A cura di Diletta Grella
Non sono poi tante le donne che hanno avuto la possibilità di distinguersi nella scienza (e purtroppo non solo nella scienza), considerata, fino a non molto tempo fa, appannaggio esclusivo del mondo maschile. Molte hanno dovuto pagare con la vita questa loro passione, quasi fosse una colpa della quale vergognarsi: una donna che con le sue ricerche potesse superare o peggio inficiare i risultati ottenuti dai colleghi maschi, era ritenuta una presuntuosa da relegare in un angolo. Fra queste non si può dimenticare IPAZIA , vissuta ad Alessandria d'Egitto fra la fine del IV e l'inizio del V secolo. Non che Ipazia si fosse avvicinata da sola agli studi scientifici; fu il padre Teone ad indirizzarla su questa via, come lui stesso ci tramanda; nell'intestazione del III libro del suo commento al Sistema matematico di Tolomeo, troviamo scritto: "Commento di Teone di Alessandria al terzo libro del Sistema matematico di Tolomeo. Edizione controllata dalla filosofa Ipazia, mia figlia". Ipazia grande studiosa di matematica dunque, ma, ed è questo l'aspetto più significativo, anche insegnante: "Introdusse molti alle scienze matematiche" ci dice Filostorgio, e numerose altre testimonianze ci attestano addirittura di sue opere autografe, purtroppo però ora scomparse. Pare comunque che una delle discipline in cui Ipazia seppe distinguersi di più fosse l'astronomia. Ancora Filostorgio e poi Suda, ci informano di interessanti scoperte compiute dalla donna a proposito del moto degli astri, scoperte che ella rese accessibili ai suoi contemporanei con un testo, intitolato Canone astronomico. Ma Ipazia fu anche filosofa molto apprezzata: Socrate Scolatico parla di lei come della terza caposcuola del Platonismo, dopo Platone e Plotino. Damascio ci spiega come seppe passare dalla semplice erudizione alla sapienza filosofica. Pallada poi, in un epigramma, tesse uno degli elogi più belli di Ipazia:
"Quando ti vedo mi prostro, davanti a te e alle tue parole,
vedendo la casa astrale della Vergine,
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto
Ipazia sacra, bellezza delle parole,
astro incontaminato della sapiente cultura".
Come, a ragione, nota Gemma Beretta (Ipazia d'Alessandria, Editori Riuniti) è nel terzo verso che si concentra tutto il senso dell'attività di Ipazia: "Verso il cielo è rivolto ogni tuo atto", ad indicare da un lato l'amore per l'astronomia, dall'altro la tensione filosofica. Così prosegue la Beretta:
"Quando tracciava una nuova mappa del cielo, Ipazia stava indicando una traiettoria nuova - e insieme antichissima - per mezzo della quale gli uomini e le donne del suo tempo potessero imparare ad orientarsi sulla terra e dalla terra al cielo e dal cielo alla terra senza soluzione di continuità e senza bisogno della mediazione del potere ecclesiastico [...]. Ipazia insegnava ad entrare dentro di sé (l'intelletto) guardando fuori (la volta stellata) e mostrava come procedere in questo cammino con il rigore proprio della geometria e dell'aritmetica che, tenute l'una insieme all'altra, costituivano l'inflessibile canone di verità". Ma scienza e filosofia non devono poi considerarsi discipline separate, come si ricorda anche in Roma al femminile, a cura di Augusto Franchetti, ed. Laterza: "Ipazia […] è maestra di filosofia neoplatonica, una disciplina dove convergevano anche studi di matematica e di geometria, al punto che la stessa Ipazia avrebbe inventato anche macchine come un astrolabio piatto, un idroscopio e un aerometro". Ipazia poi, anche guida spirituale; uno dei suoi più affezionati discepoli, tale Sinesio, così le scrisse, ormai vinto dalla malattia: "Detto questa lettera dal letto nel quale giaccio. Possa tu riceverla stando in buona salute, o madre, sorella e maestra, mia benefattrice in tutto e per tutto, essere e nome quant'altri mai onorato!". E le parole con cui prosegue, sono comprensibili solo alla luce di una completa comunione d'anime fra lui e la maestra pagana, al di sopra di ogni credo e di ogni ideologia, se si considera che Sinesio divenne poi vescovo cristiano di Cirene: "E se c'è qualcuno venuto dopo che ti sia caro, io debbo essergli grato poiché ti è caro, e ti prego di salutare anche lui da parte mia come amico carissimo. Se tu provi qualche interesse per le mie cose, bene; in caso contrario, non importano neanche a me". La vita di Ipazia cominciò ad essere scritta circa vent'anni dopo la sua morte, avvenuta per assassinio nel 415 dopo Cristo. I primi ad occuparsi di lei furono due storici della Chiesa: Socrate Scolastico e Filostorgio. Ottant'anni dopo, Damascio di Damasco tornò a riproporre la sua biografia. Quando Socrate e Filostorgio scrissero le loro opere, molti dei responsabili della morte della filosofa erano ancora vivi: i due quindi rischiarono davvero grosso, accusando tutt'altro che velatamente Cirillo (allora Vescovo di Alessandria) di quel truce delitto. Filostorgio, in particolare, attesta che se i cristiani colti e ormai al margine dell'ortodossia vedevano di buon occhio Ipazia, altri cristiani invece non la tolleravano proprio e si scagliarono contro di lei fino ad ucciderla. Socrate ritorna con vigore sul tema dell'odio e della gelosia: "Ella giunse ad un tale grado di cultura, che superò di gran lunga tutti i filosofi suoi contemporanei. [...]. Per la magnifica libertà di parola ed azione, che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini. Infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale. Per questo motivo, allora, l'invidia si armò contro di lei. Alcuni, dall'animo surriscaldato, guidati da un lettore di nome Pietro, si misero d'accordo e si appostarono per sorprendere la donna mentre faceva ritorno casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario: qui, strappatale la veste, la uccisero colpendola con i cocci. Dopo che l'ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati questi pezzi al cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia di lei nel fuoco". Diversi altri particolari cogliamo poi nella biografia che scrisse Damascio, cento anni dopo la morte della donna. In particolare questo filosofo, di cultura e religione ellenica, si sofferma molto sul tema della verginità. Un episodio è al proposito significativo: un allievo di Ipazia, ci dice Damascio, si era follemente innamorato di lei. Ipazia, accortasi di questa sua passione, gli presentò una delle pezzuole usate dalle donne per il mestruo e gli disse: "Questo, dunque, ami o giovane, niente di bello". Damascio poi spiegherebbe, secondo testimonianze posteriori, il significato del gesto di Ipazia: purtroppo però questa parte del suo testo è per noi molto lacunosa. Ancora sull'invidia di Cirillo ritorna Damascio: "Una volta accadde che Cirillo, che era a capo della setta opposta, passando davanti alla casa di Ipazia, vedesse che vi era una gran ressa di fronte alle porte, confusione di uomini e di cavalli, gente che si avvicinava, che si allontanava, che ancora si accalcava, avendo chiesto cosa fosse quella moltitudine e di chi la casa presso la quale c'era quella confusione, si sentì rispondere da quelli del suo seguito che in quel momento veniva salutata la filosofa Ipazia e che era la sua casa. Saputo ciò, egli si rose a tal punto nell'anima che tramò la sua uccisione in modo che avvenisse al più presto, uccisione tra tutte la più empia". I meriti di Ipazia furono molti. Secondo Socrate Scolastico e Damascio, con Ipazia si era finalmente realizzata nel mondo la mitica "politeia" in cui erano i filosofi a decidere le sorti della città. Ipazia fece ritornare ad Alessandria la filosofia. Il pensiero platonico però, assunse con lei una configurazione nuova: in particolare, secondo Socrate Scolastico, Ipazia non apparteneva alla schiera di quei filosofi che "spiegano le opere di Platone e di Plotino". Ella "ereditò la scuola platonica che era stata riportata in vita da Plotino, e spiegava tutte le scienze filosofiche a coloro che lo desideravano". Ipazia affiancava, dice Beretta, "ad un insegnamento esoterico un insegnamento pubblico, simile a quello dei sofisti moralizzatori del I secolo". Caratteristica di Ipazia fu dunque la generosità con cui tramandava il suo sapere a quanti stavano attorno a lei. Ella non riservava la conoscenza per sé e per pochi eletti, ma con estrema liberalità la dispensava agli altri. Damascio riferisce, in base alle testimonianze ottenute, che "la donna, gettatosi addosso il mantello e facendo le sue uscite in mezzo alla città, spiegava pubblicamente, a chiunque volesse ascoltarla, Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altri filosofo". Ipazia era molto amata per questo dal popolo e ciò le conferiva una grande autorità. Così scrive Socrate Scolastico: "A causa della sua straordinaria saggezza tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale". Fa eco Damascio: "Poiché tale era la natura di Ipazia, era cioè pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei". Non solo il popolo dunque la venerava, ma anche molte delle autorità della cittadine.
Con la morte di Ipazia, si potè considerare distrutta una delle più esemplari comunità scientifiche di ogni epoca. Quello che è strano però, è che nessuno, poi, si sia proclamato suo allievo. Nessuno filosofo si dichiarò suo erede. Probabilmente, ipotizza la Beretta, i motivi vanno ricercati nel fatto che Cirillo, considerato dalle fonti principali il responsabile del suo assassinio, "detenne la carica di vescovo della città per i successivi 29 anni (egli, infatti, morì nel 444), nel corso dei quali divenne l'episcopo più potente e temuto di tutto l'impero d'Oriente". Ma perché Cirillo odiava tanto Ipazia? Certo, l'invidia (phthonos) per la considerazione e la notorietà che questa donna aveva raggiunto nella sua città giocò un ruolo notevole. Ma le cause del rancore del vescovo di Alessandria contro la nostra filosofa hanno una radice ben più politica e religiosa. Nel 391 dopo Cristo, Teodosio aveva proclamato il Cristianesimo religione di stato. Nel 392 fu promulgata anche una legge speciale contro i culti pagani. I cattolici dell'impero romano d'oriente potevano contare quindi sul pieno appoggio del potere temporale, dopo anni passati a professare la loro fede nei recessi delle catacombe. Evidentemente alcuni cristiani, fortunatamente pochi, potendo finalmente divulgare in modo aperto il loro credo, ripagarono i pagani dei torti subiti con altra violenza. Cirillo addirittura arrivò ad arruolare dei monaci, torme di uomini, spesso analfabeti, "che vagavano di città in città", scrive Silvia Ronchey nel saggio Ipazia, l'intellettuale, che fa parte del citato Roma al femminile "pieni d'odio sociale non solo contro i pagani ma contro il mondo civile in genere". "Sono costoro", ha scritto Evelyne Patlagen, "che spingono l'impassibilità ascetica alla sovversione". Suida non esita a definirli "esseri abominevoli, vere bestie". Il clima sociale di Alessandria d'Egitto era dunque, a cavallo fra quarto e quinto secolo, molto instabile. La comunità cristiana era la più forte e teneva a far valere questo suo potere.
Cirillo rappresentava il massimo del potere ecclesiastico, ma Ipazia era il fulcro della cultura, occupando la prestigiosa cattedra di filosofia: "Dopo la morte di suo padre ne aveva ereditato l'insegnamento," annota la Ronchey "ed era un insegnamento estremamente illustre, poiché derivava dal grande neoplatonico Plotino. Le successioni dei professori di filosofia venivano registrate in città come la successione dei vescovi". Ma il vescovo cristiano doveva avere il monopolio della 'parrhesia' (libertà di parola e di azione; ndr)" ha scritto Peter Brown, proponendo, per quanto riguarda Ipazia, un sillogismo molto chiaro: "Se nella fase di passaggio dal paganesimo al cristianesimo i compiti del filosofo e del vescovo vengono a sovrapporsi, che cosa fa il vescovo, se non eliminare il filosofo?". La Ronchey non si accontenta di questa spiegazione e va oltre: "Gli elementi in conflitto non sono tanto paganesimo e cristianesimo, quanto le classi dirigenti (locale e romana), le categorie sociali (antica aristocrazia, nuova "burocrazia" ecclesiale), i bellicosi gruppi etnici, nel clima d'instabilità che caratterizza il passaggio dei poteri e l'instaurarsi del cristianesimo nella vita e nelle strutture cittadine del tardo impero romano". La figura di Ipazia affascinò molto la letteratura di ogni epoca. E se Socrate Scolastico e Damascio lanciarono delle accuse pesanti ai danni di Cirillo, non mancarono autori che difesero spudoratamente il vescovo cattolico. Fra questi Giovanni di Nikiu, che considera il linciaggio della filosofa una meritata punizione: "Ipazia ipnotizzava i suoi studenti con la magia e si dedicava alla satanica scienza degli astri". La parte conclusiva del suo racconto è al proposito molto esplicativa: "Tutta la popolazione circondò il patriarca Cirillo e lo chiamò nuovo Teofilo, perché aveva liberato la città dagli ultimi idoli". A prescindere dalle prese di posizione degli storici, Cirillo non dovette scontare alcuna pena per l'assassinio di Ipazia. Il monofisismo invece, l'eresia basata sulle sue dottrine, verrà condannato a Calcedonia nel 451. Anche Voltaire parla di Ipazia nelle Questions sur l'Encyclopédie (1772), sottolineandone soprattutto l'avvenenza e l'ingiusta condanna. In altri suoi scritti considererà la sua morte "excès du fanatism". Da Voltaire l'eco di Ipazia rimbalzerà fino all'italiano Vincenzo Monti: "La voce alzate, o secoli caduti,/ Gridi l'Africa all'Asia e l'innocente/ Ombra d'Ipazia il grido orrendo aiuti". In Gran Bretagna Ipazia non venne dimenticata: l'irlandese John Toland scrisse nel 1720 un saggio intitolato Ipazia, ovvero "la storia di una Dama assai bella, assai virtuosa, assai istruita e perfetta sotto ogni riguardo, che venne fatta a pezzi dal Clero di Alessandria per compiacere l'Orgoglio, l'Emulazione e la Crudeltà del loro Vescovo, comunemente ma immeritatamente denominato San Cirillo". Non allo stesso modo la pensava evidentemente Lewis, se nel 1721 scrisse La storia di Ipazia, "assai impudente professoressa di Alessandria: in Difesa di San Cirillo e del Clero Alessandrino dalle calunnie di Mr. Toland". Il Settecento protestante di certo non scordò Ipazia; Gibbon nel Decline and Fall non si risparmiò critiche per il vescovo di Alessandria: "Ipazia fu disumanamente macellata dalle nude mani di Pietro il Lettore e da quelle di una ciurma di selvaggi e implacabili fanatici [...] ma l'assassinio di Ipazia impresse un marchio indelebile sul carattere della religione di Cirillo d'Alessandria". Henry Fielding, in una satira, arriva ad immaginare un fidanzamento fra Ipazia e Giuliano l'Apostata. Con l'avvento della Controriforma cattolica si cercò di cambiare le carte in tavola, arrivando a mettere in discussione l'attendibilità delle fonti e di conseguenza la responsabilità di Cirillo: nell'Ottocento si scrisse che "Cirillo devesi ritenere pienamente di ogni colpa giustificato da ogni buon credente per essere stato fatto santo dalla chiesa". E non mancò qualche poetessa che romanzò tutta quanta la storia, come la marchesa Diodata Saluzzo Roero, membro dell'Accademia Torinese delle Scienze e dell'Arcadia, che nel suo lungo Ipazia, ossia delle filosofe (1827) presentò la filosofa come martire cristiana: "Languida rosa sul reciso stelo/ Nel sangue immersa la vergin giacea/ Avvolta a mezzo nel suo bianco velo/ Soavissimamente sorridea/ Condonatrice de l'altrui delitto/ Mentre il gran segno redentor stringea". Ciò che comunque i più riconobbero e apprezzarono in Ipazia, fu la fedeltà al platonismo e all'ellenismo, come ben spiega Charles Peguy: "Ciò che noi amiamo e ciò che onoriamo è questo miracolo di fedeltà, […] che un'anima sia stata così perfettamente in accordo con l'anima platonica e con la sua discendente, l'anima plotiniana, e in generale con l'anima ellenica, con l'anima della sua razza, con l'anima del suo maestro, con l'anima di suo padre, in un accordo così profondo, così intimo, che raggiungeva così profondamente le fonti stesse e le radici, che in un annientamento totale, quando tutt'un mondo, quando tutto il mondo andava discordandosi, per tutta la vita temporale del mondo, e forse dell'eternità, essa sola sia rimasta in accordo, sino alla morte".