FREDRIC
JAMESON
Nato il 14 aprile 1934 a Cleveland, Fredric Jameson ha studiato in Europa (Francia e Germania), per poi formarsi in America sotto la guida
di Erich Auerbach. è considerato il primo e il più rappresentativo critico
letterario marxista americano. Egli ha pubblicato numerosi saggi che,
analizzando testi letterari e filosofici, sviluppano una personale prospettiva
teorica neo-marxista (ricordiamo Sartre: le origini di uno stile del
1961, Marxismo e forma del 1975, L’inconscio politico del 1981, La
prigione del linguaggio del 1982, Il postmoderno o la logica culturale
del tardo capitalismo del 1989, Tardo marxismo: Adorno, il postmoderno e
la dialettica del 1994, Una modernità singolare del 2003). Un dato
curioso: nel 2005, Jameson ha pubblicato un suo articolo sulla rivista “Play
Boy”: il titolo, non a caso, era Lolita after Fifty Years.
Le posizioni di Jameson nei confronti dell’istituzione
letteraria sono divenute punti di riferimento in molti dibattiti contemporanei.
Il saggio Brecht e il metodo occupa un posto privilegiato tra le opere
di Jameson: è un’articolazione del “metodo
(letterario)” attraverso un inventario sistematico della storia delle
opere critiche e letterarie di Brecht. In opposizione alla tradizione che da
Galileo a Gadamer sostiene il “metodo (scientifico)” come strumento neutro, e
quindi affidabile per ottenere dei risultati di verità imparziale e obiettiva,
Jameson, insieme a Brecht, propone “il metodo” come un modello autocritico,
pronto a mettere in discussione i propri presupposti e a diffidare dei
risultati ottenuti. Solo successivamente il nostro autore si sarebbe spinto a
prendere in esame il marxismo, anche in virtù del suo avvicinamento alla
politica della “New Left” e dei movimenti pacifisti. Poco attento al cosiddetto
“marxismo orientale”, a cui rimprovera di aver fatto valere una visione
decisamente ristretta e riduttiva del materialismo storico, Jameson si
concentra soprattutto sui contributi del “marxismo occidentale”.
La stella polare della ricerca di Jameson è il tentativo di
coniugare il marxismo e il decostruzionismo, senza
però smarrire la continuità con la Scuola di Francoforte (della quale intende
aggiornare e portare all’altezza dei tempi soprattutto la nozione di “industria
culturale”). Autore eclettico, Jameson si misura con le più disparate posizioni
filosofiche contemporanee, nel tentativo di sussumerle tutte nella teoria
marxista: con quest’ultima egli non si confronta ancora nella sua dissertazione
di dottorato (Sartre: the Origins of a Style), nella quale, esaminando lo stile di Sartre, sembra
fatalmente trascurare l’influenza che il marxismo esercitò sulla formazione del
pensatore francese.
Sicuramente una delle idee più originali di
Jameson è quella di inconscio politico: richiamandosi a Freud, il nostro autore sostiene che non
esistono fenomeni immediati e che ogni fenomeno va ricondotto alla rete
relazionale di cui fa parte. Così facendo, si scopre l’esistenza di un
“inconscio sociale” – già esplorato da Althusser e da Lacan – che si identifica
con la storia; quest’ultima sfugge alla presa della ragione e, soprattutto,
della coscienza, con la conseguenza che per noi è possibile indagare soltanto
sulle tracce che la storia lascia nel suo procedere incessante. In questo
senso, il marxismo non dev’essere letto come risposta a tutte le domande della
storia (come credeva Popper, che s’era schierato assai duramente contro Marx),
ma piuttosto come problematizzazione del presente. Come già aveva avuto modo di
rilevare Althusser, lo scrivere e il narrare del testo letterario sono un “atto
simbolico”. Soffermandosi,a tal proposito, sul concetto di ermeneutica, il
nostro autore ne individua due distinti momenti: a) la critica delle ideologie;
b) il ritrovamento – sulla scia di Ernst Bloch – nei testi stessi di
un’inconscia tensione utopica. Tale vocazione utopica può essere spiegata tanto
tramite lo strumentario concettuale di Bloch, quanto tramite quello di Adorno o
di Benjamin. Ben si capisce allora perché Jameson legga i testi letterari
armato della filosofia della storia marxiana, presa a servizio
dall’ermeneutica: se infatti non si presupponesse una filosofia della storia
unitaria (quale è quella marxiana), allora i testi del passato resterebbero
muti per noi. I due grandi “nuclei dogmatici” del marxismo sono da Jameson
ravvisati nella dialettica tra apparenza e realtà e in una filosofia della
storia unitaria (“l’avventura umana è una”, ripete quasi ossessivamente il
pensatore americano). L’idea generale a cui egli fa riferimento – in sintonia
con Bloch e Benjamin – è che soltanto il marxismo sia in grado di rendere conto
del passato. Contro Bloch, tuttavia, Jameson sostiene che il marxismo non ha
due correnti (una “fredda” e una “calda”), ma che piuttosto è una sola corrente
comprendente il momento scientifico e quello utopico, nella misura in cui
smaschera scientificamente le ideologia e precorre utopicamente l’avvenire. Il
nostro autore insiste molto su come, così intesa, l’ermeneutica trapassi in
politica. Sono state soprattutto due tesi di Jameson a destare scandalo: 1)
tutte le ideologie (anche quelle delle classi dominanti) hanno carattere
utopico, proiettando nel futuro le loro speranze; 2) perfino quella che Adorno
chiamava “industria culturale” racchiude in sé elementi utopici (tema sul quale
già Bloch aveva insistito parlando dei “paradisi a prezzo scontato”). Per quel
che riguarda la teoria jamesoniana del postmoderno, il nostro autore resta fedele al motto di
Lukàcs: “bisogna lacerare i veli del feticismo”, ossia ricondurre i fenomeni
(postmoderni) alla realtà sociale di quello che il nostro autore chiama il “tardo capitalismo”. Nello stadio attuale,
il (tardo) capitalismo trova nelle posizioni postmoderne le sue più forti
alleate: ciò che più caratterizza questa fase del capitalismo è il fatto –
colto benissimo dai Francofortesi – che la merce ha invaso anche la coscienza e
la sfera inconscia dell’esistenza umana. Quali principali opere di quest’epoca
tardo-capitalistica, Jameson ama citare le realizzazioni artistiche di Andy
Warhol, che riproduce le stars di Hollywood. Addirittura, il nostro
autore si spinge a sostenere che le teorie di Marx sono più veritiere oggi, nel
mondo postmoderno, che non nell’Ottocento. Se ai tempi in cui scrivevano Adorno
e Horkheimer il soggetto era “alienato”, oggi – dice Jameson – esso è “frammentato”, esattamente come la
realtà in cui vive: in tale realtà, viene meno l’unità del “soggetto
trascendentale”. Le principali categorie estetiche dell’età postmoderna sono,
secondo Jameson, le seguenti:
a)
scomparsa
della profondità: se le scarpe del contadino raffigurate da Van Gogh
richiedevano un atto interpretativo (come ben sapeva Martin Heidegger), le
scarpe da ballerina di Warhol – assunte come simbolo dell’arte postmoderna –
restano superficiali e misteriose, “non ci parlano affatto” e si configurano
come “oggetti morti” e feticisti.
b)
Scomparsa
della storicità;
c)
Scomparsa
dello stile individuale.
Jameson si oppone fermamente alla tesi (difesa ad esempio da
Karl Löwith in Meaning in History) secondo cui il marxismo altro non
sarebbe se non una forma di religione: questa tesi è “uno dei principali
strumenti dell’arsenale anticomunista” (Marxismo e forma, p. 134). Tra i
critici più severi del pensiero di Jameson deve senz’altro essere ricordato
Terry Eagleton: questi mette in luce come, se per Lukàcs il disvelamento
dell’alienazione si dà nella concreta lotta di classe, per Jameson esso è
enigmaticamente assunto come un presupposto teorico inspiegato; a Jameson,
inoltre, può essere imputato – prosegue Eagleton – l’aver eccessivamente
insistito sulla mercificazione, annientando il problema politico e la prassi.