Salvare le apparenze: un’indicazione metodologica per
salvaguardarsi da uno dei disagi della modernità.
di Roberto Della Mora
1.
Un’
introduzione alla verità e all’apparenza come parole filosofiche fondamentali:
un nuovo metodo d’indagine.
Nello svolgimento di un’analisi filosofica intorno ai termini VERITA’ ed APPARENZA, lo studioso, il buon conoscitore ed il semplice appassionato di filosofia si trovano inevitabilmente di fronte un bivio che si apre su due sentieri diametralmente opposti; il primo si propone di scalare una per una le pietre instabili di quella che amiamo chiamare “storia della filosofia”[1]; questo perché appare ovvio, anche agli occhi meno esperti, che Verità ed Apparenza non sono solo parole pregne di significato filosofico e che accompagnano la storia del pensiero dall’antichità sino ad oggi (e con questo credo di riferirmi ad un’ opinione largamente condivisa, se non dalla totalità, dalla maggioranza degli studiosi) ma sono la stessa espressione di ciò che la filosofia intende indagare più intimamente, la proiezione dell’essenza stessa della domanda filosofica fondamentale, ossia: “Che cos’è?”[2]. Date queste premesse accettiamo di buon grado le parole di un grande pensatore contemporaneo che di “sentieri” aveva una certa esperienza: “Se fa attenzione alla sua essenza, la filosofia non progredisce affatto. Essa segna il passo sul posto, per pensare sempre la stessa cosa. Progredire, cioè andar via da questo posto, è un errore che segue il pensiero come l’ombra che esso stesso proietta.”[3]. Ci appare dunque chiaro come sarebbe inutile quanto lezioso intraprendere una strada di questo genere; nel tentativo di scalare un’insormontabile montagna per rintracciare nell’intera storia della filosofia la determinazione chiara e specifica dei termini Verità ed Apparenza, ci si ritroverebbe a passeggiare per una “galleria delle pazzie o dei traviamenti dell’uomo che si inabissa nel pensiero e nei puri concetti”[4]. Scartiamo quindi il primo sentiero, poiché è risultato essere un approccio non solo deleterio ma anche inutile dal punto di vista della nostra ricerca, in quanto non ci porterebbe a nulla se non al punto di partenza, a porci nuovamente le stesse questioni riguardo la Verità e l’Apparenza. Che dire dunque a questo punto del secondo sentiero? Questo corre in discesa; segue un fiume che nasce dalla cima della montagna e che passando attraverso quelle stesse pietre che fino a poco fa ci accingevamo a scalare, s’inoltra per terreni sconosciuti e velocemente giunge ad una riva dove sbocca sul mare; da qui possiamo ammirare lo stesso spettacolo di cui avremo goduto dalla cima della montagna, senza però migliaia di massi che ci oscurano la vista. Fuor di metafora quello che cerco di indicare è un metodo di ricerca che inglobi la tradizione superandola, che cerchi il contatto con l’antico guardando al moderno, un’ermeneutica dei classici che non solo ci faccia scoprire come pensavano gli antichi ma che ci insegni a pensare come loro. Dobbiamo smettere di chiederci quando diventeremo greci per divenirlo autenticamente, senza quella nostalgia per la grecità che percorre parte del pensiero contemporaneo; un occhio che guarda al futuro avvalendosi della semplicità e, per un certo verso, dell’ingenuità dello sguardo antico rischiarato dalle conoscenze moderne; dovremo sempre porci come obiettivo ciò che ci diceva il buon vecchio Hegel, ossia di non essere migliori DEL nostro tempo, ma essere migliori NEL nostro tempo. Prendendo come riferimento l’opinione comune che l’uomo si pone da sempre gli stessi quesiti, non vedo per quale motivo non dovremo arrischiarci di porre queste domande, non ai vecchi tomi dei bei tempi passati, quanto al vivo Mondo che ci circonda, sia esso oggetto della nostra ammirazione, odio, indifferenza o quant’altro.
2.
Un
antico-nuovo modo d’intendere la filosofia: la liberazione dell’uomo come
necessario passo per lo svelamento della verità.
Un’ultima dichiarazione prima di addentrarci per il nostro sentiero; tengo vivo il ricordo di quanto amava ripetere Nicola Abbagnano: “mirare alla semplicità e alla chiarezza è un dovere morale degli intellettuali: la mancanza di chiarezza è un peccato e la pretenziosità un delitto”. Con questo non è assolutamente mia intenzione definirmi un intellettuale, un po’ come sottolineava più volte il troppo poco ricordato Gilles Deleuze, solo ultimamente riscoperto dalla filosofia, psicologia e psichiatria odierna; apro una piccola parentesi critica: durante un programma di rai due intitolato: “Il Caffè” un importante poeta (del quale non faccio il nome) ha ricordato come ai “sui tempi” ed ancora oggi, Sigmund Freud non sia ricordato nei manuali di storia della filosofia; se questo fosse vero (come di fatto però non è) come possiamo sperare di sentir parlare di Deleuze, cresciuto nella scuola di Lacan il quale a sua volta era un noto rivoluzionario della psicoanalisi contemporanea? Ma non è luogo per discutere di questo, perciò chiudo subito la parentesi; dicevo dunque che, lungi dal volermi definire un intellettuale (categoria per la quale mi chiedo, simpaticamente, se esista o meno un albo professionale al quale potersi iscrivere), ciò che in assoluto voglio evitare quando parlo di filosofia, è commettere un peccato o un delitto; sarà quindi mio prioritario obiettivo cercare di essere quanto più chiaro possibile esprimendo un pensiero, il mio, che possa essere compreso non solo dallo studioso, come scrivevo in precedenza, ma anche dal buon conoscitore e dal semplice appassionato. Senza indagare lo statuto della filosofia, per quanto mi riguarda, penso che essa sia molto più utile quando riesce a sganciarsi da quell’ atteggiamento accademico e specialistico che l’ ha caratterizzata e continua a caratterizzarla negli ultimi anni; forse ancora peggiore è l’opposto di questo, ossia quel fenomeno di “massificazione” della filosofia per cui anche alcuni di quelli che noi stessi al giorno d’oggi chiamiamo filosofi, Platone gli avrebbe definiti “sofisti”; a me piace indicarli come venditori di fumo. Ciò avrebbe molta attinenza con il tema dell’apparenza, ma di ciò poi; concludo questa parte introduttiva dicendo che a mio parere la filosofia deve adeguarsi alla massa così come la massa deve adeguarsi alla filosofia; compito degli studiosi deve essere quello di assumere il ruolo di intermediario tra i due termini, quasi che il filosofo debba abbandonare le vesti dell’ uomo colto e che va fiero, come scriveva Platone, di potersi “gettare il mantello sulla destra, come si addice a persona libera” e farsi portatore di quella fiaccola luminosa, la cultura, che mai e poi mai deve spegnersi in nome dell’amor proprio. Come un antico eroe greco, il “buon” filosofo deve ritornare sui suoi passi, andare all’origine, lì nella caverna, per liberare gli altri uomini a costo della propria vita. Non potendo fuggire dal confronto con la lezione Heideggeriana sul mito platonico della caverna, tanto vale lasciare parlare l’autore perché il suo pensiero possa esprimersi in tutta la sua forza ed originalità: “La libertà non è soltanto l’essere-liberati dalle catene né soltanto l’essere-divenuti-liberi per la luce, ma l’autentico essere liberi è essere liberatori dal buio”[5]. Ancora: “la verità non è un quieto possesso, godendo del quale ci sediamo in pace da qualche parte per pronunciare, da lì, sentenze all’ indirizzo degli altri uomini, bensì la sveltezza accade solo nella storia della continua liberazione”.[6] Il riferimento, che presumo tutti abbiano ben chiaro, è al mito della caverna che ritroviamo nel VI libro della “Politeia” di Platone; non è qui il caso di ripercorrere il mito, tantomeno di esplicare le molteplici interpretazioni che ne sono state date nei corsi dei secoli; ciò che conta ai fini della nostra ricerca è rilevare come il tema della verità e dell’ apparenza, dal quale sembravamo esserci allontanati, assume ora una valenza straordinaria all’ interno di questa visione: l’uomo, proprio in quanto uomo, per la propria salvezza è chiamato a diventare salvatore. Ciò che è in gioco nello svelamento della verità, nella dialettica tra verità ed apparenza, è la stessa libertà dell’uomo, quella libertà senza la quale ogni sua azione non assume senso.
3.
L’imporsi
della filosofia morale come mezzo per la liberazione dell’uomo: necessità di
una prassi filosofica.
Dovrebbe sembrare chiaro a questo punto, quale sia il punto di partenza da cui dovrebbe muovere ogni nostra riflessione sui termini Verità ed Apparenza ed il rapporto che sussiste tra di loro. Il campo d’indagine sarà quello della PRAXIS, della pratica, termine molto problematico perché, sia nell’etimo greco che nella definizione italiana d’uso corrente, riflette una molteplicità di significati. Usato sin dall’antichità per indicare un certo tipo di azione, il termine praxis assume una forte connotazione nell’etica antica quanto in quella moderna e contemporanea, come pratica, azione, che si fa portatrice di valori morali; non dunque una pratica volta al mero raggiungimento di uno scopo o alla produzione di qualcosa, ma esplicativa della specificità della specie umana. Questa specificità, che per gli antichi (con tutte le eccezioni del caso) risiedeva nella razionalità e che differenziava l’essere umano dall’animale, viene ancor oggi ricercata, per cui spesso gli studi intorno la morale sfociano in vere e proprie antropologie. Ma perché proprio la pratica? Perché cercare una definizione dei termini Verità ed Apparenza nella ricerca filosofica morale? Come si è già dimostrato, questi due termini sono strettamente legati alla domanda filosofica fondamentale, la quale a sua volta è connessa indissolubilmente al problema della libertà dell’uomo. Quale migliore luogo per parlare di libertà, se non la filosofia morale? L’etica (termine che in Italia e nel linguaggio filosofico internazionale, a parte alcune specifiche eccezioni, assume lo stesso significato di “morale”) ci permette, proprio per il suo statuto, di poter volgere il nostro sguardo al Mondo che ci circonda.[7] E quale miglior maniera di porci come liberati-liberatori, se non quella di poter attivamente distruggere le catene che ci tengono rinchiusi nella caverna? La filosofia morale, non per nulla indicata anche come filosofia pratica, ci mette nella condizione di poter mettere in atto le scoperte teoriche che la sua ricerca persegue; questo continuo riferimento allo scopo pratico, infatti,m è ciò che distingue l’etica dagli altri rami della filosofia (siano essi quello della teoretica, dell’ermeneutica, dell’estetica o altro). Orientarsi, decidere, legiferare, in una parola agire: questo si propone la filosofia morale. Nel nostro caso particolare, come ho già scritto, ci invita a liberarci da quelle catene che ci tengono costretti nel fondo della caverna; già, ma quali catene? Non ci è ancora ben chiaro di cosa stiamo parliamo quando indichiamo la nostra condizione di prigionieri. Lo intuiamo, è vero, che siamo disagiati, che qualcosa ci opprime impedendoci di esprimerci; questo senso d’oppressione e la sensazione che lo accompagna di sentirsi degli epigoni, dei reduci di una civiltà che, anziché maturare, sembra andare allo sfascio, accomuna sicuramente noi tutti che viviamo nell’epoca moderna; ma che cos’ ha a che vedere tutto questo con la Verità e l’ Apparenza?
4.
Un disagio
della modernità: Verità come Apparenze e la morte di Dio.
Siamo finalmente giunti al nocciolo della questione: ci troviamo di fronte ad una particolare declinazione dei termini Verità ed Apparenza; siamo giunti lì dove volevamo arrivare, cioè alla determinazione particolare, non generale, di due concetti per definizione problematici. Li riconosciamo, nel nostro caso, come concetti legati al disagio che viene sentito nella società moderna.[8] Ma che cos’è la Verità? E come può portarci alla deriva questo elemento che sappiamo per natura essere essenziale al nostro Essere, e verso il quale, a detta dei più, siamo portati continuamente ad aspirare?La Verità, lo sappiamo per certo e per definizione, è ciò che contrario al Falso; ma l’Apparenza, meglio, le apparenze (ne siamo certi sempre per definizione) sono verosimili, dunque solo somiglianti al Vero; ma se non sono vere, le apparenze sono dunque false; e non è il Falso, come già abbiamo detto, contrario a ciò che è Vero? Dunque le Apparenze sono contrarie per definizione alla Verità. Non ho fatto altro che riportare una tesi discussa più e più volte sin dall’antichità e che ritroviamo, giusto per citare un luogo, anche nel “Sofista” di Platone. Se le apparenze sono dunque ciò che caratterizzano in negativo la Verità, in parole povere ne sono la controparte, sono esse stesse dunque la causa di quel disagio di cui si parlava poco fa; portati infatti per natura ad aspirare al vero, ci ritroviamo a causa di un qualche processo ad aspirare a delle mere apparenze, a credere in vane credenze; siamo costretti ad introitare un’ immagine di noi stessi nella quale non ci riconosciamo producendo quel misconoscimento che poi assumiamo a livello non solo personale, ma anche sociale e che sentiamo come un forte disagio.[9] E’ vero, le apparenze ci sommergono; è detto da tutti, è diventato un qualunquismo e più ne siamo consci, meno interveniamo; a questo punto si può anche parlare a buon diritto, secondo il mio parere, di una morte di Dio. Sissignori, “Dio è Morto”.[10]
5.
Un continuo
fraintendimento di voci: scoprire la Verità nelle Apparenze oggi; la rinascita
di Dio.
Quali sono queste apparenze che ci obbligano a restare ciechi di fronte la luce della Verità? Le sappiamo essere molteplici e apparire nelle più svariate forme; sono alla base del processo per cui l’apparire è diventato prioritario rispetto l’Essere; sono le imitazioni di modelli sociali e politici stranieri, gli sforzi per cercare di divenire ciò che non si è; sono l’ egoismo e l’ ipocrisia nascoste sotto le maschere dell’amicizia e dell’ altruismo; è la chiacchiera che si propone come cultura, il pensiero fossilizzato dall’amor proprio; a questo punto, dopo tanto qualunquismo, aggiungo aristotelicamente, chi più ne ha, secondo la propria esperienza, più ne metta. Non sarà certo il sottoscritto a fare l’elenco preciso delle apparenze che affliggono ognuno di noi e che esperiamo, ognuno per proprio conto, ogni giorno della nostra vita. E’ certo una tragedia, ma è bene ricordare che la tragicità fa parte (purtroppo) della vita. Dopotutto resto un inguaribile pessimista; il che fa di me un ottimista ben informato, e l’informazione, è bene saperlo, è un elemento essenziale del nostro stare al mondo. Chi è bene informato, infatti, sa che “anche se Dio muore è per tre giorni e poi risorge”.[11] Mi sembra inutile, l’ho già detto, stare ad elencare quelle che sono le apparenze che impediscono noi tutti di giungere alla Verità; se non altro perché è sicuramente più semplice indicare (nota bene: indicare non esporre) un metodo adatto perché ciascuno possa farlo per conto proprio. Ecco, le carte sono finalmente in tavola; quello che è il mio intento, sin da quando ho iniziato questo articolo, è di dedicare un po’ di spazio a quella branchia, non solo della filosofia, che va sotto il nome di Teoria dell’ Argomentazione. Questa scienza ha a che vedere in primis proprio con le apparenze di cui parlavamo prima. La differenza che corre però tra il qualunquistico intento di una “topica delle apparenze”, ossia di una mera elencazione delle infinite apparenze che incontriamo ogni giorno, e una vera e propria “scienza delle Apparenze” quale si presenta quella che va sotto il nome di teoria dell’argomentazione, risiede proprio in quelle “a” di a-pparenze, ossia che essa venga assunta come maiuscola o minuscola.[12] Trattasi infatti non di una semplice precisazione linguistica, ma di una vera e propria presa di posizione epistemologica. Assumere le apparenze come a-pparenze, significa ricondurle a quella connotazione prettamente negativa che le oscura sin dall’antichità e che tuttora caratterizza il giudizio odierno su di esse; riferirsi invece a delle A-pparenze significa porre la propria attenzione non su qualcosa che ci impedisce di essere liberi, quanto su degli scalini importanti per giungere alla Verità. La proposta è quelle di liberarci delle apparenze sfruttando le Apparenze. La modalità secondo cui fare questo è l’obiettivo che si propone la stessa teoria dell’Argomentazione; sapere riconoscere le argomentazioni persuasive, distinguere i vari tipi di fallacie (ragionamenti solo apparentemente corretti), compiere un’opera di interscambio discorsivo, queste sono le finalità della Teoria dell’argomentazione.
6.
Conclusione:
la teoria dell’Argomentazione come soluzione dell’aporia del rapporto tra
Verità ed Apparenza.
Come ho già scritto, non è mia intenzione in questa sede, specificare le tecniche e le varie tipologie di Teoria dell’argomentazione; le accezioni sono molteplici e si propongono di risolvere problemi di natura non solo filosofica ma anche sociale e problemi che vengono sollevati dal dibattito quotidiano; senza andare nello specifico, a grandi linee la teoria dell’argomentazione assume un particolare principio: “su ogni cosa vi sono due punti di vista” conosciuto anche come il motto di Protagora.[13] Da qui discende una cascata di conseguenze, prima tra tutte il fatto che, se su qualsiasi cosa vi sono due punti di vista, è nostro diritto mettere in dubbio qualsiasi argomento ci venga proposto. Ci torna facilmente alla mente come questo tipo di approccio intende utilizzare le apparenze, di cui prima parlavamo, come premesse positive, e non negative, di tutto il ragionamento che intende perseguire. Dunque, per usare la terminologia esplicata prima, la teoria dell’argomentazione si avvale di A-pparenze e non di a-pparenze. Questo deve essere insomma, nel mio personale giudizio, un contributo necessario (attenzione: non sufficiente) per sfuggire alle catene delle apparenze e giungere alla Verità. Saper gestire le apparenze, imparare anche solo a riconoscerle, all’interno del linguaggio (che è parte fondamentale della vita umana), sotto la forma per esempio di fallacie, è un primo passo utile al nostro compito; un ragionamento non potrà mai giungere alla Verità se non seguirà un metodo preciso e sistematico. A questo proposito la teoria dell’argomentazione si presenta come un metodo che ricerca proprio di poggiare, nell’esistenza delle apparenze, il suo fondamento. Bisogna però fare attenzione a non guardare con sospetto alla teoria dell’argomentazione per il fatto che essa è una disciplina nata da pochi anni e che solo ora comincia a rivolgersi ad un pubblico di non specialisti; la teoria dell’argomentazione recupera moltissimi elementi dell’antichità; anzi possiamo pure dire che essa trova il suo fondamento in quella disciplina conosciuta come “retorica” e guardata da sempre con sospetto da chi non ne era studioso (ricordo che un pensatore centrale del pensiero occidentale quale Aristotele, ha dedicato oltre ad un intero trattato, intitolato per l’appunto “Retorica”, svariati punti della sua ricerca allo studio di questa scienza). Perché dunque “teoria dell’argomentazione” e non “retorica”? La prima cerca di inglobare la seconda e di approfondirla con le moderne conoscenze della logica e della filosofia del linguaggio; è primario, dunque, per chi come noi ricerca di analizzare la società moderna, di far riferimento ad una scienza che si avvalga, si, di quanto detto nell’antichità, senza però perdere di vista le conoscenze moderne; il riferimento è a quanto già detto nel 1° capitolo di questo stesso articolo. Dunque, per concludere, ci appare chiaro a questo punto, come una teoria dell’argomentazione può esserci utile per saperci muovere tra quelle apparenze che abbiamo riconosciuto come uno dei disagi della società moderna. Mi auguro che questo breve saggio, di natura per lo più esplicativa e non speculativa, sia riuscito nel suo intento, cioè proporre una via, tra le altre, per risolvere le aporie che noi tutti sappiamo nascere dalla continua dialettica tra Verità ed Apparenza e dalla quale, siamo, per nostra natura, chiamati, se non ad uscirne, a far di tutto per caprine il processo.
[1] Per una buona introduzione alla problematicità del significato di una “storia della filosofia”, per la semplicità con la quale viene trattato il tema e l’ampio campo d’indagine si veda Umberto Curi, Polemos, filosofia come guerra,Bollati Boringhieri 2000
[2] Sui rapporti tra le aporie della domanda filosofica e la verità cfr. Franco Chiereghin, Le aporie della domanda filosofica: volontà di certezza o rispetto della verità?, in Crisi della ragione e prospettive della filosofia, Quaderni dell’istituto di Filosofia n. 5, Edizioni scientifiche italiane
[3] M. Heidegger, Lettera sull' umanismo (1946), a cura di F. Volpi , Milano 1995, p. 63 (ed. orig. 1947)
[4] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, Firenze 1964 I p. 20 (ed. orig. 1840-44)
[5] M. Heidegger, L’essenza della verità (1931-32), a cura di F. Volpi, Milano 1997, p116 (ed. orig. 1988)
[6] ibidem, pp. 116-17
[7] Per una chiarificazione di che cosa sia la filosofia morale e quali siano gli argomenti principalmente affrontati da essa, rimando alla lettura di un manuale di natura prevalentemente chiarificatrice; Antonio Da Re, Filosofia morale, storia, teorie, argomenti, Bruno Mondatori, 2003. L’approccio alla spiegazione della filosofia morale secondo il modello del “pensiero-problema” indicata da Nicolai Hartmann, pur escludendo dalla trattazione alcuni autori fondamentali del pensiero etico (tra gli altri: Fichte, Locke, Hobbes, Rawls), come tra l’altro fa notare lo stesso Da Re, rende questo libro altamente consigliato per che si avvicina per la prima volta alla storia della filosofia morale.
[8] E’ inutile anche in questo caso ripercorrere per intero la strada dell’intera riflessione filosofico-politica sull’argomento; per la genuina simpatia che provo nei confronti del pensatore canadese Charles Taylor, rimando ad alcuni suoi testi fondamentali sul tema: La politica del riconoscimento, con Jurgen Habermas in Multiculturalismo, lotte per il riconoscimento, in Elementi , Feltrinelli, 1998; Radici dell’ Io: la costruzione dell’identità moderna, Milano, Feltrinelli, 1993; Il disagio della modernità, Laterza, Roma, 1994; ed infine il fondamentale Hegel e la società moderna, Bologna, Il Mulino, 1984.
[9] Per approfondimenti sul tema del misconoscimento cfr. sempre Taylor , La politica del riconoscimento cit.
[10]
Nietzsche, Così parlò Zarathustra
[11] Il riferimento è al testo della canzone di Francesco Guccini, Dio è morto.
[12] Per un’introduzione alla Teoria dell’argomentazione si veda, Paola Cantù, Italo Testa, Teorie dell’argomentazione. Un’introduzione alle logiche del dialogo, Bruno Mondadori, Milano, 2006
[13] Un’analisi di questo ed altri frammenti di Protagora si trova in E.Schiappa, Protagoras and Logos, Columbia, University of South Carolina Press, 1991, pp. 89-102