Intervento su Saul Kripke, nell’ambito del corso di Filosofia del Linguaggio
A cura di Matteo Casu
Ciò di cui si parla qui
Ciò che mi propongo di fare in questo lavoro non è una presentazione del pensiero di Kripke, né della visione causale da lui proposta. Tratterò qui problemi circoscritti, che coprono però un ampio ventaglio di problematiche, inserite nella cornice comune della modalità.
Ciò di cui è necessario parlare qui
La questione è quella dei nomi propri. Il percorso di questo intervento sarà all’incirca questo: daremo un’occhiata alla visione descrittivista classica (Frege e Russell) e ai suoi sviluppi (Searle), per vedere alcune delle critiche mosse da Kripke a questa visione. Il testo di riferimento di questa prima parte sarà Nome e necessità[1], la trascrizione di alcune lezioni che Kripke tenne a Princeton nel 1970. Nella trattazione seguiremo grosso modo Kripke. Dopo, affronteremo alcuni problemi sollevati da Kripke nell’articolo Identità e necessità[2] (pubblicato originariamente nel 1971).
Come al solito, in principio era Frege...
Parte prima
Il senso oscillante
Uno dei problemi di cui Frege si accorse subito era quello della oscillazione del senso dei nomi: nel linguaggio naturale parlanti diversi possono attribuire sensi diversi allo stesso nome. Per qualcuno il senso di “Aristotele” può essere “il maestro di Alessandro Magno”, per qualcun altro “l’allievo di Platone”. In questi casi il senso sembra perdere oggettività. Come è noto, Frege non si preoccupava troppo di questo fenomeno: “queste oscillazioni- diceva- possono risultare sopportabili [...] se il significato [Bedeutung] rimane identico; pur tuttavia bisogna evitarle nell’edificio di una scienza rigorosa”[3]. L’oscillazione era causata, per Frege, da un’imprecisione del linguaggio naturale.
Anche Russell, con la sua teoria delle descrizioni, accetta la nozione di senso (anche se il problema è controverso): i nomi propri del linguaggio naturale sono abbreviazioni di descrizioni definite, le quali individuano il referente. In qualche modo, la descrizione definita è il senso del nome, in quanto ne fissa il riferimento. (Russell forse non accetterebbe il termine senso). Anche qui, se un nome abbrevia più descrizioni definite, nascono ambiguità.
Frege e Russell avevano sviluppato le loro teorie con l’intento di applicarle a linguaggi artificiali formali, come quello matematico. Ma come evitare le ambiguità di senso nel linguaggio naturale?
Una apparente via di uscita arriva con J. Searle, che propone un ampliamento e superamento della visione classica con la sua cluster theory, la teoria dell’agglomerato o del grappolo: i nomi non sono descrizioni, ma ganci a cui appendere descrizioni o proprietà. L’oscillazione del senso non è quindi un “problema”: nel linguaggio naturale il senso di un nome è sempre vago, e corrisponde a una disgiunzione di proprietà. Il riferimento tende ad essere non un oggetto preciso ma quell’oggetto che soddisfa le proprietà.
Per me, Aristotele sarà il maestro di Alessandro Magno.
Per Enrico Berti, Aristotele sarà: il maestro di Alessandro Magno, l’autore della Metafisica, l’allievo di Platone, e via (quasi) all’infinito.
Ora, prima di vedere la critica di Kripke a tale teoria, è da premettere chiaramente che per il nostro autore ci sono:
designatori rigidi (espressioni che denotano lo stesso oggetto in tutti i mondi possibili);
designatori fortemente rigidi (quando l’oggetto in questione esiste necessariamente), e, ovviamente, designatori non-rigidi.
I nomi sono designatori rigidi. In qualche modo, quando io uso un nome per riferirmi a un oggetto x, è come se scoccassi una freccia che risale la catena causale generata dal battesimo iniziale e va a colpire x, senza mediazioni di sorta. I nomi quindi non hanno un senso. (Ci potrebbero essere delle analogie con la visione dei nomi nel Tractatus di Wittgenstein, ma ci sono anche differenze[4]). Allo stesso modo, se faccio ipotesi controfattuali uso i nomi in modo rigido, e quindi posso immaginare Aristotele in un mondo nel quale non è stato allievo di Platone. (Teniamoci a mente questo...)
Secondo Kripke, la cluster theory mantiene sostanzialmente le caratteristiche della visione classica. In Nome e necessità Kripke la analizza: la teoria dell’agglomerato si regge su alcune assunzioni:
1- Ad ogni nome designante x corrisponde un agglomerato (somma logica) di proprietà F tali che A (il parlante) crede Fx;
2- A crede che alcune proprietà determinino un individuo in modo univoco;
3- se la maggioranza (“votazione”) delle F è soddisfatta da un unico oggetto y, allora y è il referente di x;
4- se la votazione non produce un unico oggetto, x non ha riferimento;
5- l’asserto “se x esiste, allora possiede la maggior parte delle F” è noto a priori ad A;
6- l’asserto esprime una verità necessaria.
Condizione generale: la spiegazione non deve essere circolare.
Kripke procede nella sua critica a questa visione, smontando le assunzioni di cui sopra[5]:
per Kripke,
la 2 è falsa: alcuni parlanti sanno di Einstein solo che “è un famoso fisico”, e di Feynman sanno la stessa cosa, e solo quella.
La condizione generale non è applicabile al linguaggio: un parlante può sapere di Einstein che è “lo scopritore della relatività”, e della relatività che è “la teoria scoperta da Einstein”. E’ circolare, ma è il nostro modo di parlare...
La 5 può sopravvivere, perché in generale è falsa ma vale nelle definizioni, che per Kripke sono contingenti a priori: per es. , uno può, chiuso nella sua stanza, decidere di battezzare una certa stella che si vede in cielo di sera con il nome “Espero”.
Ma l’assunzione “più” falsa è la 6: dal fatto che un asserto sia noto a priori, non segue che questo sia necessario.
Ritorno ad Aristotele
Kripke si lancia contro un uso che era diventato comune in filosofia: quello di usare “a priori”, “analitico”, “necessario”, “certo” come sinonimi. In particolare, Kripke sottolinea che “a priori” ≠ “necessario”.
“A priori” riguarda l’epistemologia. “Necessario” l’ontologia.
Insomma, le due opposizioni necessario/contingente (di cui si occupa l’ontologia) e a priori/a posteriori (di cui si occupa l’epistemologia) danno luogo a una matrice che prevede quattro possibilità. E queste sono tutte contemplate: esistono infatti asserti
contingenti a priori (per es. , le definizioni) e asserti
necessari a posteriori (per es. , una congettura matematica, che se è vera lo è necessariamente, ma la cui verità non è nota a priori, bensì deve essere dimostrata).
o n t o l o g i a
Necessario a priori |
Contingente a priori (Kripke: per es. le definizioni) |
Necessario a posteriori (Kripke: per es. le congetture matematiche) |
Contingente a posteriori |
e
p
i
s
t
e
m
o
l
o
g
i
a
Kripke distingue l’a priori dal necessario anche per mantenere il suo essenzialismo.
Accetta infatti la distinzione tra proprietà necessarie e contingenti, anche se non se ne serve poi molto: per lui i nomi, come già osservato, sono designatori rigidi. Significa che possiamo parlare di mondi possibili in cui, per es., Nixon non ha vinto le elezioni per la presidenza. Ma cosa facciamo, nel linguaggio, quando ci riferiamo a Nixon?
Punti di vista
Cos’è un mondo possibile? Per Wittgenstein e Carnap era semplicemente una parte delle tavole di verità; era quindi determinato da considerazioni sulla sintassi delle proposizioni in logica.
Come la vedrebbe Searle? Per lui un nome ha come referente l’oggetto che soddisfa le proprietà associate al nome. Come nella miglior tradizione empirista, i referenti (si potrebbe dire le sostanze?) sono nascosti da fasci di proprietà, o sono i fasci di proprietà stessi. Quindi un mondo possibile è popolato da individui simili a quelli del mondo attuale ma con alcune proprietà differenti. Lewis invece ipostatizza i mondi possibili dicendo che essi esistono realmente, ma sono popolati da individui che sono solo controparti di quelli del mondo attuale, quasi uguali ma dissimili per alcune proprietà e quindi, appunto, controparti. Probabilmente, nota Kripke, la visione di Lewis deriva da Leibniz: gli indiscernibili sono identici e viceversa, per cui gli individui che abitano un mondo possibile sono altri individui rispetto a quelli del mondo attuale, per il fatto che hanno alcune proprietà diverse. I nomi quindi non sarebbero designatori rigidi.
Il problema è quello del criterio di identità tra mondi: vicino alla visione descrittivista, Quine obietta a Kripke: qual è il presunto discriminante tra rigido e non-rigido? Quali sarebbero queste proprietà contingenti che possono cambiare da mondo a mondo (il fatto che Nixon sia presidente) e quali le proprietà necessarie o essenziali?
Kripke si difende: non è che uno cammina e si imbatte in un mondo possibile! E non è che noi osserviamo tali mondi con potenti cannocchiali! I filosofi hanno preso troppo sul serio la nozione di “mondo possibile”!
I mondi possibili sono da noi stipulati per parlare di situazioni controfattuali. Sono minimondi, in cui immaginiamo, per es. , Nixon che perde le elezioni. Ma questo non è una controparte, bensì proprio lui, proprio Nixon; solo immaginato da noi in un’altra situazione. Noi, nel linguaggio naturale, ci riferiamo rigidamente a Nixon, ed è per questo che possiamo immaginare lui in situazioni controfattuali.
In breve, la visione kripkeana sarebbe qualcosa di simile: c’è un battesimo iniziale, che assegna un nome (rigido) a un individuo. La rigidità del nome determina l’identità dell’individuo tra mondi. Mondi che sono solo situazioni controfattuali immaginate. Le proprietà arrivano dopo: solo dopo che noi abbiamo identificato un oggetto possiamo descriverlo.
Quando parliamo, noi non ci riferiamo a proprietà, ma a individui.
Parte seconda
Identità e necessità
In quest’articolo Kripke sostiene che un’identità, se vera, è necessariamente vera. Questo deriva dalla sua concezione dei nomi come designatori rigidi. A fine articolo, Kripke ci propone anche una critica al riduzionismo basata proprio su questa visione. Ma vediamo il percorso di Kripke:
per l’autore è chiaro che dalla legge di sostitutività (1) e dalla versione modale del principio di identità (2) segue la (3), che è la tesi dell’articolo:
(1) "x"y ((x=y ® (Fx®Fy))
(2) "x ð(x=x)
(3) "x"y (x=y ® ð x=y)
Alcuni, dice Kripke, trovano la (3) “sorprendente”. Ma quali coppie potrebbero costituire un controesempio? Non coppie di oggetti diversi, perché l’antecedente sarebbe falso. Non una coppia formata da un oggetto con se stesso, perché il conseguente sarebbe vero.
Quindi, (3) è vera.
Ora, se due costanti a e b sono designatori rigidi, se “a=b” è vero, è necessariamente vero.
Per Kripke i nomi sono designatori rigidi. Quindi, se un’identità è vera, è necessaria.
[Alcuni vedono la (3) come legge metalinguistica, che tratta nomi e non oggetti. Ma questa obiezione non ha fondamento per Kripke. Lui vuole trattare la necessità dell’identità.]
Sorge però un dubbio: consideriamo l’identità “L’autore di Amleto è colui che ha scritto Amleto”. Sembra, secondo alcuni, contingente. Sembra cioè vero che “L’autore di Amleto potrebbe non essere colui che ha scritto Amleto”. Kripke supera l’ostacolo grazie a (ironia della sorte) Russell: nell’ultimo asserto, la prima occorrenza de “l’autore di Amleto” ha ambito ampio, e la seconda ha ambito ristretto.
Altre presunte identità contingenti sarebbero asserti come “Il calore è il movimento delle molecole”. Sembra vero ma contingente. Ora, l’asserto sembra contingente solo perché a posteriori (è infatti una scoperta scientifica, non una legge logica). Ma Kripke ha già distinto contingente da a posteriori. In realtà “Il calore è il movimento delle molecole” è un asserto necessario a posteriori. (Una cosa è necessariamente identica a se stessa).
Sia chiaro, è necessario se vero. Ma se vera (e se tra designatori rigidi) siamo sicuri che l’identità è necessaria, in virtù della (3).
Critica al riduzionismo
Alcuni materialisti sostengono l’identità tra, poniamo, il dolore e un certo stato cerebrale “così e così”, cioè in generale l’identità tra stati mentali e stati cerebrali.
Il materialista nega dunque che possa esserci dolore senza quel certo stato cerebrale x.
Ora, noi possiamo pensare al dolore senza lo stato cerebrale x. [E anche il viceversa: vedi gli zombie di Chalmers]. L’identità stato mentale/stato cerebrale è quindi contingente, cioè non necessaria. Ma il materialista ammette questo.
Ora, se l’identità suddetta è contingente, significa che è falsa, in virtù della celeberrima (3).
Infatti, posto a=il dolore e b=lo stato cerebrale x:
dalla (3) segue (a=b) ® ð(a=b)
ma Øð(a=b)
e per modus tollens: Ø(a=b), cioè a≠b.
Così, dopo aver “dimostrato” la falsità del riduzionismo, Kripke ci dice: “Il prossimo argomento da trattare dovrebbe essere la mia soluzione del problema della mente e del corpo, ma io non la conosco”.
Conclusioni
Lo stesso Kripke ammette più volte che la sua non è una teoria sui nomi, nel senso che non è da lui sviluppata come tale in modo coerente e consistente. E’ però una nuova visione del problema dei nomi, e sfrutta gli sviluppi dovuti allo stesso Kripke in logica modale e in semantica modellistica.
Ci sono alcuni problemi nella visione kripkeana, ma di sicuro alcuni fenomeni del linguaggio naturale sono meglio spiegati (a livello di senso comune, ma non solo) da Kripke che non dai suoi predecessori descrittivisti. La discussione sulle modalità è del resto importante quanto difficile.
Uno spunto
Strawson ha sottolineato la differenza tra denotazione e riferimento. Se vogliamo capire meglio le teorie sopra descritte, probabilmente potrebbe essere utile considerare la teoria di Frege come una teoria del riferimento, e quella di Russell come una teoria della denotazione. E come posizionare Searle e Kripke? Qui ci viene in aiuto K. Donnellan, che distingue tra uso attributivo e uso referenziale di una descrizione. Se la cluster theory è una teoria dell’uso attributivo, la teoria di Kripke chiama in causa l’uso referenziale che noi, parlando, facciamo delle descrizioni.
Bibliografia
- S. Kripke, Nome e necessità, Bollati Boringhieri 1999.
- S. Kripke, Identità e necessità, in A. Bonomi (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Bompiani 1973.
- G. Frege, Senso e significato, in Id., Logica e aritmetica, Boringhieri 19772.
- C. Penco, Introduzione alla filosofia del linguaggio, LaTerza 2004.
- D. Marconi, Filosofia del linguaggio, Utet 1999, pp. 105-108.
- S. Kripke, Considerazioni semantiche sulla logica modale, in L. Linsky (a cura di), Riferimento e modalità, Bompiani 1974.
- M. Cerezo, On naming and Possibility in Kripke and in the Tractatus, in http://www.bu.edu/wcp/Papers/Lang/LangCere.htm, §3.
[1] S. Kripke, Nome e necessità, Bollati Boringhieri 1999.
[2] S. Kripke, Identità e necessità, in A. Bonomi (a cura di), La struttura logica del linguaggio, Bompiani 1973.
[3] G. Frege, Senso e significato, in Id., Logica e aritmetica, Boringhieri 19772.
[4] cfr. M. Cerezo, On naming and Possibility in Kripke and in the Tractatus, in http://www.bu.edu/wcp/Papers/Lang/LangCere.htm, §3.
[5] S. Kripke, Nome e necessità, Bollati Boringhieri 1999, seconda lezione.