In questo scritto, che risale al 1784, Kant affronta il problema di elaborare l'idea di una storia universale caratterizzata da un filo conduttore. Come egli stesso scrive: "Che con quest'idea di una storia universale avente in certo qual modo un filo conduttore a priori io abbia voluto toglier di mezzo l'elaborazione della storia propriamente detta, concepita in maniera puramente empirica, sarebbe un fraintendere la mia intenzione. La mia è solo un'idea di ciò che una mente filosofica (che del resto dovrebbe conoscere assai bene la storia) potrebbe ancora tentare da un altro punto di vista".
Dal complesso delle vicende e delle azioni umane emergono molte contraddizioni. Soltanto in un esiguo numero di casi la condotta degli uomini è tale da manifestare un po' di saggezza; più in generale, essa è costituita da "un miscuglio di stoltezza, di infantile vanità, spesso anche di infantile malvagità e mania di distruzione per cui non si sa alla fine qual concetto formulare della nostra specie così orgogliosa delle sue prerogative".
Considerato ciò, un filosofo non può presupporre di trovare negli uomini e nelle loro azioni un fine razionale, ma può solo tentare di comprendere se è possibile scoprire un disegno della natura, da cui poi si possa trarre una storia che si svolga appunto secondo un piano naturale ben determinato. In altre parole, occorre cercare di vedere se esiste, nella natura, la regolarità e la costanza di un disegno che sembra non appartenere al complesso e contraddittorio gioco delle singole azioni degli uomini.
Secondo Kant, tutte le disposizioni naturali delle creature sono destinate a giungere alla piena realizzazione, ossia al loro completo svolgimento. E' l'esperienza, cioè l'osservazione esterna ed interna di quanto avviene negli animali, a renderci consapevoli di ciò. Sarebbe assurdo, ad esempio, se un organo qualsiasi di una creatura vivente non venisse mai usato, oppure se un ordinamento non raggiungesse il suo scopo, perché sarebbe in aperta contraddizione con la dottrina teleologica della natura; e Kant ritiene che tale dottrina debba essere ammessa: "Poiché, se noi prescindiamo da questo principio fondamentale, non abbiamo più una natura regolata da leggi, ma un gioco senza scopo, e il caso sconfortante regnerebbe in luogo della guida della ragione".
Tuttavia, nell'uomo, che è la sola creatura razionale della Terra, le disposizioni naturali giungono a completa realizzazione soltanto nella specie e non nei singoli individui. Questa tesi è giustificata dal fatto che la ragione umana non procede istintivamente, ma per tentativi, attraverso l'esercizio, ed elevandosi a poco a poco "da un grado di conoscenza ad un altro". Si comprende allora come un singolo individuo, se volesse realizzare compiutamente tutte le sue disposizioni, dovrebbe vivere un tempo lunghissimo ed indefinito. Come scrive Kant, "occorre una serie indefinita di generazioni che si trasmettano l'una all'altra i loro lumi per portare i germi insiti nella nostra specie a quel grado di sviluppo che corrisponda perfettamente al suo scopo". Questa sorta di età finale deve configurarsi come la meta ultima degli sforzi dell'uomo, altrimenti tutte le sue disposizioni naturali non avrebbero alcuno scopo, ma sarebbero prive di senso.
L'impossibilità di tale mancanza di senso è provata anche dal fatto che la natura non è generosa nei confronti degli uomini: "la natura non fa nulla di superfluo e non è prodiga nell'uso dei mezzi ai suoi fini". Essa ha soltanto donato all'uomo la ragione e, fondata su questa, la libertà del volere. Così dotato, l'uomo ha dovuto sfruttare tutte le sue potenzialità per sopravvivere e per crearsi quelle condizioni concrete e quei beni superflui che gli rendono piacevole la vita stessa. Evidentemente, la scarsa generosità della natura è un mezzo grazie al quale l'uomo può sviluppare le sue varie capacità: "Infatti in questo corso di cose umane un gran numero di difficoltà attende l'uomo. Pare che la natura non si sia data la pena di farlo vivere bene, ma solo si preoccupi che egli si elevi con le sue fatiche tanto da rendersi degno, con la sua condotta, della vita e della felicità". D'altra parte, gli sforzi che ciascuna generazione compie costituiscono sempre un vantaggio per le generazioni successive, fatto questo che Kant considera "misterioso" ma anche necessario, una volta ammesso che gli uomini devono compiutamente realizzare le proprie naturali disposizioni, e che possono attuare ciò soltanto in un arco di tempo indefinito.
Per far sì che gli esseri umani, in quanto specie, realizzino tutte le loro disposizioni, la natura si serve di un mezzo, cioè del loro antagonismo in società; in altri termini, la natura si serve della "insocievole socievolezza" insita negli uomini. Da un lato, essi sono portati a vivere in società, ad unirsi ai propri simili in quanto ritengono che tale unione sia vantaggiosa per poter sviluppare tutte le proprie capacità; nel contempo, però, gli uomini tendono anche a dissociarsi dagli altri perché egoisti, perché vogliono "tutto rivolgere solo al proprio interesse". Nel comportarsi in questo modo, sono consapevoli di incorrere nella resistenza e nell'ostilità dei propri simili, ma tale opposizione costituisce lo stimolo essenziale che li spinge ad agire e a ricercare ricchezze e onori. Senza questo stimolo, gli uomini resterebbero per sempre in una condizione di serena pigrizia, senza attuare alcun progresso. La loro naturale insocievolezza, la loro tendenza alla discordia e all'egoismo costituiscono l'impulso fondamentale che li guida verso la costruzione razionale della propria esistenza, nella direzione di un distacco progressivo dall'animalità: "Per tal modo, si compiono i primi veri passi dalla barbarie alla cultura, che consiste propriamente nel valore sociale dell'uomo". A poco a poco, tutte le attività dell'uomo si sviluppano, il loro gusto si educa, e quelle che, in precedenza, erano soltanto rozze inclinazioni acquistano un valore morale; come scrive Kant, la società, da semplice "unione patologica forzata" si trasforma in un "tutto morale".
Non si tratta di un cammino semplice ed esente da dolori: la tendenza dell'uomo alla conflittualità è certamente causa di molti mali; tuttavia, questi stessi mali costituiscono a loro volta degli stimoli che spingono l'uomo ad affinare le proprie capacità nel tentativo di superarli. Le difficoltà che gli uomini incontrano nel loro percorso, e di cui essi stessi sono la causa principale, hanno quindi un risvolto positivo. In questo senso, secondo Kant si rivela "l'ordine di un saggio Creatore e non la mano di uno spirito maligno che abbia guastato o rovinato per gelosia la magnifica opera dell'universo".
Il più grande problema che la natura pone all'uomo consiste poi nella realizzazione di una perfetta società civile, in cui valga universalmente il diritto. Si è detto, infatti, che la vita in società consente all'uomo di sviluppare al meglio tutte le sue potenzialità. Scrive Kant: "Poiché, ripeto, solo in una società siffatta il supremo fine della natura, cioè lo sviluppo di tutte le facoltà, può essere nell'umanità raggiunto, la natura vuole ancora che l'umanità debba attuare da se stessa così questi come tutti gli altri fini della sua destinazione".
Allo stato di natura, l'uomo vive in una condizione di estrema precarietà ed anarchia; decide così di uscire da tale stato soltanto per motivi egoistici, per salvare la propria vita e per realizzare al meglio le proprie disposizioni. Ma l'attuazione di una perfetta costituzione politico-giuridica si rivela un compito estremamente gravoso. L'uscita dallo stato di natura, infatti, non comporta una trasformazione immediata dei più profondi istinti degli uomini. Anche in società l'uomo resta quello che è, "un animale che, se vive tra gli altri esseri della sua specie, ha bisogno di un padrone". In quanto essere razionale, l'uomo auspica che tutti siano sottoposti alle leggi, ma, trascinato dai suoi insopprimibili istinti, tende a riservare a se stesso ampi margini di libertà. Perciò necessita di un "padrone", ossia di qualcuno che lo obblighi a rispettare le regole.
D'altra parte, questo "padrone" è pur sempre un uomo, dotato dei medesimi istinti egoistici dei suoi simili, per cui ha bisogno di un padrone che lo controlli e limiti le sue pretese e la sua naturale tendenza a prevaricare. Il problema, come si può constatare, è di difficile soluzione, perché "il capo supremo deve essere giusto per se stesso e tuttavia essere un uomo...da un legno storto, come è quello di cui l'uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto. Solo l'approssimazione a quest'idea ci è imposta dalla natura". Non ci si illuda, quindi, di poter affrontare questo problema e risolverlo in maniera perfetta: occorre sempre ricordare i limiti che la natura stessa c'impone. Del resto, per attuare quella che è pur sempre un'approssimazione bisogna avere "giusti concetti" a proposito della natura di una possibile costituzione, occorre aver acquisito una grande esperienza attraverso la pratica del mondo, e infine è necessaria una buona volontà disposta ad accogliere tale costituzione.
La realizzazione di una perfetta società politicamente organizzata è quindi lo scopo fondamentale della natura nei riguardi degli uomini; si può addirittura considerare l'intera storia della specie umana come l'espressione di un disegno occulto della natura, finalizzato alla realizzazione di una costituzione politica, "come l'unica condizione di cose in cui essa può pienamente sviluppare tutte le sue disposizioni in seno all'umanità". La realizzazione di questo fine è però strettamente dipendente dalla regolamentazione giuridica dei rapporti esterni fra i vari Stati. L'egoismo che si manifesta nella condotta dei singoli uomini è infatti presente anche nei rapporti fra le nazioni. Ogni Stato tende a prevaricare, per cui l'astuzia della natura consiste nel servirsi della discordia fra i corpi politici "come di un mezzo per trarre dal loro inevitabile antagonismo una condizione di pace e di sicurezza". Nelle intenzioni della natura, le guerre sono soltanto un modo attraverso cui gli Stati possono tentare di stringere tra loro nuovi rapporti. Le guerre sono occasioni importanti affinché, attraverso la distruzione di vecchi corpi politici, e per mezzo di accordi, di leggi comuni e del riordino delle costituzioni interne, "si costituisca una condizione di cose che, in modo analogo ad una comunità civile, possa conservarsi da sé come un meccanismo autonomo".
Il cammino per giungere ad una federazione di Stati, che possa garantire la pace, è lungo e accidentato. Nel considerare la realtà dei suoi tempi, Kant sostiene che l'umanità è soltanto alla metà del suo sviluppo. Gli uomini, scrive il filosofo, sono senz'altro molto colti per quanto riguarda le conoscenze scientifiche e lo sviluppo delle arti, ma non sono moralmente progrediti. Ciò che si tende a definire "moralità", infatti, è soltanto un insieme di comportamenti che rientrano ancora nella sfera della cultura: si tratta essenzialmente del rispetto dei costumi e delle convenzioni sociali.
Grazie alla struttura razionale che ci caratterizza in quanto esseri umani, la consapevolezza del benigno disegno della natura nei nostri confronti può costituire un mezzo per tentare di accelerare questo processo. Secondo Kant, l'esperienza rivela qualche indizio di questo disegno, che quindi troverebbe nella realtà la sua stessa conferma. E prendere atto di tali indizi ci offre la possibilità di agire per accelerare il corso degli eventi. Ad esempio, la libertà civile non può essere violata senza che ne risentano tutte le attività, in modo particolare il commercio. Ciò comporta una "diminuzione delle forze dello Stato nei rapporti esterni". E' anche vero che la libertà civile sta gradualmente estendendosi, a tutto vantaggio del benessere comune; limitare quindi tale libertà, che deve poter coesistere con la libertà altrui, sarebbe un grave danno per la collettività.
A mano a mano che "le limitazioni all'attività personale saranno tolte, e che a tutti sarà riconosciuta la libertà religiosa, si produrrà per gradi, pur con intervalli di illusioni e fantasie, l'illuminismo". Secondo Kant, si tratta di un ottimo auspicio. L'illuminismo influenzerà anche i governi; certo, occorrerà tempo, e bisognerà affrontare molte difficoltà, ma, a poco a poco, ciò condurrà all'estinzione delle guerre. Alcune condizioni fanno presagire la futura federazione fra gli Stati, o, in altri termini, un ordinamento cosmopolitico, fine supremo della natura, in cui si possano sviluppare pienamente tutte le disposizioni delle creature. Le condizioni che ci fanno sperare ciò sono, ad esempio, il fatto che la guerra sta diventando un'impresa dagli esiti molto incerti, che oltretutto grava sui bilanci pubblici, e che inevitabilmente influenza anche gli Stati che non ne sono coinvolti. A causa di tutte queste ricadute, non pochi Stati si proporranno come arbitri per risolvere pacificamente le contese, preparando così l'avvento di una futura federazione che garantisca una stabile tranquillità.
Kant ammette che presentare l'idea di una storia universale caratterizzata da un filo conduttore può essere considerato anomalo, e lo scrive: "...sembra che con un tal proposito si possa solo fare un romanzo". Tuttavia, ritiene che "se è lecito ammettere che la natura, anche nel gioco della libertà umana, procede secondo un disegno e uno scopo finale, allora quest'idea potrebbe anche riuscire utile". Noi non siamo in grado di cogliere l'intima struttura della natura, ma il filo conduttore di cui si è detto può servirci almeno per rappresentarci come un sistema ordinato ciò che, diversamente, ci sembrerebbe soltanto un confuso aggregato di azioni umane. Ed è vero, ammette Kant, che l'idea di una federazione tra i popoli può apparire chimerica; però, "certo è che questa è l'inevitabile via di uscita dai mali che gli uomini si procurano a vicenda".
(Testo di riferimento: I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Torino, Utet, 1956)
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