Karl Löwith

A cura di ALDO TRUCCHIO



Karl Löwith nacque a Monaco di Baviera nel 1897. Fu allievo di Edmund Husserl e di Martin Heidegger all’Università di Friburgo, ma nel 1936 – in quanto ebreo - fu costretto a lasciare la Germania a causa delle persecuzioni razziali. Visse alcuni anni in Giappone, dove rimase affascinato dalla filosofia zen; questa filosofia prospettava all'uomo un rapporto col nulla non improntato al nichilismo, e lo sollecitava ad abbandonarsi alla natura, pensata né in termini vitalistici né irrazionalistici, ossia in maniera del tutto estranea al soggettivismo ed allo storicismo dell’Europa. Fu inoltre un acuto e critico osservatore del processo di appropriazione della scienza occidentale da parte dei paesi orientali. Nel 1941 si trasferì negli Stati Uniti e lavorò, tra l’altro, presso l’Università di Chicago. Fece ritorno in Germania nel 1952 e da allora si dedicò all’insegnamento presso l’Università di Heidelberg, città nella quale ha abitato fino alla morte, avvenuta nel 1973. Karl Löwith considera lo svolgimento del pensiero europeo come un processo di secolarizzazione della visione teologico-biblica della storia, caratterizzata a sua volta dal profetismo, dall’attesa di un "futuro escatologico", e quindi dalla possibilità che ogni evento possa essere giustificato sulla base di uno scopo finale. Tale prospettiva prometteva una impossibile conciliazione tra il logos — la razionalità — cristianizzato, e l’imprevedibile mutevolezza dell’agire umano e degli eventi naturali; la riflessione degli stessi filosofi della storia ha finito per mostrarne il fallimento, con la caduta in un relativismo storicistico e nel conseguente decisionismo politico che riempie pericolosamente il vuoto lasciato dalla perdita degli antichi valori condivisi. La vecchia Europa era stata caratterizzata da uno Spirito unitario, da una idea di umanità e di finalità legata intimamente con quella di divinità. Questa idea di fatto la opponeva al resto del mondo. A partire dalla metà del XIX secolo tale unità "civile" dell'Europa è però andata in crisi sia per fattori esterni, quali l’emergere di potenze politiche extraeuropee come Russia, Stati Uniti e Giappone; e sia per le vicende interne, cioè l’affermazione del proletariato e del nichilismo pessimista ed irrazionalista. La crisi arrivò a compimento con Hegel. In effetti egli era l’ultimo pensatore in grado di tentare ancora una neutralizzazione del contrasto tra soggetto ed oggetto, o, meglio ancora, di colmare il divario tra esistenza dell’uomo ed essere del mondo. Egli era ormai il solo in grado di fermare la fine dell’epoca cristiana della filosofia occidentale, di porre rimedio alla moderna separazione tra uomo e mondo che aveva avuto inizio con la filosofia di Cartesio. Tuttavia neppure "la forza spirituale di Hegel non ha potuto arrestare la storia di questa separazione" (Nietzsche e l’eterno ritorno). Non che egli non l'avesse tentato. Egli fece questo tentativo mostrando chiaramente l’intrinseca contraddittorietà di quei concetti e proponendone, allo stesso tempo, la conciliazione attraverso una mediazione dialettica razionale. In tal modo questa scissione — che caratterizza tutta la modernità — raggiunge il suo apice. Di fatto, uomo e mondo erano stati intellettualmente divisi. Tutto del mondo e della storia è stato frantumato e rielaborato dalla potenza negativa dell’intelletto. Tale negatività non porta ancora al nichilismo, poiché rimane in qualche modo ingabbiata all’interno del sistema grazie al concetto di Spirito, cioè alla coincidenza di razionalità e divinità cui si è accennato sopra, che tiene ancora legati filosofia e mondo, ragione e storia. Ciò nonostante, "proprio mediante la sua conciliazione Hegel ha chiarito per tutte le epoche future che l’uomo e il mondo sono separati da quando nessun dio li tiene più uniti" (Nietzsche e l’eterno ritorno). Così, quando la fede condivisa in un Dio, in dei valori, nella razionalità viene a mancare, allora il nichilismo esplode e porta alla disintegrazione di questo sistema. Sicché Löwith, in Da Hegel a Nietzsche (1941), il suo testo considerato più importante, ricostruisce il percorso che dal compimento hegeliano del pensiero occidentale, mediante l’autoassoluzione dello Spirito e la sua conciliazione con il reale, porta alla definitiva dissoluzione del mondo cristiano-borghese officiata da Marx e Kierkegaard, e poi all’esperimento nietzscheano, attraverso la trasformazione della conciliazione in critica operata dai giovani hegeliani. Questi tentarono di dilatare la portata del sistema giunto a compimento applicandolo alla realtà socio-politica:

"Riconoscendo l’insostenibilità della situazione del momento, essi rifiutarono l’universale e il passato, allo scopo di anticipare il futuro, di premere verso il determinato ed il singolo e di negare il presente". (Da Hegel a Nietzsche)

È impossibile delineare in questa sede i complessi percorsi intellettuali – ricostruiti da Löwith – dei pensatori della sinistra hegeliana e le loro riflessioni sui problemi della società borghese, del lavoro, della cultura, dell’umanità e del cristianesimo. Ma da Ludwig Feuerbach ad Arnold Ruge, da Bruno Bauer a Max Stirner, essi sono caratterizzati, non solo da "comuni atteggiamenti di opposizione" e dal loro sottrarsi "all’ordinamento borghese", ma anche dal "predominio dell’elemento storico" pur nel distacco dalla filosofia rivolta al passato, e dall’interesse per i concetti di "bisogni", "umanità" e "finitezza". Tuttavia è solo dopo Marx e Kierkegaard che verrà definitivamente meno la possibilità della mediazione razionale e spirituale, e la filosofia tedesca, ben oltre la sua fase critica, viene interamente negata: la ragione cessa di essere fondamento dell’esistenza umana e la storia ed il mondo devono essere pensati al di fuori e contro di essa.

"Il principio di Hegel, proclamante l’unità di ragione e realtà, e la realtà stessa in quanto unità di essenza ed esistenza, è infatti anche il principio di Marx. Questi si trova costretto a volgersi anzitutto in due direzioni: contro il mondo reale e contro la filosofia costituita, proprio per il fatto che vuole riunire entrambi in una comprensiva totalità di teoria e prassi. La sua teoria può divenir pratica solo come critica della situazione sussistente, come distinzione critica di realtà e idea, di essenza ed esistenza. La teoria, presentandosi sotto l’aspetto di questa critica, prepara la strada alla trasformazione pratica". (Da Hegel a Nietzsche)

Solo la prassi rivoluzionaria può porre termine all’autoalienazione dell’uomo – quale essere sociale generico –, nel mondo del lavoro e nella religione, determinata dalla proprietà privata e dall’insieme dei rapporti di produzione dominanti nella società borghese e capitalista.Al contrario

"Kierkegaard ha protestato contro quest’idea dell’esistenza sociale, poiché "nella nostra epoca" ogni specie di concatenazione – nel "sistema", nell’ "umanità" e nella "cristianità" – gli appariva come una forza livellatrice". (Da Hegel a Nietzsche)

Il filosofo danese critica aspramente Hegel poiché

"Ciò che egli intendeva dell’essere, era soltanto il suo concetto, non la sua realtà, che è ogni volta qualcosa di singolo. (…) Questa universalità dell’essere uomo, cioè l’universalmente-umano, non è stata negata da Kierkegaard, ma è da lui stata rinvenuta come realizzabile soltanto dal singolo, mentre la universalità dello spirito (Hegel) o dell’umanità (Marx) è a lui sembrata esistenzialmente nulla". (Da Hegel a Nietzsche)

All’apice della modernità, tragicamente in bilico tra due inconciliabili concezioni del tempo e del mondo, si situa il pensiero di Friedrich Nietzsche:

"(…) una caduta ed una ascesa (…) un décadent del secolo che finiva ed un "iniziatore" del secolo a venire, insomma un uomo di confine (…) un senza patria in senso eminente". (Il nichilismo europeo)

La figura di Nietzsche è importante innanzitutto perché

"Guardando indietro, egli vide in anticipo l’avvento del "nichilismo europeo", il quale proclama che dopo la caduta della fede cristiana in Dio e quindi anche della morale "nulla è più vero" ma "tutto è permesso". (Da Hegel a Nietzsche)

E quindi assunse il compito di "portar su di sé il sacrificio di delineare spiritualmente il destino dell’Europa"; ma nel pensiero di Nietzsche è possibile anche scorgere la "duplicità di significato del nichilismo, cioè dell’origine della modernità". Difatti

"Il nichilismo come tale può significare due cose, costituendo tanto un sintomo di definitiva decadenza e di disgusto verso l’esistenza, quanto per altro un primo sintomo di rafforzamento e di una nuova volontà di esistere; può quindi esserci un nichilismo della debolezza ed uno della forza". (Da Hegel a Nietzsche)

Partendo "dalla considerazione sostanziale che ci troviamo più o meno alla fine del pensiero storico moderno", Löwith si confrontò più volte con il tentativo di una "riduzione analitica di quel composto moderno che è la filosofia della storia ai suoi elementi originari". Le riflessioni su "Sapere e fede", "Creazione ed esistenza", "Il senso della storia" etc. attraversano tutto il periodo dell’insegnamento ad Heidelberg, ma già in "Significato e fine della storia" (1949) Löwith si era dedicato a dimostrare che "la moderna filosofia della storia trae origine dalla fede biblica in un compimento futuro e finisce con la secolarizzazione del suo modello escatologico", (Significato e fine della storia ) cioè con la sostituzione della fede nel progresso al posto di quella nella provvidenza; Löwith ritenne opportuno procedere a ritroso, da Burckhardt – che vide ormai nella storia solo la continuità di un processo e nulla di più –, attraverso Marx, il Positivismo, l’Idealismo tedesco, l’Illuminismo, fino ai testi biblici, "perché la storia continuamente avanza lasciando dietro di sé i presupposti storici delle elaborazioni più recenti". Anche stavolta è impossibile qui rendere conto dell’acume e della limpidezza che caratterizzano la ricostruzione löwithiana. La conclusione è che

"Gli avvenimenti storici in quanto tali non contengono il minimo riferimento ad un senso ultimo e comprensivo. La storia non ha un risultato ultimo. (…) La moderna sopravvalutazione della storia, cioè del mondo come storia, è il risultato della nostra alienazione dalla teologia naturale degli antichi e dalla teologia soprannaturale del cristianesimo. (…) Per la concezione cristiana la storia assume una importanza decisiva solo in quanto Dio stesso si è rivelato in un individuo storico". (Significato e fine della storia)

La salvezza per i cristiani è sempre individuale ed indipendente da qualsiasi contesto storico, nell’attesa del Giudizio divino: eppure questa verità della fede è stata dimenticata già con le molteplici "trasfigurazioni della teoria di Gioacchino" da Fiore, per poi essere recuperata solamente con Kierkegaard. Piuttosto:

"Il mondo dopo Cristo si è appropriato dell’aspettativa cristiana di un fine e di un compimento, e nello stesso tempo ha rifiutato la fede in un imminente éschaton". (Significato e fine della storia)

Finché è risultato evidente che

"L’impossibilità di elaborare un sistema progressivo sulla base della fede, ha la contropartita nell’impossibilità di tracciare un piano significativo della storia mediante la ragione". (Significato e fine della storia)

Questa situazione è precisamente ciò che precedentemente abbiamo chiamato nichilismo. Né la considerazione finale che solo "la natura umana persiste attraverso ogni mutamento storico" può essere d’aiuto nella difficoltà nella quale ci si è venuti a trovare. Piuttosto è da sottolineare la radicale critica – raramente esplicita, che è però accennata in molti scritti di Löwith – verso l’irrimediabile coappartenenza di logos e violenza che è il segreto, il peccato originale dell’Occidente, poiché l’applicazione di "principi cristiani alle cose del mondo" e "la fede di essere stati creati ad immagine di un Dio creatore, la speranza in un futuro regno di Dio" hanno portato ad una "disposizione spirituale" interamente rivolta al futuro, con la conseguenza di una esaltata volontà creatrice e conquistatrice, guidata dalla certezza di conoscere il fine ed il senso ultimo della storia, tanto che bisogna porsi "il problema se un tal genere di vita imperniata sull’aspettativa si accordi con una spregiudicata considerazione del mondo e della condizione umana in esso" e non sia piuttosto un’ "illusione" ed un rimedio alla "disperazione". Ma l’oggetto delle più aspre critiche di Löwith è lo storicismo, che giunge alle sue estreme conseguenze, e si assolutizza, nel pensiero di Martin Heidegger, il suo vecchio insegnante, del quale afferma che "è certamente di altissimo livello filosofico", ma anche che proprio "dal punto di vista filosofico è invece assolutamente ambiguo". Difatti, per Heidegger

"l’Esserci umano non ha solamente una storia, ma è essenzialmente storia (…) esso è costitutivamente finito, o temporale". (Il nichilismo europeo)

Ciò comporta non solo una limitazione all’attimo presente, alla "fatticità" – "ossia ciò che resta della vita quando sia stata privata di tutti i suoi contenuti"–, con la rinuncia a considerare la continuità storica, ma anche alla riduzione ai minimi termini dell’esistenza, alla soppressione di ogni responsabilità soggettiva, alla distruzione di ogni tradizione preesistente; addirittura

"Coerentemente con questa negazione di principio di tutto lo stato di cose esistente e anche di qualsiasi programma per riformarlo, Heidegger ci metteva in guardia anche contro l’erronea interpretazione e la sopravvalutazione della sua stessa opera". (Il nichilismo europeo)

Da ciò deriva l’attivismo "vuoto di contenuti" presente in molte opere heideggeriane. Quel "decidersi per se stessi" in contrasto con la vita "inautentica" ha un carattere puramente "appellativo", tanto da risultare, pericolosamente, "pura risolutezza senza scopo". Così

"non è un caso che a una filosofia esistenziale di Heidegger corrisponda in C. Schmitt un "decisionismo" politico, che trasferisce il "poter-essere-un-tutto" della esistenza propria di ciascuno alla "totalità" dello Stato proprio di ciascuno". (Il nichilismo europeo)

La "teologia senza Dio" di Heidegger (Dio del quale Heidegger non cesserà mai di auspicare il ritorno, dalla conferenza su Hölderlin del 1936 fino all’intervista con lo Spiegel del 1966), è quindi disponibile ad accettare la "durezza del destino e il rigore del lavoro" che ci si può autoimporre; e Heidegger risulta moralmente ed intellettualmente colpevole perché accettò il destino del proprio popolo così come era stato voluto dalla "decisione" di Hitler, ed addirittura lo volle legare alle sorti dell’Università, come testimoniano i discorsi e le lettere scritti durante il breve rettorato di Friburgo. Löwith concentra molto la propria attenzione su Nietzsche: scrisse il suo "Nietzsche e la teoria dell’eterno ritorno" nel 1936 e lo rielaborò ampiamente per la seconda edizione di vent’anni dopo. All’inizio degli anni quaranta, contemporanee alla stesura di "Da Hegel a Nietzsche", risalgono invece le sue note su "Il Nichilismo europeo" pubblicate postume; e in "Dio, uomo e mondo da Cartesio a Nietzsche" del 1966, l’ultimo scritto importante, vengono ripresi alcuni dei temi centrali del testo del ’36. Egli accetta esplicitamente la tesi nietzscheana del nichilismo come "malattia mortale dello spirito europeo", ma il suo interesse si rivolge piuttosto alla "dottrina dell’eterno ritorno", considerata un "progetto di un nuovo modo di vivere" e "ripristino dell’antichità (…) al culmine della modernità". Dopo l’evento della "morte di Dio", cioè la fine della pretesa di assolutezza dei valori, ciò che Nietzsche

"vide davanti a sé (…), era il mondo divenuto senza cultura di un’esistenza divenuta senza scopo, inserita senza vincoli in un mondo di forze extra-umano"

e provò a superare tale situazione tentando di

"ritrovare (…) il mondo che è già sempre esistito e che continuamente ancora diviene". (Nietzsche e l’eterno ritorno)

cioè nient’altro che l’antica visione circolare del divenire del mondo e del tempo dei Greci, così come ci è stata tramandata nel pensiero misterico di Eraclito, in contrasto con la visione lineare e finita del tempo della tradizione biblica e cristiana. In tal modo qualsiasi pretesa di valore della vita lascia il posto al volere la vita come destino, ed in tal modo risulta conciliata, o meglio, elusa, la contraddizione tra soggetto e mondo, tra

la volontà libera creatrice della storia e il fato universale e la necessità di tutto l’essere. (Significato e fine della storia)

Ciò può avvenire solo in un "momento decisivo (…) né breve né lungo, bensì un nunc stans senza tempo, cioè eterno", in un "istante supremo del compimento" nel quale "la visione dell’eternità erompe una volta per sempre".In tal modo la vita può tornare alla sua " duplice pienezza di creazione e distruzione, di gioia e di dolore, di bene e di male", poiché le comprende tutte; e "la filosofia totale di Nietzsche" è assieme "volontà di annientamento e di eternità". Qui stanno la grandezza e il fallimento della filosofia di Nietzsche. Egli ha reso esplicita l’ambiguità e la doppiezza della situazione dell’uomo moderno, ma non è riuscito a superarla (del resto, per Löwith ciò è assolutamente impossibile). Ed allora il suo stesso tentativo in tal senso indica il suo stare ancora pienamente nella tradizione teologica: difatti egli ha dovuto comunque scegliere tra mondo e soggetto, ed ha scelto per quest’ultimo, poiché la "transvalutazione di tutti i valori" ed il conseguente prospettivismo sono ancora una volta la ripetizione della potenza fondante valori del soggetto; inoltre, nonostante la ripresa di una concezione circolare del tempo atta a dissolvere l’intera visione del mondo biblico-cristiana, l’interesse primario di Nietzsche è sempre stimolato "dalla brama di futuro e la volontà di crearlo", ed in ciò rispecchia appunto la tracotanza creatrice e conquistatrice dell’Occidente cristiano:

"Tutto questo volere, creare e volere retrospettivamente è assolutamente anti-greco, anti-classico e anti-pagano; esso deriva dalla tradizione ebraico-cristiana, dalla fede che il mondo e l’uomo siano stati creati dalla volontà di Dio. Nella filosofia di Nietzsche nulla è tanto evidente quanto l’esaltazione della nostra esistenza creatrice e volitiva, creatrice attraverso un atto di volontà, come il dio dell’Antico Testamento. Per i greci la creatività dell’uomo era un’ "imitazione della natura". (Significato e fine della storia)

Martin Heidegger non rispose mai alle accuse del suo antico allievo, e sappiamo che non gradiva ribattere su questioni di natura politica o inerenti il suo passato nazista; ma la più aspra critica che sia mai stata rivolta a Karl Löwith si trova proprio in una sua lettera del 1954: "non sa pensare, ma sa solo illustrare il pensiero altrui". Ebbene, questa osservazione, apparentemente comprovata dall’assenza di un testo nel quale un Löwith maturo illustri il suo pensiero originale (escludendo, quindi, l’esordio di "L’individuo nel ruolo del prossimo" del 1928), non coglie affatto l’esigenza centrale della riflessione löwithiana, che è quella di filosofare da europeo, da occidentale e da tedesco, senza quindi rinnegare niente della continuità della tradizione del pensiero che lo precede, ma senza neanche aderire a nessun radicalismo, senza essere marxista né sionista, rifiutando l’irrazionalismo e voltando le spalle al destino nichilistico dell’Occidente, non accettando che la sua ricerca intellettuale debba limitarsi ad accompagnare il tramonto dell’Europa. Per tenersi lontano, quindi, dalla violenza del logos occidentale, Löwith si rivolse piuttosto alla natura, ad un concetto di natura ben più radicalmente antimoderno di quello nietzscheano, poiché sottratta al soggetto, alla storia ed alla comprensione della ragione, ma non per questo portatrice di istanze irrazionalistiche o vitalistiche. Piuttosto una natura non interpretata come storia, destino, creazione, e della quale la morte è una componente, ma non ciò di fronte alla quale il soggetto trova la sua autenticità: una natura, insomma, come quella dell’Ecclesiaste, ripetitiva ed ordinata, di fronte alla quale bisogna con l’atteggiamento del saggio piuttosto che con quello dell’interprete.


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