INTRODUZIONE
Non appena cerchiamo di esaminare il problema del rapporto tra intelletto e ragione nella filosofia moderna ci troviamo ad un bivio: possiamo infatti dire, in prima analisi, che tra intelletto e ragione non vi è alcuna differenza, cosicchè si tratta di due termini diversi che designano la medesima cosa; oppure possiamo sostenere che intelletto e ragione siano termini specifici che hanno contenuti concettuali diversi fra loro: in questo caso, si tratterà allora di stabilire quale tra i due (l’intelletto? la ragione?) debba avere la priorità sull’altro. Probabilmente, il massimo esponente del primo atteggiamento è stato Cartesio stesso, il quale ha – in sostanza – considerato l’intelletto e la ragione come espressioni generiche riferibili all’attività del pensiero: secondo questa prospettiva, non esiste un’ipotetica facoltà dell’intelletto e una della ragione, ma, al contrario, esiste solamente una più generale facoltà del pensare, la quale potrà essere ora appellata "ragione", ora "intelletto", ora "coscienza". In questo caso, l’unico elemento di specificità riconoscibile è che questa facoltà è esclusivamente umana, ed è anzi ciò che contraddistingue il nostro genere da quello animale: solo l’uomo, infatti, può esercitare il pensiero. Un’importante conseguenza derivante dall’identificazione di ragione e intelletto è l’impossibilità di distinguere nettamente la funzione conoscitiva da quella pratico/morale, poiché sarà la stessa facoltà del pensare che ora si applica all’ambito teoretico, ora a quello pratico. Questa posizione, sostenuta a gran voce da Cartesio – l’iniziatore dell’età moderna – sarà condivisa da Hobbes, da Locke e da Hume, mentre sarà Spinoza a distaccarsene e a lui si rifaranno gran parte delle posizioni successive fiorite nel Settecento e prevalse dalla fine dell’età dei Lumi in poi. Prima di addentrarci nelle problematiche dell’età moderna, sarà opportuno chiedersi dove sia storicamente nata l’idea della distinzione tra intelletto e ragione: non è possibile stabilire chi per primo l’abbia prospettata, ma, ciononostante, si può dire con certezza che ad Aristotele vada fatta risalire la sua formulazione più precisa. Secondo lo Stagirita, attraverso la ragione (
dianoia) possiamo acquisire conoscenze impiegando i sillogismi, ossia quei ragionamenti concatenati strutturati in maniera tale che, partendo da due premesse, si pervenga ad una conclusione. Classico esempio di sillogismo è il seguente: " a) tutti gli animali sono mortali, b) tutti gli uomini sono animali, quindi tutti gli uomini sono mortali". Ciascuna delle premesse costituisce, a sua volta, la conclusione di un altro sillogismo, con l’assurda conseguenza che – risalendo la scala di sillogismo in sillogismo – si correrebbe il rischio di andare all’infinito. Ed è per scongiurare questo pericolo che Aristotele fa riferimento a premesse che non sono conclusioni di nessun altro sillogismo: tali sono, ad esempio, il principio di non contraddizione, il principio del terzo escluso, il principio di identità e il principio secondo cui il tutto è maggiore della parte. Tali premesse vengono da lui dette "princìpi" e, a differenza delle normali premesse (colte tramite il ragionamento discorsivo, dianoia), possono essere intuitivamente colti dall’intelletto (nouV), il quale gode pertanto di una sua superiorità logica e assiologica. Questa distinzione operata da Aristotele tende sempre più ad affermarsi nella tradizione filosofica, soprattutto presso i Neoplatonici, ad avviso dei quali la realtà è – un po’ come la luce che emana dalla fiaccola - una emanazione processuale (prodoV) dall’Uno assoluto, il quale non contiene in sé alcuna determinazione specifica. Ma tra l’Uno e i molti quali appaiono ai nostri sensi c’è un elemento intermedio che, da un lato, ha già in sé la molteplicità (e ne è principio) e, dall’altro, coglie l’assoluta unità della molteplicità dell’Uno: tale elemento mediano è il LogoV ("ragione"), che sta alla base dell’ordine dell’universo; ma tale LogoV deve contenere anche la molteplicità dell’Uno e non può cogliere ciò attraverso la ragione (intesa come ragionamento discorsivo), bensì intuitivamente, mediante il NouV ("intelletto"). Questa concezione influenzerà fortemente il cristianesimo originario, e non è un caso che il Vangelo di Giovanni si apra con l’enigmatica espressione "in principio era il LogoV". La ragione non può cogliere l’unità delle cose, poiché il suo ufficio è di cogliere le divisioni, di mettere ordine: spetta invece all’intelletto afferrare intuitivamente l’unità che soggiace al molteplice. Proprio sulla scia di questa remota tradizione neoplatonica (la quale porta alle estreme conseguenze la concezione aristotelica), la filosofia moderna porrà al centro della propria riflessione la differenza tra le due facoltà: in particolare, Spinoza sarà dell’idea che l’uomo, attraverso l’intelletto, possa guardare la realtà "sub specie aeternitatis", così come la vede Dio, in maniera totalizzante e assoluta; la ragione, dal canto suo, può soltanto stabilire corrette connessioni causali, procedendo discorsivamente (il che per la scienza va benissimo), ma non potrà mai giungere alla comprensione unitaria del reale. Sarà invece l’intelletto – operante intuitivamente - a rivelarci che tutte quelle cause colte dalla ragione sono effetti di una causa infinita da cui tutto deriva: Dio. La superiorità dell’intelletto sulla ragione risiede, secondo Spinoza, nella capacità del primo di cogliere la realtà nella sua interezza attraverso un colpo d’occhio "intuitivo" (dal latino "intueor", "vedo"), pur senza smarrire le infinite differenze che la animano. La distinzione spinoziana ritorna in Kant, il quale tuttavia inverte il significato dei termini e il loro valore: sarà l’intelletto (Verstand) a procedere discorsivamente, cogliendo le realtà finite e inquadrandole attraverso le dodici categorie, mentre la ragione (Vernunft) avrà a che fare con le totalità. La differenza tra le due funzioni della nostra mente risiederà soprattutto nel fatto che, se l’attività dell’intelletto produce conoscenza autentica attraverso catene causali, passando dal condizionante al condizionato, la ragione procederà in maniera illegittima: essa scende in campo quando, dopo aver colto con l’intelletto le catene causali, si pensa di poter schizzar via dall’esperienza sensibile per cercare una causa incausata, un incondizionato totale. Se orientati all’acquisizione di nuove conoscenze, l’impiego dell’intelletto sarà legittimo, quello della ragione no, così come di fronte ad un puzzle infinito possiamo aggiungere sempre nuove tessere senza però mai completarlo. Ciò avviene perché si tratta, secondo Kant, di un’irrinunciabile esigenza della nostra mente. Si tratta – è evidente – di un capovolgimento della posizione spinoziana, alla quale si proporrà invece di ritornare l’idealismo tedesco (Schelling e Hegel soprattutto): mantenendo salda la distinzione kantiana tra intelletto come facoltà che conosce il finito e ragione come facoltà che conosce l’infinito, gli Idealisti sentiranno l’esigenza di tornare – spinozianamente – ad una conoscenza che abbia per oggetto l’infinito (l’ "Assoluto"), in netta rottura con l’illuminismo e con Kant.CARTESIO
Entrando in medias res per quel che riguarda la coincidenza di intelletto e ragione in Cartesio, egli nega ogni possibilità di distinzione tra i due sia nel "Discorso sul metodo", sia nei "Princìpi di filosofia", cosicchè – tenendo presente che i due scritti risalgono il primo alla "gioventù" e il secondo alla maturità – si può dire che la sua è una posizione che resta invariata per tutto il corso della vita. Il "Discorso sul metodo" è spesso stato considerato come il manifesto della modernità, ma a dire il vero è teoreticamente meno significativo rispetto alle "Meditazioni metafisiche" (in cui sono ripresi e ampliati i temi contenuti nel "Discorso"), che segnano una cesura definitiva e netta con il passato. Composte mentre infuriava la guerra dei "Trent’anni" (nel 1637), in esse Cartesio si propone di dare una definizione della "ragione", prendendo le mosse dal "buon senso", da lui identificato con il corretto esercizio del pensiero in generale. Di sfuggita, possiamo notare come l’espressione che in italiano significa "buon senso", in tedesco venga meglio tradotta con "Gesunder Verstand", che letteralmente significa "sano intelletto". Il "Discorso sul metodo" si apre con la constatazione che "il buon senso è fra le cose del mondo quella più equamente distribuita": ma che cosa dobbiamo intendere per "buon senso"? a) Secondo Cartesio, esso corrisponde al giudicare rettamente, al discernimento fra vero e falso (e non tra bene e male); b) naturalmente ciò implica che non possa sussistere una contrapposizione tra l’intelletto e la ragione o l’intuito. c) A sua volta, ne deriva una evidente universalità, poiché si tratta di potenzialità appartenenti a tutti: la differenza tra individuo ed individuo non è quantitativa o essenziale, ma, piuttosto, accidentale e differisce solamente per il corretto uso che se ne fa. Proprio questa insistenza sull’uso fa sì che la filosofia sia da Cartesio intesa come metodo: potenzialmente la ragione non ha limiti, le sue variazioni dipendono esclusivamente dall’uso. L’unico elemento di specificità di tali facoltà è il fatto che appartengono solo all’uomo, ma in lui si ritrovano nella loro interezza (e Cartesio fa poi una sorta di captatio benevolentiae verso gli Aristotelici). Il problema del metodo in Cartesio matura a partire dalla sua insoddisfazione nei riguardi dell’uso logico della ratio, sia quella di Aristotele sia quella di Raimondo Lullo (l’ "arte combinatoria"), due logiche marcatamente formalizzate e poggianti su base metafisica: non erano solo funzionalistiche, né rispecchiavano la realtà della mente umana (Vico e Port-Royal), bensì avevano criteri di procedura rigorosi ed erano lo specchio riflettente in maniera esatta l’ontologia del reale. Ma ciò non poteva coesistere con la dottrina cartesiana del buon senso: Cartesio, per questo motivo, faceva crollare ogni riferimento alla formalizzazione e il legame tra logica e metafisica, poiché il buon senso non ha regole fisse, non è la traduzione dell’ordine metafisico e, in questo senso, elimina la logica, rendendola non più necessaria (basta usare il buon senso con giusto metodo). Ma che cosa rifiuta, in sostanza, Cartesio? In primis, l’eredità aristotelica - impantanatasi nei dogmi - della metafisica e della logica formalizzate, fondata sulla formula "
PASCAL
A rinunciare all’individuazione di una facoltà che, attraverso un particolare strumento, colga i princìpi ultimi della realtà, sono tutti quei pensatori che ritengono che l’intelletto (o la ragione) sia una facoltà limitata, proprio perché specificamente appartenente a quell’essere finito che è l’uomo: si tratta di una finitezza intrinseca, interpretabile ora come data dall’oggetto della conoscenza, ora come data dal fatto che la mente proceda in modo da non poter cogliere la verità, ora dal fatto che nell’uomo la conoscenza noetica è contrapposta ad una "sentimentale" ed emotiva. Questo è il caso di Blaise Pascal, la cui filosofia è incentrata sulla fondamentale distinzione tra il cuore e la ragione, tra quelli che lui chiama "esprit de finesse" ed "esprit de geometrie". In questo caso, Pascal distingue tra due diversi modi di porsi in relazione con l’oggetto: nel primo caso, quello del cuore, si ha un rapporto immediato con l’oggetto, un rapporto fondato sull’intuito e su una percezione molto vaga e sfumata, quasi sentimentale, delle cose percepite. Nel secondo caso, invece, - quello della ragione – si ha un approccio all’oggetto che fa ricorso a strumenti razionali e precisi, a princìpi che sono formalizzabili perfettamente (al pari della matematica e della geometria). Ora, Pascal non ha difficoltà ad ammettere che la ragione costituisca una forma di conoscenza più forte e comunicabile, proprio perché formalizzabile, ma proprio per questo – egli nota – non è applicabile a tutto lo scibile umano e all’intera realtà: c’è un ambito dell’indagine umana, che è anzi la parte più importante – l’uomo stesso -, che sfugge a questo modo di affrontare la conoscenza. Tutto ciò che concerne la metafisica è infatti indagato con strumenti extra-razionali; gli stessi fondamenti della geometria, della matematica, non sono dimostrati dalla ragione, e se vogliamo accertarli dobbiamo fare affidamento sulla conoscenza che avviene attraverso il cuore. Se ne evince che la ragione non solo non fornisce risposte alle grandi questioni metafisiche (cos’è l’uomo? E la vita? Perché viviamo? Esiste Dio? E quale è il nostro rapporto con Lui?), ma addirittura non riesce a dimostrare neppure quei fondamenti sui quali si basa il suo stesso procedere (ad esempio i princìpi matematici). La contrapposizione tra "spirito di finezza" e "spirito di geometria" è assai forte: nei "Pensieri", contrapponendoli, affiorano caratteri specifici di ciascuno dei due "spiriti". Il primo elemento di contrapposizione risiede nel fatto che lo spirito di geometria procede attraverso formalizzazioni, del tutto escluse dal procedere dello spirito di finezza. Il secondo elemento di dissidio è invece rintracciabile nel fatto che lo spirito di geometria parte da pochi princìpi chiari e formalizzabili per derivare da essi tutte le altre formalizzazioni, mentre lo spirito di finezza non ha un numero definito di punti di partenza, ma prende le mosse da molti presupposti, mai formalizzati e chiariti, ma sempre sentiti in maniera allusiva e sentimentale. Il terzo elemento di disaccordo sta nel fatto che lo spirito di geometria procede discorsivamente, cioè per argomentazioni (aggiungendo una prova all’altra, in maniera concatenata), mentre lo spirito di finezza procede intuitivamente, cogliendo in maniera subitanea e immediata i princìpi e la loro connessione con quanto segue. E’ nei "Pensieri" (S. 1-4; B. 1-4) che Pascal si sofferma su tali distinzioni: " Nel primo i princípi sono tangibili, ma lontani dal comune modo di pensare, sicché si fa fatica a volger la mente verso di essi, per mancanza di abitudine; ma, per poco che la si volga a essi, si scorgono pienamente; e solo una mente affatto guasta può ragionar male sopra princípi cosí tangibili che è quasi impossibile che sfuggano. Nello spirito di finezza i princípi sono, invece, nell'uso comune e dinanzi agli occhi di tutti. Non occorre volgere il capo o farsi violenza: basta aver buona vista, ma buona davvero, perché i princípi sono cosí tenui e cosí numerosi che è quasi impossibile che non ne sfugga qualcuno. Ora, basta ometterne uno per cadere in errore: occorre, pertanto, una vista molto limpida per scorgerli tutti e una mente retta per non ragionare stortamente sopra princípi noti. Tutti i geometri sarebbero, quindi, fini se avessero la vista buona, giacché non ragionano falsamente sui princípi che conoscono; e gli spiriti fini sarebbero geometri se potessero piegare lo sguardo verso i princípi, a loro non familiari, della geometria. Se, dunque, certi spiriti fini non sono geometri, è perché sono del tutto incapaci di volgersi verso i princípi della geometria; mentre la ragione per cui certi geometri difettano di finezza è che non scorgono quel che sta dinanzi ai loro occhi e che, essendo usi ai princípi netti e tangibili della geometria, e a ragionare solo dopo averli ben veduti e maneggiati, si perdono nelle cose in cui ci vuol finezza, nelle quali i princípi non si lascian trattare nella stessa maniera". Per princìpi "tangibili" dobbiamo intendere quei princìpi dimostrabili e chiari nella loro evidenza originaria, così come appunto li concepiva Cartesio; sono tuttavia troppo lontani dalla vita quotidiana, sono generalizzazioni (e perciò son pochi) ma non immediatamente rintracciabili: con ancora un chiaro riferimento a Cartesio, Pascal spiega che solo il cattivo uso della mente impedisce la conoscenza. Con queste considerazioni, il pensatore francese non intende schierarsi contro la ragione, lui che nel Seicento fu uno dei massimi scienziati; semplicemente, è sua intenzione mettere in luce come la ragione non possa conoscere ogni cosa, come invece credeva Cartesio. Solo una persona colta effettua dimostrazioni geometriche, ma è cosa da tutti comprensibile nella vita quotidiana – senza ricorrere ad astratti princìpi - sapere quale sia l’essenza ultima dell’uomo, la sua miserevole condizione, tesa tra il tutto e il nulla. Non si tratta – come invece è nel caso dello spirito di geometria – di pochi princìpi evidenti e difficilmente comprensibili, bensì siamo di fronte, con lo spirito di finezza, ad un mare magnum di princìpi, vaghi ed incerti, informalizzabili, sentiti nell’esperienza interna e non riconducibili ad isolamenti; non è possibile cogliere distintamente il principio per cui l’uomo è misero, sono tanti princìpi sentimentali che affollano il cuore. Pascal insiste sul fatto che non ci sono strumenti di comunicazione formale delle acquisizioni del cuore: o li si sentono o non li si sentono, non vi sono procedure inferenziali chiare, non si può dimostrare che l’uomo è misero come si può dimostrare che 2+2=4, è una verità che si sente col cuore. "Bisogna cogliere la cosa di primo acchito con un solo sguardo, e non per progresso di ragionamento, almeno sino a un certo punto", dice Pascal: questa opposizione tra spirito di geometria e spirito di finezza è a poco a poco riproposta nei termini di contrapposizione tra cuore e ragione, dove Pascal sostiene che la ragione non solo non riesce a trattare i temi metafisici, ma neppure i propri princìpi, li vede con chiarezza ma con un occhio che è del cuore: "noi conosciamo la verità non solo con la ragione, ma anche col cuore". Ciononostante, egli non vuole negare che la ragione abbia le sue ragioni (per certe ricerche essa è il miglior strumento), intende semplicemente delimitare gli ambiti, mettendo in evidenza come il cuore abbia ragioni sconosciute alla ragione, ed è anzi attento a combattere quella tradizione scetticheggiante che metteva in dubbio qualsiasi certezza umana, comprese quelle matematiche, sicchè Pascal spiega che la conoscenza del cuore è superiore perchè ha a che fare con oggetti superiori (ad esempio Dio), ma ci tiene anche a specificare che ci sono ambiti in cui la ragione dà certezze assolute, e in tal caso il cuore serve a consolidare la ragione. Gli Scettici sono pertanto in errore quando negano la certezza del procedere matematico: che da P derivi P1 e poi P2 è certo, ma a dimostrare il principio P (su cui poggia tutto il resto) è il cuore, cosicchè Pascal viene in soccorso alle matematiche facendo leva sulla certezza di P, indimostrabile dalla ragione (e qui Pascal concorda con gli Scettici). C’è qui una consonanza con la tradizione aristotelica, per la quale i princìpi sono colti dal
HOBBES
Thomas Hobbes si colloca a pieno titolo nello stuolo di quegli autori seicenteschi post-cartesiani che non fanno distinzione tra intelletto e ragione, e, di conseguenza, hanno una concezione finita della conoscenza umana; Hobbes preferisce il termine "ragione" rispetto a quello "intelletto", pur non operando alcuna distinzione di contenuto tra i due. I motivi della sua concezione, tuttavia, risultano differenti da quelli pascaliani, e forse sono più precisi, perché dipendono strettamente dallo stesso modo in cui funziona la ragione umana. Hobbes è un rigoroso sensista, per cui la conoscenza umana parte sempre dai sensi e dal sensibile: e il modo in cui tali sensi forniscono materiale è descritto negli usuali termini meccanicistici (così frequenti da Cartesio in poi); c’è un oggetto esterno, colpisce gli organi sensoriali periferici (l’epidermide, la cornea, ecc) e, attraverso di essi, penetra nel corpo meccanicamente. Il filosofo inglese, però, correggerà questa prospettiva cartesiana inserendo una capacità del corpo di reagire positivamente se l’impulso è piacevole, o negativamente, nel caso esso sia sgradito. Il risultato di tale impressione dei corpi esterni sull’apparato sensoriale è un’immagine, (
GIAMBATTISTA VICO
Vico è legato a Hobbes da (almeno) un punto di contatto: anch’egli è convinto che possiamo conoscere pienamente solo ciò che noi stessi facciamo. Però la divergenza tra i due pensatori c’è, anche se sfumata: Cartesio aveva propugnato una concezione dell’inferenza nella quale influivano immediatamente l’aspetto discorsivo e quello intuitivo, giacchè per lui il ragionamento consiste in una serie di intuizioni che, connesse, dan le deduzioni, che altro non sono se non catene di intuizioni. Per Hobbes, diversamente, ragionare è calcolare, in particolare calcolare le conseguenze in maniera causale: conoscere sarà dunque sapere che A causa B, che B causa C e così via. E’ una procedura deduttiva e discorsiva, ma non intuitiva, giacchè in nessun modo A e B vengon colti dall’intuizione. Si ha invece una progressiva successione non per intuizione ma per deduzione causale (e Hobbes recupera la logica sillogistica di Aristotele). Dunque, se Cartesio assegna il primato all’intuizione, Hobbes privilegia invece il modello deduttivo. Dal canto suo, Vico – nel "De antiquissima Italorum sapientia" – distingue tra un modello intuitivo (l’ "intellegere") e un momento deduttivo (il "cogitare"): egli si avvale di questi due verbi latini perché mosso dal suo filosofico interesse per le etimologie (interesse che lo induce a scrivere il "De antiquissima Italorum sapientia", anche se poi finisce per inventarsi le etimologie, come farà lo stesso Heidegger). Infatti, a suo avviso, "intellegere" deriva da "intus" e da "legere", e può esser tradotto con "leggere dentro", "penetrare", sicchè tale verbo designa una conoscenza intuitiva, realizzantesi attraverso l’andar dentro a ciò che si conosce. "Cogitare" deriverebbe invece da "coagere", "mettere insieme", e quindi indica una comprensione data non dall’intuizione e dalla penetrazione, ma dal mettere insieme elementi giustapponibili: questa distinzione è usata da Vico per polemizzare con Cartesio, per il quale la conoscenza è data dalla raccoltà ("coagere") delle qualità delle idee. Il cogitare è secondo Vico una forma inferiore di sapere, poiché vede le cose dall’esterno (mette insieme qualità senza cogliere l’essenza delle cose) e perché non si è mai certi di esaurire tutti gli elementi che si raccolgono; per comprendere in profondità il reale occorre invece penetrare al suo interno, ossia intellegere. Scrive Vico ("De antiquissima Italorum sapientia"): "Dai latini verum e factum sono usati scambievolmente o, come si dice comunemente nelle scuole, si convertono l'uno con l'altro. Di qui è dato supporre che gli antichi sapienti d'Italia convenissero, circa il vero, in queste opinioni: il vero è il fatto stesso; perciò in Dio c'è il primo vero perché Dio è il primo fattore: infinito, perché fattore di tutte le cose, perfettissimo, perché rappresenta, a sé, in quanto li contiene, sia gli elementi esterni sia quelli interni delle cose. Sapere è allora comporre gli elementi delle cose: sicché il pensiero è proprio della mente umana, l'intelligenza propria di quella divina. Infatti Dio legge tutti gli elementi delle cose, sia esterni che interni, perché li contiene e li dispone; ma la mente umana, che è finita, e ha fuori di sé tutte le altre cose che non sono essa stessa, è costretta a muoversi tra gli elementi esterni delle cose e non li raccoglie mai tutti: sicché può certo pensare le cose ma non può intenderle, in quanto è partecipe della ragione ma non è padrona di essa. Per chiarire tutto ciò con un paragone: il vero divino è l'immagine solida delle cose, come una scultura; il vero umano è un monogramma o un'immagine piana, come una pittura; e come il vero divino è ciò che Dio, mentre conosce, dispone ordina e genera, cosí il vero umano è ciò che l'uomo, mentre conosce, compone e fa. E cosí la scienza è la conoscenza della genesi, cioè del modo con cui la cosa è fatta, e per la quale, mentre la mente ne conosce il modo, perché compone gli elementi, fa la cosa: Dio, che comprende tutto, fa l'immagine solida; l'uomo, che comprende gli elementi esterni, fa l'immagine piana". A differenza sia di Cartesio sia di Hobbes, Vico distingue due facoltà conoscitive: una è l’intuizione, l’altra è il pensiero cogitante che ci fa procedere discorsivamente (aggiungendo pezzo a pezzo). Sulla base di questa distinzione, sembra che tali due modalità gnoseologiche siano meramente contrapposte e che quindi Vico non solo si distingua radicalmente da Cartesio (che le faceva convergere) e da Hobbes (che eliminava l’intuizione), ma che addirittura sposi la tesi pascaliana della netta e inconciliabile distinzione delle funzioni (dello spirito di finezza e di quello di geometria), accordando maggiore importanza all’intuito. Se però prestiamo attenzione al testo, notiamo che le cose stanno in altri termini: le due modalità conoscitive sono sì distinte, ma non per questo contrapposte, giacchè è possibile un intellegere in cui rientri il cogitare (mentre non è possibile un cogitare che comprenda l’intellegere). In questo senso, la conoscenza intuitiva è intesa in due modi: a) come un colpo d’occhio immediato, che non ha bisogno di passaggi discorsivi ma coglie la totalità nella sua essenza; b) come un conoscere l’essenza totale della cosa, ma non per questo escludendo che all’interno di tale totalità si possa riconoscere un’articolazione discorsiva (cogliere cioè gli elementi connessi tra loro discorsivamente). In questa maniera, la discorsività non è esclusa, ma riguarda anzi la totalità stessa: immaginiamo un puzzle ricomposto; un conto è avere una sua visione per conoscenza discorsiva perché tessera per tessera l’abbiamo costruito (ciò equivale al cogitare); altra cosa è avere una intellezione (intus legere) dell’intero puzzle, pur tenendo presente la connessione delle varie tessere. Sarà questa un’alternativa che tornerà nell’idealismo tedesco: da un lato Schelling parlerà di un intuizionismo assoluto, dall’altro Hegel dirà che nel tutto si mantengono i rapporti fra le singole parti. Vico opta per la strada per cui l’intus legere non esclude il coagere (a differenza della scelta di Pascal): e per meglio spiegarsi, mette a confronto la conoscenza di Dio con quella dell’uomo per quel che riguarda il mondo esterno. L’uomo, trovandosi di fronte a fenomeni esterni prodotti non da lui, non può far altro che sommare A + B + C e cercare di allargare la sua conoscenza aggiungendo elemento a elemento, non può cioè far altro che cogitare. La cogitatio può farlo arrivare a risultati anche molto estesi (grandi catene di connessioni), ma in ogni caso non potrà mai raggiungere la totalità degli eventi e, poi, non potrà mai conoscere la catena nel suo insieme. Dio, che del mondo è l’autore, e quindi il responsabile non solo di A e di B, ma di tutti gli elementi, e non solo della connessione di A e di B, ma di tutta la connessione di tutti gli elementi, cosicchè Egli conosce tutta quanta la sequenza causale e la successione di elementi senza però perdere la possibilità di coagere, ma ciò sarà interno ad un punto di vista totalizzante che Gli permette di intus legere la totalità, sia pur nella sua successione causale. L’intellegere e il cogitare non sono dunque opposti, ma anzi l’intellegere è la forma più alta del cogitare, è quel cogitare in cui non ci si limita a raccogliere le tessere del puzzle, ma lo si vede subito nella sua interezza; ma ciò è possibile solo per chi ha creato quella data cosa. Solo chi ha creato una cosa può conoscere tutta la serie causale che ha portato a essere quella cosa; chi se la trova già fatta può solo mettere insieme i pezzi che la compongono (coagere): questo punto è compendiato da Vico nell’espressione "verum ipsum factum" ("il vero è il fatto stesso"), con la quale egli intende appunto dire che si può avere vera conoscenza solo di ciò che si è effettivamente fatto. Se ho progettato io il puzzle, anche quand’esso è scomposto mi basta vedere una tessera per capire la sua posizione esatta (perché nella mia mente ho l’immagine completa del puzzle), ma se non l’ho creato io posso solo mettere insieme pezzo per pezzo, senza mai arrivare a completarlo. La natura non la fa l’uomo e, quindi, egli non può conoscerla a fondo; solo Dio può penetrarla, perché è Lui che l’ha creata: la posizione vichiana è qui vicinissima a quella hobbesiana. Fin qui, Vico ha distinto l’uomo da Dio, ma in realtà ciò vale solo per il mondo naturale, perché può sussistere anche una forma di analogia tra l’uomo e Dio: se solo ciò che si fa può essere pienamente conosciuto, allora ciò che l’uomo fa può conoscerlo perfettamente: "il vero umano è ciò che l’uomo, mentre conosce, compone e fa". Egli potrà intus legere non la natura (che è stata creata da Dio), ma – hobbesianamente – la matematica ("mathematicam veram facimus", dice Vico), che è costruzione del tutto umana (e in questa fase del pensiero di Vico è la sola cosa che l’uomo crei davvero). Essa è la scienza più esatta, e perciò più lontana dalla natura e, quindi, può vigere il pensiero per cui le cose quanto più sono concrete e tanto più dipendono da Dio (e sfuggono alla nostra conoscenza), e quanto più sono astratte tanto più sono umane (e quindi conoscibili dall’uomo). E – nel "De antiquissima Italorum sapientia" – pone elementi intermedi tra i due estremi rappresentati dalla matematica e dalla natura: la meccanica è una sorta di matematica applicata al movimento, ma non considera mai entità fisiche reali, ma sempre astratte ed è per questo la scienza più vicina alla matematica; la fisica, invece, si serve della matematica, ma la applica al mondo reale, e perciò è meno perfetta della meccanica. La morale, infine, è una disciplina in cui c’è di mezzo il reale, poiché l’uomo è creatura di Dio, però ciò è solo il punto di partenza per costruire regole comportamentali astratte e, quindi, conoscibili. Nella sua opera più importante – "La scienza nuova" – Vico scopre che vi è un altro ambito che è prodotto esclusivamente dall’uomo: la storia. E’ infatti l’uomo a fare la storia e, dunque, si tratta di un ambito disciplinare che può perfettamente conoscere. Vico ritiene che nei fatti storici si riverberi il modo di pensare dell’uomo, cosicchè essi non sono assimilabili a quelli naturali, giacchè dipendono del tutto dalla struttura mentale umana e hanno impronta completamente umana, e poiché possiam conoscere la mente umana, possiam di conseguenza conoscere anche la storia, che si configura allora come "scienza nuova" contrapposta a quella cartesiana. Essa è perfetta alla pari della matematica, è una vera scienza, contrariamente a quel che di essa credeva Cartesio, il quale la intendeva come conoscenza del probabile. Per Vico, invece, gli uomini nel fare la storia non hanno fatto altro che proiettare all’esterno il loro procedere mentale.
JOHN LOCKE
Dopo Cartesio, invale una forte differenziazione nel pensiero filosofico: si comincia a credere che la conoscenza umana non sia onnipotenza, ma, al contrario, che abbia dei limiti intrinseci, ravvisati da Pascal nella distinzione tra cuore e ragione, da Hobbes nella ragione come calcolatrice delle conseguenze e da Vico nella diversificazione tra cogitare e intellegere, cosicchè se anche la usiamo nel miglior modo possibile, non per questo essa è illimitata. Questi limiti congeniti della ragione umana sono anche sottolineati dall’empirismo moderno inglese, di cui Locke è il più insigne esponente. Il motivo per cui egli pone fin da principio un forte limite all’estensione della conoscenza umana sta nel fatto che la fonte di tale conoscenza è data dall’esperienza empirica: in un passo, egli polemizza duramente contro le filosofie che sostengono la possibilità di idee innate (Cartesio, Malebranche, ma ancora di più il platonismo di Cambridge e, in qualche misura, anche l’aristotelismo di Oxford). Se ammettiamo l’esistenza di idee innate, esse sono chiare, complete, totali e la conoscenza di esse finisce per essere sconfinata, senza limiti empirici, come appunto era in Cartesio. Ora, Locke nega che possano esistere idee che occupino la nostra mente fin dalla nascita: al contrario, tutto deriva dall’esperienza, ed essa non è mai assolutamente oggettiva - anche senza scomodare le argomentazioni scettiche è facile notarlo – e, quindi, non è mai illimitata e sicura; contro le idee innate, Locke fa ricorso all’esempio delle "idee innate teoriche" e delle "idee innate pratiche": in entrambi i casi, chi le sostiene parte dal presupposto che con esse si attui un sapere universale (poiché se sono innate, tutti gli uomini le hanno), in contrapposizione al sapere empirico, secondo il quale le idee passano dall’esperienza. Ma se le idee fossero innate dovrebbero allora averle tutti, sicchè in ogni individui dovremmo trovare la conoscenza del principio di non contraddizione o di identità: eppure, né i bambini né gli idioti ne sono provvisti; ciò è un forte indizio contro la possibilità dell’esistenza di idee teoriche innate. Similmente, sul versante pratico, Locke sbaraglia l’eventualità dell’innatismo ricorrendo al relativismo culturale: basta leggere qualche libro in cui si parli di viaggi in terre remote per accorgersi come in quelle terre sperdute sussistano costumi diversi dai nostri e ciò che per noi è grave colpa (l’incesto, l’antropofagia, l’uccisione dei genitori), per altri popoli non lo è. Ne consegue, allora, che non esistono neanche idee pratiche innate, e i costumi e le norme comportamentali provengono anch’essi dall’esperienza: "supponiamo che lo spirito sia come si dice un foglio di carta bianco, privo di qualsiasi segno, senza nessuna idea; come arriva a essere fornito di idee? [...]. Dall'esperienza, nella quale è fondata tutta la nostra conoscenza, e dalla quale essa in ultima analisi deriva" ("Saggio sull'intelletto umano", II, capp. I, 2-4; II, 1-2). Con ciò Locke sta dicendo che tutte le idee si formano empiricamente; ma che cosa intende egli per "idea"? Locke parte dal presupposto che la mente sia una tabula rasa (riprendendo l’immagine stoica della mente come foglio bianco), priva di contenuti, ma che l’unica cosa conoscibile siano le idee: paradossalmente, sotto questo aspetto, egli resta nell’alveo del cartesianesimo e della sua ammissione che possiamo conoscere soltanto idee (intese come contenuti mentali). Ora, pare dunque evidente che pure in un empirista quale è Locke resti qualche traccia cartesiana: non conosco mai le cose, ma sempre solamente le idee, non posso pensare altro che idee e quindi quando faccio riferimento agli oggetti della conoscenza faccio sempre riferimento alle idee stesse, le quali però (e qui sta la divergenza da Cartesio) sono acquisite dall’esperienza, perfino l’idea di Dio è acquisita per tale via (prova ne è che sussistano popoli che non hanno alcuna idea di Dio). Per Cartesio la garanzia della corrispondenza tra cose e idee era radicata nella bontà di Dio: in Locke questo (comodo) ponte di congiunzione manca e, quindi, la conoscenza rimane sempre confinata a idee, ovvero resta aperto il problema della corrispondenza delle idee al mondo esterno (ciò significa che non è detto che il mondo esterno sia quale io me lo immagino). In altri termini, se per Cartesio quando penso all’idea di tavolo sono certo che essa abbia riscontro nel reale perché esiste un Dio buono, per Locke ciò non è valido, sicchè non posso aver la certezza che l’idea abbia riscontro nel reale. Ne consegue, allora, che neanche Locke, che pure si professa empirista, creda che le idee provenienti dall’esterno siano mere fotocopie della realtà, come invece credevano un Democrito o un Epicuro. Al contrario, dirà che alcune idee ci ritraggono la realtà così come essa effettivamente è (tali sono le "idee semplici" della solidità, dell’estensione, del numero, e così via), mentre altre idee (l’idea del caldo, del blu, etc) non raffigurano la realtà esterna, ma la deformano a nostro uso e consumo: ci sono cioè qualità primarie e qualità secondarie, e così dicendo Locke commette un indebito passaggio, poiché come è possibile affermare che vi siano qualità che corrispondono alla realtà se si conoscono solamente idee e mai la realtà stessa? Dovrei poter disporre di un termine di confronto, che però Locke non ammette, e infatti Berkeley e Hume elimineranno la distinzione fra qualità primarie (le quantità) e qualità secondarie (le qualità), riconducendo tutte le idee a rappresentazioni del soggetto, sulla base delle quali non si può sostenere la corrispondenza con la realtà. Ma – concentrandoci su Locke – come può egli asserire che le idee derivino dall’esperienza? A suo avviso, ciò si verifica secondo due differenti modalità: a) attraverso l’esperienza esterna, ovvero mediante la sensazione: le idee giungono alla mente perché i sensi sono sollecitati da una realtà esterna. Ma non tutto è percepito oggettivamente nella stessa maniera (ciò che percepiamo come colore, nella realtà potrebbe non essere un colore); b) attraverso la percezione delle operazioni che la nostra mente compie dentro di sé: non si tratta più di esperienza esterna, ma di esperienza interna, una sorta di riflessione della mente sulle proprie operazioni; il materiale su cui essa riflette è quello già ricevuto attraverso l’esperienza esterna. La riflessione è qui intesa come un percepire mediante l’esperienza. Come nel caso dell’esperienza esterna vi sono le qualità delle cose che producono certe idee superando la barriera fra interno ed esterno, così nell’esperienza interna accade che tali idee vengano rielaborate dalla mente, unificate, confrontate e così via, e queste operazioni si riflettono sulla mente così come le qualità si riflettono sui sensi. Mi vedrò dunque operare sulle idee al mio interno. Come l’esperienza esterna, anche quella interna è caratterizzata da una certa passività. Leggiamo cosa scrive Locke a proposito della distinzione tra sensazione e riflessione: "in primo luogo i nostri sensi, avendo rapporti con oggetti sensibili particolari, convogliano nello spirito diverse percezioni distinte delle cose, secondo i vari modi in cui quegli oggetti agiscono sui sensi. [...] Chiamo sensazione questa grande fonte della maggior parte delle idee che abbiamo, poiché essa dipende completamente dai nostri sensi e perché attraverso i sensi agisce sull'intelletto. In secondo luogo l'altra fonte dalla quale l'esperienza fornisce l'intelletto con idee è la percezione delle operazioni del nostro proprio spirito dentro di noi, quando esso è impiegato intorno alle idee che ha ottenuto. [...] Ma come chiamo sensazione la prima fonte delle idee, cosí chiamo riflessione questa seconda fonte, perché, le idee che essa fornisce sono soltanto quelle che lo spirito ottiene riflettendo sulle proprie operazioni dentro se stesso" ("Saggio sull'intelletto umano", II, capp. I, 2-4; II, 1-2). Si può leggere in filigrana una qualche assonanza con il discorso di Hobbes, quand’egli diceva che la scienza conosce i nomi e mai le cose stesse: anche per Locke la conoscenza non riguarda mai le cose, ma sempre e soltanto non i nomi hobbesiani ma le meno astratte idee cartesiane. Ma le idee, se singolarmente prese, non costituiscono ancora la conoscenza: per Cartesio se ho conoscenza evidente di un’idea, si tratta già di una conoscenza in senso pieno, anche se tale idea non è connessa ad altre; per Locke, viceversa, una o singole idee non bastano per costituire una conoscenza, la quale è al contrario data dal rapporto tra le idee, in una relazione di accordo o di disaccordo: "mi sembra che la verità, in quello che il nome propriamente vuol dire, non significhi nient'altro se non unire o separare segni secondo che le cose significate da quei segni sono in accordo o disaccordo l'una con l'altra" ("Saggio sull'intelletto umano", IV, cap. V, 2, 8-9). Così, se dico che "il cerchio non è un quadrato" la verità non risiede né nella parola "cerchio" né in quella "quadrato", ma nella relazione di disaccordo instaurata tra le due idee, e la conoscenza sta appunto nel percepire l’accordanza o la discordanza tra le idee. Dove manca tale percezione, non si ha conoscenza, giacchè anche nelle operazioni mentali più semplici, come quando diciamo che "il bianco non è il nero", che altro facciamo se non percepire una discordanza tra idee? Ma per costruire la conoscenza le singole idee non sono sufficienti, tant’è che "sebbene possiamo fantasticare o credere o indovinare, tuttavia non arriviamo mai alla conoscenza"; Locke sta qui dicendo che ci sono cioè casi in cui metto in connessione (fantasticando) idee che non hanno nulla a che vedere tra loro, come quando penso all’ippogrifo come cavallo volante. Ciò significa che, per avere reale conoscenza, non basta mettere in relazione idee o inventarsi rapporti di accordo o disaccordo, ma bisogna scoprire relazioni che oggettivamente corrispondano ai rapporti che ci sono fra le idee: si pone qui il problema della certezza della conoscenza o – per riesumare termini cartesiani – della sua evidenza. E secondo Locke sussistono diversi gradi di evidenza: il grado massimo è quando si intuisce (ossia quando si vede immediatamente) la concordanza o la discordanza tra due idee, come quando ad esempio vedo l’idea di 2+2 e quella di 4 e subito colgo la loro identità (oppure 2+2 e 5 in cui colgo il disaccordo), quasi con un colpo d’occhio. Fin qui Locke resta profondamente cartesiano. Si tratta di una conoscenza immediata, come – dice Locke – l’occhio coglie immediatamente la luce, così a prima vista la mente coglie che il triangolo non è quadrato: è la conoscenza più certa ed evidente che l’uomo possa avere. Ad un secondo (ed inferiore) grado troviamo non più l’identità di 2+2 e di 4, ma quella di una quantità X con una quantità Y: si tratta di una conoscenza che non è più immediatamente evidente, ma che è dimostrabile solo attraverso il passaggio per molti momenti intermedi. Succede cioè che ci troviamo ad avere una dimostrazione, la quale non è altro che una catena di intuizioni. Anche qui Locke si muove in una sostanziale ottica cartesiana. Tuttavia c’è tra i due filosofi una differenza, non grande ma che può avere grandi conseguenze: per Cartesio questa seconda procedura (dimostrativa) ha la stessa certezza della prima (intuitiva), sempre con l’avvertenza di usare bene la ragione senza tralasciare nulla; Locke, dal canto suo, è meno fiducioso e ritiene che quanto più la catena dimostrativa si allunga, tanto più si rischia di commettere errori e quindi tanto più la conoscenza non è certa ma probabile. Così facendo, il pensatore inglese introduce la probabilità (pressochè sconosciuta a Cartesio) anche a livello di dimostrazione (quando cioè ragioniamo), poiché esse – in quanto catene – non possono garantire la certezza che invece troviamo nelle intuizioni (2+2=4). Il successivo livello proposto è quello che si ha quando la mente percepisce la concordanza e la discordanza tra idee non immediatamente: si ha in questo caso quella che Locke definisce una "congettura probabile", esulante dalla certezza propria dell’intuizione. Il ragionare consiste allora nel costruire le catene dimostrative coi nessi intuitivi: ma che cosa ci garantisce che in tali catene non si creino fratture, sbagli o dimenticanze? Se ad esempio dico che X=Y=Z, posso essere sicuro che X e Z siano uguali ad uno stesso Y, e che non siano invece uguali rispettivamente ad un Y e ad un Y1? Non vi è strumento alcuno per poter verificare ciò e dunque in tale ambito regna il probabile, che ha così detronizzato il certo. Quello lockeano è un impianto rigorosamente cartesiano, con la sola aggiunta della probabilità, un’aggiunta innovativa importante per le conseguenze che crea (Hobbes stesso quando parlava di scienza riferendosi ai nomi escludeva – cartesianamente - che potesse infiltrarsi la probabilità al posto della certezza), stonando decisamente con il razionalismo di marca cartesiana e intonandosi perfettamente con l’empirismo. In qualche modo, proponendo una simile concezione del sapere umano, Locke ritorna su posizioni razionalistiche di stampo cartesiano, tradendo così la propria impostazione empiristica di partenza: le idee derivano sì dall’esperienza, ma una volta che le ho acquisite posso lavorare analiticamente su di esse senza far più riferimento all’esperienza. Un regresso simile dalle posizioni assunte in partenza si era verificato in Hobbes, che, partito da un sensismo esasperato, era approdato all’astratta elaborazione della teoria dei nomi, propugnando una conoscenza razionalistica non così distante da quella cartesiana. Ma Locke resta più cartesiano di Hobbes, poiché rimane fedele alla teoria della conoscenza intuitiva, mentre Hobbes obbedisce (nel "De homine") ad una struttura di tipo causale (A produce B, e quindi B è diverso da A): per usare una terminologia kantiana, è come se Locke fosse analitico, Hobbes sintetico. E del resto Locke ritiene che l’intelligenza ("understanding") abbia una funzione squisitamente attiva (a differenza della mera passività dell’esperienza), che si esplica nel mettere insieme le idee; e per meglio chiarirsi, egli riconosce tre diversi tipi di attività: 1) il percepire la relazione intercorrente tra idee; 2) il comporre le idee e fare di idee semplici idee composte; 3) l’astrarre, ossia il ricavare da tante idee un qualcosa di comune ad esse (da tante idee di uomini diversi astraggo l’idea di uomo): ma Berkeley e Hume gli rinfacceranno che, se si vuol davvero essere empiristi, si hanno solo immagini individuali date dall’esperienza, e da dove mai deriverebbe tale facoltà dell’astrarre? Locke sta qui effettivamente impiegando un meccanismo tipicamente razionalistico (cartesiano, aristotelico e tomistico), sganciato dall’esperienza. In sostanza, egli, più che un empirista, può configurarsi come un cartesiano che ha perso la fede e si impasta di empirismo. Dall’esperienza ci provengono sempre idee semplici (l’idea di blu, di pesante, di grande, ecc) e poi l’intelletto le compone in idee complesse (aggregando l’idea di nero, di freddo, di pesante crea l’idea complessa di tavolo).
HUME
David Hume ha in comune con Locke e con Hobbes il riconoscimento che tutto il materiale della nostra conoscenza provenga dall’esperienza; egli asserisce – in termini meno compromissori col cartesianesimo rispetto agli altri due autori – che tutte le nostre rappresentazioni sono impressioni e idee: le "impressioni" – spiega Hume – sono le rappresentazioni delle cose nel momento in cui tali cose sono attualmente percepite attraverso l’empiria (vedo il tavolo, ne ho una rappresentazione), mentre le idee sono le rappresentazioni che abbiamo delle cose quando queste non sono più percepite attualmente, ma vivono solo nella nostra memoria (penso al tavolo senza averlo di fronte); in sostanza, si può legittimamente dire che l’idea è ciò che resta dell’impressione quando viene a mancare l’oggetto esterno dell’esperienza, sono cioè impressioni illanguidite e meno vivaci. Hume concorda pienamente con Locke sul fatto che le singole idee e le singole impressioni non costituiscano conoscenze, ma siano solo le tessere sparpagliate di un mosaico che devono essere riconnesse: ma tale connessione (e in ciò Hume prende le distanze da Locke, da Hobbes e dal cartesianesimo) avviene perché certe conoscenze possono attuarsi solo per procedure razionalistico/analitiche, ma oltre un certo limite tale procedura si rivela assolutamente impotente. Il primo ambito in cui vale il metodo razionalistico/analitico è quello delle conoscenze astratte e universali derivanti dal semplice confronto tra le idee, e qui Hume si limita a ripetere quanto già detto da Cartesio e da Locke, ma esplicitando meglio come alla base di tali conoscenze stia il principio di identità (da Hume sfumatamente detto "criterio di somiglianza"). Si tratterà, allora, delle conoscenze matematiche, del tipo 2+2=4, in cui da una parte abbiamo l'idea del 2+2 e dall'altra quella del 4, e non appena le mettiamo a confronto appaiono immediatamente uguali (2+2 è appunto uguale a 4). Ora, per sottolineare la consonanza col razionalismo, occorre notare come - qualche anno prima rispetto a Hume – un razionalista convinto come Leibniz avesse detto cose del tutto analoghe, parlando esplicitamente di "verità di ragione"): "vi sono pure due specie di verità, quelle di ragione, e quelle di fatto. Le verità di ragione sono necessarie ed il loro opposto è impossibile, quelle di fatto sono contingenti ed il loro opposto è possibile" (Leibniz, "Monadologia", 33). Così, quando dico che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a 180 gradi, con tale proposizione esplicito qualcosa di già del tutto contenuto nella nozione stessa di triangolo, senza aggiungere un’idea ad un’altra: appunto, mi limito ad esplicitare qualcosa di già presente, sicchè l’intera matematica è per Hume un’immensa tautologia: da A si tira fuori B, che però era già implicito in A (Kant parlerà a tal proposito di "giudizi analitici a priori", ma vorrà spingersi al di là di essi). Hume si trova in questo d’accordo con il razionalismo cartesiano: quando facciamo ragionamenti di tipo logico, necessariamente ci basiamo sul principio di identità, ma non tutte le conoscenze sono secondo Hume di questo genere. Quando ad esempio vedo che sul tavolo da biliardo la palla A urta la palla B e questa si muove, ciò non può essere spiegato con il medesimo criterio analitico con cui spiegavo che 2+2 dà 4, poiché l’effetto (il moto della palla B) non è già contenuto in A (mentre invece il 4 era già contenuto nel 2+2), ma è qualcosa di diverso e, essendo tale, non mi è possibile indovinarlo in base ad A, non basta cioè esaminare A per capire che da essa scaturirà B, come invece basta guardare l’idea di 7+5 per ricavarne automaticamente il 12. E l’errore dei razionalisti sta appunto nel non aver seguito il metodo dell’identità (anticipato da Cartesio e ripreso da Locke e Leibniz) e nell’aver ritenuto possibile derivare con la ragione le conseguenze dalle cause: si tratta – nota Hume – di una mera illusione della ragione, giacchè essa, confrontando le idee, può solo tirarne fuori (con un’operazione analitica) ciò che esse già contengono, ma non può estrarre dall’idea di causa quella di effetto. Scrive a tal proposito Hume: "se un uomo fosse creato, come Adamo, già nel pieno vigore dell’intelligenza, non potrebbe mai, senza farne l’esperienza, concludere al movimento della seconda palla dal movimento e dalla spinta della prima. La ragione non vede nulla nella causa, che la muova ad inferire l’effetto"; era Hobbes che pretendeva di dimostrare la derivabilità dell’effetto dalla causa, ma ciò è secondo Hume impossibile, poiché il modello razionalistico è eccellente se applicato alla matematica e alla logica, ma quando devo spiegare un dato di fatto (matter of fact), quale può essere il moto della palla B urtata dalla palla A, la ragione non può analiticamente dirmi che da A derivi B, ed ecco che allora si pone un problema del tutto nuovo. Come giustificare le connessioni che si riferiscono non a idee astratte (2+2=4), ma a dati concreti (il moto delle palle sulla tavola da biliardo)? Una possibile via per un empirista quale è Hume sta nell’ammettere che il rapporto causale non lo trovo nella ragione ma nell’esperienza: ma posso davvero dire che l’esperienza mi dia ciò? Parrebbe di sì: quando vedo la palla A urtare la palla B, posso dire di vedere la causalità? Vedo davvero A che sposta B o vedo qualcos’altro? Hume risponde che in realtà io non vedo A che sposta B, ma vedo semplicemente una successione spazio/temporale (A e B che si muovono nello spazio e nel tempo), non vedo mai A che sposta B, potrebbe benissimo essere che A si ferma proprio nel momento in cui B parte, senza che tra le due sussista un rapporto causale; gli Occasionalisti arriveranno a dire che B si sposta perché Dio interviene per spostarla in occasione del movimento di A (in sostanza, il moto di A sarebbe occasione affinchè Dio sposti B). Ma – nota Hume – se ripeto più volte l’esperimento, facendo urtare B da A nello stesso modo, l’esperienza mi fornisce la ripetitività, ossia attesta che tutte le volte che A colpisce B, B si muove; ma non mi dice mai che A causa il moto di B. Hume ne trae la conseguenza che l’esperienza non dà la conoscenza necessaria del rapporto causale, ma che la reiterazione dell’esperienza (cioè quella che Hume chiama "abitudine") può indurmi a credere con plausibilità che ciò che è avvenuto più volte avverrà anche in futuro, ma si tratta non di una conoscenza certa, bensì semplicemente di una "credenza" (come è la stragrande maggioranza delle nostre conoscenze: perfino che io sia sempre io o che gli oggetti da me percepiti continui a sussistere anche quando non li penso più è il frutto di una credenza): ho sempre visto che quando A tocca B, B si muove, e – per abitudine – è nata in me la credenza che ogni volta che A toccherà B, B si muoverà. Tale credenza, naturalmente, non è raffrontabile con la certezza del razionalismo cartesiano. Scrive Hume sul concetto di causa: "è evidente che tutti i ragionamenti sulle questioni di fatto si fondano sulla relazione di causa ed effetto, e che noi possiamo inferire l’esistenza di un oggetto da quella di un altro soltanto se si pone tra loro un nesso mediato o immediato. Per comprendere quei ragionamenti, ci occorre quindi una perfetta conoscenza dell’idea di causa. A questo scopo, guardiamoci attorno per trovare qualche cosa che sia la causa di un’altra. Ecco qui una palla ferma sul tavolo del biliardo, e un’altra palla che rapidamente si muove verso di essa. Si urtano, e la palla che prima era ferma ora acquista un movimento. Questo è un caso di relazione tra causa ed effetto, non meno perfetto di qualsiasi altro, che la sensazione o la riflessione ci facciano conoscere: conviene dunque esaminarlo. é chiaro che le due palle si sono toccate prima della trasmissione del moto, e che non c’é stato alcun intervallo tra l’urto e il movimento. La contiguità nel tempo e nello spazio è dunque una condizione necessaria dell’azione di ogni causa. È anche chiaro che il movimento, che era la causa, deve precedere l’altro, che era l’effetto. La priorità nel tempo è quindi un’altra condizione necessaria per ogni causa. Ma non basta. Facciamo l’esperimento con quante altre palle vogliamo, della medesima specie e in una situazione simile: troveremo sempre che la spinta dell’una produce il movimento dell’altra. Abbiamo dunque una terza condizione, ossia una unione costante tra causa ed effetto: qualunque oggetto simile alla causa produce sempre un oggetto simile all’effetto. Oltre a queste tre condizioni di contiguità, priorità, unione costante, io non so trovare altro in questo rapporto di causalità. La prima palla si muove e va ad urtare la seconda; subito la seconda si muove; e quando rifaccio la prova con palle uguali e simili, in condizioni uguali e simili, trovo che al movimento e all’urto della prima palla segue sempre il movimento della seconda. Da qualsiasi parte giri la questione e comunque la esamini, non vi so scoprire niente di piú. Cosí vanno le cose quando la causa e l’effetto sono presenti ai nostri sensi. Vediamo adesso quale fondamento abbia la nostra inferenza, quando dall’esistenza dell’una concludiamo all’esistenza passata e futura dell’altro. Se io osservo una palla che si muove verso un’altra in linea retta, subito ne deduco che esse si urteranno e che la seconda entrerà in movimento. é questa l’inferenza dalla causa all’effetto, e di tale natura sono tutti i nostri ragionamenti nella pratica quotidiana; su di essa si basa tutta la nostra fiducia negli avvenimenti storici e ogni scienza, tranne la geometria e l’aritmetica. Se riusciamo a spiegare l’inferenza che facciamo dall’urto di due palle, saremo in grado di giustificare la stessa operazione dello spirito in ogni altro caso". Hume distingue – sulla scorta di Locke – tra sensazioni (provenienti dall’esterno) e riflessioni (il rispecchiamento della mente su se stessa), ovvero ritiene che il principio di causalità valga anche per il mondo interno a noi: e, una volta che la causalità verrà risolta in abitudine, ciò varrà ovviamente anche per il mondo a noi interiore, e in qualche misura la libertà d’arbitrio verrà negata. L’esperienza – come abbiam visto – non ci dà il concetto di causalità, ma si limita a fornirci serie spazio/temporali e la possibilità di ripetere lo stesso esperimento conseguendo gli stessi risultati, sicchè il resto è frutto di una nostra aggiunta e non proviene dall’esperienza né dalla ragione (la quale lavora analiticamente), bensì nasce dall’abitudine a vedere sempre quella stessa cosa. La spiegazione causale, allora, ha natura extra-razionale, giacchè sfugge al rapporto analitico e non è data ad un rilevamento razionale dell’esperienza. Servendoci di una terminologia kantiana sensu stricto, possiamo legittimamente sostenere che tutti gli autori di impianto razionalistico che abbiamo esaminato finora si distinguono perché adottano un modello analitico (connettendo cioè elementi in base alla loro identità: A=B, il che significa che B è già tutto contenuto in A), seguito perfino da Locke (nella conoscenza prevale l’intuizione sulla dimostrazione, intesa come catena di intuizioni), e da Leibniz (che esplicita il principio su cui si regge tale modello analitico: il principio di identità e di non contraddizione): anche l’empirismo estremo (e scetticheggiante) di Hume lo accetta, ma lo limita al settore delle conoscenze logico/matematiche, ossia delle conoscenze certe (sarà poi Kant a demolire questo modello), cosicchè assistiamo ad un passaggio dall’atteggiamento gnoseologico che lo vuole valido universalmente ad una posizione (quella di Hume appunto) per cui è il modello più rigoroso ma anche meno estendibile nella realtà; come dice Leibniz stesso, un tale modello è valido solo per le "verità di ragione", ossia per l’ambito logico/matematico. Nel razionalismo seicentesco, tuttavia, accanto al modello analitico, è anche emerso il modello sintetico (per il quale la conoscenza è data dall’aggiunta di un elemento ad un altro e tale aggiunta si esprime in termini causali: B non è già contenuto in A, ma si aggiunge ad A, configurandosi come diverso e nuovo), propugnato da Hobbes e da Vico. Il fatto che se B non è già contenuto a priori in A (ossia il fatto che l’effetto differisca dalla causa) implica che non si possa mai essere sicuri che si tratti di una connessione necessaria, cosicchè non possiamo mai dire con certezza che B deriva da A; a meno che non vi sia l’autocausalità: se cioè sono io stesso la A che causa B posso esser certo della loro connessione, appunto perchè sono io stesso a causarla (e tale è la situazione di Dio, che è la causa dell’intero mondo); se però non sono io la causa, allora posso solo fare delle supposizioni più o meno probabili: solo di ciò che io stesso sono causa posso avere certezza (verum ipsum factum). C’era però un altro modo per garantire la certezza di B in tutti i casi (e non solo quando sono io stesso la causa), e questo modo consiste nel cercare di mostrare come il rapporto causale (il rapporto sintetico intercorrente fra A e B) sia nella natura ontologica della realtà, e non sia solo un mero principio gnoseologico: in questo caso, la conoscenza non sarebbe altro che rilevare tale criterio (così per Aristotele la struttura del sillogismo rispecchiava la struttura della realtà); ovvero basterebbe dimostrare che la realtà ha struttura causale e che non è solo la mia mente a legare tra loro causalmente A e B. Si può, seguendo questo percorso, procedere lungo vie diverse, che però portano alla medesima destinazione: è questo il caso di Leibniz e di Spinoza. Finora, i termini "intelletto" e "ragione" erano stati sinonimici, ma con Spinoza cominciano a distinguersi nettamente.
LEIBNIZ
Gottfried Leibniz segue una strada particolare ed esclude radicalmente che il rapporto causale abbia validità esterna: tra le cose non sussiste alcuna causalità, sicchè quando sul tavolo da biliardo la palla B si muove quando è urtata dalla palla A, ciò non avviene perché A causa il moto di B. In questa maniera, Leibniz si spiana la strada, aggirando più che risolvendolo il problema: di fronte all’evidente difficoltà del giustificare la causalità tra le cose, egli la nega. Ma come si spiega allora che quando la palla A urta quella B, quest’ultima si muove? Leibniz dice che a noi pare che A sia la causa del moto di B, ma si tratta di mera apparenza, giacchè in realtà è Dio che ha voluto che la palla A avesse una sua storia e che colpisse B, la quale è dotata a sua volta di una sua storia per cui ad un certo punto si mette in moto: A e B si muovono indipendentemente l’una dall’altra. Con questa posizione, Leibniz si avvicina molto all’occasionalismo di Malebranche, anche se il pensatore tedesco non concepisce l’intervento divino come continuo (come se ogni volta che A tocca B Dio intervenisse a muovere B stessa), ma piuttosto come una predisposizione originaria: in origine Dio ha – secondo Leibniz – creato ogni cosa in un’armonia perfetta, predisponendo le varie cose come orologi caricati sincronicamente, in grado di procedere per loro conto senza necessità di intervento; la posizione occasionalista, invece, prevede che Dio debba continuamente intervenire nel mondo. Pur bandito dai rapporti fra le sostanze, il rapporto causale sussiste all’interno delle singole sostanze stesse, e Leibniz si fa portavoce di un pluralismo metafisico, sostenendo – aristotelicamente – che le sostanze sono tante quanti sono gli individui. Per addurre prove a sostegno della sua tesi, egli arriva a far coincidere il rapporto causale con la relazione (aristotelica) fra sostanza e predicato: da sempre siamo abituati a concepire il predicato come un qualcosa che si aggiunge al soggetto, cosicchè dire che "Socrate" (soggetto) è "camuso" (predicato), significa appunto aggiungere qualcosa alla sostanza individuale "Socrate". Ora, tradizionalmente, tale inerenza del predicato al soggetto è considerata come espressione meramente logica, esistente non nella realtà esterna, ma nella nostra mente (la quale congiunge, appunto, il soggetto e il predicato, dicendo che "Socrate è camuso"), sicchè potrò dire che "la penna è nera", aggiungendo a livello logico al soggetto "penna" il predicato "nera" che le inerisce. Ma – continua Leibniz – in realtà sussiste una coincidenza assoluta tra logica e metafisica, tra pensiero ed essere, sicchè il soggetto non è mai meramente logico, ma è sempre una sostanza individuale precisa (Cesare, Socrate, Alessandro Magno, ecc.) e il predicato che logicamente le inerisce è anch’esso non già una nozione puramente logica, bensì una determinazione reale di tale sostanza reale: non è un caso che, quando noi diciamo "inerire", Leibniz usi invece l’espressione latina inesse, con un evidente significato ontologico (inesse significa "essere dentro"); in questo modo, viene dimostrato che non si tratta di una relazione meramente logica, esulante dal reale. Al contrario, sussiste una sostanza reale (ad esempio Alessandro Magno), a cui ineriscono determinati predicati (l’esser uomo, il diventare re dei Macedoni, il vincere Dario, il nutrire grande affetto per il