OTTO APEL

Etica della comunicazione

DOMANDA N. 1

Lei, professor Apel, sottolinea costantemente la natura intersoggettiva dell'uomo. Ma ritiene possibile escludere a priori che, in altre parti del cosmo, esistano esseri razionali i quali siano in grado di avanzare pretese di verità, pur vivendo ciascuno del tutto isolato su un diverso pianeta?

Si tratta ovviamente di un esperimento mentale, che non considero affatto realistico. La mia domanda è: per quanto riguarda l'uomo, la sua coscienza del mondo è senza dubbio intessuta di intersoggettività, ma si può dire a priori che ogni coscienza del mondo debba di necessità essere intersoggettivamente costituita?

Penso di sì. E proprio in ragione di quanto Lei ha appena detto: la domanda da Lei posta è quasi la stessa di quella che alcuni oggi avanzano, se cioè esista un'altra ragione rispetto alla nostra. Ritengo che sia possibile mostrare che una simile domanda è priva di senso.

Noi infatti presumiamo di comprendere questa domanda sull'esistenza di un'altra ragione; e se lo presumiamo, dobbiamo essere in grado di rappresentarci come ragione ciò che viene immaginato come altra ragione. In tal caso dobbiamo rimetterci ai criteri che noi stessi possediamo della ragione, a quei criteri che noi attingiamo tramite riflessione.

Ora, tra i criteri conseguibili attraverso la riflessione c'è anche il seguente: che io non posso comprendermi, se non presupponendo l'esistenza di qualcosa come un linguaggio che io possa condividere con altri. In tal modo già si è introdotta la comunità: io mi avvedo di essere a priori, di non poter non essere, membro di una comunità. Naturalmente è pensabile il caso in cui io sia l'ultimo superstite di una tale comunità; tuttavia anche in questo caso il mio pensiero manterrebbe il suo riferimento alla lingua che potrei condividere con altri. Possiamo formarci il nostro concetto di pensiero, di pensiero dotato di pretese di validità, ovvero di pretese di senso e di verità, solo riflettendo su ciò che può essere il pensiero per noi.

Ma per noi il pensiero può essere solo mediato da segni, può essere solo qualcosa a cui è essenziale il condividere una lingua insieme ad altri. Anche quando penso tra me e me, connetto sempre al mio pensiero una pretesa intersoggettiva di senso e una pretesa di verità. Non disponiamo di un concetto di pensiero che ci consenta, per così dire, di seguire simili speculazioni.

 

DOMANDA N. 2

Il fascino che esercitano su di Lei la filosofia del linguaggio e la teoria dell'intersoggettività risiede anche nel fatto che qui è rinvenibile un punto di unità tra filosofia teoretica e pratica.

È chiaro che l'etica e la filosofia politica presuppongono entrambe l'intersoggettività, ma, tramite il rimando alla natura linguistica del pensiero da Lei costantemente sottolineata, emerge anche l'importanza dell'intersoggettività per la filosofia teoretica. È davvero possibile ricondurre a unità filosofia teoretica e filosofia pratica?

Credo di sì. Anzi, per esprimermi con un pizzico di provocazione, direi che, una volta operata la trasformazione dell'idea del soggetto nel senso di una comunità trascendentale della comunicazione, allora diviene per la prima volta possibile attuare la fondazione ultima di un principio etico. Potremmo mostrarlo ricordando Kant.

Kant ha sì proposto con il suo imperativo categorico un principio etico per il quale nutro un'altissima considerazione, cioè, per dirla in termini moderni, il principio della universalizzabilità, che noi potremmo trasformare nel seguente: sono valide quelle norme universalmente capaci di consenso. Ma Kant non è stato in grado di fondarle. Anche se i kantiani tentano di minimizzare questo aspetto, è possibile mostrare con tutta chiarezza che Kant non è riuscito a realizzare ciò che pur gli stava tanto a cuore: una deduzione trascendentale della realtà della ragion pratica.

Restò cioè intrappolato in un ragionamento circolare, dovendo dedurre l'esistenza della libertà, come autonomia che propriamente determina la legge, dall'esistenza dell'imperativo categorico, secondo la nota frase "tu puoi, tu devi". Proprio perciò non poté fondare la realtà della libertà, la realtà dell'autonomia, della ragione normativa che dà a se stessa la legge morale.

Alcuni filosofi analitici contemporanei sono persino disposti ad affermare che poté introdurre la legge morale solo in quanto legge larvatamente eteronoma, in quanto Kant credeva nel legislatore divino e lo presuppose. Lo hanno detto Hans Cohn e MacIntyre.

Credo che se si parte non dal solitario "ego cogito", bensì dall' "io argomento", in quanto membro di una comunità ideale della comunicazione già sempre anticipata e in pari tempo quale membro di una reale comunità, prodottasi nella storia, allora diviene possibile una fondazione ultima trascendentale dell'etica. Ed è anche possibile mostrare che essa risulta dal medesimo punto da cui discende la fondazione ultima trascendentale della filosofia teoretica in quanto semiotica trascendentale.

In tal caso l'etica viene per la prima volta ricondotta all'"io penso", sia in quanto l' "io penso", che non è più per definizione solitario e autarchico, significa già sempre "io argomento", sia in quanto l'inaggirabilità dell'argomentazione implica l'inaggirabilità della comunità della comunicazione.

 

DOMANDA N. 3

Che cosa intende con l'espressione quasi provocatoria, or ora introdotta, di fondazione ultima? Parlare di fondazione ultima significa attribuire al pensiero la capacità di conseguire e giustificare conoscenze sovratemporali, infallibili e assolute.

Diversamente che in Kant, non avremmo più bisogno di credere nella validità della legge morale, poiché saremmo ormai in grado di fondarla. Inoltre tale fondazione deve riguardare i fondamenti ultimi, se non vuole restare puramente ipotetica, se non vuole dipendere da assunzioni che a loro volta potrebbero rivelarsi arbitrarie. Essa ha quindi a suo oggetto i principi primi della filosofia e dell'etica.

Ma contro una simile concezione viene spesso fatto valere, ad esempio da Hans Albert, il cosiddetto trilemma di Münchhausen, secondo cui una fondazione ultima sarebbe affatto impossibile. Infatti: o si dovrebbe partire da principi dogmaticamente posti e del tutto ingiustificati oppure bisognerebbe fondare gli stessi principi, cadendo così in un regresso all'infinito o in un ragionamento circolare, come ad esempio quello appena ricordato in cui incorse Kant volendo dedurre l'imperativo categorico dalla libertà e la libertà dall'imperativo categorico.

Come respingere tali obiezioni e quindi in che senso è possibile a Suo avviso una fondazione ultima?

Ammetterei senz'altro che la fondazione, così come intesa da Albert e dalla maggior parte dei filosofi, mette capo a un simile trilemma: o regresso all'infinito o circolarità o difesa dogmatica di un assioma. Sono dispostissimo ad ammetterlo.

Solo che con fondazione non dobbiamo intendere proprio ciò che viene supposto dai sostenitori del trilemma, che cioè fondare significhi derivare qualcosa da qualcos'altro, sia in senso induttivo che deduttivo. La fondazione filosofica è a mio avviso qualcosa di diverso, è stata sempre qualcosa di diverso. Ci si era già incamminati verso un altro tipo di fondazione, come si vede esaminando la polemica di Agostino contro gli scettici, leggendo Descartes o Husserl. Già esisteva cioè quella che potremmo chiamare una fondazione riflessiva, solo che per me essa non si configura più come riflessione sui presupposti della propria coscienza bensì come riflessione sugli incontestabili presupposti dell'argomentazione. È importante rendersi conto che per chi argomenta l'argomentazione si rende inaggirabile, qualcosa oltre cui è impossibile risalire. Certo, è sempre possibile rifiutare l'argomentazione, ma chi si rifiuta di argomentare non può più dir la sua; non sarebbe per così dire più presente; non ne sapremmo niente, se non argomentasse affatto. Se invece vuole avanzare una qualche proposta, un qualche argomento, deve prendere parte all'argomentazione e deve quindi riconoscere anche tutte le presupposizioni connesse con la sua partecipazione all'argomentazione. Quando attuo tale riflessione sulle necessarie presupposizioni dell'argomentazione, incontro anche il principio dell'etica. Quel che dico non fa che generalizzare quanto già espresso da Peirce a riguardo della comunità degli scienziati, per riferirlo alla comunità di tutti coloro che sono in grado di argomentare o, se si vuole, di pensare. Costoro hanno già sempre riconosciuto di formare una comunità di persone dotate di pari diritti e insieme di pari responsabilità, ovvero una comunità di persone solidali nella responsabilità e nell'uguaglianza dei diritti. Io credo che tutto ciò sia già presupposto da ogni seria domanda: ponendola, si suppone di essere entrati nello spazio di una comunità anticipata come comunità di uguali nei loro diritti e nella loro responsabilità, relativamente ad ogni possibile soluzione dei problemi sollevati. E quando riusciamo a esplicitare questi presupposti in termini formali e procedurali, otteniamo un principio di fondo per tutti i discorsi in cui vengano affrontati problemi concreti in rapporto a situazioni specifiche. Questo è per così dire il secondo livello: è comunque indispensabile che molti problemi vengano delegati ai concreti discorsi pratici, poiché è lì che possono venir portati a espressione i bisogni degli interessati e messo a frutto il sapere degli esperti. Per il resto sono un fallibilista, anzi per dirla con un pizzico di provocazione, sono un fallibilista conseguente, che rifiuta soltanto una affermazione incondizionata del fallibilismo, tale da distruggere i presupposti del fallibilismo stesso. Il fallibilismo è comprensibile solo a patto di supporre come non fallibili quei presupposti che consentono di comprendere il significato di concetti come fallibilità, controllo, falsificazione; e fra questi presupposti vi è anche il principio del discorso che ho appena tentato di chiarire, insieme con le sue implicazioni etiche. Tale principio è indispensabile per comprendere che cosa significhi controllare un'ipotesi e quindi poterla dichiarare falsificabile. Risulta quindi assurdo, come fa il mio amico Habermas, proporre di controllare le quattro pretese di validità, da lui messe in luce e avanzate necessariamente da ogni argomentante (che io del resto condivido pienamente), di volerle controllare alla stregua di ipotesi linguistiche, interrogando il maggior numero possibile di parlanti competenti. Cosa sensatissima per quanto riguarda le ipotesi linguistiche, ma priva di senso per i presupposti dell'argomentazione in quanto tale, i quali vengono già sempre presupposti in ogni controllo. È impossibile pensare il concetto stesso di controllo, se non assumendo che i presupposti in questione, comprendenti anche il principio dell'etica, siano già sempre riconosciuti da tutti.

 

DOMANDA N. 4

Con fondazione ultima intende dunque la messa in luce di quanto è da noi già sempre presupposto, allorché argomentiamo razionalmente. Ora, si pone il problema seguente: tale messa in luce, come ha appena sottolineato in opposizione a Habermas, è di natura apriorica e non empirica. Se infatti fosse empirica, non avrebbe un sufficiente grado di validità, di apoditticità. Ora, le proposizioni ottenute tramite fondazione ultima, ad esempio il fatto che noi si debba argomentare, sono proposizioni analitiche, tali per cui chi le contestasse tramite argomentazione si contraddirebbe?

Non sono analitiche nel senso di banali tautologie. Ciò ci rinvia alla distinzione tra la ricerca di autocontraddizioni performative tramite riflessione e l'esibizione di autocontraddizioni semantiche, come "A e non-A". Ciò che scopro nella riflessione trascendentale non è mai banalmente analitico, bensì qualcosa da esplicitare. Ammetto che le nostre esplicitazioni possono essere rivedibili: io stesso ho spesso corretto mie precedenti esplicitazioni. A questo punto l'amico Albert obietterebbe che sono dunque fallibili. A ciò rispondo che non sono però fallibili alla stregua di ipotesi empiriche, in quanto le revisioni di queste scoperte della riflessione trascendentale si ottengono commisurando i tentativi di esplicitazione con quanto è saputo a priori; ovvero: ciò che è certo, resta tale. E ad esso si è sempre di nuovo rimandati nel processo della riflessione; processo che presenta una struttura autocorrettiva. Si tratta di una struttura unica nel suo genere, del tutto diversa da quella che ci conduce a correggere ipotesi empiriche. Una fondazione filosofica che non sia una fondazione ultima nel senso da me accennato, non sarebbe per nulla a mio avviso una fondazione. Forse è possibile mostrarlo; posso tentare di farlo riferendomi a quanto Hans Albert propone per la fondazione di norme. Albert intende indicare a quali conseguenze determinate norme condurrebbero, nel caso venissero regolarmente applicate. Idea che anch'io condivido. Del resto la stessa etica del discorso, in quanto etica delle responsabilità, prevede che vengano sempre prese in considerazione le conseguenze dirette e indirette. Ma tutto dipende da ciò: se si posseggono o meno dei criteri per la valutazione delle conseguenze. Si potrebbe forse introdurre un criterio minimale, cioè quello della sopravvivenza degli uomini, che però si rivela insufficiente, benché ovvio. Devono dunque darsi alcuni criteri sui quali misurare le conseguenze per gli interessati. Io non mi propongo di avanzare una fondazione ultima delle norme concrete derivabili da una tale idea, bensì soltanto il principio formale e procedurale secondo cui le uniche norme che in ultima istanza possono essere ritenute valide sono quelle che potrebbero riscuotere il consenso di tutti gli interessati, in considerazione delle conseguenze derivanti dalla loro applicazione. Sulla base di questo principio possono poi aver luogo discorsi in cui esaminare le norme alla luce delle differenti situazioni e momenti.

 

DOMANDA N. 5

In base a quale criterio le norme devono essere giudicate a questo livello concreto?

Bisogna innanzitutto accertare le conseguenze dirette e indirette; e già questo può dare adito a vaste discussioni. Esiste anche il problema di assicurarsi esperti affidabili, i quali determinino ad esempio i pericoli derivanti dalla costruzione di una discarica atomica. È accaduto in un caso che un esperto sia giunto alla conclusione che non potremmo assumerci la responsabilità di un simile intervento, in quanto non siamo in grado di escludere eventuali mutazioni degli strati geologici, con conseguenze che non sarebbe lecito addossare alle future generazioni. Questo sarebbe quindi il primo compito: analizzare la situazione e considerare le conseguenze. D'altro lato, bisogna accertare gli interessi di coloro che risentirebbero delle conseguenze previste, interessi che vanno messi a confronto tra loro e con le conseguenze. Ovviamente si tratta di idee regolative; ciò che in pratica possiamo raggiungere è sempre solo una rappresentanza parzialmente "avvocatoria", per interposta persona, degli interessi in gioco. Non sarà mai possibile far partecipare al discorso i bambini o le prossime generazioni e neppure tutti gli abitanti di un paese. I discorsi non possono che aver luogo in modo "avvocatorio", ovvero dando voce e prendendo in considerazione anche gli interessi di chi non può partecipare direttamente al discorso. L'intera democrazia funziona essenzialmente, a mio avviso, secondo tale principio regolativo, se è una vera democrazia, se non conduce soltanto a compromessi di interesse, ovvero se in essa hanno luogo autentici dibattiti, in cui venga data voce, come di solito si presume, ai bisogni di tutti gli interessati, sebbene in via indiretta. Si tratta naturalmente sempre e solo di un'idea regolativa. Ma, come nel caso della teoria della verità, è possibile sulla base di questa idea regolativa sottoporre a disamina e a critica le istituzioni esistenti, ovvero operare in forza del principio regolativo. Sono fermamente convinto che i principi regolativi rappresentino un orientamento per l'agire e ciò vale anche per il principio etico.

 

DOMANDA N. 6

Le due forme della comunità della comunicazione, cioè l'ideale e la reale, conducono a Suo avviso a due fondamentali principi etici: da un lato il principio della conservazione della comunità reale della comunicazione, cioè dell'assicurazione delle condizioni di sopravvivenza per la comunità reale della comunicazione, che è in certo qual modo l'elemento conservativo della Sua concezione etica; dall'altro il principio della instaurazione di forme di comunicazione sempre più libere, sempre più razionali. In che cosa a Suo avviso questi due principi etici si differenziano da quelli proposti da altri autori?

Il problema della reciproca funzione che i due principi, i due poli della comunità ideale e reale, devono svolgere è ben più complesso. Sviluppando ulteriormente le mie idee rispetto al mio primo saggio di etica, sono arrivato a distinguere tra due parti dell'etica: parte A e parte B. Direi che la necessaria anticipazione, la quale resta però controfattuale, della ideale comunità della comunicazione mi fornisce il principio ideale di un'etica deontica e universalistica della comunicazione o del discorso: il principio cioè della necessità che tutte le norme fondamentali debbono essere capaci di consenso nelle loro conseguenze per tutti gli interessati. Il fatto però che contemporaneamente io sia membro di una comunità reale e storicamente sviluppatasi dalla comunicazione non mi fornisce solo il principio per cui sono responsabile insieme agli altri della conservazione dell'umanità. Il problema è ben più complicato: la circostanza che io di fatto non sia mai membro di una comunità ideale della comunicazione, ma rimanga sempre entro una comunità reale, mostra che non sempre vale ciò che alcuni hanno sostenuto, e che è assolutamente inaccettabile per un'etica della responsabilità: noi non siamo membri di una comunità ideale, sicché non possiamo neppure agire secondo tale massima, che equivarrebbe a una pura etica dell'intenzione, così come delineata da Weber. Quando esaminiamo le effettive massime di azione, dobbiamo tener conto del fatto che la comunità ideale non esiste, e in senso stretto neppure esisterà mai, trattandosi di un'idea regolativa. In tal caso dobbiamo considerare contemporaneamente le situazioni che di fatto ci troviamo dinanzi. Per esempio non possiamo contare sul fatto che a partire dalle ore 9 di domani mattina inizieremo a regolare tutti i nostri problemi in base al principio del discorso ideale. Qui si affaccia il dilemma del prigioniero: nessuno potrà mai sapere se l'altro è disposto a conformarsi al principio. In altre parole: è ovvio che noi dobbiamo riallacciarci alla situazione storica e concretamente esistente, alla eticità sostanziale in senso hegeliano, a ciò che in essa vi è di razionale, ma anche di irrazionale. Dalla differenza tra comunità ideale e reale della comunicazione risulta ad esempio il principio che noi siamo tenuti a operare in quest'ultima, affinché le situazioni mutino sul lungo periodo (senza però presumere di raggiungere il fine ideale), in modo tale da avere maggiori possibilità di risolvere i problemi in discorsi pratici corrispondentemente alle condizioni ideali della comunicazione. Così come stanno oggi le cose, siamo costretti, purtroppo, a mediare i principi ideali dell'etica del discorso con norme di razionalità strumentale, con le norme dell'agire strumentale. A tal proposito desidero notare che la parte B dell'etica è particolarmente spinosa, in quanto si tratta di avanzare un principio formale che integri l'etica del discorso ideale, ma anche allo stesso tempo non permetta qualsiasi cosa nel tentativo di instaurare le condizioni di applicazione dell'etica del discorso. Si pone qui non solo il problema di adattare le norme alle situazioni con capacità di giudizio o phronesis, come si è soliti dire; ma per un'etica post-convenzionale del discorso anche quello di produrre le condizioni di applicazione; ovvero, più precisamente, di cooperare alla creazione sul lungo periodo di queste condizioni di applicazione. E qui potremmo tornare alla comunità reale: non si tratta solo di conservarla, cosa che mi appare sempre più chiara oggi, dopo le mie discussioni con Hayek. Anche Hayek infatti è dell'avviso che la reale comunità comunicativa debba venir conservata, ma egli è disposto ad abbandonare a se stesso il Terzo Mondo, se necessario. I razzisti ad esempio, i sociobiologi direbbero che si tratta di far sì che i geni simili si conservino, e ciò non implica affatto che noi dobbiamo essere solidali con tutti gli uomini. Mentre la solidarietà con tutti i possibili membri della comunità comunicativa è quanto persegue l'etica del discorso. Perciò non possiamo interpretare l'obbligo che abbiamo di preservare la reale comunità comunicativa, come se fosse sufficiente che noi ad esempio si sopravviva, mentre gli altri possono anche morire a vantaggio nostro; idea che possiede una sua plausibilità alla luce dell'attuale sovrappopolazione, dello stato di squilibrio della ecosfera o della scarsità delle risorse, per esempio foreste, legno , ecc. Potrà anche darsi, ma sarebbe spaventoso, che la soluzione sarà questa, che soluzioni umane non potranno essere trovate, che una parte dell'umanità perirà. Non è quindi tutto risolto, dicendo che va presa in considerazione la conservazione della reale comunità della comunicazione. Non basta. Qui posso solo limitarmi ad indicare che i problemi sono ben più complicati.

 

DOMANDA N. 7

Ritorniamo al nostro tema iniziale, professor Apel. Pur avendo ampiamente contribuito alla recezione della filosofia americana in Germania, Lei resta comunque particolarmente legato alla cultura tedesca. In fondo la catastrofe della Germania L'ha spinta verso la filosofia, ha fatto sì, per citarLa, che Lei divenisse uno studente di filosofia a vita. Come spiega oggi quella catastrofe sulla base delle categorie etiche e filosofico-storiche da Lei nel frattempo elaborate?

Una grossa domanda. A tal riguardo ho espresso alcune idee nel mio ultimo lavoro, non ancora pubblicato, scritto in occasione di un convegno dedicato alla questione: che cosa abbia significato questa catastrofe per i filosofi tedeschi ed i cultori di etica in particolare, che, vivendo in quel periodo, ne abbiano avuto esperienza diretta. Ho tentato di rispondere così alla Sua domanda: è possibile addurre molte ragioni per spiegare la crisi che ha preceduto l'instaurarsi del nazismo, ragioni economiche, il risentimento della popolazione nei confronti del Trattato di Versailles, il fatto che non esistesse ancora una vera base sociale per la democrazia (forse, come anch'io ritengo, sarebbe stato meglio se, come in Giappone, l'imperatore fosse rimasto). Di queste cause della dinamica che ha condotto alla catastrofe rappresentata dal cosiddetto Terzo Reich, dal nazionalsocialismo, si può ben dire senza dubbio che siano tutte importanti e che non sia dunque possibile una spiegazione monocausale. Ma anche la catastrofe morale che ebbe luogo allora con il Terzo Reich, la distruzione dello Stato di diritto e, per usare i termini di Kohlberg, la regressione di quello stesso popolo che aveva generato un Kant a stadi primitivi di una morale puramente nazionalistica del tipo law and order, se non a una morale ancora più arcaica fondata sulla parentela di sangue, come nell'ideologia razzista, tutti questi elementi di regressione morale sono parti essenziali del quadro generale. Al momento avanzerei la supposizione che quella particolarissima situazione, che non poté certo prodursi all'improvviso, fosse anche una sorta di regressione morale, preparata anche a livello intellettuale, dai filosofi, come Nietzsche ad esempio, e che, insieme con gli altri fattori di natura economica, militare e politica, offrirebbe, per così dire, una powerful explanation di quel che accadde allora. Nel lavoro di cui ho parlato prima mi sono preoccupato soprattutto di offrire una analisi di quella regressione dal punto di vista di una logica dello sviluppo morale, dando particolare rilievo ai possibili effetti di certi sviluppi della filosofia ottocentesca; non solo Nietzsche, ma tutte le varie forme di riduzionismo che fecero allora la loro comparsa, come la tentazione di ridurre la morale, tramite una qualche genealogia, a qualcosa di affatto diverso, a un insieme di elementi socio-darwinistici. Una fortissima tentazione di ispirazione scientista, del resto, che affascinò allora gli intellettuali. Se si tiene presente il confluire di ciò con condizionamenti di natura politica ed economica, è forse possibile tentare una migliore ricostruzione di quella catastrofe.

 

DOMANDA N. 8

È dunque dell'avviso che i filosofi debbano condividere la responsabilità politica di quanto accade nel mondo, giacché essi elaborano modelli di comportamento e categorie mediante cui gli uomini sviluppano la comprensione di sé e delle loro azioni? Ritiene che lo spirito dei nostri giorni, diffusosi a livello mondiale, eserciti una funzione politicamente negativa, possa cioè generare pericoli da cui guardarsi?

Sì, in parte direi di sì, anche se desidererei essere prudente. Forse non è giusto sopravvalutare certi fenomeni passeggeri, che pur occupano la ribalta del momento, dell'odierno panorama filosofico. Se però riconosciamo una rappresentatività a quanto, risultando al momento en vogue fra i media, ci viene presentato come una delle maggiori e più importanti novità filosofiche, si può nutrire a volte una qualche paura. Se si guarda a come certe posizioni di Nietzsche ed altri o una certa predilezione per Heidegger, ormai diffusasi anche all'estero, ci viene ora riproposta qui in Germania come filosofia alla moda, esteticamente banalizzata; quando considero tutto ciò, mi chiedo se questi intellettuali abbiano coscienza dei problemi davvero nuovi con cui oggi siamo chiamati a confrontarci. È singolare ad esempio che il post-modernismo assurga a proposta filosofica complessiva, connessa con una critica radicale dell'epoca moderna e persino della intera storia della cultura e della filosofia. Esistono certo a mio parere molti aspetti di tutto rilievo per cui è possibile sottoporre a critica particolarmente lo sviluppo prodottosi nell'epoca moderna, ad esempio l'unilaterale manifestazione di certe forme di razionalità, come quella tecnica o strategica. E oggi possiamo senza dubbio indicare alcuni fatti che annunciano qualcosa di molto simile a una fine dell'età moderna. Esistono elementi di assoluta novità, come ad esempio il problema della crisi ecologica, con cui non possiamo fare a meno di confrontarci, che nessuno prima aveva previsto e da cui risultano problemi nuovi per la responsabilità tecnica e scientifica. Ma la cosa singolare è che proprio questo movimento che si definisce post-modernista non tematizzi nulla di tutto ciò. Ben altre cose vengono dichiarate importanti e tematizzate, cose dinanzi a cui, secondo me, non si può che scuotere il capo. Si diffondono slogan del tipo: non dobbiamo più perseguire il consenso, ma il dissenso; oppure che sarebbe una catastrofe per l'umanità se si volesse dimostrare come vincolante un principio morale di natura universale, valido per tutti gli individui e le diverse culture. A ciò non posso che rispondere che esattamente questo è necessario. Proprio se vogliamo immaginarci il coesistere di diverse forme di vita e se ogni individuo, così come già Kant esigeva, ha il diritto di ricercare la felicità a suo modo, devono esistere norme universali che lo rendano possibile, che rendano possibile la convivenza di forme di vita diverse. Cosa oggi necessaria a livello mondiale, se le grandi culture vogliono andare d'accordo. Anzi è richiesto ancora di più: le culture devono cooperare tra loro, non solo convivere, se vogliamo aprirci una qualche possibilità per superare la crisi ecologica. E a questo scopo abbiamo ovviamente bisogno di consenso e di norme universali, nel cui quadro, entro i cui limiti, tutti possano realizzare le loro forme individuali di vita. Da questo punto di vista non posso che dichiarare assurde certe affermazioni di Foucault o anche di Lyotard. Posso solo dire che di fatto la catastrofe si verificherebbe, se noi, invece di perseguire il consenso, cercassimo solo di tendere al dissenso. Si verificherebbe una catastrofe, se non ci fossero principi universali, rappresentati ad esempio dai diritti dell'uomo, se non potessimo considerarli vincolanti per tutti.

Intervista di Vittorio Hösle

INDIETRO