K. nacque a Copenaghen il 5 maggio 1813, ultimo di sette fratelli, dalle
seconde nozze del padre (con la domestica). Quando Søren nasce il padre aveva 56
anni e la madre 44; cinque suoi fratelli morirono prima di lui. Di temperamento
malinconico, introverso e riflessivo, K. ebbe dal suo ambiente familiare un
senso di maledizione incombente, e non ebbe una giovinezza spensierata. La sua fede, molto forte, si ispirò più alla drammaticità del Crocifisso
che alla letizia dell'incontro cristiano. Come ricordano dei suoi studiosi gli
furono da subito familiari concetti come il dolore, il peccato, il sangue.
Traumatica poi fu per lui la scoperta di una colpa paterna, di cui egli
non precisa gli esatti contorni. Importante nella sua vita fu anche la rottura del fidanzamento con Regina
Olsen (da lui descritta con toni angelicati): fu lui a non voler concludere il
matrimonio, per motivi anche qui non del tutto precisati (vuoi la sua
malinconia, vuoi una, variamente interpretata, "spina nella carne",
vuoi per potersi dedicare interamente alla sua missione intellettuale, da lui
vista con toni fortemente religiosi); ma il suo ricordo continuò potentemente
ad agire in lui. K. decise di vivere da penitente, dedicandosi tutto al rapporto con
Dio e alla sua vocazione di scrittore. Nel 1841 ascoltò Schelling a
Berlino, rimanendone dapprima entusiasta (era lo Schelling della filosofia
positiva, con la sua sottolineatura dell'esistente), poi deluso. Pubblicò, spesso con pseudonimi, tra l'altro le seguenti opere: Da Hegel lo differenzia il concetto di soggettività della verità,
da intendersi non nel senso di soggettivismo, ma come valenza esistenziale del
vero: la filosofia non deve rimanere fredda e astratta sintesi sistematica,
ma deve illuminare l'esistenza. Invece la verità che interessa K. è quella che fa "comprendere se
stesso nell'esistenza" (Postilla) "se stesso": a) singolo irriducibile all'organismo
storico-statale, irriducibile a momento dello sviluppo dialettico dello
Spirito; e b) chiamato a scegliere (aut-aut), per il quale dunque la verità
non è scindibile dal bene personalmente voluto e attuato (a differenza di
Socrate); K. interpreta anche la celebre definizione tomista di verità come adaequatio
intellectus ad rem: Palando del Giudizio Universale K. immagina che su quattro che si
presenteranno al Supremo Giudice, tre non cristiani, ma con sofferente ricerca,
e uno cristiano, anzi professore universitario, ma animato dalla presuntuosa
convinzione di aver spiegato il Cristianesimo, sarà proprio quest'ultimo ad
essere nella situazione peggiore. Hegel, con la sua dialettica dell'et-et, sintetizzava gli opposti: per lui
non c'è antitesi che non possa essere riassorbita e riconciliata in una
sintesi. Parallelamente tutto il cammino della vita umana, personale e collettiva,
si snoda secondo una logica necessaria: senza che vi sia responsabilità
della libertà personale. Kierkegaard invece sottolinea con forza appunto una prospettiva incentrata
sulla persona, che si caratterizza per la possibilità di scelta libera,
e di scelta tra alternative inconciliabili. Non un et-et, che dispensa dalla
scelta un singolo visto come trascinato dall'inesorabile flusso della collettività
storica, ma un aut-aut, che impegna la persona nella sua indelegabile,
indemandabile libertà personale, in un dramma assolutamente personale,
in cui ne va del proprio destino eterno. La filosofia deve interessarsi essenzialmente dell'esistenza, e l'esistenza
può, in ultima analisi, avere tre forme, o stadi: estetico, etico e religioso.
La tripartizione kierkegaardiana può trovare delle analogie, oltre che
con il ritmo ternario che Hegel aveva ripreso da una tradizione medioevale,
con la teoria dei tre ordini di Pascal: la materia (estetica), lo spirito(etica),
la carità (religiosità). Tra uno stadio e l'altro il passaggio
non è necessario automatismo, ma salto, effettuabile solo dalla libertà
del singolo. L'uomo che vive in questa forma, l'esteta, rifiuta tutto ciò che è
impegnativo, ripetitivo, serio: L'esteta ricerca sensazioni sempre nuove, idolatrando l'istante fuggevole
che non affondi radici nel passato e non costruisca impegnativamente il futuro.
Per questo "la sua vita si disfa in una serie incoerente di episodi"
senza senso ultimo; analogamente egli rifiuta ogni legame stabile, tanto a livello
affettivo, quanto a livello sociale. Figura-simbolo della vita estetica è il Don Giovanni, il seduttore,
che non si lega mai ad una donna, ma passa senza sosta da una donna all'altra,
nessuna amando mai veramente, senza vera storia e senza prospettiva. L'esteta in tal modo fugge continuamente da sé stesso, distraendosi
nell'esteriorità (in una esteriorità alienante, si potrebbe dire),
ed è contrassegnato dalla noia (come dice Kierkegaard in Aut-aut), ed
è in fondo, lo sappia o no, disperato. È caratterizzato da stabilità, fedeltà, ripetitività:
figura-simbolo ne è il matrimonio; in questo stadio l'uomo si sottopone
a una forma, a una regola, a un impegno costante nel tempo, sceglie insomma
l'universale. Ma non si tratta ancora dello stadio che vede la realizzazione
piena dell'umano. In questo stadio soltanto l'uomo affronta fino in fondo sé stesso, quell'io di cui finora aveva censurato quegli aspetti che non
riusciva a capire e a risolvere, ossia l'angoscia e la disperazione. L'angoscia è strutturale in ogni essere umano, in quanto radicata nella
sospensione della conoscenza umana (riferita essenzialmente al futuro) tra il
sapere del puro immediato (tipicamente animale) e il sapere della totalità
concreta (angelico-divino): non è angosciato chi del futuro sa tutto
(Dio) o chi non ne sa nulla (l'animale, che vive esaurientemente nell'istante
presente). Il suo oggetto è l'indeterminatezza del futuro, il futuro
in quanto indeterminato, e in tal senso l'angoscia, il cui oggetto è
appunto l'indeterminato, differisce dalla paura, che è sempre paura di
un determinato. Se l'angoscia è relativa a ciò che potrebbe accadere, e di cui
sappiamo/non-sappiamo, nell'ambito della oggettività dei rapporti
intersoggettivi,
la disperazione è riferita alla nostra stessa soggettività. Essa
significa che l'uomo non riesce ad accettare sé stesso: dispera di essere
sé stesso. Essere sé stesso infatti non è automatico, dato
che la nostra natura è complessa, è sintesi di fattori tra loro
in dialettica, la finitezza e l'infinitezza, la necessità e la possibilità.
Normalmente gli uomini soni disperati, perché rinunciano ad essere
integralmente
sé stessi, rinunciano al loro vero io, e puntano solo su quel fattore
del proprio io che meglio riescono a controllare: chi punta sulla finitezza
(/necessità) e chi sulla infinitezza (/possibilità), gli uni buttandosi
nella sola materialità, gli altri in uno spiritualismo disincarnato e
puramente intellettuale/sentimentale. La sua vera soluzione è solo il Cristianesimo, che permette all'uomo
di guardare alla verità, complessa, di sé. Esso ci si presenta
come ineludibile problema: quell'Uomo, Cristo, pretende di essere la mia felicità,
la risposta al mio bisogno più urgente e fondamentale: non posso ignorarlo,
devo sapere se dice il vero o no. L'interesse per K., dapprima limitato all'area scandinava, si sviluppò
subito dopo la Prima Guerra mondiale, ad esempio nella cultura filosofica di
indirizzo esistenzialista (come Karl Jaspers), che a lui si ispirò, e nella
"teologia dialettica". Lucacs se ne interessò: dapprima valorizzandolo (ne L'anima e le forme,
1911), poi (ne La distruzione della ragione, 1954) criticando in
lui un irrazionalismo di stampo borghese-reazionario. Karl Löwith (Da Hegel a Nietzsche) vide in lui al contempo la
crisi del mondo cristiano-borghese, e il ritorno al Cristianesimo primitivo. Jean Wahl (Etudes kierkegaardiennes, Parigi 1938) può essere
ricordato per il suo bilancio sull'influenza di K. nella cultura francese. In Italia K. è stato studiato con attenzione, tra gli altri, da Enzo Paci e
da Luigi Pareyson (Esistenza e persona, 1950; Studi
sull'esistenzialismo, 1971); un confronto positivo col la tradizione tomista
è stato sviluppato da Cornelio Fabro. Segnaliamo, tra le altre, l'interpretazione di Abbagnano, insigne studioso,
da cui dobbiamo in questo caso dissentire. Inaccettabile ci appare la sua lettura
di Kierkegaard come di uno che per sondare tutte le possibilità avrebbe
rinunciato a scegliere, optando per una "condizione eccezionale di indecisione
e di instabilità", per cui "il centro del suo io è di
non avere un io" (3°vol. Filosofi e Filosofie nella storia,
Paravia, Torino 1986, 165); secondo Abbagnano la sua scelta di nascondersi dietro
pseudonimi starebbe ad indicare il suo non impegno a scegliere tra le diverse
possibilità. Ma in Kierkegaard troviamo un continuo invito alla scelta, da lui vista come la cosa più fondamentale della vita. Che poi il suo temperamento fosse sensibile e malinconico, e in qualche modo poco portato ad adottare decisioni nette nella propria vita, è altra questione.esposizione sintetica
vita
opere
Sul concetto di ironia
1841
Aut-aut
1843
Timore e tremore
1843
Il concetto dell'angoscia
1844
Briciole filosofiche
1844
Stadi sul cammino della vita
1845
Postille conclusive non scientifiche alla Briciole
filosofiche
1846
La malattia mortale
1849
suoi bersagli polemici:
a) la Cristianità stabilita
Kierkegaard critica il Cristianesimo
intiepidito quale era vissuto dalla Chiesa luterana del suo tempo, che aveva
dimenticato la portata radicale del Vangelo, il suo essere scandalo e
paradosso
e ne aveva fatto una comoda religione del buon senso comune, una moralità
fatta di massime razionalmente condivisibili. In particolare nel 1846 va
segnalata la sua polemica con Il Corsaro.
b) Hegel
la verità soggettiva
"la via della riflessione oggettiva trasforma il soggetto in qualcosa
di accidentale, e quindi riduce l'esistenza in qualcosa di indifferente, di
evanescente", "porta dunque al pensiero astratto". "Al suo
culmine la soggettività è svanita" .
"la passione è precisamente il culmine dell'esistenza (..). Se ci
si dimentica di essere un soggetto esistente, la passione se ne va (..), ma
il soggetto (..) diviene un'entità fantastica." (Postilla)
"succede alla maggior parte dei filosofi sistematici, riguardo ai loro
sistemi, come di chi si costruisse un castello, e poi se ne andasse a vivere
in un fienile: per conto loro essi non vivono in quell'enorme costruzione sistematica."
(Diario)
la dialettica
gli "stadi" dell'esistenza (in aut-aut)
1. estetico [tesi / pura particolarità /sensibilità
]
"chi vive esteticamente vive sempre solo nel momento"
2. etico [antitesi / pura universalità /ragione ]
Un uomo che voglia essere davvero serio, e non rigoristicamente e farisaicamente
serioso, deve infatti riconoscere che nella sua vita c'è il peccato e
ci sono quella angosce e quella disperazione che la semplice razionalità
e l'osservanza pur meticolosa di regole universali non bastano a sanare; anzi
in questo stadio l'uomo non riesce a guardare in faccia davvero la Medusa terribile
del suo proprio male. Per raggiungere la verità di sé e della
propria vita bisogna andare oltre: solo se amato da un Altro, che sia Infinita
Misericordia l'uomo può guardare davvero a sé come a un "io".
Perciò il passo ultimo della vita etica è il pentimento ,
il porsi di fronte al Dio personale che si rivela in Cristo, ma questo lo spinge
a trapassare nello stadio religioso.
c. religioso [sintesi / di universale e particolare/ fede
]
Tali aspetti non sono, per Kierkegaard, stati d'animo eccezionali e propri di certi temperamenti al limite della patologia, ma sono intrinseci strutturalmente al modo con cui ogni soggetto umano guarda a
sé e al mondo. a. ex parte obiecti l'angoscia (trattato ne Il concetto dell'angoscia)
b. ex parte subiecti la disperazione (trattato ne La malattia mortale)
Kierkegaard insiste nel presentare la fede come scandalo e paradosso: è
un salto reale oltre la semplice razionalità.
Si cresce nella verità, e nella verifica della fede, rischiando
per essa, non pretendendo di conservarla per così dire in freezer, come
pensava l'intellettualismo socratico.
INTERPRETAZIONI E EREDITÀ