A cura di JACOPO AGNESINA
Boezio di Dacia, maestro alla Facoltà della Arti di Parigi, e Averroé (altresì noto come Ibn-Rushd – la traslitterazione completa e kilometrica del suo nome la si può omettere), esperto giurista, in ottimi rapporti col potere Almhoade, pur appartenendo a culture e religioni estremamente differenti, rivendicano con forza la stessa libertà, la libertà del Filosofare.
In questo breve articolo vorrei portare il lettore, con un approccio sintetico e divulgativo, alla scoperta di questa affascinante ed importante questione. Spesso si etichetta frettolosamente il medioevo come “secolo buio”; basterebbe invece aguzzare lo sguardo e gettare una rapida occhiata alle dispute che lo hanno animato per rendersi conto di quale interesse ed attualità esse siano. Un’ultima nota prima di entrare in medias res: il presente articolo non ha alcuna ambizione di essere esauriente, anzi, ripongo, in esso, l’ambiziosa speranza di invogliare il lettore al doveroso approfondimento su testi di maggior raffinetezza ed importanza.
Veniamo dunque alla questione che ci siamo prefissi di trattare, la libertà del Filosofare in Boezio di Dacia e Averroé: secondo entrambi i pensatori la filosofia deve essere – in un senso che andremo successivamente a chiarire – liberata dal giogo addossatole da una fede maldestramente intesa. A questo punto è necessaria una precisazione: si deve evitare di cadere negli eccessi di una storiografia positivista che ha visto in essi la cosiddetta “doppia verità”; sia Boezio sia Averroé si guardano bene dal contrapporre fede e filosofia, assegnando loro due verità distinte ed inconciliabili. Come vedremo, il primo distingue le verità ma non le ritiene inconciliabili, mentre il secondo, addirittura, le identifica.
Analizziamo in prima battuta il filosofo di Cordova, “Averrois che’l gran commento feo” – così lo ricorda Dante nella Commedia, sottolineandone l’importanza come commentatore delle opere di Aristotele e Platone. Averroé [nel “Trattato decisivo sull’accordo della fede con la filosofia”, Averroé, a cura di Massimo Campanili, BUR 2001], con abbondanti citazioni coraniche – che sovente impiegherà, per usare un eufemismo, “furbescamente”! – arriva a dimostrare che non solo l’Islam permette la Filosofia ma che ne incoraggia addirittura la pratica. Il Corano afferma, infatti, che è compito dell’uomo conoscere gli esseri esistenti in quanto creati da Dio – e cos’è la Filosofia se non lo studio della totalità degli esseri? Il primo e decisivo passo è compiuto; si presenta ora una obiezione: se la Filosofia è pratica incoraggiata dalla stessa Legge – si intende “Legge Coranica”, la celeberrima Shari’a –, per quale motivo essa ha portato a conflitti ed eresie? Averroé sostiene che questi problemi siano stati soltanto degli “accidenti” – oggi li chiameremmo, lasciando da parte la terminologia aristotelica, “incidenti di percorso”; la vera “essenza” filosofica non ha nulla di conflittuale con la fede e l’ortodossia. Sono “accidenti” causati da un uso improprio della Filosofia, o meglio, da un uso illecito della filosofia da parte di alcuni; infatti essa, secondo Averroé, non è per tutti gli uomini. Classista à la Platone, Ibn-Rushd divide gli uomini in “Masse”, “Teologi” e “Filosofi”; la differenza fra questi è data dal diverso tipo di assenso che essi accordano alle verità religiose: se ai primi basta un approccio retorico, i secondi ne richiedono uno dialettico e i gli ultimi, i Filosofi, danno il loro assenso solo a verità dimostrative. Eresie e conflitti si generano, dunque, quando uomini appartenenti alla prima classe o alla seconda si inoltrano arditamente nel campo della Filosofia. Al contrario gli uomini “dimostrativi” sono obbligati alla speculazione razionale: negarla sarebbe come “negare l’acqua ad un assetato”. Insomma, unendo al concetto aristotelico di virtù il “ta eautou prattein” di platonica memoria, Averroé ritiene che la massima perfezione vada raggiunta con la realizzazione piena delle proprie potenzialità: l’uomo, l’uomo vero e “più perfetto”, svilupperà la caratteristica che gli è propria, la razionalità, conducendo una “bios theoretikos”. E gli altri? Cosa ne sarà degli uomini che non hanno, parlando cristianamente, i “talenti” necessari per divenire dimostrativi? Beh, Averroé non se ne cura troppo – ma proprio qui, nella difficoltà argomentativa, entra in gioco il Corano.
Il Corano, infatti, si rivolge “al bianco ed al nero”: è uno strumento di verità universale. Anche gli uomini non illuminati dalla ragione, seguendolo, possono, pur percorrendo strade differenti, arrivare alla Verità; inoltre, magia del sacro, la forza della convinzione che le masse riporranno in questa Verità, sarà equivalente alla forza della convinzione riposta dai Filosofi! Averroé, con questa mossa a dir poco geniale, mette al sicuro un nodo cruciale: Dio, sommamente buono, non potrebbe permettere la creazione di uomini che, per natura, non possono raggiungere la Verità e la connessa Felicità.
Al lettore più polemico rimane in canna – almeno – una obiezione: “la Scrittura è necessaria e portatrice di Verità per le masse, ma per i Filosofi… a che serve? In fondo loro trovano la stessa Verità, se possibile in maniera più ‘verace’, nella ricerca razionale”. Averroé risponde anche a questa obiezione: la Scrittura è fondamentale – anche – per i Filosofi, essa infatti nasconde, dietro la pelle superficiale dei discorsi, del significante, verità che si possono raggiungere solo con la allegorizzazione. Insomma, la Legge è uno scrigno di verità che si dischiude – anche e massimamente – al Filosofo, visto che egli ne possiede la chiave. Tutto si può allegorizzare? Il discorso qui si fa un poco complesso, ci limitiamo a dire che i Filosofi, quasi intuitivamente, sanno riconoscere cosa si può, cosa si deve e cosa non si deve allegorizzare.
Di certo c’è una cosa, ritorniamo al discorso principale: solo e solamente i Filosofi hanno l’onere-onore di interpretare le allegorie, sono gli unici “preparati” per farlo; le altre due classi di uomini non se lo possono permettere ed, anzi, non devono proprio farlo in quanto si imbatterebbero in errori, eresie ed altre brutture di fede. Proprio in questa specifica articolazione del discorso troviamo la ragione per la quale Averroé se la prende con i Teologi –, essi si macchiano di due importanti colpe: non hanno le doti per interpretare le allegorie, ma lo fanno; e, come se non bastasse, divulgano i risultati alle masse. Imbecilli e irresponsabili!
Per chiudere il discorso su Averroé è interessante sottolinearne una sua “curiosa” riflessione – che però sarebbe un toccasana per il momento storico attuale! Il nostro dice che, nel momento in cui la ricerca razionale dovesse risultare in contrasto con la Scrittura, fatto salvo per casi particolari, quella che andrebbe sottoposta ad interpretazione allegorica non è la prima, ma quest’ultima, la Scrittura. Come non dare ragione al saggio Ibn-Rushd!
Passiamo a Boezio di Dacia; egli fu leader, assieme a Sigieri di Brabante, dell’ala “radicale” dei maestri della Facoltà delle Arti di Parigi. Vide offuscata la sua fama dalla condanna del 1277 promulgata dal vescovo Tempier: se con essa Boezio non era direttamente punito, veniva di fatto vietata la divulgazione delle sue opere. Paradigmatico il destino della sua De Aeternitate Mundi: tale opera scomparirà dalla circolazione e rimarrà sconosciuta fino al secolo scorso quando un bibliotecario ungherese la ritroverà e ne curerà la riedizione.
Proprio in quest’opera [“Sull’Eternità del Mondo”, Boezio di Dacia, a cura di Luca Bianchi, Unicopoli, 2003], troviamo esposta con limpidezza la posizione di Boezio riguardo al rapporto tra Fede e Filosofia. La sua teoria è tanto semplice quanto facilmente fraintendibile: le ricerche naturali e razionali, proprio perché muovono e si muovono in determinati domini di validità, possono affermare verità indipendenti. Non saranno perciò verità “assolute”, “simpliciter”, ma verità naturali o razionali. Palmare è l’uso di frasi – per altro frequenti in pensatori contemporanei e successivi, per citarne solamente uno si può fare il nome di Buridano – come “loquens ut naturalis”, ovvero “parlando da filosofo naturale”: a cosa possono esse servire se non a delimitare una ristretta ma invalicabile area di validità?
La compresenza di più verità in diversi ambiti può condurre fuori strada: è un errore attribuire a Boezio, come è stato fatto, la cosiddetta “teoria della doppia verità”, ovvero la presunta affermazione di verità contrarie ed escludenti. La difesa da questa “accusa” la conduce il diretto interessato; Boezio, da buon aristotelico, è infatti il primo a voler salvare il principio di non contraddizione: a questo scopo riporta nel De Aeternitate Mundi una metafora tratta dalle Confutazioni Sofistiche: pur essendo nero, di un Etiope si può affermare la bianchezza dei denti. Similmente si può affermare la verità di qualcosa in senso relativo e, al contempo, affermarne la falsità in senso assoluto.
Facendo tesoro di questo pluralismo epistemologico, Boezio si candida di fatto come portavoce della libertà di filosofare. Per capire questo suo orientamento, al di là di considerazioni di stretto carattere teoretico bisogna pure tener conto di ragioni politico-culturali, a tale scopo sarà utile inquadrare storicamente la figura del nostro. Boezio, come è già stato detto, era “magister artium” a Parigi. La Facoltà della Arti nasce come struttura propedeutica allo studio Universitario in senso stretto: le materie erano le quelle del trivio e del quadrivio (secondo la sistemazione datane da Severino Boezio); esse dovevano servire solamente come base per la prosecuzione degli studi da effettuarsi in facoltà “professionalizzanti” quali, ad esempio, Teologia e Medicina. Insomma, per usare un adagio assai popolare tra i colti dell’epoca, “non si deve diventar vecchi studiando le arti”! Le cose cambiano con la diffusione, a partire dal XIII secolo, del corpus delle opere di Aristotele, rimaste fino ad allora sconosciute nell’occidente medioevale. La mole e l’importanza dei testi che andavano a comporre il curriculum di uno studente delle Arti era cresciuta in maniera clamorosa. Da facoltà subordinata e propedeutica, quella delle Arti, stava diventando una vera Università a se stante. Eccoci dunque ad un’altra ragione che spinse Boezio a sviluppare le sue teorie: sostenendo l’indipendenza del sapere egli intendeva, implicitamente, sostenere l’indipendenza della propria attività di studioso, l’indipendenza della figura del Maestro delle Arti, del “Filosofo di professione”.
Abbiamo dunque visto che Boezio afferma sotto due aspetti l’indipendenza della ricerca filosofica; partendo punto di vista teoretico (verità assolute non contrastano diverse verità relative ad un determinato campo) giunge a rivendicare una libertà “professionale” (il filosofo, nella fattispecie il “magister artium”, deve poter operare liberamente, senza essere subordinato ai teologi, proprio perché si muove in un determinato ambito). In questo senso si colloca l’affermazione secondo la quale il Filosofo può dibattere su tutto ciò che è indagabile razionalmente. I Filosofi possono parlare anche, facendo un esempio pratico, della Eternità del Mondo, proprio perché muovono in ambito prettamente naturale, ovvero senza l’ambizione di affermare verità simpliciter. Tutto ciò non fece che indispettire i Teologi che videro la propria egemonia nettamente svalutata. Il loro malcontento fu, senza dubbio, una delle cause del decreto censorio emanato dal Vescovo di Parigi Tempier, decreto nel quale erano condannate alcune affermazioni imputabili a Boezio; la cosa curiosa è che esse non furono riprese alla lettera, ma manipolate in modo da far sembrare simpliciter, assolute, quelle affermazioni delle quali Boezio si era premurato di sottolinearne la relatività naturale!
Si potrebbe considerare a Boezio come un pensatore “rivoluzionario”; in realtà, l’appellativo più giusto potrebbe essere “coerente”. Altri, ad esempio il teologo Alberto Magno, affermarono, come il nostro, l’indipendenza del sapere filosofico, ma nessuno spinse i discorso, con tal coerenza, fino alle sue estreme conseguenze. Una di queste è l’obbligo per il Filosofo Naturale di affermare la falsità relativa di alcune verità di fede che, riportate in ambito naturale, sono erronee. Le verità di fede sono tali solo per l’intervento di potenze sovrannaturali. Con questo, Boezio, intende anche dare una lezione di religione a coloro che – e forse proprio a Tempier – vogliono spiegare razionalmente ciò che razionale non è, la fede.
Per tutto questo scritto si sono cercati punti in comune tra i due pensatori presi in esame, è invece necessario, per chiudere, sottolineare il grosso punto di rottura: se per Boezio la fede è per forza di cosa “non-razionale”, per Averroé la fede è sinonimo di razionalità. Questo contrasto, si badi bene, non è ristretto ai soli pensatori presi in esame; grossa parte della tradizione Araba rivendica la propria religione come la più razionalmente ammissibile. Si può portare l’esempio della tradizione Abbaside, forza trainante del movimento di traduzione, dal Greco all’Arabo, dei testi dei Filosofi antichi, sviluppatasi nel IX-X secolo in quello che è l’odierno Iraq: gli appartenenti a questa dinastìa, ed i loro sudditi colti, denigravano apertamente e violentemente le incoerenze razionali del Cristianesimo: il Verbo che si fa carne, Dio che Muore, il parto dalla Vergine. La critica religiosa era portata, dunque, su di un piano quasi esclusivamente dimostrativo e razionale.