone sono entrambi degni di ammirazione, ma per ragioni diverse: il primo vede intorno a sé solo uomini, non fa differenza tra i suoi compatrioti e gli altri, aspira alla virtù e alla saggezza personali. Il secondo, invece, conosce solo i propri concittadini, ed agisce in vista della felicità comune, non della propria» [82].
La posizione di Todorov sembra trovar conferma in particolar modo nelle pagine dell’ Émile, opera della piena maturità rousseaiana che ripresenta nella propria apertura - in maniera più lucida e meno rivestita da simboli mitici - il contrasto tra l’uomo e il cittadino:
« L’uomo naturale (homme
naturel) è un insieme concluso in sé: egli rappresenta l’unità numerica,
l’entità assoluta che si pone esclusivamente in rapporto con se stesso o con il
proprio simile. L’uomo civile rappresenta soltanto un’unità all’interno di una
frazione che conta in funzione del denominatore e il cui valore è determinato
dal suo rapporto con il tutto, ossia con il corpo sociale. Le istituzioni
sociali più valide sono quelle che riescono meglio a snaturare l’uomo, a
privarlo dell’esistenza assoluta per fornirgliene una relativa, a trasferire il
suo io nell’unità comune, in modo che
ogni singolo individuo non si consideri più come uno ma come parte dell’unità,
e non abbia valore se non identificandosi con il tutto. […] Chi volesse
conservare la supremazia dei sentimenti naturali in un quadro di ordine civile,
non saprebbe ciò che vuole. In continua contraddizione con se stesso,
perennemente esitante tra inclinazioni e doveri, non sarà mai né uomo, né
cittadino, non sarà utile né a se stesso, né agli altri. Sarà un uomo dei
nostri tempi, un Francese, un Inglese, un borghese, ossia non sarà nulla»[83].
Per quanto riguarda l’utilizzo dell’espressione “homme naturel” in questo passo, pare necessaria una precisazione: questo termine può ingenerare una confusione dovuta al fatto che Rousseau lo utilizza, in maniera non sicuramente fortuita, per indicare sia l’abitante puramente immaginario dello stato di natura, sia l’abitante concreto degli Stati antichi e contemporanei, il quale vive chiaramente in uno stato di società e non può in nessun caso essere confuso con l’uomo della natura (homme de la nature). Bisogna, in altri termini tener distinta l’opposizione uomo della natura-uomo dell’uomo da quella di uomo-cittadino, che si situa interamente all’interno del secondo termine della prima polarità. Inoltre, la polarità homme de la nature - homme de l’homme, rappresentando una successione ideale, è irreversibile; al contrario, nel caso dell’opposizione homme (naturel) - citoyen i due elementi possono coesistere nella simultaneità: non si è più impegnati a superare fasi, ma a scegliere tra alternative.
Si riesce a tale punto a comprendere come l’ammirazione per gli uomini illustri - esemplificata dalla polarità tra Socrate e Catone - lungi dal limitarsi ad un semplice espediente retorico, riveli per tappe successive la propria fecondità morale, filosofica e politica. La fascinazione esercitata su Rousseau da questi personaggi esemplari, dovuta alla sua formazione da autodidatta, si trasformò in una vera e propria mitologia eroica. In particolar modo agli inizi della sua riflessione (gran parte dei testi analizzati risalgono a prima del 1755) l’animo sensibile di Jean-Jacques, approdato tardi alla filosofia, aveva bisogno di dare un viso alle proprie idee: Rousseau è infatti sempre stato un homme à sensation o, per usare la felice espressione di Paolo Casini, «un filosofo che sente prima di pensare, e pensa per immagini»[84].
Se esiste un contraddizione tra l’uomo e il cittadino, tale contraddizione si situa, più che nella trattazione del Ginevrino, nella stessa condizione umana: il gesto che consiste nell’osservare e descrivere una contraddizione non ha in sé nulla di contraddittorio. Ciò che a prima vista può apparire uno spirito estremista dipende – come osserva Todorov – dal fatto che «Rousseau pensa in modo così potente da scorgere immediatamente le premesse lontane e le conseguenze estreme di ogni affermazione»[85]. Per questo Jean-Jacques sarà sempre sospeso tra Socrate e Catone.
4. Città modello: l’elogio
di Sparta e la svalutazione di Atene
Se Socrate e Catone entrano, con altri uomini illustri, nei ranghi di quelle divinità che Jean-Jacques a volte interroga e a volte prega pietosamente, altrettanto centrali per la costruzione del suo mito dell’antichità sono le città modello.
L’importanza attribuita a dei luoghi non deve sorprendere: l’intera opera rousseauiana è infatti costellata da luoghi emblematici, reali e immaginari, che hanno esercitano un’influenza decisiva sullo sviluppo intellettuale di Jean-Jacques. Tra i luoghi della vita vissuta spiccano in particolar modo Les Charmettes, Parigi e Ginevra: il primo è il simbolo della perduta felicità dell’uomo allorché abbandona lo stato naturale per approdare alla società civile[86]; il secondo rappresenta la condizione dell’uomo che tenta inutilmente di sottrarsi alla civiltà da lui costruita; il terzo è il remoto ideale di ciò che la vita umana avrebbe potuto essere.
Nella costruzione di questi luoghi emblematici le luci iridate delle chimere e dei miti modellano un reale spesso opaco e spento. Ancora una volta, sarà l’immagine di un’antichità mitica e morale a fornire a Rousseau gli strumenti per plasmare il presente: in particolar modo, il fondamentale ideale che egli costruirà della propria città natale, Ginevra, sarà influenzato in maniera decisiva dal modello di Sparta e Roma.
Il mito romano e quello laconico
erano in realtà un topos letterario
ormai affermato nella letteratura politica moderna: l’elogio del governo misto
nell’analisi polibiana delle costituzioni di queste due città – contenuto nel sesto
libro delle Storie – era stato
ripreso a partire dai Discorsi di
Machiavelli, sino a giungere a Montesquieu e Mably. La presa di posizione di
Rousseau innanzi ad una problematica tradizionale è, come già si è potuto
osservare per quel che riguarda le figure degli uomini esemplari, nuovamente sui generis. Analizzando le città che
egli eleva al rango di modello emerge una prima significativa differenza
rispetto ai contemporanei, che consiste nell’esclusione di Atene. Come osserva Denise Leduc-Fayette, «schematicamente si
può dire che il secolo dei Lumi è a favore di Atene, contro Sparta. Rousseau è
per Sparta, contro Atene!» [87]. Non solo: al centro del primo Discours
e della Dernière
réponse c’è l’opposizione tra la positività di Sparta e la negatività di Atene.
Questo confronto tra la città madre delle arti e delle scienze per eccellenza e
la «repubblica di semidei più che di uomini» [88] si
chiude nettamente a favore della seconda : «due famose repubbliche si
disputarono l’impero del mondo: l’una era ricchissima, l’altra non aveva nulla;
e fu questa a distruggere l’altra» [89].
La svalutazione di Atene, che
rappresenta – al contrario di Sparta – il primato del pensiero sull’azione[90] rimase costante
in Rousseau, che non la considerò mai come un’autentica democrazia, ma
piuttosto come un’aristocrazia tirannica retta da sofisti e oratori, nella
quale il popolo si trovava nell’impossibilità di agire come corpo sovrano. Il
ruolo principale di Atene, nel Discours sur les sciences et les arts, è
quello di far emergere per contrasto la sublime e quasi divina grandezza di
Sparta:
«Dimenticherò che proprio in seno alla Grecia si vide
elevarsi quella città tanto decantata per la sua felice ignoranza quanto per la
saggezza delle sue leggi, quella repubblica di semidei più che di uomini? Ché
le loro virtù di troppo apparivano superiori all’umanità. O Sparta, eterna
condanna della vana dottrina! Mentre i vizi frutto delle belle arti penetravano
in frotta ad Atene, mentre un tiranno vi raccoglieva con tanta cura le opere
del massimo poeta, tu bandivi dalle tue mura le arti e gli artisti, le scienze
e gli scienziati.
La storia mise in risalto questa differenza. Atene
diventò la sede della cortesia e del buon gusto, il paese degli oratori e dei
filosofi. L’eleganza delle costruzioni si intonava a quella della lingua. Da
ogni parte si vedevano marmi e tele animati dalla mano dei maestri più abili.
Le opere meravigliose che serviranno di modello in tutte le età corrotte
usciranno da Atene. Meno brillante il quadro di Sparta. “Là, dicevano gli altri
popoli, gli uomini nascono virtuosi, e l’aria stessa del paese sembra ispirare
la virtù”. Dei suoi abitanti ci resta solo la memoria delle azioni eroiche. E
simili monumenti avranno ai nostri occhi meno valore dei marmi rari che ci ha
lasciato Atene?» [91].
Per capire come questa visione negativa di Atene, basata essenzialmente sulla critica al lusso ed al vuoto sapere, suoni come una nota dissonante all’interno della visione dei philosophes, è sufficiente confrontare questo passo rousseauiano con quanto Voltaire scrisse – circa quindici anni dopo – nella voce «Luxe» del suo Dictionnaire philosophique :
«I declamatori pretenderebbero che si sotterrassero le ricchezze accumulate con la fortuna delle armi, con l’agricoltura, il commercio e l’industria? Essi citano Sparta; perché non citano anche la repubblica di San Marino? Qual bene arrecò Sparta alla Grecia? Ebbe forse uomini come Demostene, Sofocle, Apelle e Fidia? Il lusso ad Atene ha creato grandi uomini in ogni campo; Sparta ha avuto qualche condottiero, e per giunta in minor numero che nelle altre città. Ma ammettiamo pure che una piccola repubblica come Sparta conservi la sua povertà. Si arriva alla morte sia non avendo niente che godendo di tutto ciò che può rendere la vita piacevole. Il selvaggio del Canada conduce la sua esistenza e giunge alla vecchiaia come il cittadino inglese che ha cinquantamila ghinee di rendita. Ma chi potrà paragonare il paese degli Irochesi con l’Inghilterra?»
[92].
Non è difficile intuire che il vero bersaglio polemico di queste righe contro Sparta è Jean-Jacques. D’altronde, già in precedenza, i suoi critici l’avevano provocato proprio adducendo l’esempio della città di Licurgo a favore delle loro argomentazioni. In particolar modo Bordes si era retoricamente interrogato su che cosa rimarrebbe oggi della Grecia, se fosse stata tutta come Sparta. Poiché arti e scienze sarebbero state oggetto di disprezzo, nessuno storico avrebbe ricevuto una educazione tale da renderlo in grado di perpetrare in eterno la gloria ellenica. Nella sua Dernière réponse Rousseau suggerisce che, se uno spartano fosse stato persuaso della validità di una simile argomentazione, si sarebbe rivolto ai propri concittadini con le seguenti parole:
«“Cittadini, aprite gli occhi ottenebrati. Vedo con
dolore che vi applicate solo a conquistare la virtù, a esercitare il coraggio e
a mantenere la libertà; e trascurate tuttavia il dovere più importante:
divertire gli oziosi delle future generazioni. Ditemi: per cosa può essere
fatta la virtù se non per far chiasso nel mondo? A che vi servirà essere gente
dabbene, se nessuno parlerà di voi? Che importerà ai secoli venturi la morte a
cui vi siete votati alle Termopili per la salvezza degli Ateniesi se non
lasciate come loro sistemi filosofici, versi, commedie e statue? Spicciatevi
dunque ad abbandonare delle leggi che servono solo a rendervi felici; pensate
solo a far parlare molto di voi quando non sarete più in vita; e non dimenticate
mai che essere uomini grandi sarebbe inutile se gli uomini grandi non
venissero celebrati”» [93].
Questi stralci di testi hanno il merito di mostrare come nella considerazione delle antiche città - esattamente come nella riflessione sui personaggi esemplari - Jean-Jacques privilegi i temi dell’eroismo, del patriottismo e dei buoni costumi rispetto alle considerazioni storiche in senso stretto. Come ha osservato Lionello Sozzi, «a Rousseau importa poco la storia, egli è ardente lettore di Plutarco ma non tanto perché intenda ricostruire catene di eventi passati, quanto perché gli piace riscoprire figure emblematiche, anime sublimi, gallerie di eroi: la sua memoria vuole fissare i rapidi istanti in cui, pur vivendo nel quotidiano, l’individuo trasfigurato e appagato può dire: “Ho vissuto”»[94].
Jean-Jacques non ricerca dunque nelle città esemplari le tecniche della ragion di Stato (come avevano fatto Montesquieu e Mably), ma vuole disegnare modelli sublimi di comunità, partendo da un punto di vista eminentemente morale che lo indurrà a costruire un parallelo tra Roma e Sparta, le due città che «portarono la gloria umana alle più alte vette che possa attingere»[95].
4.1 Il parallelo tra le due Repubbliche di
Sparta e di Roma
Attorno al 1752-1753 Rousseau sembra particolarmente interessato ad un tipo di analisi che potremmo definire comparativistico: quasi contemporaneo all’incompiuto Parallèle de Socrate et de Caton, abbozzato nel 1752, dovrebbe essere il cosiddetto Parallèle entre les deux Républiques de Sparte et de Rome, il dodicesimo dei Fragments politiques. Robert Derathé ha infatti sostenuto, in via puramente congetturale, che si possa collocare anche tale frammento nel 1752, all’epoca delle controversie relative il primo Discours o, più genericamente, prima della redazione del secondo[96].
Per quanto riguarda l’obiettivo dello scritto, sin dall’incipit di questo frammento è possibile rilevare come Rousseau si muova nuovamente in controtendenza rispetto ai valori correnti tra gli ideologi dei Lumi, fautori di un progresso generico[97] e difensori della modernità:
«Lascio agli ammiratori della storia moderna il
compito di indagare e di decidere quale di questi due quadri meglio le
convenga. Quanto a me, che amo considerare solo gli esempi che ammaestrano e
onorano l’umanità; che tra i miei contemporanei riesco solo a vedere padroni
insensibili e popoli che gemono, guerre che non interessano a nessuno e che
affliggono tutti, […] sudditi tanto più miserabili quanto più lo Stato è ricco,
e tanto più disprezzati quanto più il principe è potente, stendo un velo su
questi oggetti di dolore e di desolazione e, non potendo alleviare questi mali,
evito almeno di contemplarli.
Mi fa piacere, invece, volgere gli occhi a quelle venerabili immagini dell’antichità in cui vedo gli uomini elevati da sublimi istituzioni al più alto grado di grandezza e di virtù che la saggezza umana può raggiungere. L’anima si eleva a sua volta e arde di una fiamma coraggiosa nel percorrere quei monumenti degni di rispetto; si partecipa in qualche modo alle azioni eroiche di quei grandi uomini, sembra che la mediazione della loro grandezza ce ne comunichi una parte e si potrebbe dire della loro persona e dei loro discorsi ciò che Pitagora diceva dei simulacri degli dèi, che danno un’anima nuova a chi ci si accosta per riceverne gli oracoli»[98].
Per quanto riguarda invece la struttura del testo, e cioè il parallelo, è Rousseau stesso a spiegarcene la funzione, che è in primo luogo esemplare: infatti « la storia può anche supplire a ciò che manca ai suoi racconti […] riunendo sotto uno stesso angolo visuale i fatti e gli eroi che si prestano a illuminarsi a vicenda. In questi confronti si distingue meglio l’opera della fortuna da quella della prudenza; contrapponendo uomini o popoli in tutto ciò che li distingue, gli errori dell’uno mettono in rilievo la saggezza dell’altro nell’evitarli e i loro difetti sono fonti di ammaestramento nella stessa misura delle loro virtù. Se si può immaginare un parallelo in cui tutti questi vantaggi convergano, mi pare sia quello delle due repubbliche che vorrei mettere a confronto»[99]. Le contrapposizioni e le differenze - come si era già potuto notare nel Parallèle de Socrate et de Caton - sono per Rousseau più istruttive delle somiglianze: soltanto a partire dalle prime sarà possibile stabilire le vere gerarchie di valore e costruire un modello politico il migliore possibile. Per questo «l’aspetto più felice di questo paragone è che, pur non avendo nessuna delle due repubbliche raggiunto la perfezione di cui era suscettibile, i loro difetti non furono gli stessi e poiché l’una ebbe le virtù che mancavano all’altra, nel confronto il male si mostra solo con il suo rimedio. Sì che un tale parallelo offre sulla base dei fatti l’immagine del governo migliore e del popolo più valoroso e saggio che possa esistere»[100].
Prima di analizzare in maniera maggiormente dettagliata i frammenti del 1752, merita un accenno la concezione generale di Roma nel pensiero rousseaauiano. Se l’ammirazione per Sparta è, sin dalla lettura giovanile della Vita di Licurgo, incondizionata e monolitica, più variegata e complessa è l’ammirazione per Roma. Nel primo Discours, infatti, la posizione di Jean-Jacques nei confronti della città dei sette colli è duplice: essa è avvicinata tanto a Sparta quanto ad Atene, che rappresentano i due poli dell’argomentazione. Rousseau sembra presupporre una distinzione tra due fasi della storia di Roma che consentono un tale accostamento: alla virtuosa repubblica si contrappone il corrotto impero che ha portato al suicidio Catone Uticense. Sarà la prima di queste due immagini ad emergere prepotentemente nel quarto libro del Contrat Social, dominato dall’esaltazione delle istituzioni politiche della Roma repubblicana[101]. Tali istituzioni potevano essere mantenute solo attraverso «la semplicità di costume dei primi Romani, il loro disinteresse, la loro inclinazione per l’agricoltura, il loro disprezzo per il commercio e per l’avidità di guadagno»[102]. Nel Contrat Social, tuttavia, l’immagine di Roma non viene sostanzialmente mai comparata con alcun modello greco. Al di là del raffronto tra gli efori ed i tribuni, sviluppato nel quinto capitolo del quarto libro, le allusioni a Sparta hanno una plutarchiana funzione di exempla, come dimostra l’episodio dei Sami ubriachi, posto alla fine del capitolo dedicato alla censura[103]. A Sparta e Roma, in definitiva, venivano assegnati ruoli differenti: la guerra alla prima e la virtù alla seconda[104].
Già nel 1752 Rousseau sembrava consapevole di tali differenze, ma aveva deciso di aprire il proprio parallelo con delle similitudini rilevando che «quanto alle differenze, se ne troveranno sempre troppe per consentirmi di giustificare il confronto, e avrò tante occasioni di parlarne che esaminarle ora sarebbe inutile»[105]. Le metafore che emergono all’inizio del testo, per quanto significative, sono piuttosto esigue:
«Entrambe brillarono a un tempo per virtù e per
valore, entrambe ebbero grandi rovesci e più grandi successi, assecondarono o
piegarono la fortuna a furia di saggezza e smentirono con una costituzione
salda e durevole i pregiudizi volgari contro l’instabilità dei popoli liberi. I
grandi oggetti propongono rapporti evidenti: entrambe le repubbliche ebbero
dapprima dei re, divennero poi Stati liberi e si spensero sotto i tiranni;
ognuna delle due ebbe da combattere una temibile rivale che la portò spesso
sull’orlo della rovina; riuscì tuttavia a sconfiggerla, ma la sconfitta divenne
fatale ai vincitori; per entrambe, del pari, benché a scadenze molto diverse,
l’espansione fu la causa del crollo. Infine la stessa fierezza, lo stesso amore
per la patria sono tratti che si riscontrano in entrambe»[106].