LA DIVINA COMMEDIA
di Dante Alighieri
INFERNO
CANTO I
[Incomincia la Comedia di Dante Alleghieri di Fiorenza, ne la quale tratta de le pene e punimenti de' vizi e de' meriti e premi de le virtù. Comincia il canto primo de la prima parte la quale si chiama Inferno, nel qual l'auttore fa proemio a tutta l'opera.]
Nel mezzo del cammin di nostra
vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era
smarrita.
Ahi quanto a dir qual era è
cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la
paura!
Tant' è amara che poco è più
morte;
ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
dirò de l'altre cose ch'i'
v'ho scorte.
Io non so ben ridir com' i'
v'intrai,
tant' era pien di sonno a quel punto
che la verace via
abbandonai.
Ma poi ch'i' fui al piè d'un
colle giunto,
là dove terminava quella valle
che m'avea di paura il cor
compunto,
guardai in alto e vidi le sue
spalle
vestite già de' raggi del pianeta
che mena dritto altrui per ogne
calle.
Allor fu la paura un poco
queta,
che nel lago del cor m'era durata
la notte ch'i' passai con tanta
pieta.
E come quei che con lena
affannata,
uscito fuor del pelago a la riva,
si volge a l'acqua perigliosa
e guata,
così l'animo mio, ch'ancor
fuggiva,
si volse a retro a rimirar lo passo
che non lasciò già mai
persona viva.
Poi ch'èi posato un poco il
corpo lasso,
ripresi via per la piaggia diserta,
sì che 'l piè fermo
sempre era 'l più basso.
Ed ecco, quasi al cominciar de
l'erta,
una lonza leggiera e presta molto,
che di pel macolato era
coverta;
e non mi si partia dinanzi al
volto,
anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
ch'i' fui per ritornar più
volte vòlto.
Temp' era dal principio del
mattino,
e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
ch'eran con lui quando
l'amor divino
mosse di prima quelle cose
belle;
sì ch'a bene sperar m'era cagione
di quella fiera a la gaetta
pelle
l'ora del tempo e la dolce
stagione;
ma non sì che paura non mi desse
la vista che m'apparve d'un
leone.
Questi parea che contra me
venisse
con la test' alta e con rabbiosa fame,
sì che parea che l'aere ne
tremesse.
Ed una lupa, che di tutte
brame
sembiava carca ne la sua magrezza,
e molte genti fé già viver
grame,
questa mi porse tanto di
gravezza
con la paura ch'uscia di sua vista,
ch'io perdei la speranza de
l'altezza.
E qual è quei che volontieri
acquista,
e giugne 'l tempo che perder lo face,
che 'n tutti suoi pensier
piange e s'attrista;
tal mi fece la bestia sanza
pace,
che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
mi ripigneva là dove 'l sol
tace.
Mentre ch'i' rovinava in basso
loco,
dinanzi a li occhi mi si fu offerto
chi per lungo silenzio parea
fioco.
Quando vidi costui nel gran
diserto,
«Miserere di me», gridai a lui,
«qual che tu sii, od ombra
od omo certo!».
Rispuosemi: «Non omo, omo già
fui,
e li parenti miei furon lombardi,
mantoani per patrïa
ambedui.
Nacqui sub Iulio, ancor
che fosse tardi,
e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
nel tempo de li dèi
falsi e bugiardi.
Poeta fui, e cantai di quel
giusto
figliuol d'Anchise che venne di Troia,
poi che 'l superbo Ilïón fu
combusto.
Ma tu perché ritorni a tanta
noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch'è principio e cagion di tutta
gioia?».
«Or se' tu quel Virgilio e
quella fonte
che spandi di parlar sì largo fiume?»,
rispuos' io lui con
vergognosa fronte.
«O de li altri poeti onore e
lume,
vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
che m'ha fatto cercar lo
tuo volume.
Tu se' lo mio maestro e 'l mio
autore,
tu se' solo colui da cu' io tolsi
lo bello stilo che m'ha fatto
onore.
Vedi la bestia per cu' io mi
volsi;
aiutami da lei, famoso saggio,
ch'ella mi fa tremar le vene e i
polsi».
«A te convien tenere altro
vïaggio»,
rispuose, poi che lagrimar mi vide,
«se vuo' campar d'esto loco
selvaggio;
ché questa bestia, per la qual
tu gride,
non lascia altrui passar per la sua via,
ma tanto lo 'mpedisce
che l'uccide;
e ha natura sì malvagia e
ria,
che mai non empie la bramosa voglia,
e dopo 'l pasto ha più fame che
pria.
Molti son li animali a cui
s'ammoglia,
e più saranno ancora, infin che 'l veltro
verrà, che la farà
morir con doglia.
Questi non ciberà terra né
peltro,
ma sapïenza, amore e virtute,
e sua nazion sarà tra feltro e
feltro.
Di quella umile Italia fia
salute
per cui morì la vergine Cammilla,
Eurialo e Turno e Niso di
ferute.
Questi la caccerà per ogne
villa,
fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
là onde 'nvidia prima
dipartilla.
Ond' io per lo tuo me' penso e
discerno
che tu mi segui, e io sarò tua guida,
e trarrotti di qui per loco
etterno;
ove udirai le disperate
strida,
vedrai li antichi spiriti dolenti,
ch'a la seconda morte ciascun
grida;
e vederai color che son
contenti
nel foco, perché speran di venire
quando che sia a le beate
genti.
A le quai poi se tu vorrai
salire,
anima fia a ciò più di me degna:
con lei ti lascerò nel mio
partire;
ché quello imperador che là sù
regna,
perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
non vuol che 'n sua città
per me si vegna.
In tutte parti impera e quivi
regge;
quivi è la sua città e l'alto seggio:
oh felice colui cu' ivi
elegge!».
E io a lui: «Poeta, io ti
richeggio
per quello Dio che tu non conoscesti,
a ciò ch'io fugga questo
male e peggio,
che tu mi meni là dov' or
dicesti,
sì ch'io veggia la porta di san Pietro
e color cui tu fai cotanto
mesti».
Allor si mosse, e io li tenni dietro.
CANTO II
[Canto secondo de la prima parte ne la quale fa proemio a la prima cantica cioè a la prima parte di questo libro solamente, e in questo canto tratta l'auttore come trovò Virgilio, il quale il fece sicuro del cammino per le tre donne che di lui aveano cura ne la corte del cielo.]
Lo giorno se n'andava, e l'aere
bruno
toglieva li animai che sono in terra
da le fatiche loro; e io sol
uno
m'apparecchiava a sostener la
guerra
sì del cammino e sì de la pietate,
che ritrarrà la mente che non
erra.
O muse, o alto ingegno, or
m'aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
qui si parrà la tua
nobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi
guidi,
guarda la mia virtù s'ell' è possente,
prima ch'a l'alto passo tu
mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il
parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu
sensibilmente.
Però, se l'avversario d'ogne
male
cortese i fu, pensando l'alto effetto
ch'uscir dovea di lui, e 'l chi
e 'l quale
non pare indegno ad omo
d'intelletto;
ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
ne l'empireo ciel
per padre eletto:
la quale e 'l quale, a voler
dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u' siede il successor del
maggior Piero.
Per quest' andata onde li dai
tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale
ammanto.
Andovvi poi lo Vas
d'elezïone,
per recarne conforto a quella fede
ch'è principio a la via di
salvazione.
Ma io, perché venirvi? o chi 'l
concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono;
me degno a ciò né io né altri 'l
crede.
Per che, se del venire io
m'abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se' savio; intendi me'
ch'i' non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò
che volle
e per novi pensier cangia proposta,
sì che dal cominciar tutto
si tolle,
tal mi fec' ïo 'n quella oscura
costa,
perché, pensando, consumai la 'mpresa
che fu nel cominciar cotanto
tosta.
«S'i' ho ben la parola tua
intesa»,
rispuose del magnanimo quell' ombra,
«l'anima tua è da viltade
offesa;
la qual molte fïate l'omo
ingombra
sì che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia
quand' ombra.
Da questa tema acciò che tu ti
solve,
dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
nel primo punto che di
te mi dolve.
Io era tra color che son
sospesi,
e donna mi chiamò beata e bella,
tal che di comandare io la
richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che
la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
con angelica voce, in sua
favella:
"O anima cortese
mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto 'l mondo
lontana,
l'amico mio, e non de la
ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
sì nel cammin, che vòlt' è per
paura;
e temo che non sia già sì
smarrito,
ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
per quel ch'i' ho di lui
nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola
ornata
e con ciò c'ha mestieri al suo campare,
l'aiuta sì ch'i' ne sia
consolata.
I' son Beatrice che ti faccio
andare;
vegno del loco ove tornar disio;
amor mi mosse, che mi fa
parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor
mio,
di te mi loderò sovente a lui".
Tacette allora, e poi comincia'
io:
"O donna di virtù sola per
cui
l'umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c'ha minor li cerchi
sui,
tanto m'aggrada il tuo
comandamento,
che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi;
più non t'è uo'
ch'aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti
guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
de l'ampio loco ove tornar
tu ardi".
"Da che tu vuo' saver cotanto a
dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
"perch' i' non temo di venir
qua entro.
Temer si dee di sole quelle
cose
c'hanno potenza di fare altrui male;
de l'altre no, ché non son
paurose.
I' son fatta da Dio, sua mercé,
tale,
che la vostra miseria non mi tange,
né fiamma d'esto 'ncendio non
m'assale.
Donna è gentil nel ciel che si
compiange
di questo 'mpedimento ov' io ti mando,
sì che duro giudicio là
sù frange.
Questa chiese Lucia in suo
dimando
e disse: — Or ha bisogno il tuo fedele
di te, e io a te lo
raccomando —.
Lucia, nimica di ciascun
crudele,
si mosse, e venne al loco dov' i' era,
che mi sedea con l'antica
Rachele.
Disse: — Beatrice, loda di Dio
vera,
ché non soccorri quei che t'amò tanto,
ch'uscì per te de la volgare
schiera?
Non odi tu la pieta del suo
pianto,
non vedi tu la morte che 'l combatte
su la fiumana ove 'l mar non
ha vanto? —.
Al mondo non fur mai persone
ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
com' io, dopo cotai parole
fatte,
venni qua giù del mio beato
scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
ch'onora te e quei ch'udito
l'hanno".
Poscia che m'ebbe ragionato
questo,
li occhi lucenti lagrimando volse,
per che mi fece del venir più
presto.
E venni a te così com' ella
volse:
d'inanzi a quella fiera ti levai
che del bel monte il corto andar
ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché
restai,
perché tanta viltà nel core allette,
perché ardire e franchezza
non hai,
poscia che tai tre donne
benedette
curan di te ne la corte del cielo,
e 'l mio parlar tanto ben ti
promette?».
Quali fioretti dal notturno
gelo
chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca,
si drizzan tutti aperti
in loro stelo,
tal mi fec' io di mia virtude
stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
ch'i' cominciai come persona
franca:
«Oh pietosa colei che mi
soccorse!
e te cortese ch'ubidisti tosto
a le vere parole che ti
porse!
Tu m'hai con disiderio il cor
disposto
sì al venir con le parole tue,
ch'i' son tornato nel primo
proposto.
Or va, ch'un sol volere è
d'ambedue:
tu duca, tu segnore e tu maestro».
Così li dissi; e poi che
mosso fue,
intrai per lo cammino alto e silvestro.
CANTO III
[Canto terzo, nel quale tratta de la porta e de l'entrata de l'inferno e del fiume d'Acheronte, de la pena di coloro che vissero sanza opere di fama degne, e come il demonio Caron li trae in sua nave e come elli parlò a l'auttore; e tocca qui questo vizio ne la persona di papa Cilestino.]
'Per me si va ne la città
dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta
gente.
Giustizia mosse il mio alto
fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e 'l primo
amore.
Dinanzi a me non fuor cose
create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi
ch'intrate'.
Queste parole di colore
oscuro
vid' ïo scritte al sommo d'una porta;
per ch'io: «Maestro, il senso
lor m'è duro».
Ed elli a me, come persona
accorta:
«Qui si convien lasciare ogne sospetto;
ogne viltà convien che
qui sia morta.
Noi siam venuti al loco ov' i'
t'ho detto
che tu vedrai le genti dolorose
c'hanno perduto il ben de
l'intelletto».
E poi che la sua mano a la mia
puose
con lieto volto, ond' io mi confortai,
mi mise dentro a le segrete
cose.
Quivi sospiri, pianti e alti
guai
risonavan per l'aere sanza stelle,
per ch'io al cominciar ne
lagrimai.
Diverse lingue, orribili
favelle,
parole di dolore, accenti d'ira,
voci alte e fioche, e suon di
man con elle
facevano un tumulto, il qual
s'aggira
sempre in quell' aura sanza tempo tinta,
come la rena quando
turbo spira.
E io ch'avea d'error la testa
cinta,
dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?
e che gent' è che par nel
duol sì vinta?».
Ed elli a me: «Questo misero
modo
tegnon l'anime triste di coloro
che visser sanza 'nfamia e sanza
lodo.
Mischiate sono a quel cattivo
coro
de li angeli che non furon ribelli
né fur fedeli a Dio, ma per sé
fuoro.
Caccianli i ciel per non esser
men belli,
né lo profondo inferno li riceve,
ch'alcuna gloria i rei
avrebber d'elli».
E io: «Maestro, che è tanto
greve
a lor che lamentar li fa sì forte?».
Rispuose: «Dicerolti molto
breve.
Questi non hanno speranza di
morte,
e la lor cieca vita è tanto bassa,
che 'nvidïosi son d'ogne altra
sorte.
Fama di loro il mondo esser non
lassa;
misericordia e giustizia li sdegna:
non ragioniam di lor, ma guarda
e passa».
E io, che riguardai, vidi una
'nsegna
che girando correva tanto ratta,
che d'ogne posa mi parea
indegna;
e dietro le venìa sì lunga
tratta
di gente, ch'i' non averei creduto
che morte tanta n'avesse
disfatta.
Poscia ch'io v'ebbi alcun
riconosciuto,
vidi e conobbi l'ombra di colui
che fece per viltade il gran
rifiuto.
Incontanente intesi e certo
fui
che questa era la setta d'i cattivi,
a Dio spiacenti e a' nemici
sui.
Questi sciaurati, che mai non
fur vivi,
erano ignudi e stimolati molto
da mosconi e da vespe ch'eran
ivi.
Elle rigavan lor di sangue il
volto,
che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
da fastidiosi vermi era
ricolto.
E poi ch'a riguardar oltre mi
diedi,
vidi genti a la riva d'un gran fiume;
per ch'io dissi: «Maestro, or
mi concedi
ch'i' sappia quali sono, e qual
costume
le fa di trapassar parer sì pronte,
com' i' discerno per lo fioco
lume».
Ed elli a me: «Le cose ti fier
conte
quando noi fermerem li nostri passi
su la trista riviera
d'Acheronte».
Allor con li occhi vergognosi e
bassi,
temendo no 'l mio dir li fosse grave,
infino al fiume del parlar mi
trassi.
Ed ecco verso noi venir per
nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: «Guai a voi, anime
prave!
Non isperate mai veder lo
cielo:
i' vegno per menarvi a l'altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo
e 'n gelo.
E tu che se' costì, anima
viva,
pàrtiti da cotesti che son morti».
Ma poi che vide ch'io non mi
partiva,
disse: «Per altra via, per
altri porti
verrai a piaggia, non qui, per passare:
più lieve legno
convien che ti porti».
E 'l duca lui: «Caron, non ti
crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non
dimandare».
Quinci fuor quete le lanose
gote
al nocchier de la livida palude,
che 'ntorno a li occhi avea di
fiamme rote.
Ma quell' anime, ch'eran lasse
e nude,
cangiar colore e dibattero i denti,
ratto che 'nteser le parole
crude.
Bestemmiavano Dio e lor
parenti,
l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
di lor semenza e di
lor nascimenti.
Poi si ritrasser tutte quante
insieme,
forte piangendo, a la riva malvagia
ch'attende ciascun uom che
Dio non teme.
Caron dimonio, con occhi di
bragia
loro accennando, tutte le raccoglie;
batte col remo qualunque
s'adagia.
Come d'autunno si levan le
foglie
l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
vede a la terra tutte le
sue spoglie,
similemente il mal seme
d'Adamo
gittansi di quel lito ad una ad una,
per cenni come augel per suo
richiamo.
Così sen vanno su per l'onda
bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera
s'auna.
«Figliuol mio», disse 'l
maestro cortese,
«quelli che muoion ne l'ira di Dio
tutti convegnon qui
d'ogne paese;
e pronti sono a trapassar lo
rio,
ché la divina giustizia li sprona,
sì che la tema si volve in
disio.
Quinci non passa mai anima
buona;
e però, se Caron di te si lagna,
ben puoi sapere omai che 'l suo
dir suona».
Finito questo, la buia
campagna
tremò sì forte, che de lo spavento
la mente di sudore ancor mi
bagna.
La terra lagrimosa diede
vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun
sentimento;
e caddi come l'uom cui sonno piglia.
CANTO IV
[Canto quarto, nel quale mostra del primo cerchio de l'inferno, luogo detto Limbo, e quivi tratta de la pena de' non battezzati e de' valenti uomini, li quali moriron innanzi l'avvenimento di Gesù Cristo e non conobbero debitamente Idio; e come Iesù Cristo trasse di questo luogo molte anime.]
Ruppemi l'alto sonno ne la
testa
un greve truono, sì ch'io mi riscossi
come persona ch'è per forza
desta;
e l'occhio riposato intorno
mossi,
dritto levato, e fiso riguardai
per conoscer lo loco dov' io
fossi.
Vero è che 'n su la proda mi
trovai
de la valle d'abisso dolorosa
che 'ntrono accoglie d'infiniti
guai.
Oscura e profonda era e
nebulosa
tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
io non vi discernea alcuna
cosa.
«Or discendiam qua giù nel
cieco mondo»,
cominciò il poeta tutto smorto.
«Io sarò primo, e tu sarai
secondo».
E io, che del color mi fui
accorto,
dissi: «Come verrò, se tu paventi
che suoli al mio dubbiare esser
conforto?».
Ed elli a me: «L'angoscia de le
genti
che son qua giù, nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema
senti.
Andiam, ché la via lunga ne
sospigne».
Così si mise e così mi fé intrare
nel primo cerchio che
l'abisso cigne.
Quivi, secondo che per
ascoltare,
non avea pianto mai che di sospiri
che l'aura etterna facevan
tremare;
ciò avvenia di duol sanza
martìri,
ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
d'infanti e di femmine
e di viri.
Lo buon maestro a me: «Tu non
dimandi
che spiriti son questi che tu vedi?
Or vo' che sappi, innanzi che
più andi,
ch'ei non peccaro; e s'elli
hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch'è porta de la fede
che tu credi;
e s'e' furon dinanzi al
cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io
medesmo.
Per tai difetti, non per altro
rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in
disio».
Gran duol mi prese al cor
quando lo 'ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che 'n quel limbo
eran sospesi.
«Dimmi, maestro mio, dimmi,
segnore»,
comincia' io per volere esser certo
di quella fede che vince
ogne errore:
«uscicci mai alcuno, o per suo
merto
o per altrui, che poi fosse beato?».
E quei che 'ntese il mio parlar
coverto,
rispuose: «Io era nuovo in
questo stato,
quando ci vidi venire un possente,
con segno di vittoria
coronato.
Trasseci l'ombra del primo
parente,
d'Abèl suo figlio e quella di Noè,
di Moïsè legista e
ubidente;
Abraàm patrïarca e Davìd
re,
Israèl con lo padre e co' suoi nati
e con Rachele, per cui tanto
fé,
e altri molti, e feceli
beati.
E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
spiriti umani non eran
salvati».
Non lasciavam l'andar perch' ei
dicessi,
ma passavam la selva tuttavia,
la selva, dico, di spiriti
spessi.
Non era lunga ancor la nostra
via
di qua dal sonno, quand' io vidi un foco
ch'emisperio di tenebre
vincia.
Di lungi n'eravamo ancora un
poco,
ma non sì ch'io non discernessi in parte
ch'orrevol gente possedea
quel loco.
«O tu ch'onori scïenzïa e
arte,
questi chi son c'hanno cotanta onranza,
che dal modo de li altri li
diparte?».
E quelli a me: «L'onrata
nominanza
che di lor suona sù ne la tua vita,
grazïa acquista in ciel che
sì li avanza».
Intanto voce fu per me
udita:
«Onorate l'altissimo poeta;
l'ombra sua torna, ch'era
dipartita».
Poi che la voce fu restata e
queta,
vidi quattro grand' ombre a noi venire:
sembianz' avevan né trista
né lieta.
Lo buon maestro cominciò a
dire:
«Mira colui con quella spada in mano,
che vien dinanzi ai tre sì
come sire:
quelli è Omero poeta
sovrano;
l'altro è Orazio satiro che vene;
Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo
Lucano.
Però che ciascun meco si
convene
nel nome che sonò la voce sola,
fannomi onore, e di ciò fanno
bene».
Così vid' i' adunar la bella
scola
di quel segnor de l'altissimo canto
che sovra li altri com' aquila
vola.
Da ch'ebber ragionato insieme
alquanto,
volsersi a me con salutevol cenno,
e 'l mio maestro sorrise di
tanto;
e più d'onore ancora assai mi
fenno,
ch'e' sì mi fecer de la loro schiera,
sì ch'io fui sesto tra
cotanto senno.
Così andammo infino a la
lumera,
parlando cose che 'l tacere è bello,
sì com' era 'l parlar colà
dov' era.
Venimmo al piè d'un nobile
castello,
sette volte cerchiato d'alte mura,
difeso intorno d'un bel
fiumicello.
Questo passammo come terra
dura;
per sette porte intrai con questi savi:
giugnemmo in prato di fresca
verdura.
Genti v'eran con occhi tardi e
gravi,
di grande autorità ne' lor sembianti:
parlavan rado, con voci
soavi.
Traemmoci così da l'un de'
canti,
in loco aperto, luminoso e alto,
sì che veder si potien tutti
quanti.
Colà diritto, sovra 'l verde
smalto,
mi fuor mostrati li spiriti magni,
che del vedere in me stesso
m'essalto.
I' vidi Eletra con molti
compagni,
tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,
Cesare armato con li occhi
grifagni.
Vidi Cammilla e la
Pantasilea;
da l'altra parte vidi 'l re Latino
che con Lavina sua figlia
sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò
Tarquino,
Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
e solo, in parte, vidi 'l
Saladino.
Poi ch'innalzai un poco più le
ciglia,
vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica
famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li
fanno:
quivi vid' ïo Socrate e Platone,
che 'nnanzi a li altri più presso
li stanno;
Democrito che 'l mondo a caso
pone,
Dïogenès, Anassagora e Tale,
Empedoclès, Eraclito e
Zenone;
e vidi il buono accoglitor del
quale,
Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
Tulïo e Lino e Seneca
morale;
Euclide geomètra e
Tolomeo,
Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
Averoìs, che 'l gran comento
feo.
Io non posso ritrar di tutti a
pieno,
però che sì mi caccia il lungo tema,
che molte volte al fatto il
dir vien meno.
La sesta compagnia in due si
scema:
per altra via mi mena il savio duca,
fuor de la queta, ne l'aura
che trema.
E vegno in parte ove non è che luca.
CANTO V
[Canto quinto, nel quale mostra del secondo cerchio de l'inferno, e tratta de la pena del vizio de la lussuria ne la persona di più famosi gentili uomini.]
Così discesi del cerchio
primaio
giù nel secondo, che men loco cinghia
e tanto più dolor, che punge
a guaio.
Stavvi Minòs orribilmente, e
ringhia:
essamina le colpe ne l'intrata;
giudica e manda secondo
ch'avvinghia.
Dico che quando l'anima mal
nata
li vien dinanzi, tutta si confessa;
e quel conoscitor de le
peccata
vede qual loco d'inferno è da
essa;
cignesi con la coda tante volte
quantunque gradi vuol che giù sia
messa.
Sempre dinanzi a lui ne stanno
molte:
vanno a vicenda ciascuna al giudizio,
dicono e odono e poi son giù
volte.
«O tu che vieni al doloroso
ospizio»,
disse Minòs a me quando mi vide,
lasciando l'atto di cotanto
offizio,
«guarda com' entri e di cui tu
ti fide;
non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!».
E 'l duca mio a lui:
«Perché pur gride?
Non impedir lo suo fatale
andare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non
dimandare».
Or incomincian le dolenti
note
a farmisi sentire; or son venuto
là dove molto pianto mi
percuote.
Io venni in loco d'ogne luce
muto,
che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è
combattuto.
La bufera infernal, che mai non
resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li
molesta.
Quando giungon davanti a la
ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la
virtù divina.
Intesi ch'a così fatto
tormento
enno dannati i peccator carnali,
che la ragion sommettono al
talento.
E come li stornei ne portan
l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li
spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li
mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor
pena.
E come i gru van cantando lor
lai,
faccendo in aere di sé lunga riga,
così vid' io venir, traendo
guai,
ombre portate da la detta
briga;
per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle
genti che l'aura nera sì
gastiga?».
«La prima di color di cui
novelle
tu vuo' saper», mi disse quelli allotta,
«fu imperadrice di molte
favelle.
A vizio di lussuria fu sì
rotta,
che libito fé licito in sua legge,
per tòrre il biasmo in che era
condotta.
Ell' è Semiramìs, di cui si
legge
che succedette a Nino e fu sua sposa:
tenne la terra che 'l Soldan
corregge.
L'altra è colei che s'ancise
amorosa,
e ruppe fede al cener di Sicheo;
poi è Cleopatràs
lussurïosa.
Elena vedi, per cui tanto
reo
tempo si volse, e vedi 'l grande Achille,
che con amore al fine
combatteo.
Vedi Parìs, Tristano»; e più di
mille
ombre mostrommi e nominommi a dito,
ch'amor di nostra vita
dipartille.
Poscia ch'io ebbi 'l mio
dottore udito
nomar le donne antiche e ' cavalieri,
pietà mi giunse, e fui
quasi smarrito.
I' cominciai: «Poeta,
volontieri
parlerei a quei due che 'nsieme vanno,
e paion sì al vento
esser leggieri».
Ed elli a me: «Vedrai quando
saranno
più presso a noi; e tu allor li priega
per quello amor che i mena,
ed ei verranno».
Sì tosto come il vento a noi li
piega,
mossi la voce: «O anime affannate,
venite a noi parlar, s'altri nol
niega!».
Quali colombe dal disio
chiamate
con l'ali alzate e ferme al dolce nido
vegnon per l'aere, dal
voler portate;
cotali uscir de la schiera ov'
è Dido,
a noi venendo per l'aere maligno,
sì forte fu l'affettüoso
grido.
«O animal grazïoso e
benigno
che visitando vai per l'aere perso
noi che tignemmo il mondo di
sanguigno,
se fosse amico il re de
l'universo,
noi pregheremmo lui de la tua pace,
poi c'hai pietà del nostro
mal perverso.
Di quel che udire e che parlar
vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che 'l vento, come fa, ci
tace.
Siede la terra dove nata
fui
su la marina dove 'l Po discende
per aver pace co' seguaci
sui.
Amor, ch'al cor gentil ratto
s'apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e 'l modo
ancor m'offende.
Amor, ch'a nullo amato amar
perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non
m'abbandona.
Amor condusse noi ad una
morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor
porte.
Quand' io intesi quell' anime
offense,
china' il viso, e tanto il tenni basso,
fin che 'l poeta mi
disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh
lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso
passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla'
io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e
pio.
Ma dimmi: al tempo d'i dolci
sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi
disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior
dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa 'l tuo
dottore.
Ma s'a conoscer la prima
radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange
e dice.
Noi leggiavamo un giorno per
diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun
sospetto.
Per più fïate li occhi ci
sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel
che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato
riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia
diviso,
la bocca mi basciò tutto
tremante.
Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi
leggemmo avante».
Mentre che l'uno spirto questo
disse,
l'altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com' io
morisse.
E caddi come corpo morto cade.
CANTO VI
[Canto sesto, nel quale mostra del terzo cerchio de l'inferno e tratta del punimento del vizio de la gola, e massimamente in persona d'un fiorentino chiamato Ciacco; in confusione di tutt'i buffoni tratta del dimonio Cerbero e narra in forma di predicere più cose a divenire a la città di Fiorenza.]
Al tornar de la mente, che si
chiuse
dinanzi a la pietà d'i due cognati,
che di trestizia tutto mi
confuse,
novi tormenti e novi
tormentati
mi veggio intorno, come ch'io mi mova
e ch'io mi volga, e come
che io guati.
Io sono al terzo cerchio, de la
piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l'è
nova.
Grandine grossa, acqua tinta e
neve
per l'aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo
riceve.
Cerbero, fiera crudele e
diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è
sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba
unta e atra,
e 'l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed
iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come
cani;
de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;
volgonsi spesso i miseri
profani.
Quando ci scorse Cerbero, il
gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che
tenesse fermo.
E 'l duca mio distese le sue
spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose
canne.
Qual è quel cane ch'abbaiando
agogna,
e si racqueta poi che 'l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende
e pugna,
cotai si fecer quelle facce
lorde
de lo demonio Cerbero, che 'ntrona
l'anime sì, ch'esser vorrebber
sorde.
Noi passavam su per l'ombre che
adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par
persona.
Elle giacean per terra tutte
quante,
fuor d'una ch'a seder si levò, ratto
ch'ella ci vide passarsi
davante.
«O tu che se' per questo
'nferno tratto»,
mi disse, «riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch'io
disfatto, fatto».
E io a lui: «L'angoscia che tu
hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch'i' ti vedessi
mai.
Ma dimmi chi tu se' che 'n sì
dolente
loco se' messo, e hai sì fatta pena,
che, s'altra è maggio, nulla
è sì spiacente».
Ed elli a me: «La tua città,
ch'è piena
d'invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la
vita serena.
Voi cittadini mi chiamaste
Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi
fiacco.
E io anima trista non son
sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa». E più non fé
parola.
Io li rispuosi: «Ciacco, il tuo
affanno
mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che
verranno
li cittadin de la città
partita;
s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione
per che l'ha tanta
discordia assalita».
E quelli a me: «Dopo lunga
tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l'altra con
molta offensione.
Poi appresso convien che questa
caggia
infra tre soli, e che l'altra sormonti
con la forza di tal che
testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le
fronti,
tenendo l'altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che
n'aonti.
Giusti son due, e non vi sono
intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori
accesi».
Qui puose fine al lagrimabil
suono.
E io a lui: «Ancor vo' che mi 'nsegni
e che di più parlar mi facci
dono.
Farinata e 'l Tegghiaio, che
fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca
e li altri ch'a ben
far puoser li 'ngegni,
dimmi ove sono e fa ch'io li
conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se 'l ciel li addolcia o lo
'nferno li attosca».
E quelli: «Ei son tra l'anime
più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i
potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce
mondo,
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non
ti rispondo».
Li diritti occhi torse allora
in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de
li altri ciechi.
E 'l duca disse a me: «Più non
si desta
di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verrà la nimica
podesta:
ciascun rivederà la trista
tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch'in etterno
rimbomba».
Sì trapassammo per sozza
mistura
de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la
vita futura;
per ch'io dissi: «Maestro, esti
tormenti
crescerann' ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì
cocenti?».
Ed elli a me: «Ritorna a tua
scïenza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e
così la doglienza.
Tutto che questa gente
maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere
aspetta».
Noi aggirammo a tondo quella
strada,
parlando più assai ch'i' non ridico;
venimmo al punto dove si
digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
CANTO VII
[Canto settimo, dove si dimostra del quarto cerchio de l'inferno e alquanto del quinto; qui pone la pena del peccato de l'avarizia e del vizio de la prodigalità; e del dimonio Pluto; e quello che è fortuna.]
«Pape Satàn, pape Satàn
aleppe!»,
cominciò Pluto con la voce chioccia;
e quel savio gentil,
che tutto seppe,
disse per confortarmi: «Non ti
noccia
la tua paura; ché, poder ch'elli abbia,
non ci torrà lo scender
questa roccia».
Poi si rivolse a quella 'nfiata
labbia,
e disse: «Taci, maladetto lupo!
consuma dentro te con la tua
rabbia.
Non è sanza cagion l'andare al
cupo:
vuolsi ne l'alto, là dove Michele
fé la vendetta del superbo
strupo».
Quali dal vento le gonfiate
vele
caggiono avvolte, poi che l'alber fiacca,
tal cadde a terra la fiera
crudele.
Così scendemmo ne la quarta
lacca,
pigliando più de la dolente ripa
che 'l mal de l'universo tutto
insacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi
stipa
nove travaglie e pene quant' io viddi?
e perché nostra colpa sì ne
scipa?
Come fa l'onda là sovra
Cariddi,
che si frange con quella in cui s'intoppa,
così convien che qui
la gente riddi.
Qui vid' i' gente più
ch'altrove troppa,
e d'una parte e d'altra, con grand' urli,
voltando pesi
per forza di poppa.
Percotëansi 'ncontro; e poscia
pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
gridando: «Perché tieni?» e
«Perché burli?».
Così tornavan per lo cerchio
tetro
da ogne mano a l'opposito punto,
gridandosi anche loro ontoso
metro;
poi si volgea ciascun, quand'
era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l'altra giostra.
E io, ch'avea lo
cor quasi compunto,
dissi: «Maestro mio, or mi
dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci
questi chercuti a la
sinistra nostra».
Ed elli a me: «Tutti quanti
fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
che con misura nullo
spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro
l'abbaia,
quando vegnono a' due punti del cerchio
dove colpa contraria li
dispaia.
Questi fuor cherci, che non han
coperchio
piloso al capo, e papi e cardinali,
in cui usa avarizia il suo
soperchio».
E io: «Maestro, tra questi
cotali
dovre' io ben riconoscere alcuni
che furo immondi di cotesti
mali».
Ed elli a me: «Vano pensiero
aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
ad ogne conoscenza or li fa
bruni.
In etterno verranno a li due
cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
col pugno chiuso, e questi coi
crin mozzi.
Mal dare e mal tener lo mondo
pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
qual ella sia, parole non ci
appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la
corta buffa
d'i ben che son commessi a la fortuna,
per che l'umana gente
si rabuffa;
ché tutto l'oro ch'è sotto la
luna
e che già fu, di quest' anime stanche
non poterebbe farne posare
una».
«Maestro mio», diss' io, «or mi
dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
che è, che i ben del mondo
ha sì tra branche?».
E quelli a me: «Oh creature
sciocche,
quanta ignoranza è quella che v'offende!
Or vo' che tu mia
sentenza ne 'mbocche.
Colui lo cui saver tutto
trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
sì, ch'ogne parte ad ogne
parte splende,
distribuendo igualmente la
luce.
Similemente a li splendor mondani
ordinò general ministra e
duce
che permutasse a tempo li ben
vani
di gente in gente e d'uno in altro sangue,
oltre la difension d'i
senni umani;
per ch'una gente impera e
l'altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
che è occulto come in erba
l'angue.
Vostro saver non ha contasto a
lei:
questa provede, giudica, e persegue
suo regno come il loro li altri
dèi.
Le sue permutazion non hanno
triegue:
necessità la fa esser veloce;
sì spesso vien chi vicenda
consegue.
Quest' è colei ch'è tanto posta
in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
dandole biasmo a torto e
mala voce;
ma ella s'è beata e ciò non
ode:
con l'altre prime creature lieta
volve sua spera e beata si
gode.
Or discendiamo omai a maggior
pieta;
già ogne stella cade che saliva
quand' io mi mossi, e 'l troppo
star si vieta».
Noi ricidemmo il cerchio a
l'altra riva
sovr' una fonte che bolle e riversa
per un fossato che da lei
deriva.
L'acqua era buia assai più che
persa;
e noi, in compagnia de l'onde bige,
intrammo giù per una via
diversa.
In la palude va c'ha nome
Stige
questo tristo ruscel, quand' è disceso
al piè de le maligne piagge
grige.
E io, che di mirare stava
inteso,
vidi genti fangose in quel pantano,
ignude tutte, con sembiante
offeso.
Queste si percotean non pur con
mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
troncandosi co' denti a
brano a brano.
Lo buon maestro disse: «Figlio,
or vedi
l'anime di color cui vinse l'ira;
e anche vo' che tu per certo
credi
che sotto l'acqua è gente che
sospira,
e fanno pullular quest' acqua al summo,
come l'occhio ti dice, u'
che s'aggira.
Fitti nel limo dicon: "Tristi
fummo
ne l'aere dolce che dal sol s'allegra,
portando dentro accidïoso
fummo:
or ci attristiam ne la belletta
negra".
Quest' inno si gorgoglian ne la strozza,
ché dir nol posson con
parola integra».
Così girammo de la lorda
pozza
grand' arco, tra la ripa secca e 'l mézzo,
con li occhi vòlti a chi
del fango ingozza.
Venimmo al piè d'una torre al da sezzo.
CANTO VIII
[Canto ottavo, ove tratta del quinto cerchio de l'inferno e alquanto del sesto, e de la pena del peccato de l'ira, massimamente in persona d'uno cavaliere fiorentino chiamato messer Filippo Argenti, e del dimonio Flegias e de la palude di Stige e del pervenire a la città d'inferno detta Dite.]
Io dico, seguitando, ch'assai
prima
che noi fossimo al piè de l'alta torre,
li occhi nostri n'andar suso
a la cima
per due fiammette che i vedemmo
porre,
e un'altra da lungi render cenno,
tanto ch'a pena il potea l'occhio
tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto
'l senno;
dissi: «Questo che dice? e che risponde
quell' altro foco? e chi
son quei che 'l fenno?».
Ed elli a me: «Su per le sucide
onde
già scorgere puoi quello che s'aspetta,
se 'l fummo del pantan nol ti
nasconde».
Corda non pinse mai da sé
saetta
che sì corresse via per l'aere snella,
com' io vidi una nave
piccioletta
venir per l'acqua verso noi in
quella,
sotto 'l governo d'un sol galeoto,
che gridava: «Or se' giunta,
anima fella!».
«Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a
vòto»,
disse lo mio segnore, «a questa volta:
più non ci avrai che sol
passando il loto».
Qual è colui che grande inganno
ascolta
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
fecesi Flegïàs ne l'ira
accolta.
Lo duca mio discese ne la
barca,
e poi mi fece intrare appresso lui;
e sol quand' io fui dentro
parve carca.
Tosto che 'l duca e io nel
legno fui,
segando se ne va l'antica prora
de l'acqua più che non suol con
altrui.
Mentre noi corravam la morta
gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,
e disse: «Chi se' tu che vieni
anzi ora?».
E io a lui: «S'i' vegno, non
rimango;
ma tu chi se', che sì se' fatto brutto?».
Rispuose: «Vedi che son
un che piango».
E io a lui: «Con piangere e con
lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch'i' ti conosco, ancor sie lordo
tutto».
Allor distese al legno ambo le
mani;
per che 'l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: «Via costà con li
altri cani!».
Lo collo poi con le braccia mi
cinse;
basciommi 'l volto e disse: «Alma sdegnosa,
benedetta colei che 'n
te s'incinse!
Quei fu al mondo persona
orgogliosa;
bontà non è che sua memoria fregi:
così s'è l'ombra sua qui
furïosa.
Quanti si tegnon or là sù gran
regi
che qui staranno come porci in brago,
di sé lasciando orribili
dispregi!».
E io: «Maestro, molto sarei
vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del
lago».
Ed elli a me: «Avante che la
proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu
goda».
Dopo ciò poco vid' io quello
strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne
ringrazio.
Tutti gridavano: «A Filippo
Argenti!»;
e 'l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co'
denti.
Quivi il lasciammo, che più non
ne narro;
ma ne l'orecchie mi percosse un duolo,
per ch'io avante l'occhio
intento sbarro.
Lo buon maestro disse: «Omai,
figliuolo,
s'appressa la città c'ha nome Dite,
coi gravi cittadin, col
grande stuolo».
E io: «Maestro, già le sue
meschite
là entro certe ne la valle cerno,
vermiglie come se di foco
uscite
fossero». Ed ei mi disse: «Il
foco etterno
ch'entro l'affoca le dimostra rosse,
come tu vedi in questo
basso inferno».
Noi pur giugnemmo dentro a
l'alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
le mura mi parean che
ferro fosse.
Non sanza prima far grande
aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
«Usciteci», gridò: «qui
è l'intrata».
Io vidi più di mille in su le
porte
da ciel piovuti, che stizzosamente
dicean: «Chi è costui che sanza
morte
va per lo regno de la morta
gente?».
E 'l savio mio maestro fece segno
di voler lor parlar
segretamente.
Allor chiusero un poco il gran
disdegno
e disser: «Vien tu solo, e quei sen vada
che sì ardito intrò per
questo regno.
Sol si ritorni per la folle
strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
che li ha' iscorta sì buia
contrada».
Pensa, lettor, se io mi
sconfortai
nel suon de le parole maladette,
ché non credetti ritornarci
mai.
«O caro duca mio, che più di
sette
volte m'hai sicurtà renduta e tratto
d'alto periglio che 'ncontra mi
stette,
non mi lasciar», diss' io,
«così disfatto;
e se 'l passar più oltre ci è negato,
ritroviam l'orme
nostre insieme ratto».
E quel segnor che lì m'avea
menato,
mi disse: «Non temer; ché 'l nostro passo
non ci può tòrre alcun:
da tal n'è dato.
Ma qui m'attendi, e lo spirito
lasso
conforta e ciba di speranza buona,
ch'i' non ti lascerò nel mondo
basso».
Così sen va, e quivi
m'abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
che sì e no nel capo mi
tenciona.
Udir non potti quello ch'a lor
porse;
ma ei non stette là con essi guari,
che ciascun dentro a pruova si
ricorse.
Chiuser le porte que' nostri
avversari
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
e rivolsesi a me con
passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia
avea rase
d'ogne baldanza, e dicea ne' sospiri:
«Chi m'ha negate le
dolenti case!».
E a me disse: «Tu, perch' io
m'adiri,
non sbigottir, ch'io vincerò la prova,
qual ch'a la difension
dentro s'aggiri.
Questa lor tracotanza non è
nova;
ché già l'usaro a men segreta porta,
la qual sanza serrame ancor si
trova.
Sovr' essa vedestù la scritta
morta:
e già di qua da lei discende l'erta,
passando per li cerchi sanza
scorta,
tal che per lui ne fia la terra aperta».
CANTO IX
[Canto nono, ove tratta e dimostra de la cittade c'ha nome Dite, la qual si è nel sesto cerchio de l'inferno e vedesi messa la qualità de le pene de li eretici; e dichiara in questo canto Virgilio a Dante una questione, e rendelo sicuro dicendo sé esservi stato dentro altra fiata.]
Quel color che viltà di fuor mi
pinse
veggendo il duca mio tornare in volta,
più tosto dentro il suo novo
ristrinse.
Attento si fermò com' uom
ch'ascolta;
ché l'occhio nol potea menare a lunga
per l'aere nero e per la
nebbia folta.
«Pur a noi converrà vincer la
punga»,
cominciò el, «se non... Tal ne s'offerse.
Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!».
I' vidi ben sì com' ei
ricoperse
lo cominciar con l'altro che poi venne,
che fur parole a le
prime diverse;
ma nondimen paura il suo dir
dienne,
perch' io traeva la parola tronca
forse a peggior sentenzia che
non tenne.
«In questo fondo de la trista
conca
discende mai alcun del primo grado,
che sol per pena ha la speranza
cionca?».
Questa question fec' io; e quei
«Di rado
incontra», mi rispuose, «che di noi
faccia il cammino alcun per
qual io vado.
Ver è ch'altra fïata qua giù
fui,
congiurato da quella Eritón cruda
che richiamava l'ombre a' corpi
sui.
Di poco era di me la carne
nuda,
ch'ella mi fece intrar dentr' a quel muro,
per trarne un spirto del
cerchio di Giuda.
Quell' è 'l più basso loco e 'l
più oscuro,
e 'l più lontan dal ciel che tutto gira:
ben so 'l cammin;
però ti fa sicuro.
Questa palude che 'l gran puzzo
spira
cigne dintorno la città dolente,
u' non potemo intrare omai sanz'
ira».
E altro disse, ma non l'ho a
mente;
però che l'occhio m'avea tutto tratto
ver' l'alta torre a la cima
rovente,
dove in un punto furon dritte
ratto
tre furïe infernal di sangue tinte,
che membra feminine avieno e
atto,
e con idre verdissime eran
cinte;
serpentelli e ceraste avien per crine,
onde le fiere tempie erano
avvinte.
E quei, che ben conobbe le
meschine
de la regina de l'etterno pianto,
«Guarda», mi disse, «le feroci
Erine.
Quest' è Megera dal sinistro
canto;
quella che piange dal destro è Aletto;
Tesifón è nel mezzo»; e
tacque a tanto.
Con l'unghie si fendea ciascuna
il petto;
battiensi a palme e gridavan sì alto,
ch'i' mi strinsi al poeta
per sospetto.
«Vegna Medusa: sì 'l farem di
smalto»,
dicevan tutte riguardando in giuso;
«mal non vengiammo in Tesëo
l'assalto».
«Volgiti 'n dietro e tien lo
viso chiuso;
ché se 'l Gorgón si mostra e tu 'l vedessi,
nulla sarebbe di
tornar mai suso».
Così disse 'l maestro; ed elli
stessi
mi volse, e non si tenne a le mie mani,
che con le sue ancor non mi
chiudessi.
O voi ch'avete li 'ntelletti
sani,
mirate la dottrina che s'asconde
sotto 'l velame de li versi
strani.
E già venìa su per le torbide
onde
un fracasso d'un suon, pien di spavento,
per cui tremavano amendue le
sponde,
non altrimenti fatto che d'un
vento
impetüoso per li avversi ardori,
che fier la selva e sanz' alcun
rattento
li rami schianta, abbatte e
porta fori;
dinanzi polveroso va superbo,
e fa fuggir le fiere e li
pastori.
Li occhi mi sciolse e disse:
«Or drizza il nerbo
del viso su per quella schiuma antica
per indi ove
quel fummo è più acerbo».
Come le rane innanzi a la
nimica
biscia per l'acqua si dileguan tutte,
fin ch'a la terra ciascuna
s'abbica,
vid' io più di mille anime
distrutte
fuggir così dinanzi ad un ch'al passo
passava Stige con le
piante asciutte.
Dal volto rimovea quell' aere
grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell' angoscia parea
lasso.
Ben m'accorsi ch'elli era da
ciel messo,
e volsimi al maestro; e quei fé segno
ch'i' stessi queto ed
inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di
disdegno!
Venne a la porta e con una verghetta
l'aperse, che non v'ebbe
alcun ritegno.
«O cacciati del ciel, gente
dispetta»,
cominciò elli in su l'orribil soglia,
«ond' esta oltracotanza
in voi s'alletta?
Perché recalcitrate a quella
voglia
a cui non puote il fin mai esser mozzo,
e che più volte v'ha
cresciuta doglia?
Che giova ne le fata dar di
cozzo?
Cerbero vostro, se ben vi ricorda,
ne porta ancor pelato il mento e
'l gozzo».
Poi si rivolse per la strada
lorda,
e non fé motto a noi, ma fé sembiante
d'omo cui altra cura stringa
e morda
che quella di colui che li è
davante;
e noi movemmo i piedi inver' la terra,
sicuri appresso le parole
sante.
Dentro li 'ntrammo sanz' alcuna
guerra;
e io, ch'avea di riguardar disio
la condizion che tal fortezza
serra,
com' io fui dentro, l'occhio
intorno invio:
e veggio ad ogne man grande campagna,
piena di duolo e di
tormento rio.
Sì come ad Arli, ove Rodano
stagna,
sì com' a Pola, presso del Carnaro
ch'Italia chiude e suoi termini
bagna,
fanno i sepulcri tutt' il loco
varo,
così facevan quivi d'ogne parte,
salvo che 'l modo v'era più
amaro;
ché tra li avelli fiamme erano
sparte,
per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede
verun' arte.
Tutti li lor coperchi eran
sospesi,
e fuor n'uscivan sì duri lamenti,
che ben parean di miseri e
d'offesi.
E io: «Maestro, quai son quelle
genti
che, seppellite dentro da quell' arche,
si fan sentir coi sospiri
dolenti?».
E quelli a me: «Qui son li
eresïarche
con lor seguaci, d'ogne setta, e molto
più che non credi son le
tombe carche.
Simile qui con simile è
sepolto,
e i monimenti son più e men caldi».
E poi ch'a la man destra si
fu vòlto,
passammo tra i martìri e li alti spaldi.
CANTO X
[Canto decimo, ove tratta del sesto cerchio de l'inferno e de la pena de li eretici, e in forma d'indovinare in persona di messer Farinata predice molte cose e di quelle che avvennero a Dante, e solve una questione.]
Ora sen va per un secreto
calle,
tra 'l muro de la terra e li martìri,
lo mio maestro, e io dopo le
spalle.
«O virtù somma, che per li empi
giri
mi volvi», cominciai, «com' a te piace,
parlami, e sodisfammi a' miei
disiri.
La gente che per li sepolcri
giace
potrebbesi veder? già son levati
tutt' i coperchi, e nessun guardia
face».
E quelli a me: «Tutti saran
serrati
quando di Iosafàt qui torneranno
coi corpi che là sù hanno
lasciati.
Suo cimitero da questa parte
hanno
con Epicuro tutti suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta
fanno.
Però a la dimanda che mi
faci
quinc' entro satisfatto sarà tosto,
e al disio ancor che tu mi
taci».
E io: «Buon duca, non tegno
riposto
a te mio cuor se non per dicer poco,
e tu m'hai non pur mo a ciò
disposto».
«O Tosco che per la città del
foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo
loco.
La tua loquela ti fa
manifesto
di quella nobil patrïa natio,
a la qual forse fui troppo
molesto».
Subitamente questo suono
uscìo
d'una de l'arche; però m'accostai,
temendo, un poco più al duca
mio.
Ed el mi disse: «Volgiti! Che
fai?
Vedi là Farinata che s'è dritto:
da la cintola in sù tutto 'l
vedrai».
Io avea già il mio viso nel suo
fitto;
ed el s'ergea col petto e con la fronte
com' avesse l'inferno a
gran dispitto.
E l'animose man del duca e
pronte
mi pinser tra le sepulture a lui,
dicendo: «Le parole tue sien
conte».
Com' io al piè de la sua tomba
fui,
guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,
mi dimandò: «Chi fuor li
maggior tui?».
Io ch'era d'ubidir
disideroso,
non gliel celai, ma tutto gliel' apersi;
ond' ei levò le
ciglia un poco in suso;
poi disse: «Fieramente furo
avversi
a me e a miei primi e a mia parte,
sì che per due fïate li
dispersi».
«S'ei fur cacciati, ei tornar
d'ogne parte»,
rispuos' io lui, «l'una e l'altra fïata;
ma i vostri non
appreser ben quell' arte».
Allor surse a la vista
scoperchiata
un'ombra, lungo questa, infino al mento:
credo che s'era in
ginocchie levata.
Dintorno mi guardò, come
talento
avesse di veder s'altri era meco;
e poi che 'l sospecciar fu tutto
spento,
piangendo disse: «Se per questo
cieco
carcere vai per altezza d'ingegno,
mio figlio ov' è? e perché non è
teco?».
E io a lui: «Da me stesso non
vegno:
colui ch'attende là, per qui mi mena
forse cui Guido vostro ebbe a
disdegno».
Le sue parole e 'l modo de la
pena
m'avean di costui già letto il nome;
però fu la risposta così
piena.
Di sùbito drizzato gridò:
«Come?
dicesti "elli ebbe"? non viv' elli ancora?
non fiere li occhi suoi
lo dolce lume?».
Quando s'accorse d'alcuna
dimora
ch'io facëa dinanzi a la risposta,
supin ricadde e più non parve
fora.
Ma quell' altro magnanimo, a
cui posta
restato m'era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua
costa;
e sé continüando al primo
detto,
«S'elli han quell' arte», disse, «male appresa,
ciò mi tormenta più
che questo letto.
Ma non cinquanta volte fia
raccesa
la faccia de la donna che qui regge,
che tu saprai quanto quell'
arte pesa.
E se tu mai nel dolce mondo
regge,
dimmi: perché quel popolo è sì empio
incontr' a' miei in ciascuna
sua legge?».
Ond' io a lui: «Lo strazio e 'l
grande scempio
che fece l'Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel
nostro tempio».
Poi ch'ebbe sospirando il capo
mosso,
«A ciò non fu' io sol», disse, «né certo
sanza cagion con li altri
sarei mosso.
Ma fu' io solo, là dove
sofferto
fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,
colui che la difesi a viso
aperto».
«Deh, se riposi mai vostra
semenza»,
prega' io lui, «solvetemi quel nodo
che qui ha 'nviluppata mia
sentenza.
El par che voi veggiate, se ben
odo,
dinanzi quel che 'l tempo seco adduce,
e nel presente tenete altro
modo».
«Noi veggiam, come quei c'ha
mala luce,
le cose», disse, «che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende
il sommo duce.
Quando s'appressano o son,
tutto è vano
nostro intelletto; e s'altri non ci apporta,
nulla sapem di
vostro stato umano.
Però comprender puoi che tutta
morta
fia nostra conoscenza da quel punto
che del futuro fia chiusa la
porta».
Allor, come di mia colpa
compunto,
dissi: «Or direte dunque a quel caduto
che 'l suo nato è co'
vivi ancor congiunto;
e s'i' fui, dianzi, a la
risposta muto,
fate i saper che 'l fei perché pensava
già ne l'error che
m'avete soluto».
E già 'l maestro mio mi
richiamava;
per ch'i' pregai lo spirto più avaccio
che mi dicesse chi con
lu' istava.
Dissemi: «Qui con più di mille
giaccio:
qua dentro è 'l secondo Federico
e 'l Cardinale; e de li altri mi
taccio».
Indi s'ascose; e io inver'
l'antico
poeta volsi i passi, ripensando
a quel parlar che mi parea
nemico.
Elli si mosse; e poi, così
andando,
mi disse: «Perché se' tu sì smarrito?».
E io li sodisfeci al suo
dimando.
«La mente tua conservi quel
ch'udito
hai contra te», mi comandò quel saggio;
«e ora attendi qui», e
drizzò 'l dito:
«quando sarai dinanzi al dolce
raggio
di quella il cui bell' occhio tutto vede,
da lei saprai di tua vita
il vïaggio».
Appresso mosse a man sinistra
il piede:
lasciammo il muro e gimmo inver' lo mezzo
per un sentier ch'a
una valle fiede,
che 'nfin là sù facea spiacer suo lezzo.
CANTO XI
[Canto undecimo, nel quale tratta de' tre cerchi disotto d'inferno, e distingue de le genti che dentro vi sono punite, e che quivi più che altrove; e solve una questione.]
In su l'estremità d'un'alta
ripa
che facevan gran pietre rotte in cerchio,
venimmo sopra più crudele
stipa;
e quivi, per l'orribile
soperchio
del puzzo che 'l profondo abisso gitta,
ci raccostammo, in
dietro, ad un coperchio
d'un grand' avello, ov' io vidi
una scritta
che dicea: 'Anastasio papa guardo,
lo qual trasse Fotin de la
via dritta'.
«Lo nostro scender conviene
esser tardo,
sì che s'ausi un poco in prima il senso
al tristo fiato; e
poi no i fia riguardo».
Così 'l maestro; e io «Alcun
compenso»,
dissi lui, «trova che 'l tempo non passi
perduto». Ed elli:
«Vedi ch'a ciò penso».
«Figliuol mio, dentro da
cotesti sassi»,
cominciò poi a dir, «son tre cerchietti
di grado in grado,
come que' che lassi.
Tutti son pien di spirti
maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista,
intendi come e perché son
costretti.
D'ogne malizia, ch'odio in
cielo acquista,
ingiuria è 'l fine, ed ogne fin cotale
o con forza o con
frode altrui contrista.
Ma perché frode è de l'uom
proprio male,
più spiace a Dio; e però stan di sotto
li frodolenti, e più
dolor li assale.
Di vïolenti il primo cerchio è
tutto;
ma perché si fa forza a tre persone,
in tre gironi è distinto e
costrutto.
A Dio, a sé, al prossimo si
pòne
far forza, dico in loro e in lor cose,
come udirai con aperta
ragione.
Morte per forza e ferute
dogliose
nel prossimo si danno, e nel suo avere
ruine, incendi e tollette
dannose;
onde omicide e ciascun che mal
fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
lo giron primo per diverse
schiere.
Puote omo avere in sé man
vïolenta
e ne' suoi beni; e però nel secondo
giron convien che sanza pro
si penta
qualunque priva sé del vostro
mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
e piange là dov' esser de'
giocondo.
Puossi far forza ne la
deïtade,
col cor negando e bestemmiando quella,
e spregiando natura e sua
bontade;
e però lo minor giron
suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
e chi, spregiando Dio col cor,
favella.
La frode, ond' ogne coscïenza è
morsa,
può l'omo usare in colui che 'n lui fida
e in quel che fidanza non
imborsa.
Questo modo di retro par
ch'incida
pur lo vinco d'amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo
s'annida
ipocresia, lusinghe e chi
affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile
lordura.
Per l'altro modo quell' amor
s'oblia
che fa natura, e quel ch'è poi aggiunto,
di che la fede spezïal si
cria;
onde nel cerchio minore, ov' è
'l punto
de l'universo in su che Dite siede,
qualunque trade in etterno è
consunto».
E io: «Maestro, assai chiara
procede
la tua ragione, e assai ben distingue
questo baràtro e 'l popol
ch'e' possiede.
Ma dimmi: quei de la palude
pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
e che s'incontran con
sì aspre lingue,
perché non dentro da la città
roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
e se non li ha, perché sono a
tal foggia?».
Ed elli a me «Perché tanto
delira»,
disse, «lo 'ngegno tuo da quel che sòle?
o ver la mente dove
altrove mira?
Non ti rimembra di quelle
parole
con le quai la tua E