KARL KAUTSKY

 

A cura di Diego Fusaro

 


"La società capitalistica ha chiuso bottega; la sua dissoluzione è ormai solo questione di tempo; l’inarrestabile sviluppo economico porta alla bancarotta del modo di produzione capitalistico con necessità di legge naturale. La creazione di una nuova forma di società al posto di quella attuale non è piú solo qualcosa di desiderabile ma è diventata inevitabile. E sempre piú numerose e piú potenti diventano le schiere dei lavoratori nullatenenti, per i quali il modo di produzione odierno è diventato insopportabile, che non hanno nulla da perdere dal suo crollo ma tutto da guadagnare, che devono introdurre una nuova forma di società corrispondente ai loro interessi se non vogliono soccombere del tutto – e con loro però anche l’intera società di cui formano la componente piú importante " (Il programma di Erfurt).


 

KAUTSKYKarl Kautsky è il principale esponente del pensiero marxiano negli anni della Seconda Internazionale. Grazie ai suoi numerosi scritti e alla sua rivista Die neue Zeit, la sua influenza sul pensiero socialista europeo è stata a tal punto decisiva che egli è stato ribattezzato “il papa rosso”. Della sua opera si è però ben presto creata un’immagine non del tutto vera, come di un interprete dogmatico del pensiero di Marx e di Engels, responsabile di una sua cristallizzazione entro una rigida precettistica non suscettibile ad alcun movimento. A questo proposito, è significativo il fatto che egli fu anche rinominato come “defensor fidei”. Kautsky si ribellò in ogni modo a questa poco gratificante immagine di mero difensore dell’ortodossia marxista nella sua intatta originarietà.

Kautsky nasce a Praga nel 1854: nel 1871, si iscrive all’Università di Vienna e abbraccia gli ideali del socialismo, anche sull’onda degli accadimenti politici (il ’71 è l’anno della Comune di Parigi). A farlo approdare sui lidi del marxismo è la lettura del Capitale di Marx e dell’Anti-Dühring di Engels. Nella particolare interpretazione che egli darà del marxismo giocherà un ruolo fondamentale il fascino subito dalle idee del darwinismo, che Kautsky aveva conosciuto soprattutto attraverso la figura di Ernst Haeckel. In questa prospettiva, negli anni Ottanta, egli va elaborando una concezione marxista in cui rientrano molti elementi darwiniani e al cui cuore stanno due tesi: in primo luogo, Kautsky enfatizza il carattere oggettivo e deterministico delle leggi dei mutamenti sociali, considerando la fine del capitalismo e l’avvento della società marxista come l’esito inevitabile della storia; in secondo luogo, egli intende il passaggio dal capitalismo al comunismo non come il frutto di una rivoluzione a mano armata e incentrata sulla violenza, ma piuttosto come il naturale esito di un’evoluzione graduale e necessaria. Sicché, per via della prima tesi, il marxismo di Kautsky è inconciliabile con la prospettiva revisionista invalsa con Eduard Bernstein; ma per via della seconda tesi, il marxismo kautskyano è inconciliabile con le posizioni della Sinistra rivoluzionaria (Lenin, Luxemburg). In virtù di questa medianità tra il revisionismo e la Sinistra rivoluzionaria, il marxismo di Kautsky si colloca in una posizione centrista. Ad essa, il pensatore di Praga perviene attraverso un’ardua operazione teoretica: la sostituzione dell’interpretazione dialettica di marca hegeliana (proposta da Marx e da Engels come chiave di lettura del movimento storico/sociale) con una lettura del socialismo in chiave di evoluzionismo sociale, sulla scia delle posizioni positivistiche all’epoca imperanti. Crollano in questo modo la forte soggettività riconosciuta (soprattutto da Marx) alla classe operaia quale agente della storia e il riconoscimento della rottura del processo rivoluzionario: l’accento è invece posto sull’oggettività e sulla gradualità dei processi. Per questa ragione, Kautsky si rivelò sempre avverso ad ogni sorta di spontaneismo volontaristico: da quello del sindacalismo rivoluzionario a quello della Luxemburg, fino a quello di Lenin. Secondo Kautsky, infatti, il crollo del capitalismo qualcosa di necessario e oggettivo: nell’attesa che esso si verifichi, il movimento operaio non ha altro da fare se non “organizzarsi e attendere”. Il momento della rivoluzione, che non dipende affatto per Kautsky dalla lotta operaia ma solo ed esclusivamente dal corso della storia, è dunque rinviato ad un futuro non meglio identificato: non occorre adoperarsi per far avvenire ciò che avverrà necessariamente, cosicché “poiché la rivoluzione non può essere fatta a nostro arbitrio, non possiamo dire assolutamente nulla circa il tempo,le condizioni e le forme in cui essa avverrà” (Catechismo rivoluzionario, 1893). In questa prospettiva, il solo compito che spetta al partito è di alimentare il “finalismo rivoluzionario”, che mai potrebbe sorgere dalla spontaneità della coscienza proletaria. Infatti gli operai,pur subendo quotidianamente lo sfruttamento e l’oppressione, da soli non saranno mai in grado di innalzarsi ad una visione complessiva dello sviluppo sociale e dunque non potrebbero mai agire in vista dell’attuazione del socialismo. A questa visione complessiva giungono invece gli intellettuali. Il compito del partito sarà appunto quello di sintetizzare queste due componenti: il proletariato sfruttato e l’intellettuale che spiega scientificamente le origini di tale sfruttamento e che così pone le basi per superarlo. In rottura col revisionismo di Bernstein, Kautsky nega che l’emancipazione operaia possa essere ridotta al solo orizzonte di una serie di graduali riforme migliorative del sistema sociale vigente: alla Socialdemocrazia spetta il compito di guida della rivoluzione sociale che abolisce la proprietà privata dei mezzi di produzione. Ciò non comporta però indifferenza verso le lotte sociali per le riforme condotte dal proletariato: con esse, la classe operaia matura la propria coscienza di classe, sviluppa l’organizzazione e la solidarietà, migliora (in caso di successo) le proprie condizioni, si prepara psicologicamente all’avvento della futura rivoluzione. La guida del partito, del resto, svolge il fondamentale compito di impedire l’integrazione del proletariato nella società capitalistica: le riforme, affinché non si convertano pericolosamente in un’integrazione e in uno scendere a patti con la borghesia, devono secondo Kautsky assumere la forma di un’imposizione al capitalismo da parte degli operai, i quali devono rivelarsi intransigenti e non disposti a ogni possibile intesa con le altre forze politiche. È a questo punto che si pone il problema capitale del pensiero di Kautsky e che segna il suo distanziamento da Marx: quali rapporti deve intrattenere il proletariato con la borghesia? Secondo Kautsky, la futura rivoluzione sarà determinata, oltre che dal radicalizzarsi dei conflitti di classe, dall’incapacità di sopravvivere del capitalismo, che col prevalere del capitale finanziario e dei monopoli assume un atteggiamento sempre più aggressivo e autoritario, a tal punto da non poter più nemmeno accettare la conciliazione dei propri interessi col sistema democratico. Secondo Kautsky, dunque, la democrazia è destinata ad essere sempre più intessuta di valori proletari e ad essere sempre più rigettata dal capitalismo: sulla scia di queste riflessioni, il filosofo di Praga può arrivare a teorizzare la via parlamentare al socialismo. Sicché egli sostituisce, all’idea marxiana (espressa nella Critica del programma di Gotha) della dittatura del proletariato (idea recuperata ed enfatizzata dallo stesso Lenin), l’idea della conquista del proletariato, attraverso la competizione elettorale, della maggioranza parlamentare; grazie ad essa, gli operai potranno utilizzare la discussione democratica in direzione di una trasformazione socialista della società. Già nel 1892 Kautsky aveva rifiutato senza mezzi termini la contrapposizione (teorizzata da Marx) tra democrazia diretta e sistema rappresentativo dello stato moderno. Contro la tesi della distruzione dello Stato parlamentare moderno in vista della fondazione di uno Stato interamente nuovo del proletariato, Kautsky sostiene che il sistema rappresentativo parlamentare è l’esito necessario dell’evoluzione istituzionale moderna: a questo suo convincimento, egli rimarrà sempre fedele, facendone uno dei cardini della sua polemica antibolscevica. Civettando con la prefazione engelsiana alle Lotte di classe in Francia di Marx, Kautsky si era convinto che la via alla rivoluzione sarebbe stata pacifica e non violenta, contrassegnata da grandi lotte sociali e politiche di massa, seguite dall’azione parlamentare del partito. L’unica forma di violenza possibile era quella difensiva e dipendeva dalla resistenza opposta dalla classe dominante. L’esplosione, nel 1905, della rivolta in Russia e l’organizzazione di scioperi di massa in diversi Stati dell’Occidente sembrava tuttavia far tornare all’ordine del giorno il ricorso alla violenza, che nella sua prefazione prima citata Engels aveva ritenuto ormai sorpassate ed obsolete: a tal punto che Kautsky modificò la propria concezione, immaginando un possibile scontro armato tra il proletariato e lo Stato capitalistico. Ma si trattava solo di un momento della riflessione kautskyana che sarebbe presto stato abbandonato: Kautsky, infatti, tornò presto a sostenere il carattere non violento del processo rivoluzionario, come è attestato dalla dura polemica che egli condusse contro la Luxemburg. Costei sosteneva la possibilità di una rivoluzione violenta come quella russa del 1905 anche in Germania: essa sarebbe a suo avviso culminata nello sciopero di massa e nel crollo violento del capitalismo. A questa tesi, Kautsky risponde opponendo una paziente “strategia di logoramento” del potere capitalistico: tale strategia deve essere condotta tramite l’azione parlamentare, le rivendicazioni salariali e le pacifiche dimostrazioni per le strade. In quello stesso periodo, Kautsky esamina il fenomeno dell’imperialismo nei suoi rapporti con lo sviluppo monopolistico del capitalismo: se per Lenin l’imperialismo era intrinseco alla natura stessa del capitalismo, Kautsky ritiene invece che esso sia espressione di una sola componente del capitalismo: il grande capitale finanziario. Quest’ultimo, per il suo carattere di violenza e di aggressività, è contrapposto ad una buona parte del capitalismo industriale, che preferirebbe una pacifica convivenza, rapporti internazionali amichevoli, un placido sviluppo dell’economia. Da questa tesi deriva la conseguenza che bisogna assolutamente adoperarsi per una politica di disarmo: è questo il grande compito che deve assumersi la Socialdemocrazia con le sue battaglie pacifiste. L’esplodere della guerra e il fallimento dell’Internazionale socialista avrebbero però smentito le previsioni di Kautsky: per questo motivo, egli ne sarebbe uscito, per iscriversi nel 1917 al Partito socialdemocratico indipendente. Dal dopoguerra fino alla morte (1938), egli non fa altro che polemizzare senza sosta contro la Rivoluzione bolscevica e contro l’opera di Lenin, per il quale aveva in realtà mostrato all’inizio una certa simpatia. Nello scritto su La dittatura del proletariato (1918) e Terrorismo e comunismo (1919), Kautsky conferma ancora una volta la propria idea del nesso inscindibile tra democrazia parlamentare basata sul suffragio universale e socialismo. Nel 1922, Kautsky rientrò nel Partito socialdemocratico tedesco. Egli ravvisa nello scioglimento dell’assemblea costituente imposto dai Bolscevichi all’inizio del 1918 l’avvio della rivoluzione leninista verso esiti autoritari e antidemocratici, che ben presto l’avrebbero capovolta in un regime dispotico basato sull’annientamento terroristico degli avversari e sulla dittatura: una dittatura non del proletariato, ma sul proletariato da parte di una minoranza costituita da una nuova classe di funzionari destinata a creare una nuova forma di cesarismo. A queste tesi, Lenin e Trockij risposero additando Kautsky come un traditore: in realtà, il suo antibolscevismo era motivato dal suo stesso pensiero, per cui la dittatura del proletariato dovrebbe coincidere con la conquista della maggioranza in parlamento e nella società da parte degli operai. Ciò non di meno, negli anni Venti e Trenta Kautsky ha dato una svolta moderata al proprio pensiero, abbandonando l’idea della coincidenza di democrazia e socialismo e preferendole quella di una prima fase di lotta per la repubblica democratica e di una successiva fase di lotta per il socialismo. In questa prima fase, nota Kautsky, è ammissibile una forma di collaborazione con la borghesia e la formazione di un governo di coalizione. Di fronte al trionfo del totalitarismo anche in Germania, sostenne che il ripristino della democrazia (e non l’immediata realizzazione del socialismo) era l’obiettivo della lotta antifascista. Nell’ultimo periodo della sua vita, egli rigetta importanti nuclei teorici di Marx, liquidandoli come meramente utopistici e incompatibili con una prospettiva squisitamente scientifica. Nel secondo volume della sua immensa opera (La concezione materialistica della storia), egli addirittura ripudia l’idea dell’estinzione dello Stato: il superamento della divisione della società in classe non farebbe infatti cadere la divisione del lavoro e la necessità di un’organizzazione amministrativa avente al proprio cuore lo Stato. Rigettata anche la tesi marxista del crollo del capitalismo, Kautsky attribuisce allo Stato democratico moderno, nato con la Rivoluzione Francese, funzioni di intervento anche nell’organizzazione democratica, all’interno della nuova società, della produzione e della distribuzione dei beni. Molto importante fu anche la sua polemica con Bernstein, a cui Kautsky indirizzò uno scritto significativamente intitolato Bernstein e il programma socialdemocratico. Un’autocritica (1899): sostenendo la teoria del socialismo come esito necessario della crisi capitalistica, Kautsky rigetta tutte le proposte di Bernstein, mostrandone l’infondatezza. È vero che il ceto medio e le piccole imprese non sono scomparse, ma – nota Kautsky – è anche vero che su di esse è sempre maggiore il controllo esercitato dal grande capitale, il quale impedisce ai ceti medi un’autonoma espressione politica. La tesi dell’impoverimento assoluto del proletariato è secondo Kautsky un’assurdità inventata da Bernstein e sconosciuta a Marx, il quale s’è limitato a parlare di impoverimento relativo alla crescente ricchezza capitalistica.                    

 

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