L’insostenibile leggerezza dell’Essere

 

Di Antonietta Pistone

 

 

La leggerezza dell’essere è insostenibile, dice Milan Kundera nel suo romanzo omonimo, perché è uno schermo dietro cui nascondere la reale essenza della vita: la pesantezza esistenziale. Essa è una distrazione in senso lato dalle più pressanti cure proprie dell’uomo che vive. Poiché distrae ed allontana dalla realtà è il nocciolo della futilità di quanto, si pensa, possa colmare un vuoto eterno ed affatto ineliminabile, perciò ontologico. Ci si getta a capofitto nello stordimento totale dei sensi e della mente  per dimenticarsi. Ma quando tale alienazione dal mondo concreto viene finalmente raggiunta, ci si accorge del vuoto in cui volontariamente si è precipitati. E l’abisso si distende più orrido innanzi. Ciò che si voleva fuggire adesso inghiotte. Tale leggerezza è insostenibile perché nevrotica. In qualunque modo e luogo si è sempre malati. Molto più se per malattia si intende non il guasto come tale, ma l’aggiustamento precario di un equilibrio sconvolto. L’essere parziale, finito, non può aprirsi a comprendere tutto per poi distendersi sopra. L’amplesso con la totalità gli è negato. La mente non viaggia oltre le dimensioni del limite che la uccide: brancola nel buio e soffoca per claustrofobia. L’uscita dal caos della nevrosi, dalla scomposta posizione mentale in cui si rischia di perdersi come essere pensante, per recuperare la propria capacità riflessiva sul mondo, paga lo scotto dell’esatto opposto della leggerezza frivola e scontenta di sé: la pesantezza. Tutto diventa oggetto di ponderata pianificazione, e l’essere razionale non ha tregua. La vita si erge in forme comprensibili di esasperata sterilità e freddezza; di insopportabile noia, laddove il più cauto uso della fantasia creatrice si infrange sullo scoglio della dura ragione. Non si è meno angosciati di prima. Finitezza e limiti impongono una scelta: o l’estro o l’intelletto. E gli estremi talvolta non si toccano. La condizione che ne deriva è di maggiore alienazione ed ossessione. La scelta ragionata o sentita, calcolata o vissuta, non dà scampo né pace. Dove il richiamo è forte l’uno e l’altro estremo lasciano spazio alla disperata desolazione. Conseguenza immediata è la ricerca di mediazione. Ma l’equilibro non è naturale, bisogna imporselo, e non ci sono limiti segnati. Tutto è devoluto alla responsabilità di chi decide di vivere, e di farlo in un certo modo. La perdita di identità che oggi si lamenta deriva dallo sconcerto del volgersi attorno. Dal prendere atto che ogni scelta è personale, ogni limite individuale, ogni abisso profondo in modo del tutto incomprensibile da un altro. Vanità e forza si sfiorano e si camminano accanto, e non si comprende fino a che punto si uniscano o si separino. Nella vita concreta la scelta adulta rappresenta il raggiunto equilibrio tra passione e ragione. Ma non ci sono equilibri permanenti. Tutto è sempre in discussione, e ogni atto deve acquistare un volto nuovo. Perdere di significato per acquisire di senso. Smarrirsi per ritrovarsi. L’esistenza è perenne dubbio, perenne ricerca, perenne acquisizione di verità, messa in discussione da un nuovo dubbio che produce altra ricerca. La vita ha un processo circolare, di ritorno, dove il vecchio si confonde col nuovo, il presente si copre di passato, ed i tre tempi si fondono nella ricerca senza certezze di chi vive in bilico, come su una corda: attirato indietro e spinto avanti da una forza che non sa dominare. La vita è nevrotica perché finita. Se così non fosse il suo corso sarebbe rettilineo, invece è a spirale: e quella spirale  è la storia, il tempo, l’attimo in cui si è gettati, come sostiene Heidegger ne’ L’abbandono. Ma come comprendere se il cerchio si allarga o si restringe col trascorrere del tempo, fino a raggiungere un punto, tempuscolo che contiene l’eterno, infinitesimo in esso astratto, donde si precipita oltre l’estensione che è il punto, e che nel punto si contrae? Gettati nel tempo, ed oltre quel punto in cui termina l’estensione, per lasciare spazio all’infinito, dove ogni forma in esso contenuta si annulla nel suo contenente…la vita è una beffa! Un gioco in cui l’eterno ride del tempo senza dominio. La morte riporta al principio di realtà chi crede eterna la propria esistenza. Perché rappresenta il termine ultimo del finito. Ciononostante non si è mai stanchi di credere, di sperare, di lottare, di gioire, di amare e di soffrire. Qualora si pongano obiettivi ragionevolmente possibili si lotta per la loro realizzazione, in libertà e responsabilità. Si sceglie ancora una volta la pesantezza, la fatica, l’impegno per prodursi. Ma anche la pesantezza è sopportabile fino ad un certo punto, e si ricade nella insostenibile leggerezza. L’esistenza si arricchisce nel movimento, e l’uomo si carica di dubbi, incertezze, precarietà, scelte. La libertà è sia la possibilità di scegliere, non solo tra due differenti alternative, che lo sforzo di ergersi signori e padroni della propria vita, ed essendo la vita costante posizione di precarietà, scegliendosi si elige il proprio essere precario, finito, e si decide di acquisire ogni giorno sempre di più la consapevolezza di un’esistenza limitata, e l’impegno che porta insita in sé la responsabilità di crescere, assumendosi la pesantezza. Anche qui il movimento è possibile, ma solo entro i limiti di un’esistenza adulta e matura, e perciò rassegnata a fruire delle scelte possibili e convenienti ad una libertà che non erige a suo sistema ciò che piace, ma solo ciò che si addice. Scelte radicalmente libere sono quelle in cui la libertà si incontra con i limiti insiti nella determinazione finita di ogni atto che spinga, ancora una volta, a dire di sì alla vita.

Antonietta Pistone

Docente di storia e filosofia

Articolo edito sul Provinciale di Foggia, anno XVI-n.1, gennaio 2004 


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