Giacomo Leopardi
Operette morali
DIALOGO DELLA TERRA E DELLA LUNA
Terra. Cara Luna, io so che tu puoi parlare e rispondere; per essere
una persona; secondo che ho inteso molte volte da' poeti: oltre che i nostri
fanciulli dicono che tu veramente hai bocca, naso e occhi, come ognuno di loro;
e che lo veggono essi cogli occhi propri; che in quell'età ragionevolmente
debbono essere acutissimi. Quanto a me, non dubito che tu non sappi che io sono
né più né meno una persona; tanto che, quando era più giovane, feci molti
figliuoli: sicché non ti maraviglierai di sentirmi parlare. Dunque, Luna mia
bella, con tutto che io ti sono stata vicina per tanti secoli, che non mi
ricordo il numero, io non ti ho fatto mai parola insino adesso, perché le
faccende mi hanno tenuta occupata in modo, che non mi avanzava tempo da
chiacchierare. Ma oggi che i miei negozi sono ridotti a poca cosa, anzi posso
dire che vanno co' loro piedi; io non so che mi fare, e scoppio di noia: però fo
conto, in avvenire, di favellarti spesso, e darmi molto pensiero dei fatti tuoi;
quando non abbia a essere con tua molestia.
Luna. Non dubitare di
cotesto. Così la fortuna mi salvi da ogni altro incomodo, come io sono sicura
che tu non me ne darai. Se ti pare di favellarmi, favellami a tuo piacere; che
quantunque amica del silenzio, come credo che tu sappi, io t'ascolterò e ti
risponderò volentieri, per farti servigio.
Terra. Senti tu questo
suono piacevolissimo che fanno i corpi celesti coi loro moti?
Luna. A
dirti il vero, io non sento nulla.
Terra. Né pur io sento nulla,
fuorché lo strepito del vento che va da' miei poli all'equatore, e dall'equatore
ai poli, e non mostra saper niente di musica. Ma Pitagora dice che le sfere
celesti fanno un certo suono così dolce ch'è una maraviglia; e che anche tu vi
hai la tua parte, e sei l'ottava corda di questa lira universale: ma che io sono
assordata dal suono stesso, e però non l'odo.
Luna. Anch'io senza
fallo sono assordata; e, come ho detto, non l'odo: e non so di essere una
corda.
Terra. Dunque mutiamo proposito. Dimmi: sei tu popolata
veramente, come affermano e giurano mille filosofi antichi e moderni, da Orfeo
sino al De la Lande? Ma io per quanto mi sforzi di allungare queste mie corna,
che gli uomini chiamano monti e picchi; colla punta delle quali ti vengo
mirando, a uso di lumacone; non arrivo a scoprire in te nessun abitante: se bene
odo che un cotal Davide Fabricio, che vedeva meglio di Linceo, ne scoperse una
volta certi, che spandevano un bucato al sole.
Luna. Delle tue corna
io non so che dire. Fatto sta che io sono abitata.
Terra. Di che
colore sono cotesti uomini?
Luna. Che uomini?
Terra. Quelli
che tu contieni. Non dici tu d'essere abitata?
Luna. Sì, e per
questo?
Terra. E per questo non saranno già tutte bestie gli
abitatori tuoi.
Luna. Né bestie né uomini; che io non so che razze di
creature si sieno né gli uni né l'altre. E già di parecchie cose che tu mi sei
venuta accennando, in proposito, a quel che io stimo, degli uomini, io non ho
compreso un'acca.
Terra. Ma che sorte di popoli sono
coteste?
Luna. Moltissime e diversissime, che tu non conosci, come io
non conosco le tue.
Terra. Cotesto mi riesce strano in modo, che se io
non l'udissi da te medesima, io non lo crederei per nessuna cosa del mondo.
Fosti tu mai conquistata da niuno de' tuoi?
Luna. No, che io sappia. E
come? e perché?
Terra. Per ambizione, per cupidigia dell'altrui, colle
arti politiche, colle armi. Luna. Io non so che voglia dire armi,
ambizione, arti politiche, in somma niente di quel che tu dici.
Terra.
Ma certo, se tu non conosci le armi, conosci pure la guerra: perché, poco
dianzi, un fisico di quaggiù, con certi cannocchiali, che sono instrumenti fatti
per vedere molto lontano, ha scoperto costì una bella fortezza, co' suoi
bastioni diritti; che è segno che le tue genti usano, se non altro, gli assedi e
le battaglie murali.
Luna. Perdona, monna Terra, se io ti rispondo un
poco più liberamente che forse non converrebbe a una tua suddita o fantesca,
come io sono. Ma in vero che tu mi riesci peggio che vanerella a pensare che
tutte le cose di qualunque parte del mondo sieno conformi alle tue; come se la
natura non avesse avuto altra intenzione che di copiarti puntualmente da per
tutto. Io dico di essere abitata, e tu da questo conchiudi che gli abitatori
miei debbono essere uomini. Ti avverto che non sono; e tu consentendo che sieno
altre creature, non dubiti che non abbiano le stesse qualità e gli stessi casi
de' tuoi popoli; e mi alleghi i cannocchiali di non so che fisico. Ma se cotesti
cannocchiali non veggono meglio in altre cose, io crederò che abbiano la buona
vista de' tuoi fanciulli; che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso, che
io non so dove me gli abbia.
Terra. Dunque non sarà né anche vero che
le tue province sono fornite di strade larghe e nette; e che tu sei coltivata;
cose che dalla parte della Germania, pigliando un cannocchiale, si veggono
chiaramente (n.9).
Luna.
Se io sono coltivata, io non me ne accorgo, e le mie strade io non le
veggo
Terra. Cara Luna, tu hai a sapere che io sono di grossa pasta e
di cervello tondo; e non è maraviglia che gli uomini m'ingannino facilmente. Ma
io ti so dire che se i tuoi non si curano di conquistarti, tu non fosti però
sempre senza pericolo: perché in diversi tempi, molte persone di quaggiù si
posero in animo di conquistarti esse; e a quest'effetto fecero molte
preparazioni. Se non che, salite in luoghi altissimi, e levandosi sulle punte
de' piedi, e stendendo le braccia, non ti poterono arrivare. Oltre a questo, già
da non pochi anni, io veggo spiare minutamente ogni tuo sito, ricavare le carte
de' tuoi paesi, misurare le altezze di cotesti monti, de' quali sappiamo anche i
nomi. Queste cose, per la buona volontà ch'io ti porto, mi è paruto bene di
avvisartele, acciò che tu non manchi di provvederti per ogni caso. Ora, venendo
ad altro, come sei molestata da' cani che ti abbaiano contro? Che pensi di
quelli che ti mostrano altrui nel pozzo? Sei tu femmina o maschio? perché
anticamente ne fu varia opinione (n.10).
È vero o no che gli Arcadi vennero al mondo prima di te? (n.11)
che le tue donne, o altrimenti che io le debba chiamare, sono ovipare; e che uno
delle loro uova cadde quaggiù non so quando? (n.12)
che tu sei traforata a guisa dei paternostri, come crede un fisico moderno? (n.13)che
sei fatta, come affermano alcuni Inglesi, di cacio fresco? (n.14)
che Maometto un giorno, o una notte che fosse, ti spartì per mezzo, come un
cocomero; e che un buon tocco del tuo corpo gli sdrucciolò dentro alla manica?
Come stai volentieri in cima dei minareti? Che ti pare della festa del
bairam?
Luna. Va pure avanti; che mentre seguiti così, non ho cagione
di risponderti, e di mancare al silenzio mio solito. Se hai caro d'intrattenerti
in ciance, e non trovi altre materie che queste; in cambio di voltarti a me, che
non ti posso intendere, sarà meglio che ti facci fabbricare dagli uomini un
altro pianeta da girartisi intorno, che sia composto e abitato alla tua maniera.
Tu non sai parlare altro che d'uomini e di cani e di cose simili, delle quali ho
tanta notizia, quanta di quel sole grande grande, intorno al quale odo che giri
il nostro sole.
Terra. Veramente, più che io propongo, nel
favellarti, di astenermi da toccare le cose proprie, meno mi vien fatto. Ma da
ora innanzi ci avrò più cura. Dimmi: sei tu che ti pigli spasso a tirarmi
l'acqua del mare in alto, e poi lasciarla cadere?
Luna. Può essere. Ma
posto che io ti faccia cotesto o qualunque altro effetto, io non mi avveggo di
fartelo: come tu similmente, per quello che io penso, non ti accorgi di molti
effetti che fai qui; che debbono essere tanto maggiori de' miei, quanto tu mi
vinci di grandezza e di forza.
Terra. Di cotesti effetti veramente io
non so altro se non che di tanto in tanto io levo a te la luce del sole, e a me
la tua; come ancora, che io ti fo gran lume nelle tue notti, che in parte lo
veggo alcune volte (n.15).
Ma io mi dimenticava una cosa che importa più d'ogni altra. Io vorrei sapere se
veramente, secondo che scrive l'Ariosto, tutto quello che ciascun uomo va
perdendo; come a dire la gioventù, la bellezza, la sanità, le fatiche e spese
che si mettono nei buoni studi per essere onorati dagli altri, nell'indirizzare
i fanciulli ai buoni costumi, nel fare o promuovere le instituzioni utili; tutto
sale e si raguna costà: di modo che vi si trovano tutte le cose umane; fuori
della pazzia, che non si parte dagli uomini. In caso che questo sia vero, io fo
conto che tu debba essere così piena, che non ti avanzi più luogo; specialmente
che, negli ultimi tempi, gli uomini hanno perduto moltissime cose (verbigrazia
l'amor patrio, la virtù, la magnanimità, la rettitudine), non già solo in parte,
e l'uno o l'altro di loro, come per l'addietro, ma tutti e interamente. E certo
che se elle non sono costì, non credo si possano trovare in altro luogo. Però
vorrei che noi facessimo insieme una convenzione, per la quale tu mi rendessi di
presente, e poi di mano in mano, tutte queste cose; donde io penso che tu
medesima abbi caro di essere sgomberata, massime del senno, il quale intendo che
occupa costì un grandissimo spazio; ed io ti farei pagare dagli uomini tutti gli
anni una buona somma di danari.
Luna. Tu ritorni agli uomini; e, con
tutto che la pazzia, come affermi, non si parta da' tuoi confini, vuoi farmi
impazzire a ogni modo, e levare il giudizio a me, cercando quello di coloro; il
quale io non so dove si sia, né se vada o resti in nessuna parte del mondo; so
bene che qui non si trova; come non ci si trovano le altre cose che tu
chiedi.
Terra. Almeno mi saprai tu dire se costì sono in uso i vizi, i
misfatti, gl'infortuni, i dolori, la vecchiezza, in conclusione i mali? intendi
tu questi nomi?
Luna. Oh cotesti sì che gl'intendo; e non solo i nomi,
ma le cose significate, le conosco a maraviglia: perché ne sono tutta piena, in
vece di quelle altre che tu credevi.
Terra. Quali prevalgono ne' tuoi
popoli, i pregi o i difetti?
Luna. I difetti di gran
lunga.
Terra. Di quali hai maggior copia, di beni o di
mali?
Luna. Di mali senza comparazione.
Terra. E
generalmente gli abitatori tuoi sono felici o infelici?
Luna. Tanto
infelici, che io non mi scambierei col più fortunato di loro.
Terra.
Il medesimo è qui. Di modo che io mi maraviglio come essendomi sì diversa nelle
altre cose, in questa mi sei conforme.
Luna. Anche nella figura, e
nell'aggirarmi, e nell'essere illustrata dal sole io ti sono conforme; e non è
maggior maraviglia quella che questa: perché il male è cosa comune a tutti i
pianeti dell'universo, o almeno di questo mondo solare, come la rotondità e le
altre condizioni che ho detto, né più né meno. E se tu potessi levare tanto alto
la voce, che fossi udita da Urano o da Saturno, o da qualunque altro pianeta del
nostro mondo; e gl'interrogassi se in loro abbia luogo l'infelicità, e se i beni
prevagliano o cedano ai mali; ciascuno ti risponderebbe come ho fatto io. Dico
questo per aver dimandato delle medesime cose Venere e Mercurio, ai quali
pianeti di quando in quando io mi trovo più vicina di te; come anche ne ho
chiesto ad alcune comete che mi sono passate dappresso: e tutti mi hanno
risposto come ho detto. E penso che il sole medesimo, e ciascuna stella
risponderebbero altrettanto.
Terra. Con tutto cotesto io spero bene: e
oggi massimamente, gli uomini mi promettono per l'avvenire molte felicità.
Luna. Spera a tuo senno: e io ti prometto che potrai sperare in
eterno.
Terra. Sai che è? questi uomini e queste bestie si mettono a
romore: perché dalla parte della quale io ti favello, è notte, come tu vedi, o
piuttosto non vedi; sicché tutti dormivano; e allo strepito che noi facciamo
parlando, si destano con gran paura.
Luna. Ma qui da questa parte,
come tu vedi, è giorno.
Terra. Ora io non voglio essere causa di
spaventare la mia gente, e di rompere loro il sonno, che è il maggior bene che
abbiano. Però ci riparleremo in altro tempo. Addio dunque; buon
giorno.
Luna. Addio; buona notte.
L'anno ottocento
trentatremila dugento settantacinque del regno di Giove, il collegio delle Muse
diede fuora in istampa, e fece appiccare nei luoghi pubblici della città e dei
borghi d'Ipernéfelo, diverse cedole, nelle quali invitava tutti gli Dei maggiori
e minori, e gli altri abitanti della detta città, che recentemente o in antico
avessero fatto qualche lodevole invenzione, a proporla, o effettualmente o in
figura o per iscritto, ad alcuni giudici deputati da esso collegio. E scusandosi
che per la sua nota povertà non si poteva dimostrare così liberale come avrebbe
voluto, prometteva in premio a quello il cui ritrovamento fosse giudicato più
bello o più fruttuoso, una corona di lauro, con privilegio di poterla portare in
capo il dì e la notte, privatamente e pubblicamente, in città e fuori; e poter
essere dipinto, scolpito, inciso, gittato, figurato in qualunque modo e materia,
col segno di quella corona dintorno al
capo.
Concorsero a questo
premio non pochi dei celesti per passatempo; cosa non meno necessaria agli
abitatori d'Ipernéfelo, che a quelli di altre città; senza alcun desiderio di
quella corona; la quale in sé non valeva il pregio di una berretta di stoppa; e
in quanto alla gloria, se gli uomini, da poi che sono fatti filosofi, la
disprezzano, si può congetturare che stima ne facciano gli Dei, tanto più
sapienti degli uomini, anzi soli sapienti secondo Pitagora e Platone. Per tanto,
con esempio unico e fino allora inaudito in simili casi di ricompense proposte
ai più meritevoli, fu aggiudicato questo premio, senza intervento di
sollecitazioni né di favori né di promesse occulte né di artifizi: e tre furono
gli anteposti: cioè Bacco per l'invenzione del vino; Minerva per quella
dell'olio, necessario alle unzioni delle quali gli Dei fanno quotidianamente uso
dopo il bagno; e Vulcano per aver trovato una pentola di rame, detta economica,
che serve a cuocere che che sia con piccolo fuoco e speditamente. Così,
dovendosi fare il premio in tre parti, restava a ciascuno un ramuscello di
lauro: ma tutti e tre ricusarono così la parte come il tutto; perché Vulcano
allegò che stando il più del tempo al fuoco della fucina con gran fatica e
sudore, gli sarebbe importunissimo quell'ingombro alla fronte; oltre che lo
porrebbe in pericolo di essere abbrustolato o riarso, se per avventura qualche
scintilla appigliandosi a quelle fronde secche, vi mettesse il fuoco. Minerva
disse che avendo a sostenere in sul capo un elmo bastante, come scrive Omero, a
coprirsene tutti insieme gli eserciti di cento città, non le conveniva
aumentarsi questo peso in alcun modo. Bacco non volle mutare la sua mitra, e la
sua corona di pampini, con quella di lauro: benché l'avrebbe accettata
volentieri se gli fosse stato lecito di metterla per insegna fuori della sua
taverna; ma le Muse non consentirono di dargliela per questo effetto: di modo
che ella si rimase nel loro comune erario.
Niuno dei competitori di
questo premio ebbe invidia ai tre Dei che l'avevano conseguito e rifiutato, né
si dolse dei giudici, né biasimò la sentenza; salvo solamente uno, che fu
Prometeo, venuto a parte del concorso con mandarvi il modello di terra che aveva
fatto e adoperato a formare i primi uomini, aggiuntavi una scrittura che
dichiarava le qualità e gli uffici del genere umano, stato trovato da esso.
Muove non poca maraviglia il rincrescimento dimostrato da Prometeo in caso tale,
che da tutti gli altri, sì vinti come vincitori, era preso in giuoco: perciò
investigandone la cagione, si è conosciuto che quegli desiderava efficacemente,
non già l'onore, ma bene il privilegio che gli sarebbe pervenuto colla vittoria.
Alcuni pensano che intendesse di prevalersi del lauro per difesa del capo contro
alle tempeste; secondo si narra di Tiberio, che sempre che udiva tonare, si
ponea la corona; stimandosi che l'alloro non sia percosso dai fulmini (n.16).
Ma nella città d'Ipernéfelo non cade fulmine e non tuona. Altri più
probabilmente affermano che Prometeo, per difetto degli anni, comincia a gittare
i capelli; la quale sventura sopportando, come accade a molti, di malissima
voglia, e non avendo letto le lodi della calvizie scritte da Sinesio, o non
essendone persuaso, che e più credibile, voleva sotto il diadema nascondere,
come Cesare dittatore, la nudità del capo.
Ma per tornare al fatto, un
giorno tra gli altri ragionando Prometeo con Momo, si querelava aspramente che
il vino, l'olio e le pentole fossero stati anteposti al genere umano, il quale
diceva essere la migliore opera degl'immortali che apparisse nel mondo. E
parendogli non persuaderlo bastantemente a Momo, il quale adduceva non so che
ragioni in contrario, gli propose di scendere tutti e due congiuntamente verso
la terra, e posarsi a caso nel primo luogo che in ciascuna delle cinque parti di
quella scoprissero abitato dagli uomini; fatta prima reciprocamente questa
scommessa: se in tutti cinque i luoghi, o nei più di loro, troverebbero o no
manifesti argomenti che l'uomo sia la più perfetta creatura dell'universo Il che
accettato da Momo, e convenuti del prezzo della scommessa, incominciarono senza
indugio a scendere verso la terra; indirizzandosi primieramente al nuovo mondo;
come quello che pel nome stesso, e per non avervi posto piede insino allora
niuno degl'immortali, stimolava maggiormente la curiosità. Fermarono il volo nel
paese di Popaian, dal lato settentrionale, poco lungi dal fiume Cauca, in un
luogo dove apparivano molti segni di abitazione umana: vestigi di cultura per la
campagna; parecchi sentieri, ancorché tronchi in molti luoghi, e nella maggior
parte ingombri; alberi tagliati e distesi; e particolarmente alcune che parevano
sepolture, e qualche ossa d'uomini di tratto in tratto. Ma non perciò poterono i
due celesti, porgendo gli orecchi, e distendendo la vista per ogn'intorno, udire
una voce né scoprire un'ombra d'uomo vivo. Andarono, parte camminando parte
volando, per ispazio di molte miglia; passando monti e fiumi; e trovando da per
tutto i medesimi segni e la medesima solitudine. Come sono ora deserti questi
paesi, diceva Momo a Prometeo, che mostrano pure evidentemente di essere stati
abitati? Prometeo ricordava le inondazioni del mare, i tremuoti, i temporali, le
piogge strabocchevoli, che sapeva essere ordinarie nelle regioni calde: e
veramente in quel medesimo tempo udivano, da tutte le boscaglie vicine, i rami
degli alberi che, agitati dall'aria, stillavano continuamente acqua. Se non che
Momo non sapeva comprendere come potesse quella parte essere sottoposta alle
inondazioni del mare, così lontano di là, che non appariva da alcun lato; e meno
intendeva per qual destino i tremuoti, i temporali e le piogge avessero avuto a
disfare tutti gli uomini del paese, perdonando agli sciaguari, alle scimmie, a'
formichieri, a' cerigoni, alle aquile, a' pappagalli, e a cento altre qualità di
animali terrestri e volatili, che andavano per quei dintorni. In fine, scendendo
a una valle immensa, scoprirono, come a dire, un piccolo mucchio di case o
capanne di legno, coperte di foglie di palma, e circondata ognuna da un chiuso a
maniera di steccato: dinanzi a una delle quali stavano molte persone, parte in
piedi, parte sedute, dintorno a un vaso di terra posto a un gran fuoco. Si
accostarono i due celesti, presa forma umana; e Prometeo, salutati tutti
cortesemente, volgendosi a uno che accennava di essere il principale,
interrogollo: che si fa?
Selvaggio. Si mangia, come
vedi.
Prometeo. Che buone vivande avete?
Selvaggio. Questo
poco di carne.
Prometeo. Carne domestica o
salvatica?
Selvaggio. Domestica, anzi del mio
figliuolo.
Prometeo. Hai tu per figliuolo un vitello, come ebbe
Pasifae?
Selvaggio. Non un vitello ma un uomo, come ebbero tutti gli
altri.
Prometeo. Dici tu da senno? mangi tu la tua carne
propria?
Selvaggio. La mia propria no, ma ben quella di costui che per
questo solo uso io l'ho messo al mondo, e preso cura di
nutrirlo.
Prometeo. Per uso di mangiartelo?
Selvaggio. Che
maraviglia? E la madre ancora, che già non debbe esser buona da fare altri
figliuoli, penso di mangiarla presto.
Momo. Come si mangia la gallina
dopo mangiate le uova.
Selvaggio. E l'altre donne che io tengo, come
sieno fatte inutili a partorire, le mangerò similmente. E questi miei schiavi
che vedete, forse che li terrei vivi, se non fosse per avere di quando in quando
de' loro figliuoli, e mangiarli? Ma invecchiati che saranno, io me li mangerò
anche loro a uno a uno, se io campo (n.17).
Prometeo. Dimmi: cotesti schiavi sono della tua nazione medesima, o
di qualche altra?
Selvaggio. D'un'altra.
Prometeo. Molto
lontana di qua?
Selvaggio. Lontanissima: tanto che tra le loro case e
le nostre, ci correva un rigagnolo. E additando un collicello, soggiunse: ecco
là il sito dov'ella era; ma i nostri l'hanno distrutta (n.18).
In questo parve a Prometeo che non so quanti di coloro lo stessero mirando con
una cotal guardatura amorevole, come è quella che fa il gatto al topo: sicché,
per non essere mangiato dalle sue proprie fatture, si levò subito a volo; e seco
similmente Momo: e fil tanto il timore che ebbero l'uno e l'altro, che nel
partirsi, corruppero i cibi dei barbari con quella sorta d'immondizia che le
arpie sgorgarono per invidia sulle mense troiane. Ma coloro, più famelici e meno
schivi de' compagni di Enea, seguitarono il loro pasto; e Prometeo, malissimo
soddisfatto del mondo nuovo, si volse incontanente al più vecchio, voglio dire
all'Asia: e trascorso quasi in un subito l'intervallo che è tra le nuove e le
antiche Indie, scesero ambedue presso ad Agra in un campo pieno d'infinito
popolo, adunato intorno a una fossa colma di legne: sull'orlo della quale, da un
lato, si vedevano alcuni con torchi accesi, in procinto di porle il fuoco; e da
altro lato, sopra un palco, una donna giovane, coperta di vesti suntuosissime, e
di ogni qualità di ornamenti barbarici, la quale danzando e vociferando, faceva
segno di grandissima allegrezza. Prometeo vedendo questo, immaginava seco stesso
una nuova Lucrezia o nuova Virginia, o qualche emulatrice delle figliuole di
Eretteo, delle Ifigenie, de' Codri, de' Menecei, dei Curzi e dei Deci, che
seguitando la fede di qualche oracolo, s'immolasse volontariamente per la sua
patria. Intendendo poi che la cagione del sacrificio della donna era la morte
del marito, pensò che quella, poco dissimile da Alceste, volesse col prezzo di
se medesima, ricomperare lo spirito di colui. Ma saputo che ella non s'induceva
ad abbruciarsi se non perché questo si usava di fare dalle donne vedove della
sua setta, e che aveva sempre portato odio al marito, e che era ubbriaca, e che
il morto, in cambio di risuscitare, aveva a essere arso in quel medesimo fuoco;
voltato subito il dosso a quello spettacolo, prese la via dell'Europa; dove
intanto che andavano, ebbe col suo compagno questo colloquio.
Momo.
Avresti tu pensato quando rubavi con tuo grandissimo pericolo il fuoco dal cielo
per comunicarlo agli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali per cuocersi
l'un l'altro nelle pignatte, quali per abbruciarsi spontaneamente?
Prometeo. No per certo. Ma considera, caro Momo, che quelli che fino
a ora abbiamo veduto, sono barbari: e dai barbari non si dee far giudizio della
natura degli uomini; ma bene dagl'inciviliti: ai quali andiamo al presente: e ho
ferma opinione che tra loro vedremo e udremo cose e parole che ti parranno
degne, non solamente di lode, ma di stupore.
Momo. Io per me non
veggo, se gli uomini sono il più perfetto genere dell'universo, come faccia di
bisogno che sieno inciviliti perché non si abbrucino da se stessi, e non mangino
i figliuoli propri: quando che gli altri animali sono tutti barbari, e ciò non
ostante, nessuno si abbrucia a bello studio, fuorché la fenice, che non si
trova; rarissimi si mangiano alcun loro simile; e molto più rari si cibano dei
loro figliuoli, per qualche accidente insolito, e non per averli generati a
quest'uso. Avverti eziandio, che delle cinque parti del mondo una sola, né tutta
intera, e questa non paragonabile per grandezza a veruna delle altre quattro, è
dotata della civiltà che tu lodi; aggiunte alcune piccole porzioncelle di
un'altra parte del mondo. E già tu medesimo non vorrai dire che questa civiltà
sia compiuta, in modo che oggidì gli uomini di Parigi o di Filadelfia abbiano
generalmente tutta la perfezione che può convenire alla loro specie. Ora, per
condursi al presente stato di civiltà non ancora perfetta, quanto tempo hanno
dovuto penare questi tali popoli? Tanti anni quanti si possono numerare
dall'origine dell'uomo insino ai tempi prossimi. E quasi tutte le invenzioni che
erano o di maggiore necessità o di maggior profitto al conseguimento dello stato
civile, hanno avuto origine, non da ragione, ma da casi fortuiti: di modo che la
civiltà umana è opera della sorte più che della natura: e dove questi tali casi
non sono occorsi, veggiamo che i popoli sono ancora barbari; con tutto che
abbiano altrettanta età quanta i popoli civili. Dico io dunque: se l'uomo
barbaro mostra di essere inferiore per molti capi a qualunque altro animale; se
la civiltà, che è l'opposto della barbarie, non è posseduta né anche oggi se non
da una piccola parte del genere umano; se oltre di ciò, questa parte non è
potuta altrimenti pervenire al presente stato civile, se non dopo una quantità
innumerabile di secoli, e per beneficio massimamente del caso, piuttosto che di
alcun'altra cagione; all'ultimo, se il detto stato civile non è per anche
perfetto; considera un poco se forse la tua sentenza circa il genere umano fosse
più vera acconciandola in questa forma: cioè dicendo che esso è veramente sommo
tra i generi, come tu pensi; ma sommo nell'imperfezione, piuttosto che nella
perfezione; quantunque gli uomini nel parlare e nel giudicare, scambino
continuamente l'una coll'altra; argomentando da certi cotali presupposti che si
hanno fatto essi, e tengonli per verità palpabili. Certo che gli altri generi di
creature fino nel principio furono perfettissimi ciascheduno in se stesso. E
quando eziandio non fosse chiaro che l'uomo barbaro, considerato in rispetto
agli altri animali, è meno buono di tutti; io non mi persuado che l'essere
naturalmente imperfettissimo nel proprio genere, come pare che sia l'uomo,
s'abbia a tenere in conto di perfezione maggiore di tutte l'altre. Aggiungi che
la civiltà umana, così difficile da ottenere, e forse impossibile da ridurre a
compimento, non è anco stabile in modo, che ella non possa cadere: come in
effetto si trova essere avvenuto più volte, e in diversi popoli, che ne avevano
acquistato una buona parte. In somma io conchiudo che se tuo fratello Epimeteo
recava ai giudici il modello che debbe avere adoperato quando formò il primo
asino o la prima rana, forse ne riportava il premio che tu non hai conseguito.
Pure a ogni modo io ti concederò volentieri che l'uomo sia perfettissimo, se tu
ti risolvi a dire che la sua perfezione si rassomigli a quella che si attribuiva
da Plotino al mondo: il quale, diceva Plotino, è ottimo e perfetto
assolutamente; ma perché il mondo sia perfetto, conviene che egli abbia in sé,
tra le altre cose, anco tutti i mali possibili; però in fatti si trova in lui
tanto male, quanto vi può capire. E in questo rispetto forse io concederei
similmente al Leibnizio che il mondo presente fosse il migliore di tutti i mondi
possibili. Non si dubita che Prometeo non avesse a ordine una risposta in forma
distinta, precisa e dialettica a tutte queste ragioni; ma è parimente certo che
non la diede: perché in questo medesimo punto si trovarono sopra alla città di
Londra: dove scesi, e veduto gran moltitudine di gente concorrere alla porta di
una casa privata, messisi tra la folla, entrarono nella casa; e trovarono sopra
un letto un uomo disteso supino, che avea nella ritta una pistola; ferito nel
petto, e morto; e accanto a lui giacere due fanciullini, medesimamente morti.
Erano nella stanza parecchie persone della casa, e alcuni giudici, i quali le
interrogavano, mentre che un officiale scriveva.
Prometeo. Chi sono
questi sciagurati?
Un famiglio. Il mio padrone e i figliuoli.
Prometeo. Chi gli ha uccisi?
Famiglio. Il padrone tutti e
tre.
Prometeo. Tu vuoi dire i figliuoli e se stesso? Famiglio.
Appunto.
Prometeo. Oh che è mai cotesto! Qualche grandissima sventura
gli doveva essere accaduta.
Famiglio. Nessuna, che io
sappia.
Prometeo. Ma forse era povero, o disprezzato da tutti, o
sfortunato in amore, o in corte?
Famiglio. Anzi ricchissimo, e credo
che tutti lo stimassero; di amore non se ne curava, e in corte aveva molto
favore.
Prometeo. Dunque come e caduto in questa disperazione?
Famiglio. Per tedio della vita, secondo che ha lasciato scritto.
Prometeo. E questi giudici che fanno?
Famiglio. S'informano
se il padrone era impazzito o no: che in caso non fosse impazzito, la sua roba
ricade al pubblico per legge: e in verità non si potrà fare che non
ricada.
Prometeo. Ma, dimmi, non aveva nessun amico o parente, a cui
potesse raccomandare questi fanciullini, in cambio
d'ammazzarli?
Famiglio. Sì aveva; e tra gli altri, uno che gli era
molto intrinseco, al quale ha raccomandato il suo cane. (n.19)
Momo stava per congratularsi con Prometeo sopra i buoni effetti della civiltà, e
sopra la contentezza che appariva ne risultasse alla nostra vita; e voleva anche
rammemorargli che nessun altro animale fuori dell'uomo, si uccide
volontariamente esso medesimo, né spegne per disperazione della vita i
figliuoli: ma Prometeo lo prevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del
mondo che rimanevano, gli pagò la scommessa.
DIALOGO DI UN FISICO E DI UN METAFISICO
Fisico. Eureca, eureca (n.20).
Metafisico.
Che è? che hai trovato?
Fisico. L'arte di vivere lungamente (n.21).
Metafisico.
E cotesto libro che porti?
Fisico. Qui la dichiaro: e per questa
invenzione, se gli altri vivranno lungo tempo, io vivrò per lo meno in eterno;
voglio dire che ne acquisterò gloria immortale.
Metafisico. Fa una
cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo, chiudivi cotesto libro,
sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi
si possa andare, e cavare il libro, quando sarà trovata l'arte di vivere
felicemente.
Fisico. E in questo mezzo?
Metafisico. In
questo mezzo non sarà buono da nulla. Più lo stimerei se contenesse l'arte di
viver poco.
Fisico. Cotesta è già saputa da un pezzo; e non fu
difficile a trovarla.
Metafisico. In ogni modo la stimo più della
tua.
Fisico. Perché?
Metafisico. Perché se la vita non è
felice, che fino a ora non è stata, meglio ci torna averla breve che
lunga.
Fisico. Oh cotesto no: perché la vita è bene da se medesima, e
ciascuno la desidera e l'ama naturalmente.
Metafisico. Così credono
gli uomini; ma s'ingannano: come il volgo s'inganna pensando che i colori sieno
qualità degli oggetti; quando non sono degli oggetti, ma della luce. Dico che
l'uomo non desidera e non ama se non la felicità propria. Però non ama la vita,
se non in quanto la reputa instrumento o subbietto di essa felicità. In modo che
propriamente viene ad amare questa e non quella, ancorché spessissimo
attribuisca all'una l'amore che porta all'altra. Vero è che questo inganno e
quello dei colori sono tutti e due naturali. Ma che l'amore della vita negli
uomini non sia naturale, o vogliamo dire non sia necessario, vedi che moltissimi
ai tempi antichi elessero di morire potendo vivere, e moltissimi ai tempi nostri
desiderano la morte in diversi casi, e alcuni si uccidono di propria mano. Cose
che non potrebbero essere se l'amore della vita per se medesimo fosse natura
dell'uomo. Come essendo natura di ogni vivente l'amore della propria felicità,
prima cadrebbe il mondo, che alcuno di loro lasciasse di amarla e di procurarla
a suo modo. Che poi la vita sia bene per se medesima, aspetto che tu me lo
provi, con ragioni o fisiche o metafisiche o di qualunque disciplina. Per me,
dico che la vita felice, saria bene senza fallo; ma come felice, non come vita.
La vita infelice, in quanto all'essere infelice, è male; e atteso che la natura,
almeno quella degli uomini, porta che vita e infelicità non si possono
scompagnare, discorri tu medesimo quello che ne segua.
Fisico. Di
grazia, lasciamo cotesta materia, che è troppo malinconica; e senza tante
sottigliezze, rispondimi sinceramente: se l'uomo vivesse e potesse vivere in
eterno; dico senza morire, e non dopo morto; credi tu che non gli
piacesse?
Metafisico. A un presupposto favoloso risponderò con qualche
favola: tanto più che non sono mai vissuto in eterno, sicché non posso
rispondere per esperienza; né anche ho parlato con alcuno che fosse immortale; e
fuori che nelle favole, non trovo notizia di persone di tal sorta. Se fosse qui
presente il Cagliostro, forse ci potrebbe dare un poco di lume; essendo vissuto
parecchi secoli: se bene, perché poi morì come gli altri, non pare che fosse
immortale. Dirò dunque che il saggio Chirone, che era dio, coll'andar del tempo
si annoiò della vita, pigliò licenza da Giove di poter morire, e morì (n.22).
Or pensa, se l'immortalità rincresce agli Dei, che farebbe agli uomini.
Gl'Iperborei, popolo incognito, ma famoso; ai quali non si può penetrare, né per
terra né per acqua; ricchi di ogni bene; e specialmente di bellissimi asini, dei
quali sogliono fare ecatombe; potendo, se io non m'inganno, essere immortali;
perché non hanno infermità né fatiche né guerre né discordie né carestie né vizi
né colpe; contuttociò muoiono tutti: perché, in capo a mille anni di vita o
circa, sazi della terra, saltano spontaneamente da una certa rupe in mare, e vi
si annegano (n.23).
Aggiungi quest'altra favola. Bitone e Cleobi fratelli, un giorno di festa, che
non erano in pronto le mule, essendo sottentrati al carro della madre,
sacerdotessa di Giunone, e condottala al tempio; quella supplicò la dea che
rimunerasse la pietà de' figliuoli col maggior bene che possa cadere negli
uomini. Giunone, in vece di farli immortali, come avrebbe potuto; e allora si
costumava; fece che l'uno e l'altro pian piano se ne morirono in quella medesima
ora. Il simile toccò ad Agamede e a Trofonio. Finito il tempio di Delfo, fecero
instanza ad Apollo che li pagasse: il quale rispose volerli soddisfare fra sette
giorni; in questo mezzo attendessero a far gozzoviglia a loro spese. La settima
notte, mandò loro un dolce sonno, dal quale ancora s'hanno a svegliare; e avuta
questa, non dimandarono altra paga. Ma poiché siamo in sulle favole, eccotene
un'altra, intorno alla quale ti vo' proporre una questione. Io so che oggi i
vostri pari tengono per sentenza certa, che la vita umana, in qualunque paese
abitato, e sotto qualunque cielo, dura naturalmente, eccetto piccole differenze,
una medesima quantità di tempo, considerando ciascun popolo in grosso. Ma
qualche buono antico (n.24)
racconta che gli uomini di alcune parti dell'India e dell'Etiopia non campano
oltre a quarant'anni; chi muore in questa età, muor vecchissimo; e le fanciulle
di sette anni sono di età da marito. Il quale ultimo capo sappiamo che, appresso
a poco, si verifica nella Guinea, nel Decan e in altri luoghi sottoposti alla
zona torrida. Dunque, presupponendo per vero che si trovi una o più nazioni, gli
uomini delle quali regolarmente non passino i quarant'anni di vita; e ciò sia
per natura, non, come si è creduto degli Ottentotti, per altre cagioni; domando
se in rispetto a questo, ti pare che i detti popoli debbano essere più miseri o
più felici degli altri?
Fisico. Più miseri senza fallo, venendo a
morte più presto.
Metafisico. Io credo il contrario anche per cotesta
ragione. Ma qui non consiste il punto. Fa un poco di avvertenza. Io negava che
la pura vita, cioè a dire il semplice sentimento dell'esser proprio, fosse cosa
amabile e desiderabile per natura. Ma quello che forse più degnamente ha nome
altresì di vita, voglio dire l'efficacia e la copia delle sensazioni, è
naturalmente amato e desiderato da tutti gli uomini: perché qualunque azione o
passione viva e forte, purché non ci sia rincrescevole o dolorosa, col solo
essere viva e forte, ci riesce grata, eziandio mancando di ogni altra qualità
dilettevole. Ora in quella specie d'uomini, la vita dei quali si consumasse
naturalmente in ispazio di quarant'anni, cioè nella metà del tempo destinato
dalla natura agli altri uomini; essa vita in ciascheduna sua parte, sarebbe più
viva il doppio di questa nostra: perché, dovendo coloro crescere, e giungere a
perfezione, e similmente appassire e mancare, nella metà del tempo; le
operazioni vitali della loro natura, proporzionatamente a questa celerità,
sarebbero in ciascuno istante doppie di forza per rispetto a quello che accade
negli altri; ed anche le azioni volontarie di questi tali, la mobilità e la
vivacità estrinseca, corrisponderebbero a questa maggiore efficacia. Di modo che
essi avrebbero in minore spazio di tempo la stessa quantità di vita che abbiamo
noi. La quale distribuendosi in minor numero d'anni basterebbe a riempierli, o
vi lascerebbe piccoli vani; laddove ella non basta a uno spazio doppio: e gli
atti e le sensazioni di coloro, essendo più forti, e raccolte in un giro più
stretto, sarebbero quasi bastanti a occupare e a vivificare tutta la loro età;
dove che nella nostra, molto più lunga, restano spessissimi e grandi intervalli,
vòti di ogni azione e affezione viva. E poiché non il semplice essere, ma il
solo essere felice, è desiderabile; e la buona o cattiva sorte di chicchessia
non si misura dal numero dei giorni; io conchiudo che la vita di quelle nazioni,
che quanto più breve, tanto sarebbe men povera di piacere, o di quello che è
chiamato con questo nome, si vorrebbe anteporre alla vita nostra, ed anche a
quella dei primi re dell'Assiria, dell'Egitto, della Cina, dell'India, e d'altri
paesi; che vissero, per tornare alle favole, migliaia d'anni. Perciò, non solo
io non mi curo dell'immortalità, e sono contento di lasciarla a' pesci; ai quali
la dona il Leeuwenhoek, purché non sieno mangiati dagli uomini o dalle balene;
ma, in cambio di ritardare o interrompere la vegetazione del nostro corpo per
allungare la vita, come propone il Maupertuis (n.25),
io vorrei che la potessimo accelerare in modo, che la vita nostra si riducesse
alla misura di quella di alcuni insetti, chiamati efimeri, dei quali si dice che
i più vecchi non passano l'età di un giorno, e contuttociò muoiono bisavoli e
trisavoli. Nel qual caso, io stimo che non ci rimarrebbe luogo alla noia. Che
pensi di questo ragionamento?
Fisico. Penso che non mi persuade; e
che se tu ami la metafisica, io m'attengo alla fisica: voglio dire che se tu
guardi pel sottile, io guardo alla grossa, e me ne contento. Però senza metter
mano al microscopio, giudico che la vita sia più bella della morte, e do il pomo
a quella, guardandole tutte due vestite.
Metafisico. Così giudico
anch'io. Ma quando mi torna a mente il costume di quei barbari, che per ciascun
giorno infelice della loro vita, gittavano in un turcasso una pietruzza nera, e
per ogni dì felice, una bianca (n.26);
penso quanto poco numero delle bianche è verisimile che fosse trovato in quelle
faretre alla morte di ciascheduno, e quanto gran moltitudine delle nere. E
desidero vedermi davanti tutte le pietruzze dei giorni che mi rimangono; e,
sceverandole, aver facoltà di gittar via tutte le nere, e detrarle dalla mia
vita; riserbandomi solo le bianche: quantunque io sappia bene che non farebbero
gran cumulo, e sarebbero di un bianco torbido.
Fisico Molti, per lo
contrario, quando anche tutti i sassolini fossero neri, e più neri del paragone;
vorrebbero potervene aggiungere, benché dello stesso colore: perché tengono per
fermo che niun sassolino sia così nero come l'ultimo. E questi tali, del cui
numero sono anch'io, potranno aggiungere in effetto molti sassolini alla loro
vita, usando l'arte che si mostra in questo mio libro.
Metafisico.
Ciascuno pensi ed operi a suo talento: e anche la morte non mancherà di fare a
suo modo. Ma se tu vuoi, prolungando la vita, giovare agli uomini veramente;
trova un'arte per la quale sieno moltiplicate di numero e di gagliardia le
sensazioni e le azioni loro. Nel qual modo, accrescerai propriamente la vita
umana, ed empiendo quegli smisurati intervalli di tempo nei quali il nostro
essere è piuttosto durare che vivere, ti potrai dar vanto di prolungarla. E ciò
senza andare in cerca dell'impossibile, o usar violenza alla natura, anzi
secondandola. Non pare a te che gli antichi vivessero più di noi, dato ancora
che, per li pericoli gravi e continui che solevano correre, morissero
comunemente più presto? E farai grandissimo beneficio agli uomini: la cui vita
fu sempre, non dirò felice, ma tanto meno infelice, quanto più fortemente
agitata, e in maggior parte occupata, senza dolore né disagio. Ma piena d'ozio e
di tedio, che è quanto dire vacua, dà luogo a creder vera quella sentenza di
Pirrone, che dalla vita alla morte non e divario. Il che se io credessi, ti
giuro che la morte mi spaventerebbe non poco. Ma in fine, la vita debb'esser
viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio.
DIALOGO DI TORQUATO
TASSO
E DEL SUO GENIO FAMILIARE (n.26)
Genio. Come stai, Torquato?
Tasso. Ben sai come si può stare
in una prigione, e dentro ai guai fino al collo.
Genio. Via, ma dopo
cenato non è tempo da dolersene. Fa buon animo, e ridiamone
insieme.
Tasso. Ci son poco atto. Ma la tua presenza e le tue parole
sempre mi consolano. Siedimi qui accanto.
Genio. Che io segga? La non
è già cosa facile a uno spirito. Ma ecco: fa conto ch'io sto
seduto.
Tasso. Oh potess'io rivedere la mia Leonora. Ogni volta che
ella mi torna alla mente, mi nasce un brivido di gioia, che dalla cima del capo
mi si stende fino all'ultima punta de' piedi; e non resta in me nervo né vena
che non sia scossa. Talora, pensando a lei, mi si ravvivano nell'animo certe
immagini e certi affetti, tali, che per quel poco tempo, mi pare di essere
ancora quello stesso Torquato che fui prima di aver fatto esperienza delle
sciagure e degli uomini, e che ora io piango tante volte per morto. In vero, io
direi che l'uso del mondo, e l'esercizio de' patimenti, sogliono come profondare
e sopire dentro a ciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale di
tratto in tratto si desta per poco spazio, ma tanto più di rado quanto è il
progresso degli anni; sempre più poi si ritira verso il nostro intimo, e ricade
in maggior sonno di prima; finché durando ancora la nostra vita, esso muore. In
fine, io mi maraviglio come il pensiero di una donna abbia tanta forza, da
rinnovarmi, per così dire, l'anima, e farmi dimenticare tante calamità. E se non
fosse che io non ho più speranza di rivederla, crederei non avere ancora perduta
la facoltà di essere felice.
Genio. Quale delle due cose stimi che
sia più dolce: vedere la donna amata, o pensarne?
Tasso. Non so. Certo
che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi
pare una dea.
Genio. Coteste dee sono così benigne, che quando alcuno
vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi
d'attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa
innanzi.
Tasso. Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli
cotesto un gran peccato delle donne; che alla prova, elle ci riescano così
diverse da quelle che noi le immaginavamo?
Genio. Io non so vedere
che colpa s'abbiano in questo, d'esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di
ambrosia e nettare. Qual cosa del mondo ha pure un'ombra o una millesima parte
della perfezione che voi pensate che abbia a essere nelle donne? E anche mi pare
strano, che non facendovi maraviglia che gli uomini sieno uomini, cioè creature
poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come accada, che le
donne in fatti non sieno angeli.
Tasso. Con tutto questo, io mi muoio
dal desiderio di rivederla, e di riparlarle.
Genio. Via, questa notte
in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù; e cortese in modo,
che tu prenderai cuore di favellarle molto più franco e spedito che non ti venne
fatto mai per l'addietro: anzi all'ultimo le stringerai la mano; ed ella
guardandoti fiso, ti metterà nell'animo una dolcezza tale, che tu ne sarai
sopraffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sovverrà di questo sogno, ti
sentirai balzare il cuore dalla tenerezza.
Tasso. Gran conforto: un
sogno in cambio del vero.
Genio. Che cosa è il vero?
Tasso.
Pilato non lo seppe meno di quello che lo so io.
Genio. Bene, io
risponderò per te. Sappi che dal vero al sognato, non corre altra differenza, se
non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, che quello
non può mai.
Tasso. Dunque tanto vale un diletto sognato, quanto un
diletto vero?
Genio. Io credo. Anzi ho notizia di uno che quando la
donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi in alcun sogno gentile, esso per
tutto il giorno seguente, fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo
che ella non potrebbe reggere al paragone dell'immagine che il sonno gliene ha
lasciata impressa, e che il vero, cancellandogli dalla mente il falso,
priverebbe lui del diletto straordinario che ne ritrae. Però non sono da
condannare gli antichi, molto più solleciti, accorti e industriosi di voi, circa
a ogni sorta di godimento possibile alla natura umana, se ebbero per costume di
procurare in vari modi la dolcezza e la giocondità dei sogni; né Pitagora è da
riprendere per avere interdetto il mangiare delle fave, creduto contrario alla
tranquillità dei medesimi sogni, ed atto a intorbidarli (n.28);
e sono da scusare i superstiziosi che avanti di coricarsi solevano orare e far
libazioni a Mercurio conduttore dei sogni, acciò ne menasse loro di quei lieti;
l'immagine del quale tenevano a quest'effetto intagliata in su' piedi delle
lettiere (n.29).
Così, non trovando mai la felicità nel tempo della vigilia, si studiavano di
essere felici dormendo: e credo che in parte, e in qualche modo, l'ottenessero;
e che da Mercurio fossero esauditi meglio che dagli altri Dei.
Tasso.
Per tanto, poiché gli uomini nascono e vivono al solo piacere, o del corpo o
dell'animo; se da altra parte il piacere è solamente o massimamente nei sogni,
converrà ci determiniamo a vivere per sognare: alla qual cosa, in verità, io non
mi posso ridurre.
Genio. Già vi sei ridotto e determinato, poiché tu
vivi e che tu consenti di vivere. Che cosa è il piacere?
Tasso. Non ne
ho tanta pratica da poterlo conoscere che cosa sia.
Genio. Nessuno lo
conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perché il piacere è un subbietto
speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l'uomo
concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio, un concetto, e non un
sentimento. Non vi accorgete voi che nel tempo stesso di qualunque vostro
diletto, ancorché desiderato infinitamente, e procacciato con fatiche e molestie
indicibili; non potendovi contentare il goder che fate in ciascuno di quei
momenti, state sempre aspettando un goder maggiore e più vero, nel quale
consista in somma quel tal piacere; e andate quasi riportandovi di continuo
agl'istanti futuri di quel medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzi al
giunger dell'istante che vi soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la
speranza cieca di goder meglio e più veramente in altra occasione, e il conforto
di fingere e narrare a voi medesimi di aver goduto, con raccontarlo anche agli
altri, non per sola ambizione, ma per aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur
fare a voi stessi. Però chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro
effetto né con altra utilità che di sognare; cioè credere di avere a godere, o
di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.
Tasso. Non possono
gli uomini credere mai di godere presentemente?
Genio. Sempre che
credessero cotesto, godrebbero in fatti. Ma narrami tu se in alcun istante della
tua vita, ti ricordi aver detto con piena sincerità ed opinione: io godo. Ben
tutto giorno dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con
sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o passato o futuro,
e non mai presente.
Tasso. Che e quanto dire e sempre
nulla.
Genio. Così pare.
Tasso. Anche nei
sogni.
Genio. Propriamente parlando.
Tasso. E tuttavia
l'obbietto e l'intento della vita nostra, non pure essenziale ma unico, è il
piacere stesso; intendendo per piacere la felicità; che debbe in effetto esser
piacere; da qualunque cosa ella abbia a procedere.
Genio.
Certissimo.
Tasso. Laonde la nostra vita, mancando sempre del suo
fine, è continuamente imperfetta: e quindi il vivere è di sua propria natura uno
stato violento.
Genio. Forse.
Tasso. Io non ci veggo forse.
Ma dunque perché viviamo noi? voglio dire, perché consentiamo di
vivere?
Genio. Che so io di cotesto? Meglio lo saprete voi, che siete
uomini.
Tasso. Io per me ti giuro che non lo so.
Genio.
Domandane altri de' più savi, e forse troverai qualcuno che ti risolva cotesto
dubbio.
Tasso. Così farò. Ma certo questa vita che io meno, è tutta
uno stato violento: perché lasciando anche da parte i dolori, la noia sola mi
uccide.
Genio. Che cosa è la noia?
Tasso. Qui l'esperienza
non mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la noia sia della
natura dell'aria: la quale riempie tutti gli spazi interposti alle altre cose
materiali, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro; e donde un corpo si
parte, e altro non gli sottentra, quivi ella succede immediatamente. Così tutti
gl'intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono
occupati dalla noia. E però, come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici,
non si dà vòto alcuno; così nella vita nostra non si dà vòto; se non quando la
mente per qualsivoglia causa intermette l'uso del pensiero. Per tutto il resto
del tempo, l'animo considerato anche in se proprio e come disgiunto dal corpo,
si trova contenere qualche passione; come quello a cui l'essere vacuo da ogni
piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia; la quale anco è passione,
non altrimenti che il dolore e il diletto.
Genio. E da poi che tutti
i vostri diletti sono di materia simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e
trasparente; perciò come l'aria in questi, così la noia penetra in quelli da
ogni parte, e li riempie. Veramente per la noia non credo si debba intendere
altro che il desiderio puro della felicità; non soddisfatto dal piacere, e non
offeso apertamente dal dispiacere. Il qual desiderio, come dicevamo poco
innanzi, non è mai soddisfatto; e il piacere propriamente non si trova. Sicché
la vita umana, per modo di dire, e composta e intessuta, parte di dolore, parte
di noia; dall'una delle quali passioni non ha riposo se non cadendo nell'altra.
E questo non è tuo destino particolare, ma comune di tutti gli
uomini.
Tasso. Che rimedio potrebbe giovare contro la
noia?
Genio. Il sonno, l'oppio, e il dolore. E questo è il più potente
di tutti: perché l'uomo mentre patisce, non si annoia per niuna
maniera.
Tasso. In cambio di cotesta medicina, io mi contento di
annoiarmi tutta la vita. Ma pure la varietà delle azioni, delle occupazioni e
dei sentimenti, se bene non ci libera dalla noia, perché non ci reca diletto
vero, contuttociò la solleva ed alleggerisce. Laddove in questa prigionia,
separato dal commercio umano, toltomi eziandio lo scrivere, ridotto a notare per
passatempo i tocchi dell'oriuolo, annoverare i correnti, le fessure e i tarli
del palco, considerare il mattonato del pavimento, trastullarmi colle farfalle e
coi moscherini che vanno attorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un
modo; io non ho cosa che mi scemi in alcun parte il carico della
noia.
Genio. Dimmi: quanto tempo ha che tu sei ridotto a cotesta forma
di vita?
Tasso. Più settimane, come tu sai.
Genio. Non
conosci tu dal primo giorno al presente, alcuna diversità nel fastidio che ella
ti reca?
Tasso. Certo che io lo provava maggiore a principio: perché
di mano in mano la mente, non occupata da altro e non isvagata, mi si viene
accostumando a conversare seco medesima assai più e con maggior sollazzo di
prima, e acquistando un abito e una virtù di favellare in se stessa, anzi di
cicalare, tale, che parecchie volte mi pare quasi avere una compagnia di persone
in capo che stieno ragionando, e ogni menomo soggetto che mi si appresenti al
pensiero, mi basta a farne tra me e me una gran diceria.
Genio.
Cotesto abito te lo vedrai confermare e accrescere di giorno in giorno per modo,
che quando poi ti si renda la facoltà di usare cogli altri uomini, ti parrà
essere più disoccupato stando in compagnia loro, che in solitudine. E
quest'assuefazione in sì fatto tenore di vita, non credere che intervenga solo
a' tuoi simili, già consueti a meditare; ma ella interviene in più o men tempo a
chicchessia. Di più, l'essere diviso dagli uomini e, per dir così, dalla vita
stessa, porta seco questa utilità; che l'uomo, eziandio sazio, chiarito e
disamorato delle cose umane per l'esperienza; a poco a poco assuefacendosi di
nuovo a mirarle da lungi, donde elle paiono molto più belle e più degne che da
vicino, si dimentica della loro vanità e miseria; torna a formarsi e quasi
crearsi il mondo a suo modo; apprezzare, amare e desiderare la vita; delle cui
speranze, se non gli è tolto o il potere o il confidare di restituirsi alla
società degli uomini, si va nutrendo e dilettando, come egli soleva a' suoi
primi anni. Di modo che la solitudine fa quasi l'ufficio della gioventù; o certo
ringiovanisce l'animo, ravvalora e rimette in opera l'immaginazione, e rinnuova
nell'uomo esperimentato i beneficii di quella prima inesperienza che tu sospiri.
Io ti lascio; che veggo che il sonno ti viene entrando; e me ne vo ad
apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso. Così, tra sognare e fantasticare,
andrai consumando la vita; non con altra utilità che di consumarla; che questo e
l'unico frutto che al mondo se ne può avere, e l'unico intento che voi vi dovete
proporre ogni mattina in sullo svegliarvi. Spessissimo ve la conviene
strascinare co' tarla in sul dosso. Ma, in fine, il tuo tempo non è più lento a
correre in questa carcere, che sia nelle sale e negli orti quello di chi ti
opprime. Addio.
Tasso. Addio. Ma senti. La tua conversazione mi
riconforta pure assai. Non che ella interrompa la mia tristezza: ma questa per
la più parte del tempo è come una notte oscurissima, senza luna né stelle;
mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che molesto.
Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi
dove sei solito di abitare.
Genio. Ancora non l'hai conosciuto? In
qualche liquore generoso.
DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE
Un Islandese, che era corso
per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andando una
volta per l'interiore dell'Affrica, e passando sotto la linea equinoziale in un
luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che
intervenne a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona speranza; quando il
medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro, sotto forma di
gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque (n.30).
Vide da lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di
pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni prima,
nell'isola di Pasqua. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una forma
smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto, appoggiato il dosso e il
gomito a una montagna; e non finta ma viva; di volto mezzo tra bello e
terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamente; e
stata così un buono spazio senza parlare, all'ultimo gli disse.
Natura. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era
incognita?
Islandese. Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la
Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo della mia vita per cento parti della
terra, la fuggo adesso per questa.
Natura. Così fugge lo scoiattolo
dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sono quella
che tu fuggi.
Islandese. La Natura?
Natura. Non altri.
Islandese. Me ne dispiace fino all'anima; e tengo per fermo che
maggior disavventura di questa non mi potesse sopraggiungere.
Natura.
Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti; dove non
ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti moveva
a fuggirmi?
Islandese. Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù,
a poche esperienze, fui persuaso e chiaro della vanità della vita, e della
stoltezza degli uomini; i quali combattendo continuamente gli uni cogli altri
per l'acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che non giovano;
sopportando e cagionandosi scambievolmente infinite sollecitudini, e infiniti
mali, che affannano e nocciono in effetto; tanto più si allontanano dalla
felicità, quanto più la cercano. Per queste considerazioni, deposto ogni altro
desiderio, deliberai, non dando molestia a chicchessia, non procurando in modo
alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo con altri per nessun bene del
mondo, vivere una vita oscura e tranquilla; e disperato dei piaceri, come di
cosa negata alla nostra specie, non mi proposi altra cura che di tenermi lontano
dai patimenti. Con che non intendo dire che io pensassi di astenermi dalle
occupazioni e dalle fatiche corporali: che ben sai che differenza e dalla fatica
al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso. E già nel primo mettere in
opera questa risoluzione, conobbi per prova come egli e vano a pensare, se tu
vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire che gli altri non
ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e contentandosi del menomo in
ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che questo
menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestia degli uomini mi liberai
facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi in solitudine: cosa
che nell'isola mia nativa si può recare ad effetto senza difficoltà. Fatto
questo, e vivendo senza quasi verun'immagine di piacere, io non poteva
mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno, l'intensità del
freddo, e l'ardore estremo della state, che sono qualità di quel luogo, mi
travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva passare una
gran parte del tempo, m'inaridiva le carni, e straziava gli occhi col fumo; di
modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo
disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale
principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli di
mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla, il sospetto
degl'incendi, frequentissimi negli alberghi, come sono i nostri, fatti di legno,
non intermettevano mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre
conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e
quasi di ogni altra cura, che d'esser quieta; riescono di non poco momento, e
molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte
dell'animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità
che provengono dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e
quasi mi contraeva in me stesso, a fine d'impedire che l'esser mio non desse
noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose
non m'inquietassero e tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere
se in alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non
godendo non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che
mi nacque, che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un
clima della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli
animali, e di quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli
uomini non potessero prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover
essere imputate, non a te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero
disprezzati e trapassati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alle
abitazioni umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi
tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle
altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola
tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo fra i tropici, rappreso
dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati dall'incostanza dell'aria,
infestato dalle commozioni degli elementi in ogni dove. Più luoghi ho veduto,
nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che tu dai ciascun
giorno un assalto e una battaglia formata a quegli abitanti, non rei verso te di
nessun'ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata
dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal
ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderati regnano
nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori dell'aria. Tal volta
io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico della neve, tal
altra, per l'abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi si è
dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena
dai fiumi, che m'inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche
ingiuria. Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi
hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato
poco che gl'insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i
pericoli giornalieri, sempre imminenti all'uomo, e infiniti di numero; tanto che
un filosofo antico (n.31)
non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della considerazione che
ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato; con tutto che io
fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente dei piaceri del
corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione considerando che tu ci abbi
infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta dal quale
la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente, è cosa
imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l'uso di esso piacere sia quasi
di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più
calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria
alla durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi
sempre e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in
molte e diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della
morte; altre di perdere l'uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una
vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso
il corpo e l'animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di
noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e
infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse
bastevolmente misera per l'ordinario); tu non hai dato all'uomo, per
compensarnelo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli
sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne'
paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato per accecare: come interviene
ordinariamente ai Lapponi nella loro patria. Dal sole e dall'aria, cose vitali,
anzi necessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire, siamo
ingiuriati di continuo: da questa colla umidità, colla rigidezza, e con altre
disposizioni; da quello col calore, e colla stessa luce: tanto che l'uomo non
può mai senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starsene esposto
all'una o all'altro di loro. In fine, io non mi ricordo aver passato un giorno
solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso numerare quelli che ho
consumati senza pure un'ombra di godimento: mi avveggo che tanto ci è destinato
e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto
in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a
conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali, e di
tutte le opere tue; che ora c'insidii ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi
ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per
costume e per instituto, sei carnefice della tua propria famiglia, de' tuoi
figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango
privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono di perseguitare
chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi; ma
che tu, per niuna cagione, non lasci mai d'incalzarci, finché ci opprimi. E già
mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto
male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non
accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de' viventi,
preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di
continuo, dal quinto suo lustro in là, con un tristissimo declinare e perdere
senza sua colpa: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato
al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo
scadere, e agl'incomodi che ne seguono.
Natura. Immaginavi tu forse
che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle fatture, negli
ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho
l'intenzione a tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità.
Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non me
n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi
benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o
non fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi
avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne
avvedrei.
Islandese. Ponghiamo caso che uno m'invitasse spontaneamente
a una sua villa, con grande instanza; e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi
fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in
continuo pericolo di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla
pioggia. Egli, non che si prendesse cura d'intrattenermi in alcun passatempo o
di darmi alcuna comodità, per lo contrario appena mi facesse somministrare il
bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire,
minacciare e battere da' suoi figliuoli e dall'altra famiglia. Se querelandomi
io seco di questi mali trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa
villa per te? o mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo
servigio? e, bene ho altro a pensare che de' tuoi sollazzi, e di farti le buone
spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa
villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché
spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non ti si appartiene egli di fare in
modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e
senza pericolo? Così dico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servigio
degli uomini. Piuttosto crederei che l'avessi fatto e ordinato espressamente per
tormentarli. Ora domando: t'ho io forse pregato di pormi in questo universo? o
mi vi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà,
e senza mia saputa, e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo,
tu stessa, colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo,
se non tenermi lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non
vi sia tribolato e straziato, e che l'abitarvi non mi noccia? E questo che dico
di me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni
creatura.
Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di
quest'universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate
ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all'altra, ed
alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o l'altra di
loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se
fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
Islandese. Cotesto
medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto,
patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto
medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi
giova cotesta vita infelicissima dell'universo, conservata con danno e con morte
di tutte le cose che lo compongono? Mentre stavano in questi e simili
ragionamenti è fama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti e maceri
dall'inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell'Islandese; come fecero;
e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma sono alcuni
che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che
l'Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo
mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una
bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di
non so quale città di Europa.