Semestre invernale del 1765-1766
Ogni forma di istruzione rivolta alla gioventù reca con sé una difficoltà imprescindibile, che si è costretti a precorrere col discernimento gli anni, e, senza attendere la completa maturazione dell’intelletto, si ha il dovere di impartire cognizioni che, secondo l’ordine naturale, potrebbero essere afferrate solo da una ragione più addestrata ed esperta. Da ciò discendono gli eterni pregiudizi delle scuole, più ostinati e spesso più insulsi dei pregiudizi comuni, e la precoce, spregiudicata loquacità dei giovani pensatori, che di per sé è più cieca di qualsiasi altra presunzione, e più difficile da curare della stessa ignoranza. Eppure si tratta di una difficoltà con la quale occorre misurarsi, giacché in un’epoca in cui predomina una disposizione d’animo adorna e civile, le idee fini vengono considerate strumenti di progresso, e si trasformano in bisogni cose che per loro natura sarebbe assennato considerare dei semplici ornamenti della vita e il simbolo della sua superflua bellezza. Ma anche sotto questo profilo ci è possibile accordare maggiormente il pubblico insegnamento alla natura, se non persino renderlo totalmente conforme ad essa. Difatti, se il processo naturale dell’umana conoscenza è tale che, in un primo tempo, si formi l’intelletto, il quale attraverso l’esperienza sensibile giunge a formulare giudizi intuitivi e mediante questi costruisce concetti; e in seguito, sia la ragione a porre tali concetti in relazione con le loro premesse e conseguenze e a far sì che, infine, essi vengano compresi all’interno di un tutto ben ordinato per mezzo della scienza: ebbene, sarebbe necessario che l’istruzione segua esattamente la stessa via. Da un insegnante ci si aspetterà quindi che egli formi nel suo scolaro prima l’uomo intelligente, poi l’uomo ragionevole, e solo dopo l’uomo dotto. Un tale modo di procedere presenta l’innegabile vantaggio che, se pure lo studente assai di rado riesca a raggiungere l’ultimo grado, come ci mostra la comune esperienza, ciò nonostante egli ha avuto modo di approfittare dell’istruzione, ed è diventato più esperto ed assennato, se non per la scuola, senz’altro per la vita.
Qualora si sovverta questo metodo, lo studente, ancor prima che in lui si sia ben sviluppata la capacità intellettuale s’impadronisce di una sorta di raziocinio e dalla scuola porta via una scienza presa in prestito, posticcia, non interiorizzata: così facendo, il suo talento non risulta solamente sprecato e infruttuoso, come in ogni altro caso, ma per di più è tarlato dall’illusione di esser sapiente. È questo il motivo per cui non è infrequente imbattersi in dotti (propriamente uomini di studio), che mostrano ben poca intelligenza, e per cui le Accademie sfornano più teste d’uovo di qualsiasi altro stato sociale.
La regola da seguire è dunque questa: innanzitutto far maturare l’intelligenza e accelerarne lo sviluppo, esercitandola nei giudizi d’esperienza e indirizzandone l’attenzione verso quanto è possibile apprendere dalle sensazioni comparate dei vari organi di senso. Da questi giudizi o concetti essa non deve slanciarsi con balzi ardimentosi verso i più alti e remoti, bensì appropinquarvisi percorrendo il naturale e ben conosciuto sentiero dei concetti inferiori, che la conducono innanzi passo dopo passo: il tutto però rimanendo conforme a quella capacità intellettiva che il precedente esercizio ha dovuto necessariamente portare a maturazione in essa, non a quella che l’insegnante percepisce, o crede di percepire, in sé stesso, e suppone a torto anche nel suo allievo. In poche parole, questi non deve imparare dei pensieri, ma deve imparare a pensare; non deve portarlo, ma guidarlo, se si vuole che in futuro sia in grado di camminare da sé.
Un tale metodo d’insegnamento esige la natura propria della filosofia. Ma poiché si tratta, senza dubbio, di un’attitudine che vien maturando solo con l’età virile, non dobbiamo meravigliarci delle difficoltà insorgenti quando si vuole adattarla alle capacità non ancora esercitate della gioventù. Il giovane diplomato era abituato soltanto ad imparare. Ed ora pensa che, nello stesso modo, imparerà la filosofia; ma questo è impossibile, perché prima deve imparare a filosofare. Voglio spiegarmi più chiaramente. Tutte le scienze che si possono, in senso proprio, imparare, sono riconducibili a due specie diverse: scienze storiche e scienze matematiche. Alle prime appartengono, oltre alla storia propriamente detta, anche la descrizione della natura, la filologia, il diritto positivo ecc. Ora, giacché in ogni disciplina storica l'esperienza in prima persona o l'altrui testimonianza, e d'altra parte, nelle scienze matematiche l'evidenza dei concetti e l'infallibilità della dimostrazione rappresentano un qualcosa che si dà nel fatto in sé, e che quindi è immediatamente disponibile, va solo preso per quello che è: per questo in entrambi i casi si può letteralmente imparare, ovvero imprimere o nella memoria o nell'intelligenza quanto ci viene presentato come una disciplina già pronta.
Quindi, affinché si possa imparare anche la filosofia, bisognerebbe, innanzitutto, che ce ne fosse una realmente disponibile. Si dovrebbe poter mostrare un libro e dire: osservate, qui è la sapienza e la conoscenza certa; imparate a comprenderlo e a padroneggiarlo, poi sviluppatene per conto vostro alcuni concetti, ed ecco potrete dirvi filosofi. Finché non mi si mostrerà un libro tale da esporre una filosofia universalmente riconosciuta, a cui io possa far riferimento con la stessa sicurezza con la quale, per esempio, mi richiamo a Polibio per chiarire una circostanza storica, o ad Euclide per un teorema di geometria, mi si consenta di dire che si abusa della fiducia delle persone quando, invece di accrescere la capacità intellettiva dei giovani affidatici, mettendoli in condizione di formarsi in avvenire un più maturo giudizio proprio, li si inganna propinando loro una sapienza che si presenta già bell'e pronta, escogitata a fin di bene da altri, e da cui prende forma un simulacro di scienza, che vale come moneta buona in un determinato luogo e tra determinata gente, ma da tutte le altre parti non gode di alcun credito. Il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come solevano definirlo alcuni pensatori antichi (da zetein), ossia indagativo, e diventa in diversi casi dogmatico, ossia determinato, solo per la ragione che ha già alle spalle una lunga pratica. Anche l’autore filosofico, su cui si è deciso di impostare un ciclo di lezioni, non dev’essere trattato come un criterio assoluto di giudizio, ma solo come un’opportunità di giudicare anche di lui, e persino contro di lui. Il metodo di riflettere con la propria testa su questo o quell’argomento e di trarne autonomamente le debite conclusioni è ciò che lo studente propriamente ricerca come qualcosa di immediatamente disponibile, ed è anche il solo che può essergli davvero utile. Di conseguenza, le svariate idee che il giovane è andato maturando grazie all’applicazione costante di questa prassi filosofica e pedagogica, vanno considerate come conseguenze del tutto accidentali, della cui ricchezza egli deve giovarsi piantandone in sé la radice fruttifera.
Se si mette a confronto tale metodo didattico con le procedure d’insegnamento più comuni, che tanto se ne discostano, si riescono a comprendere una serie di cose, che altrimenti risulterebbero assai strane. Come, per esempio, non vi sia alcuna forma di scienza connessa alle arti e ai mestieri, in cui si incontrano tanti maestri quanti in filosofia; e per quale motivo - mentre una gran parte di coloro che hanno studiato la storia, il diritto, la matematica e simili, riconoscono con una certa modestia di non essere, tuttavia, ancora così padroni della materia, da poterla a loro volta insegnare - è poi ben raro imbattersi in qualcuno che, con tutta serietà, non ritenga di essere perfettamente in grado di insegnare logica, morale, ecc. oltre alle sue rimanenti occupazioni, se solo decidesse di perder tempo con simili quisquilie. La ragione è che in quelle scienze vi è un criterio comune e invece in queste ciascuno ha il proprio. Nello stesso tempo, risulterà chiaro che per la filosofia sarebbe del tutto innaturale esser un’arte per guadagnarsi il pane, poiché cozza con la sua essenziale natura il doversi adattare all’opinione di chi chiede o alla legge della moda; e ci si renderà conto che soltanto il bisogno, che tiranneggia anche chi si occupa di filosofia, può forzarla a piegarsi nella forma del comune consenso.
Le scienze che io penso di insegnare e trattare compiutamente in lezioni private nel corso del semestre appena iniziato, sono le seguenti:
1. Metafisica. - In un breve saggio, redatto frettolosamente, ho tentato di mostrare come questa scienza, senza alcun riguardo per le grandi e magnanime fatiche sostenute dai dotti in suo nome, nonostante tutto, rimanga a tutt'oggi così incompleta e insicura, giacché si è disconosciuto il suo peculiare procedimento, che è non è sintetico, come quello della matematica, bensì analitico. Ne consegue che, se in geometria il concetto più semplice ed universale è anche il più facile da comprendere, in metafisica è senz'altro il più difficile: in quella per sua essenza deve costituire la premessa del discorso scientifico, in questa la conclusione. Nelle scienze matematiche si dà inizio alla teoria con le definizioni, in metafisica, invece, si finisce con esse, e così pure in altri casi. Da molto tempo il mio lavoro è improntato su questo progetto, e giacché ogni passo in tale direzione mi ha svelato le fonti degli errori e la giusta misura del giudizio, che è la sola a consentirci di evitare gli errori, almeno quelli evitabili, spero tra non molto di poter esporre per intero e con chiarezza le linee essenziali del mio insegnamento in tale materia. Nel frattempo, però, posso benissimo utilizzare, con qualche piccola modifica, il manuale del Baumgarten, che ho scelto di adottare soprattutto per la ricchezza del contenuto e la precisione del metodo, avviandolo nella direzione proposta. Pertanto, dopo una breve introduzione, comincio col prendere in esame la psicologia empirica, che in ambito metafisico rappresenta propriamente la scienza sperimentale dell'uomo. Attenzione: di proposito, ho evitato l'espressione "scienza dell'anima", dal momento che in questa sezione non siamo ancora autorizzati a sostenere che l'uomo ne abbia una. La seconda parte del programma, incentrata per consuetudine sulla natura corporea in generale, la prendo a prestito da quei capitoli della cosmologia, dove si tratta della materia; ma li completerò senz’altro aggiungendovi delle note scritte. Dal momento che la prima scienza (alla quale, per analogia, si aggiunge anche la zoologia empirica, ossia lo studio degli animali) prende in esame ogni forma di vita, che cada sotto i nostri sensi, e la seconda ogni cosa che possa dirsi, in senso lato, priva di vita, allora è possibile comprendere all’interno di queste due classi tutte le cose esistenti al mondo. Pertanto, svolte queste parti di programma, passerò all’esposizione dell’ontologia, cioè la scienza delle proprietà generali di tutte le cose, la cui conclusione racchiude la differenza tra esseri spirituali ed esseri materiali, tanto nel loro essere riuniti quanto nel loro essere separati, e quindi pure la psicologia razionale. A questo punto, avrò dalla mia il grosso vantaggio non solo di poter contare su uno studente già ben esercitato ed esperto da guidare nella più complicata tra tutte le ricerche filosofiche, ma anche di poter fare la maggiore chiarezza possibile, esaminando le questioni più astratte alla luce del concreto offertomi dalle discipline già studiate, senza esser costretto ad anticipare a mo’ di esempio parti di programma destinate ad essere svolte solo in seguito, errore comune ed inevitabile di quanti applicano alla metafisica il procedimento sintetico. Per concludere non rimane che lo studio della suprema causa, ovvero la scienza di Dio e del mondo.
Non posso fare a meno di ricordare un altro vantaggio, che, a dir la verità, si basa solamente su cause accidentali, ma non per questo è di poco conto, e che sono intenzionato a trarre da questo metodo. Si sa con quanto entusiasmo i giovani, così vivaci ed incostanti, accolgano l’inizio delle lezioni e come, col passare del tempo, l’aula diventi ogni volta un po’ più spaziosa. Ora, mi sia lecito supporre che, nonostante ammonimenti e buone intenzioni, questa spiacevole abitudine continui a manifestarsi anche in futuro: ebbene, anche in tal caso, il metodo su accennato, serba un’utilità sua propria. Difatti lo studente, il cui zelo si fosse già spento verso la fine della psicologia empirica (il che mi sembra alquanto improbabile se si segue una simile procedura didattica), avrebbe comunque ascoltato un insegnamento comprensibile per la sua facilità, gradevole per l’interesse che desta e utile per i frequenti casi di applicazione nella vita di tutti i giorni; mentre al contrario, se a scoraggiarlo dal proseguire gli studi fosse stata l’ontologia, scienza di ben difficile comprensione, quanto appreso non gli sarebbe di alcuna utilità.
2. Logica. - Di questa scienza si danno propriamente due specie. Quella della prima specie è una critica e una regola del sano intelletto in senso lato, e così, da una parte, è delimitata dai concetti più elementari e dall’ignoranza, mentre dall’altra, dalla scienza e dall’erudizione. È proprio questo il tipo di logica che, all’inizio dell’insegnamento accademico, si ha l’obbligo di premettere a tutta la filosofia, come la quarantena (se mi si passa quest’espressione) cui deve essere sottoposto il discente che intenda trasmigrare dalla landa del pregiudizio e dell’errore nel territorio della ragione illuminata e delle scienze. La seconda specie di logica rappresenta la critica e la normativa del sapere vero e proprio, e non può essere mai trattata altrimenti che dopo le scienze di cui deve essere organo, affinché il metodo che si è già utilizzato nella pratica del loro apprendimento diventi ancor più regolare e si chiarifichi ulteriormente la natura della disciplina insieme con gli strumenti del suo potenziale miglioramento.
Pertanto, a conclusione del ciclo di lezioni dedicato alla metafisica, aggiungo alcune considerazioni sul metodo che le è peculiare, come se si trattasse di un “organo” vero e proprio di questa scienza, organo che non sarebbe corretto porre al suo inizio: difatti, è impossibile definirne con chiarezza le regole quando non si hanno ancora a disposizione esempi in cui mostrarle nella loro applicazione concreta. Il maestro, certamente, deve possedere l’organo prima di insegnare la scienza, ed essere in grado di utilizzarlo in maniera appropriata; ma al suo scolaro non dev’essere insegnato se non da ultimo. La critica e i criteri normativi validi per l’intera disciplina filosofica, se la consideriamo come un tutt’uno, insomma, questa logica nella sua completezza, non può essere collocata, in ambito didattico, che al termine dell’esposizione di tutta quanta la filosofia, giacché solo le conoscenze già acquisite in essa e la storia delle umane opinioni offrono in concreto la possibilità di formulare giudizi sull’origine tanto delle sue idee giuste, quanto dei suoi errori, e di tracciare il progetto preciso, in base al quale un tale edificio della ragione dev’essere innalzato durevolmente e regolarmente.
Io tratterò la logica della prima specie, seguendo certamente il manuale del prof. Meier, il quale ha ben sotto gli occhi le distinzioni or ora tracciate, e nello stesso tempo ci dà occasione di saggiare, accanto alla cultura della ragione sottile e dotta, anche l’istruzione dell’intelletto comune sì, ma attivo e sano: quella per la vita contemplativa, questa per la vita produttiva e civile. Ed inoltre, data la strettissima parentela delle materie, si avrà occasione di gettare qualche sguardo sulla critica del gusto, ovvero l’estetica: le regole dell’una servono sempre a chiarire quelle dell’altra, e la loro contrapposizione è un mezzo assai utile per comprenderle entrambe.
3. Etica. - La filosofia morale si presta, ancor prima della metafisica, ad esser considerata sotto l’apparenza di scienza e a godere di qualche credito di fondatezza, sebbene in essa non si trovi alcun riscontro né dell’una né dell’altra cosa. E questo avviene perché il cuore umano è in grado di riconoscere, con facilità e giustezza e senza dover ricorrere ad alcuna dimostrazione razionale, la differenza tra il bene e il male nelle azioni e il conseguente giudizio sulla rettitudine morale di chi le compie, il tutto mediante quel che si chiama “sentimento”. Quindi, poiché la questione, in linea di massima, si decide in una fase che precede qualunque ragionamento, mentre in metafisica vi è tutt’altro modo di procedere, non bisogna meravigliarsi che, con una certa facilità, si lascino passare per buone ragioni valide soltanto in apparenza. Perciò, nulla è più comune del titolo di “filosofo morale”, ma ben altra cosa è riuscire a guadagnarsi sul serio tale appellativo.
Per ora tratterò la filosofia pratica generale e la dottrina delle virtù seguendo per entrambe Baumgarten. I saggi di Shaftesbury, Hutcheson e Hume, spintisi, per quanto incompleti e lacunosi, più in là d’ogni altra opera nella ricerca dei primi fondamenti d’ogni moralità, saranno integrati con quella completezza e precisione di cui difettano. E nella dottrina della virtù, indagando sempre dal punto di vista storico e filosofico quel che accade, prima di mostrare quel che deve accadere, chiarirò il metodo che si deve adottare nello studio dell’uomo, non solo quello sfigurato dalla mutevole forma impressagli dal suo stato contingente e come tale spesso misconosciuto dai filosofi, ma la natura dell’uomo, ovvero ciò che permane sempre costante ed identico, e il posto che gli compete nel quadro generale della creazione, affinché si sappia quale perfezione si addica all’essere umano nel rozzo stato di natura e quale nel civile stato di cultura, e che cosa prescriva, d’altro canto, la regola della sua condotta, allorché egli, spingendosi al di là dei confini dell’una e dell’altra, aneli a raggiungere il più alto grado della perfezione fisica o morale, ma sia da entrambe più o meno lontano. Questo metodo d’indagine morale è una bella scoperta dei nostri tempi, e se lo si valuta nella sua completezza, rimase del tutto sconosciuto agli antichi.
4. Geografia fisica. - Quando, appena iniziato il mio insegnamento accademico, mi resi conto che una grave carenza degli studenti deriva essenzialmente dal fatto che essi vengono educati innanzitutto a ragionare, senza aver ricevuto, in precedenza, sufficienti conoscenze storiche che suppliscano alla mancanza d'esperienza, feci il progetto di esporre la storia del presente stato della terra, o geografia nel senso più ampio del termine, attraverso un compendio piacevole e facile di quegli elementi che questa materia dovrebbe preparare e fornire ad una ragion pratica per risvegliarvi un vivo desiderio di ampliare sempre più le prime conoscenze apprese. Il nome che scelsi per indicare tale disciplina, ossia “geografia fisica”, deriva da quella branca del sapere sulla quale, in quel tempo, si incentrava la mia principale attenzione. Da allora ho sviluppato progressivamente questo progetto iniziale, ed ora mi propongo, restringendo ulteriormente la sezione che si occupa delle principali proprietà fisiche della terra, di guadagnare tempo per esporre con più ampio respiro quelle nozioni geografiche che giudico di maggiore utilità pubblica. Questa disciplina sarà quindi una geografia fisica, morale e politica, nella quale, innanzitutto, si passeranno in rassegna i fenomeni più rilevanti della natura attraverso i suoi tre regni, dando la precedenza, tra gli innumerevoli altri, a quelli che per la loro particolarità, o anche per l'influsso che esercitano sugli stati per mezzo del commercio o del traffico, suscitano in assoluto il maggiore interesse. La prima sezione, che si occupa di mettere in evidenza il rapporto naturale che lega tutte le terre e i mari e nel contempo svela la ragione intrinseca di tale interconnessione, è il vero fondamento di ogni storiografia, che, a voler prescindere da esso, sarebbe poco diversa dai racconti di fiabe. La seconda prende in considerazione l'uomo nella varietà delle sue proprietà naturali e nella diversità dei suoi costumi morali, riscontrabile in ogni parte del mondo. Si tratta di uno studio assai importante e stimolante nello stesso tempo, senza il quale difficilmente possono formularsi giudizi generali sull'uomo; per suo tramite, inoltre, confrontando le diverse condizioni morali, tra loro e con quelle di età più antiche, verrà a comporsi dinanzi ai nostri occhi una specie di grande mappa del genere umano. Infine, si prende in esame ciò che può esser considerato come una conseguenza dell’azione combinata delle due forze sopra menzionate, ovvero la situazione degli stati e dei popoli sulla terra, non in quanto tale situazione sia stata determinata accidentalmente dalle gesta e dalla fortuna di singoli uomini, tramite successioni al governo, conquiste territoriali o macchinazioni di stato, ma in relazione a ciò che è più stabile e consente di individuare le ragioni più profonde degli eventi storici, vale a dire la posizione geografica dei paesi, i prodotti, i costumi, il traffico, il commercio e la popolazione. La stessa riduzione, per così dire, di una scienza di così ampie prospettive in una misura più piccola, ha la sua grande utilità: solo così, infatti, si può raggiungere l’unità della conoscenza, condizione irrinunciabile se si vuol fondare un sapere a tutto tondo. Senza contare le innumerevoli risorse atte ad alimentare una conversazione brillante, su cui può fare affidamento chi possiede in abbondanza tali conoscenze, di per sé godibili, istruttive e facilmente comprensibili: come posso io, in un secolo socievole come l’attuale, trascurare questo ulteriore, concreto beneficio, tanto più che non costituisce un abbassamento per la scienza? Non è certo piacevole per una persona istruita vedersi spesso nell’imbarazzo in cui si trovò Isocrate, il quale, invitato a tenere un pur breve discorso durante un incontro sociale, dovette rispondere: Quel che io so, non si adatta, e ciò che si adatta, non lo so.
Questa è la breve relazione delle attività che intendo dedicare all’Accademia nel corso del presente semestre, relazione che ho ritenuto necessaria esporvi affinché ciascuno possa farsi un’idea del metodo al quale mi è sembrato utile apportare qualche modifica. Mihi sic usus est: Tibi, quod opus est facto, face (Terenzio).
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