Giacomo Leopardi
Operette morali
CAPITOLO PRIMO
Giuseppe Parini fu alla
nostra memoria uno dei pochissimi Italiani che all'eccellenza nelle lettere
congiunsero la profondità dei pensieri, e molta notizia ed uso della filosofia
presente: cose oramai sì necessarie alle lettere amene, che non si
comprenderebbe come queste se ne potessero scompagnare, se di ciò non si
vedessero in Italia infiniti esempi. Fu eziandio, come è noto, di singolare
innocenza, pietà verso gl'infelici e verso la patria, fede verso gli amici,
nobiltà d'animo, e costanza contro le avversità della natura e della fortuna,
che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse
dall'oscurità. Ebbe parecchi discepoli: ai quali insegnava prima a conoscere gli
uomini e le cose loro, e quindi a dilettarli coll'eloquenza e colla poesia. Tra
gli altri, a un giovane d'indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di
espettazione maravigliosa, venuto non molto prima nella sua disciplina, prese un
giorno a parlare in questa sentenza.
Tu cerchi, o figliuolo,
quella gloria che sola, si può dire, di tutte le altre, consente oggi di essere
colta da uomini di nascimento privato: cioè quella a cui si viene talora colla
sapienza, e cogli studi delle buone dottrine e delle buone lettere. Già
primieramente non ignori che questa gloria, con tutto che dai nostri sommi
antenati non fosse negletta, fu però tenuta in piccolo conto per comparazione
alle altre: e bene hai veduto in quanti luoghi e con quanta cura Cicerone, suo
caldissimo e felicissimo seguace, si scusi co' suoi cittadini del tempo e
dell'opera che egli poneva in procacciarla; ora allegando che gli studi delle
lettere e della filosofia non lo rallentavano in modo alcuno alle faccende
pubbliche, ora che sforzato dall'iniquità dei tempi ad astenersi dai negozi
maggiori, attendeva in quegli studi a consumare dignitosamente l'ozio suo; e
sempre anteponendo alla gloria de' suoi scritti quella del suo consolato, e
delle cose fatte da sé in beneficio della repubblica. E veramente, se il
soggetto principale delle lettere è la vita umana, il primo intento della
filosofia l'ordinare le nostre azioni; non è dubbio che l'operare è tanto più
degno e più nobile del meditare e dello scrivere, quanto è più nobile il fine
che il mezzo, e quanto le cose e i soggetti importano più che le parole e i
ragionamenti. Anzi, niun ingegno è creato dalla natura agli studi; né l'uomo
nasce a scrivere, ma solo a fare. Perciò veggiamo che i più degli scrittori
eccellenti, e massime de' poeti illustri, di questa medesima età; come, a
cagione di esempio, Vittorio Alfieri; furono da principio inclinati
straordinariamente alle grandi azioni: alle quali ripugnando i tempi, e forse
anche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cose grandi. Né sono
propriamente atti a scriverne quelli che non hanno disposizione e virtù di
farne. E puoi facilmente considerare in Italia, dove quasi tutti sono d'animo
alieno dai fatti egregi quanto pochi acquistino fama durevole colle scritture.
Io penso che l'antichità, specialmente romana o greca, si possa convenevolmente
figurare nel modo che fu scolpita in Argo la statua di Telesilla, poetessa,
guerriera e salvatrice della patria. La quale statua rappresentavala con un elmo
in mano, intenta a mirarlo, con dimostrazione di compiacersene, in atto di
volerlosi recare in capo; e a' piedi, alcuni volumi, quasi negletti da lei, come
piccola parte della sua gloria (n.32).
Ma tra noi moderni, esclusi
comunemente da ogni altro cammino di celebrità, quelli che si pongono per la via
degli studi, mostrano nella elezione quella maggiore grandezza d'animo che oggi
si può mostrare, e non hanno necessità di scusarsi colla loro patria. Di maniera
che in quanto alla magnanimità, lodo sommamente il tuo proposito. Ma perciocché
questa via, come quella che non è secondo la natura degli uomini, non si può
seguire senza pregiudizio del corpo, né senza moltiplicare in diversi modi
l'infelicità naturale del proprio animo; però innanzi ad ogni altra cosa, stimo
sia conveniente e dovuto non meno all'ufficio mio, che all'amor grande che tu
meriti e che io ti porto, renderti consapevole sì di varie difficoltà che si
frappongono al conseguimento della gloria alla quale aspiri, e sì del frutto che
ella è per produrti in caso che tu la conseguisca; secondo che fino a ora ho
potuto conoscere coll'esperienza o col discorso: acciocché, misurando teco
medesimo, da una parte, quanta sia l'importanza e il pregio del fine, e quanta
la speranza dell'ottenerlo; dall'altra, i danni, le fatiche e i disagi che porta
seco il cercarlo (dei quali ti ragionerò distintamente in altra occasione); tu
possa con piena notizia considerare e risolvere se ti sia più spediente di
seguitarlo, o di volgerti ad altra via.
CAPITOLO SECONDO
Potrei qui nel principio
distendermi lungamente sopra le emulazioni, le invidie, le censure acerbe, le
calunnie, le parzialità, le pratiche e i maneggi occulti e palesi contro la tua
riputazione, e gli altri infiniti ostacoli che la malignità degli uomini ti
opporrà nel cammino che hai cominciato. I quali ostacoli, sempre malagevolissimi
a superare, spesso insuperabili, fanno che più di uno scrittore, non solo in
vita, ma eziandio dopo la morte, è frodato al tutto dell'onore che se gli dee.
Perché, vissuto senza fama per l'odio o l'invidia altrui, morto si rimane
nell'oscurità per dimenticanza; potendo difficilmente avvenire che la gloria
d'alcuno nasca o risorga in tempo che, fuori delle carte per sé immobili e mute,
nessuna cosa ne ha cura. Ma le difficoltà che nascono dalla malizia degli
uomini, essendone stato scritto abbondantemente da molti, ai quali potrai
ricorrere, intendo di lasciarle da parte. Né anche ho in animo di narrare
quegl'impedimenti che hanno origine dalla fortuna propria dello scrittore, ed
eziandio dal semplice caso, o da leggerissime cagioni: i quali non di rado fanno
che alcuni scritti degni di somma lode, e frutto di sudori infiniti, sono
perpetuamente esclusi dalla celebrità, o stati pure in luce per breve tempo,
cadono e si dileguano interamente dalla memoria degli uomini; dove che altri
scritti o inferiori di pregio, o non superiori a quelli, vengono e si conservano
in grande onore. Io ti vo' solamente esporre le difficoltà e gl'impacci che
senza intervento di malvagità umana, contrastano gagliardamente il premio della
gloria, non all'uno o all'altro fuor dell'usato, ma per l'ordinario, alla
maggior parte degli scrittori grandi.
Ben sai che niuno si fa
degno di questo titolo, né si conduce a gloria stabile e vera, se non per opere
eccellenti e perfette, o prossime in qualche modo alla perfezione. Or dunque hai
da por mente a una sentenza verissima di un autore nostro lombardo; dico
dell'autore del Cortegiano (n.33):
la quale è che rare volte interviene che chi non è assueto a scrivere, per
erudito che egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed
industrie degli scrittori, né gustar la dolcezza ed eccellenza degli stili, e
quelle intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli antichi. E qui
primieramente pensa, quanto piccolo numero di persone sieno assuefatte ed
ammaestrate a scrivere; e però da quanto poca parte degli uomini, o presenti o
futuri, tu possa in qualunque caso sperare quell'opinione magnifica, che ti hai
proposto per frutto della tua vita. Oltre di ciò considera quanta sia nelle
scritture la forza dello stile; dalle cui virtù principalmente, e dalla cui
perfezione, dipende la perpetuità delle opere che cadono in qualunque modo nel
genere delle lettere amene. E spessissimo occorre che se tu spogli del suo stile
una scrittura famosa, di cui ti pensavi che quasi tutto il pregio stesse nelle
sentenze, tu la riduci in istato che ella ti par cosa di niuna stima. Ora la
lingua è tanta parte dello stile, anzi ha tal congiunzione seco, che
difficilmente si può considerare l'una di queste due cose disgiunta dall'altra;
a ogni poco si confondono insieme ambedue, non solamente nelle parole degli
uomini, ma eziandio nell'intelletto; e mille loro qualità e mille pregi o
mancamenti, appena, e forse in niun modo, colla più sottile e accurata
speculazione, si può distinguere e assegnare a quale delle due cose
appartengano, per essere quasi comuni e indivise tra l'una e l'altra. Ma certo
niuno straniero è, per tornare alle parole del Castiglione, assueto a
scrivere elegantemente nella tua lingua. Di modo che lo stile, parte sì
grande e sì rilevante dello scrivere, e cosa d'inesplicabile difficoltà e
fatica, tanto ad apprenderne l'intimo e perfetto artificio, quanto ad
esercitarlo, appreso che egli sia; non ha propriamente altri giudici, né altri
convenevoli estimatori, ed atti a poter lodarlo secondo il merito, se non coloro
che in una sola nazione del mondo hanno uso di scrivere. E verso tutto il resto
del genere umano, quelle immense difficoltà e fatiche sostenute circa esso
stile, riescono in buona e forse massima parte inutili e sparse al vento. Lascio
l'infinita varietà dei giudizi e delle inclinazioni dei letterati; per la quale
il numero delle persone atte a sentire le qualità lodevoli di questo o di quel
libro, si riduce ancora a molto meno.
Ma io voglio che tu abbi per
indubitato che a conoscere perfettamente i pregi di un'opera perfetta o vicina
alla perfezione, e capace veramente dell'immortalità, non basta essere
assuefatto a scrivere, ma bisogna saperlo fare quasi così perfettamente come lo
scrittore medesimo che hassi a giudicare. Perciocché l'esperienza ti mostrerà
che a proporzione che tu verrai conoscendo più intrinsecamente quelle virtù
nelle quali consiste il perfetto scrivere, e le difficoltà infinite che si
provano in procacciarle, imparerai meglio il modo di superare le une e di
conseguire le altre; in tal guisa che niuno intervallo e niuna differenza sarà
dal conoscerle, all'imparare e possedere il detto modo; anzi saranno l'una e
l'altra una cosa sola. Di maniera che l'uomo non giunge a poter discernere e
gustare compiutamente l'eccellenza degli scrittori ottimi, prima che egli
acquisti la facoltà di poterla rappresentare negli scritti suoi: perché
quell'eccellenza non si conosce né gustasi totalmente se non per mezzo dell'uso
e dell'esercizio proprio, e quasi, per così dire, trasferita in se stesso. E
innanzi a quel tempo, niuno per verità intende, che e quale sia propriamente il
perfetto scrivere. Ma non intendendo questo, non può né anche avere la debita
ammirazione agli scrittori sommi. E la più parte di quelli che attendono agli
studi, scrivendo essi facilmente, e credendosi scriver bene, tengono in verità
per fermo, quando anche dicano il contrario, che lo scriver bene sia cosa
facile. Or vedi a che si riduca il numero di coloro che dovranno potere
ammirarti e saper lodarti degnamente, quando tu con sudori e con disagi
incredibili, sarai pure alla fine riuscito a produrre un'opera egregia e
perfetta. Io ti so dire (e credi a questa età canuta) che appena due o tre sono
oggi in Italia, che abbiano il modo e l'arte dell'ottimo scrivere. Il qual
numero se ti pare eccessivamente piccolo, non hai da pensare contuttociò che
egli sia molto maggiore in tempo né in luogo alcuno.
Più volte io mi maraviglio meco medesimo come,
ponghiamo caso, Virgilio, esempio supremo di perfezione agli scrittori, sia
venuto e mantengasi in questa sommità di gloria. Perocché, quantunque io presuma
poco di me stesso, e creda non poter mai godere e conoscere ciascheduna parte
d'ogni suo pregio e d'ogni suo magistero; tuttavia tengo per certo che il
massimo numero de' suoi lettori e lodatori non iscorge ne' poemi suoi più che
una bellezza per ogni dieci o venti che a me, col molto rileggerli e meditarli,
viene pur fatto di scoprirvi. In vero io mi persuado che l'altezza della stima e
della riverenza verso gli scrittori sommi, provenga comunemente, in quelli
eziandio che li leggono e trattano, piuttosto da consuetudine ciecamente
abbracciata, che da giudizio proprio e dal conoscere in quelli per veruna guisa
un merito tale. E mi ricordo del tempo della mia giovinezza; quando io leggendo
i poemi di Virgilio con piena libertà di giudizio da una parte, e nessuna cura
dell'autorità degli altri, il che non è comune a molti; e dall'altra parte con
imperizia consueta a quell'età, ma forse non maggiore di quella che in
moltissimi lettori è perpetua; ricusava fra me stesso di concorrere nella
sentenza universale; non discoprendo in Virgilio molto maggiori virtù che nei
poeti mediocri. Quasi anche mi maraviglio che la fama di Virgilio sia potuta
prevalere a quella di Lucano. Vedi che la moltitudine dei lettori, non solo nei
secoli di giudizio falso e corrotto, ma in quelli ancora di sane e ben temperate
lettere, è molto più dilettata dalle bellezze grosse e patenti, che dalle
delicate e riposte; più dall'ardire che dalla verecondia; spesso eziandio
dall'apparente più che dal sostanziale; e per l'ordinario più dal mediocre che
dall'ottimo. Leggendo le lettere di un Principe, raro veramente d'ingegno, ma
usato a riporre nei sali, nelle arguzie, nell'instabilità, nell'acume quasi
tutta l'eccellenza dello scrivere, io m'avveggo manifestissimamente che egli,
nell'intimo de' suoi pensieri, anteponeva l'Enriade all'Eneide; benché non si
ardisse a profferire questa sentenza, per solo timore di non offendere le
orecchie degli uomini. In fine, io stupisco che il giudizio di pochissimi,
ancorché retto, abbia potuto vincere quello d'infiniti, e produrre
nell'universale quella consuetudine di stima non meno cieca che giusta. Il che
non interviene sempre, ma io reputo che la fama degli scrittori ottimi soglia
essere effetto del caso più che dei meriti loro: come forse ti sarà confermato
da quello che io sono per dire nel progresso del ragionamento.
CAPITOLO TERZO
Si è veduto già quanto pochi
avranno facoltà di ammirarti quando sarai giunto a quell'eccellenza che ti
proponi Ora avverti che più d'un impedimento si può frapporre anco a questi
pochi, che non facciano degno concetto del tuo valore, benché ne veggano i
segni. Non è dubbio alcuno, che gli scritti eloquenti o poetici, di qualsivoglia
sorta, non tanto si giudicano dalle loro qualità in se medesime, quanto
dall'effetto che essi fanno nell'animo di chi legge. In modo che il lettore nel
farne giudizio, li considera più, per così dire, in se proprio, che in loro
stessi. Di qui nasce, che gli uomini naturalmente tardi e freddi di cuore e
d'immaginazione, ancorché dotati di buon discorso, di molto acume d'ingegno, e
di dottrina non mediocre, sono quasi al tutto inabili a sentenziare
convenientemente sopra tali scritti; non potendo in parte alcuna immedesimare
l'animo proprio con quello dello scrittore; e ordinariamente dentro di sé li
disprezzano; perché leggendoli, e conoscendoli ancora per famosissimi, non
iscuoprono la causa della loro fama; come quelli a cui non perviene da lettura
tale alcun moto, alcun'immagine, e quindi alcun diletto notabile. Ora, a quegli
stessi che da natura sono disposti e pronti a ricevere e a rinnovellare in sé
qualunque immagine o affetto saputo acconciamente esprimere dagli scrittori,
intervengono moltissimi tempi di freddezza, noncuranza, languidezza d'animo,
impenetrabilità, e disposizione tale, che, mentre dura, li rende o conformi o
simili agli altri detti dianzi; e ciò per diversissime cause, intrinseche o
estrinseche, appartenenti allo spirito o al corpo, transitorie o durevoli. In
questi cotali tempi, niuno, se ben fosse per altro uno scrittore sommo, è buon
giudice degli scritti che hanno a muovere il cuore o l'immaginativa. Lascio la
sazietà dei diletti provati poco prima in altre letture tali; e le passioni, più
o meno forti, che sopravvengono ad ora ad ora; le quali bene spesso tenendo in
gran parte occupato l'animo, non lasciano luogo ai movimenti che in altra
occasione vi sarebbero eccitati dalle cose lette. Così, per le stesse o simili
cause, spesse volte veggiamo che quei medesimi luoghi, quegli spettacoli
naturali o di qualsivoglia genere, quelle musiche, e cento sì fatte cose, che in
altri tempi ci commossero, o sarebbero state atte a commuoverci se le avessimo
vedute o udite; ora vedendole e ascoltandole, non ci commuovono punto, né ci
dilettano; e non perciò sono men belle o meno efficaci in sé, che fossero
allora.
Ma quando, per
qualunque delle dette cagioni, l'uomo è mal disposto agli effetti dell'eloquenza
e della poesia, non lascia egli nondimeno né differisce il far giudizio dei
libri attenenti all'un genere o all'altro, che gli accade di leggere allora la
prima volta. A me interviene non di rado di ripigliare nelle mani Omero o
Cicerone o il Petrarca, e non sentirmi muovere da quella lettura in alcun modo.
Tuttavia, come già consapevole e certo della bontà di scrittori tali, sì per la
fama antica e sì per l'esperienza delle dolcezze cagionatemi da loro altre
volte; non fo per quella presente insipidezza, alcun pensiero contrario alla
loro lode. Ma negli scritti che si leggono la prima volta, e che per essere
nuovi, non hanno ancora potuto levare il grido, o confermarselo in guisa, che
non resti luogo a dubitare del loro pregio; niuna cosa vieta che il lettore,
giudicandoli dall'effetto che fanno presentemente nell'animo proprio, ed esso
animo non trovandosi in disposizione da ricevere i sentimenti e le immagini
volute da chi scrisse, faccia piccolo concetto d'autori e d'opere eccellenti.
Dal quale non è facile che egli si rimuova poi per altre letture degli stessi
libri, fatte in migliori tempi: perché verisimilmente il tedio provato nella
prima, lo sconforterà dalle altre; e in ogni modo, chi non sa quello che
importino le prime impressioni, e l'essere preoccupato da un giudizio,
quantunque falso?
Per lo
contrario, trovansi gli animi alcune volte, per una o per altra cagione, in
istato di mobilità, senso, vigore e caldezza tale, o talmente aperti e
preparati, che seguono ogni menomo impulso della lettura, sentono vivamente ogni
leggero tocco, e coll'occasione di ciò che leggono, creano in sé mille moti e
mille immaginazioni, errando talora in un delirio dolcissimo, e quasi rapiti
fuori di sé. Da questo facilmente avviene, che guardando ai diletti avuti nella
lettura, e confondendo gli effetti della virtù e della disposizione propria con
quelli che si appartengono veramente al libro; restino presi di grande amore ed
ammirazione verso quello, e ne facciano un concetto molto maggiore del giusto,
anche preponendolo ad altri libri più degni, ma letti in congiuntura meno
propizia. Vedi dunque a quanta incertezza è sottoposta la verità e la
rettitudine dei giudizi, anche delle persone idonee, circa gli scritti e
gl'ingegni altrui, tolta pure di mezzo qualunque malignità o favore. La quale
incertezza è tale, che l'uomo discorda grandemente da se medesimo
nell'estimazione di opere di valore uguale, ed anche di un'opera stessa, in
diverse età della vita, in diversi casi, e fino in diverse ore di un giorno.
CAPITOLO QUARTO
A fine poi che tu non presuma
che le predette difficoltà, consistenti nell'animo dei lettori non ben disposto,
occorrano rade volte e fuor dell'usato; considera che niuna cosa è maggiormente
usata, che il venir mancando nell'uomo coll'andar dell'età, la disposizione
naturale a sentire i diletti dell'eloquenza e della poesia, non meno che
dell'altre arti imitative, e di ogni bello mondano. Il quale decadimento
dell'animo, prescritto dalla stessa natura alla nostra vita, oggi è tanto
maggiore che egli si fosse agli altri tempi, e tanto più presto incomincia ed ha
più rapido progresso, specialmente negli studiosi, quanto che all'esperienza di
ciascheduno, si aggiunge a chi maggiore a chi minor parte della scienza nata
dall'uso e dalle speculazioni di tanti secoli passati. Per la qual cosa e per le
presenti condizioni del viver civile, si dileguano facilmente dall'immaginazione
degli uomini le larve della prima età, e seco le speranze dell'animo e colle
speranze gran parte dei desiderii, delle passioni, del fervore, della vita,
delle facoltà. Onde io piuttosto mi maraviglio che uomini di età matura, dotti
massimamente, e dediti a meditare sopra le cose umane, sieno ancora sottoposti
alla virtù dell'eloquenza e della poesia, che non che di quando in quando elle
si trovino impedite di fare in quelli alcun effetto. Perciocché abbi per certo,
che ad essere gagliardamente mosso dal bello e dal grande immaginato, fa
mestieri credere che vi abbia nella vita umana alcun che di grande e di bello
vero, e che il poetico del mondo non sia tutto favola. Le quali cose il giovane
crede sempre, quando anche sappia il contrario, finché l'esperienza sua propria
non sopravviene al sapere; ma elle sono credute difficilmente dopo la trista
disciplina dell'uso pratico, massime dove l'esperienza è congiunta coll'abito
dello speculare e colla dottrina.
Da questo discorso
seguirebbe che generalmente i giovani fossero migliori giudici delle opere
indirizzate a destare affetti ed immagini, che non sono gli uomini maturi o
vecchi. Ma da altro canto si vede che i giovani non accostumati alla lettura,
cercano in quella un diletto più che umano, infinito, e di qualità impossibili;
e tale non ve ne trovando, disprezzano gli scrittori: il che anco in altre età,
per simili cause, avviene alcune volte agl'illetterati. Quei giovani poi, che
sono dediti alle lettere, antepongono facilmente, come nello scrivere, così nel
giudicare gli scritti altrui, l'eccessivo al moderato, il superbo o il vezzoso
dei modi e degli ornamenti al semplice e al naturale, e le bellezze fallaci alle
vere; parte per la poca esperienza, parte per l'impeto dell'età. Onde i giovani,
i quali senza alcun fallo sono la parte degli uomini più disposta a lodare
quello che loro apparisce buono, come più veraci e candidi; rade volte sono atti
a gustare la matura e compiuta bontà delle opere letterarie. Col progresso degli
anni, cresce quell'attitudine che vien dall'arte, e decresce la naturale.
Nondimeno ambedue sono necessarie all'effetto.
Chiunque poi vive in città
grande, per molto che egli sia da natura caldo e svegliato di cuore e
d'immaginativa, io non so (eccetto se, ad esempio tuo, non trapassa in
solitudine il più del tempo) come possa mai ricevere dalle bellezze o della
natura o delle lettere, alcun sentimento tenero o generoso, alcun'immagine
sublime o leggiadra. Perciocché poche cose sono tanto contrarie a quello stato
dell'animo che ci fa capaci di tali diletti, quanto la conversazione di questi
uomini, lo strepito di questi luoghi, lo spettacolo della magnificenza vana,
della leggerezza delle menti, della falsità perpetua, delle cure misere, e
dell'ozio più misero, che vi regnano. Quanto al volgo dei letterati, sto per
dire che quello delle città grandi sappia meno far giudizio dei libri, che non
sa quello delle città piccole: perché nelle grandi come le altre cose sono per
lo più false e vane, così la letteratura comunemente è falsa e vana, o
superficiale. E se gli antichi reputavano gli esercizi delle lettere e delle
scienze come riposi e sollazzi in comparazione ai negozi, oggi la più parte di
quelli che nelle città grandi fanno professione di studiosi, reputano, ed
effettualmente usano, gli studi e lo scrivere, come sollazzi e riposi degli
altri sollazzi.
Io penso che
le opere riguardevoli di pittura, scultura ed architettura, sarebbero godute
assai meglio se fossero distribuite per le province, nelle città mediocri e
piccole; che accumulate, come sono, nelle metropoli: dove gli uomini, parte
pieni d'infiniti pensieri, parte occupati in mille spassi, e coll'animo
connaturato, o costretto, anche mal suo grado, allo svagamento, alla frivolezza
e alla vanità, rarissime volte sono capaci dei piaceri intimi dello spirito.
Oltre che la moltitudine di tante bellezze adunate insieme, distrae l'animo in
guisa, che non attendendo a niuna di loro se non poco, non può ricevere un
sentimento vivo; o genera tal sazietà, che elle si contemplano colla stessa
freddezza interna, che si fa qualunque oggetto volgare. Il simile dico della
musica: la quale nelle altre città non si trova esercitata così perfettamente, e
con tale apparato, come nelle grandi; dove gli animi sono meno disposti alle
commozioni mirabili di quell'arte, e meno, per dir così, musicali, che in ogni
altro luogo. Ma nondimeno alle arti è necessario il domicilio delle città grandi
sì a conseguire, e sì maggiormente a porre in opera la loro perfezione: e non
per questo, da altra parte, è men vero che il diletto che elle porgono quivi
agli uomini, è minore assai, che egli non sarebbe altrove. E si può dire che gli
artefici nella solitudine e nel silenzio, procurano con assidue vigilie,
industrie e sollecitudini, il diletto di persone, che solite a rivolgersi tra la
folla e il romore, non gusteranno se non piccolissima parte del frutto di tante
fatiche. La qual sorte degli artefici cade anco per qualche proporzionato modo
negli scrittori.
CAPITOLO QUINTO
Ma ciò sia detto come per
incidenza. Ora tornando in via, dico che gli scritti più vicini alla perfezione,
hanno questa proprietà, che ordinariamente alla seconda lettura piacciono più
che alla prima. Il contrario avviene in molti libri composti con arte e
diligenza non più che mediocre, ma non privi però di un qual si sia pregio
estrinseco ed apparente; i quali, riletti che sieno, cadono dall'opinione che
l'uomo ne avea conceputo alla prima lettura. Ma letti gli uni e gli altri una
volta sola, ingannano talora in modo anche i dotti ed esperti, che gli ottimi
sono posposti ai mediocri. Ora hai a considerare che oggi, eziandio le persone
dedite agli studi per instituto di vita, con molta difficoltà s'inducono a
rileggere libri recenti, massime il cui genere abbia per suo proprio fine il
diletto. La qual cosa non avveniva agli antichi; atteso la minor copia dei
libri. Ma in questo tempo ricco delle scritture lasciateci di mano in mano da
tanti secoli, in questo presente numero di nazioni letterate, in questa
eccessiva copia di libri prodotti giornalmente da ciascheduna di esse, in tanto
scambievole commercio fra tutte loro; oltre a ciò, in tanta moltitudine e
varietà delle lingue scritte, antiche e moderne, in tanto numero ed ampiezza di
scienze e dottrine di ogni maniera, e queste così strettamente connesse e
collegate insieme, che lo studioso è necessitato a sforzarsi di abbracciarle
tutte, secondo la sua possibilità; ben vedi che manca il tempo alle prime non
che alle seconde letture. Però qualunque giudizio vien fatto dei libri nuovi una
volta, difficilmente si muta. Aggiungi che per le stesse cause, anche nel primo
leggere i detti libri, massime di genere ameno, pochissimi e rarissime volte
pongono tanta attenzione e tanto studio, quanto è di bisogno a scoprire la
faticosa perfezione, l'arte intima e le virtù modeste e recondite degli scritti.
Di modo che in somma oggidì viene a essere peggiore la condizione dei libri
perfetti, che dei mediocri; le bellezze o doti di una gran parte dei quali, vere
o false, sono esposte agli occhi in maniera, che per piccole che sieno,
facilmente si scorgono alla prima vista. E possiamo dire con verità, che oramai
l'affaticarsi di scrivere perfettamente, è quasi inutile alla fama. Ma da altra
parte, i libri composti, come sono quasi tutti i moderni, frettolosamente, e
rimoti da qualunque perfezione; ancorché sieno celebrati per qualche tempo, non
possono mancar di perire in breve: come si vede continuamente nell'effetto. Ben
è vero che l'uso che oggi si fa dello scrivere è tanto, che eziandio molti
scritti degnissimi di memoria, e venuti pure in grido, trasportati indi a poco,
e avanti che abbiano potuto (per dir così) radicare la propria celebrità,
dall'immenso fiume dei libri nuovi che vengono tutto giorno in luce, periscono
senz'altra cagione, dando luogo ad altri, degni o indegni, che occupano la fama
per breve spazio. Così, ad un tempo medesimo, una sola gloria è dato a noi di
seguire, delle tante che furono proposte agli antichi; e quella stessa con molta
più difficoltà si consegue oggi, che anticamente.
Soli in questo naufragio
continuo e comune non meno degli scritti nobili che de' plebei, soprannuotano i
libri antichi; i quali per la fama già stabilita e corroborata dalla lunghezza
dell'età, non solo si leggono ancora diligentemente, ma si rileggono e studiano.
E nota che un libro moderno, eziandio se di perfezione fosse comparabile agli
antichi, difficilmente o per nessun modo potrebbe, non dico possedere lo stesso
grado di gloria, ma recare altrui tanta giocondità quanta dagli antichi si
riceve: e questo per due cagioni. La prima si è, che egli non sarebbe letto con
quell'accuratezza e sottilità che si usa negli scritti celebri da gran tempo, né
tornato a leggere se non da pochissimi, né studiato da nessuno; perché non si
studiano libri, che non sieno scientifici, insino a tanto che non sono divenuti
antichi. L'altra si è, che la fama durevole e universale delle scritture, posto
che a principio nascesse non da altra causa che dal merito loro proprio ed
intrinseco, ciò non ostante, nata e cresciuta che sia, moltiplica in modo il
loro pregio, che elle ne divengono assai più grate a leggere, che non furono per
l'addietro; e talvolta la maggior parte del diletto che vi si prova, nasce
semplicemente dalla stessa fama. Nel qual proposito mi tornano ora alla mente
alcune avvertenze notabili di un filosofo francese; il quale (n.34)
in sostanza, discorrendo intorno alle origini dei piaceri umani, dice così.
Molte cause di godimento compone e crea l'animo stesso nostro a se proprio,
massime collegando tra loro diverse cose. Perciò bene spesso avviene che quello
che piacque una volta, piaccia similmente un'altra; solo per essere piaciuto
innanzi; congiungendo noi coll'immagine del presente quella del passato. Per
modo di esempio, una commediante piaciuta agli spettatori nella scena, piacerà
verisimilmente ai medesimi anco nelle sue stanze; perocché sì del suono della
sua voce, sì della sua recitazione, sì dell'essere stati presenti agli applausi
riportati dalla donna, e in qualche modo eziandio del concetto di principessa
aggiunto a quel proprio che le conviene, si comporrà quasi un misto di più
cause, che produrranno un diletto solo. Certo la mente di ciascuno abbonda tutto
giorno d'immagini e di considerazioni accessorie alle principali. Di qui nasce
che le donne fornite di riputazione grande, e macchiate di qualche difetto
piccolo, recano talvolta in onore esso difetto, dando causa agli altri di
tenerlo in conto di leggiadria. E veramente il particolare amore che ponghiamo
chi ad una chi ad altra donna, è fondato il più delle volte in sulle sole
preoccupazioni che nascono in colei favore o dalla nobiltà del sangue, o dalle
ricchezze, o dagli onori che le sono renduti o dalla stima che le è portata da
certi; spesso eziandio dalla fama, vera o falsa, di bellezza o di grazia, e
dallo stesso amore avutole prima o di presente da altre persone. E chi non sa
che quasi tutti i piaceri vengono più dalla nostra immaginativa, che dalle
proprie qualità delle cose piacevoli?
Le quali avvertenze
quadrando ottimamente agli scritti non meno che alle altre cose, dico che se
oggi uscisse alla luce un poema uguale o superiore di pregio intrinseco
all'Iliade; letto anche attentissimamente da qualunque più perfetto giudice di
cose poetiche, gli riuscirebbe assai meno grato e men dilettevole di quella; e
per tanto gli resterebbe in molto minore estimazione: perché le virtù proprie
del poema nuovo, non sarebbero aiutate dalla fama di ventisette secoli, né da
mille memorie e mille rispetti, come sono le virtù dell'Iliade. Similmente dico,
che chiunque leggesse accuratamente o la Gerusalemme o il Furioso, ignorando in
tutto o in parte la loro celebrità; proverebbe nella lettura molto minor
diletto, che gli altri non fanno. Laonde in fine, parlando generalmente, i primi
lettori di ciascun'opera egregia, e i contemporanei di chi la scrisse, posto che
ella ottenga poi fama nella posterità, sono quelli che in leggerla godono meno
di tutti gli altri: il che risulta in grandissimo pregiudizio degli scrittori.
CAPITOLO SESTO
Queste sono in parte le difficoltà che ti contenderanno l'acquisto della gloria appresso agli studiosi, ed agli stessi eccellenti nell'arte dello scrivere e nella dottrina. E quanto a coloro che se bene bastantemente instrutti di quell'erudizione che oggi è parte, si può dire, necessaria di civiltà, non fanno professione alcuna di studi né di scrivere, e leggono solo per passatempo, ben sai che non sono atti a godere più che tanto della bontà dei libri: e questo, oltre al detto innanzi, anche per un'altra cagione, che mi resta a dire. Cioè che questi tali non cercano altro in quello che leggono, fuorché il diletto presente. Ma il presente è piccolo e insipido per natura a tutti gli uomini. Onde ogni cosa più dolce, e come dice Omero,
Venere, il sonno, il canto e le carole
presto e di necessità vengono a noia, se colla presente occupazione non è congiunta la speranza di qualche diletto o comodità futura che ne dipenda. Perocché la condizione dell'uomo non è capace di alcun godimento notabile, che non consista sopra tutto nella speranza, la cui forza è tale, che moltissime occupazioni prive per sé di ogni piacere, ed eziandio stucchevoli o faticose, aggiuntavi la speranza di qualche frutto, riescono gratissime e giocondissime, per lunghe che sieno; ed al contrario, le cose che si stimano dilettevoli in sé, disgiunte dalla speranza, vengono in fastidio quasi, per così dire, appena gustate. E in tanto veggiamo noi che gli studiosi sono come insaziabili della lettura, anco spesse volte aridissima, e provano un perpetuo diletto nei loro studi, continuati per buona parte del giorno; in quanto che nell'una e negli altri, essi hanno sempre dinanzi agli occhi uno scopo collocato nel futuro, e una speranza di progresso e di giovamento, qualunque egli si sia; e che nello stesso leggere che fanno alcune volte quasi per ozio e per trastullo, non lasciano di proporsi, oltre al diletto presente, qualche altra utilità, più o meno determinata. Dove che gli altri, non mirando nella lettura ad alcun fine che non si contenga, per dir così, nei termini di essa lettura; fino sulle prime carte dei libri più dilettevoli e più soavi, dopo un vano piacere, si trovano sazi: sicché sogliono andare nauseosamente errando di libro in libro, e in fine si maravigliano i più di loro, come altri possa ricevere dalla lunga lezione un lungo diletto. In tal modo, anche da ciò puoi conoscere che qualunque arte, industria e fatica di chi scrive, è perduta quasi del tutto in quanto a queste tali persone: del numero delle quali generalmente si è la più parte dei lettori. Ed anche gli studiosi, mutate coll'andare degli anni, come spesso avviene, la materia e la qualità dei loro studi, appena sopportano la lettura di libri dai quali in altro tempo furono o sarebbero potuti essere dilettati oltre modo; e se bene hanno ancora l'intelligenza e la perizia necessaria a conoscerne il pregio, pure non vi sentono altro che tedio; perché non si aspettano da loro alcuna utilità.
CAPITOLO SETTIMO
Fin qui si è detto dello
scrivere in generale, e certe cose che toccano principalmente alle lettere
amene, allo studio delle quali ti veggo inclinato più che ad alcun altro.
Diciamo ora particolarmente della filosofia; non intendendo però di separar
quelle da questa; dalla quale pendono totalmente. Penserai forse che derivando
la filosofia dalla ragione, di cui l'universale degli uomini inciviliti
partecipa forse più che dell'immaginativa e delle facoltà del cuore; il pregio
delle opere filosofiche debba essere conosciuto più facilmente e da maggior
numero di persone, che quello de' poemi, e degli altri scritti che riguardano al
dilettevole e al bello. Ora io, per me, stimo che il proporzionato giudizio e il
perfetto senso, sia poco meno raro verso quelle, che verso queste. Primieramente
abbi per cosa certa, che a far progressi notabili nella filosofia, non bastano
sottilità d'ingegno, e facoltà grande di ragionare, ma si ricerca eziandio molta
forza immaginativa; e che il Descartes, Galileo, il Leibnitz, il Newton, il
Vico, in quanto all'innata disposizione dei loro ingegni, sarebbero potuti
essere sommi poeti; e per lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi
filosofi. Ma perché questa materia, a dichiararla e trattarla appieno, vorrebbe
molte parole, e ci dilungherebbe assai dal nostro proposito; perciò
contentandomi pure di questo cenno, e passando innanzi, dico che solo i filosofi
possono conoscere perfettamente il pregio, e sentire il diletto, dei libri
filosofici. Intendo dire in quanto si è alla sostanza, non a qualsivoglia
ornamento che possono avere, o di parole o di stile o d'altro. Dunque, come gli
uomini di natura, per modo di dire, impoetica, se bene intendono le parole e il
senso, non ricevono i moti e le immagini de' poemi; così bene spesso quelli che
non sono dimesticati al meditare e filosofare seco medesimi, o che non sono atti
a pensare profondamente, per veri e per accurati che sieno i discorsi e le
conclusioni del filosofo, e chiaro il modo che egli usa in espor gli uni e
l'altre, intendono le parole e quello che egli vuol dire, ma non la verità de'
suoi detti. Perocché non avendo la facoltà o l'abito di penetrar coi pensieri
nell'intimo delle cose, né di sciorre e dividere le proprie idee nelle loro
menome parti, né di ragunare e stringere insieme un buon numero di esse idee, né
di contemplare colla mente in un tratto molti particolari in modo da poterne
trarre un generale, né di seguire indefessamente coll'occhio dell'intelletto un
lungo ordine di verità connesse tra loro a mano a mano, né di scoprire le
sottili e recondite congiunture che ha ciascuna verità con cento altre; non
possono facilmente, o in maniera alcuna, imitare e reiterare colla mente propria
le operazioni fatte, né provare le impressioni provate, da quella del filosofo;
unico modo avedere, comprendere, ed estimare convenientemente tutte le cause che
indussero esso filosofo a far questo o quel giudizio, affermare o negare questa
o quella cosa, dubitar di tale o di tal altra. Sicché quantunque intendano i
suoi concetti, non intendono che sieno veri o probabili; non avendo, e non
potendo fare, una quasi esperienza della verità e della probabilità loro. Cosa
poco diversa da quella che agli uomini naturalmente freddi accade circa le
immaginazioni e gli affetti espressi dai poeti. E ben sai che egli è comune al
poeta e al filosofo l'internarsi nel profondo degli animi umani, e trarre in
luce le loro intime qualità e varietà, gli andamenti, i moti e i successi
occulti, le cause e gli effetti dell'une e degli altri: nelle quali cose, quelli
che non sono atti a sentire in sé la corrispondenza de' pensieri poetici al
vero, non sentono anche, e non conoscono, quella dei filosofici.
Dalle dette cause nasce
quello che veggiamo tutto dì, che molte opere egregie, ugualmente chiare ed
intelligibili a tutti, ciò non ostante, ad alcuni paiono contenere mille verità
certissime; ad altri, mille manifesti errori: onde elle sono impugnate,
pubblicamente o privatamente; non solo per malignità o per interesse o per altre
simili cagioni, ma eziandio per imbecillità di mente, e per incapacità di
sentire e di comprendere la certezza dei loro principii, la rettitudine delle
deduzioni e delle conclusioni, e generalmente la convenienza, l'efficacia e la
verità dei loro discorsi. Spesse volte le più stupende opere filosofiche sono
anche imputate di oscurità, non per colpa degli scrittori, ma per la profondità
o la novità dei sentimenti da un lato, e dall'altro l'oscurità dell'intelletto
di chi non li potrebbe comprendere in nessun modo. Considera dunque anche nel
genere filosofico quanta difficoltà di aver lode, per dovuta che sia. Perocché
non puoi dubitare, se anche io non lo esprimo, che il numero dei filosofi veri e
profondi, fuori dei quali non e chi sappia far convenevole stima degli altri
tali, non sia piccolissimo anche nell'età presente, benché dedita all'amore
della filosofia più che le passate. Lascio le varie fazioni, o comunque si
convenga chiamarle, in cui sono divisi oggi, come sempre furono, quelli che
fanno professione di filosofare: ciascuna delle quali nega ordinariamente la
debita lode e stima a quei delle altre; non solo per volontà, ma per avere
l'intelletto occupato da altri principii.
CAPITOLO OTTAVO
Se poi (come non è cosa
alcuna che io non mi possa promettere di cotesto ingegno) tu salissi col sapere
e colla meditazione a tanta altezza, che ti fosse dato, come fu a qualche eletto
spirito, di scoprire alcuna principalissima verità, non solo stata prima
incognita in ogni tempo, ma rimota al tutto dall'espettazione degli uomini, e al
tutto diversa o contraria alle opinioni presenti, anco dei saggi; non pensar di
avere a raccorre in tua vita da questo discoprimento alcuna lode non volgare.
Anzi non ti sarà data lode, né anche da' sapienti (eccettuato forse una loro
menoma parte), finché ripetute quelle medesime verità, ora da uno ora da altro,
a poco a poco e con lunghezza di tempo, gli uomini vi assuefacciano prima gli
orecchi e poi l'intelletto. Perocché niuna verità nuova, e del tutto aliena dai
giudizi correnti; quando bene dal primo che se ne avvide, fosse dimostrata con
evidenza e certezza conforme o simile alla geometrica; non fu mai potuta, se
pure le dimostrazioni non furono materiali, introdurre e stabilire nel mondo
subitamente; ma solo in corso di tempo, mediante la consuetudine e l'esempio:
assuefacendosi gli uomini al credere come ad ogni altra cosa; anzi credendo
generalmente per assuefazione, non per certezza di prove concepita nell'animo:
tanto che in fine essa verità, cominciata a insegnare ai fanciulli, fu accettata
comunemente, ricordata con maraviglia l'ignoranza della medesima, e derise le
sentenze diverse o negli antenati o nei presenti. Ma ciò con tanto maggiore
difficoltà e lunghezza, quanto queste sì fatte verità nuove e incredibili,
furono maggiori e più capitali, e quindi sovvertitrici di maggior numero di
opinioni radicate negli animi. Né anche gl'intelletti acuti ed esercitati,
sentono facilmente tutta l'efficacia delle ragioni che dimostrano simili verità
inaudite, ed eccedenti di troppo spazio i termini delle cognizioni e dell'uso di
essi intelletti; massime quando tali ragioni e tali verità ripugnano alle
credenze inveterate nei medesimi. Il Descartes al suo tempo, nella geometria, la
quale egli amplificò maravigliosamente, coll'adattarvi l'algebra e cogli altri
suoi trovati, non fu né pure inteso, se non da pochissimi. Il simile accadde al
Newton. In vero, la condizione degli uomini disusatamente superiori di sapienza
alla propria età, non è molto diversa da quella dei letterati e dotti che vivono
in città o province vacue di studi: perocché né questi, come dirò poi, da' lor
cittadini o provinciali, né quelli da' contemporanei, sono tenuti in quel conto
che meriterebbero; anzi spessissime volte sono vilipesi, per la diversità della
vita o delle opinioni loro da quelle degli altri, e per la comune insufficienza
a conoscere il pregio delle loro facoltà ed opere.
Non è dubbio che il genere
umano a questi tempi, e insino dalla restaurazione della civiltà, non vada
procedendo innanzi continuamente nel sapere. Ma il suo procedere e tardo e
misurato: laddove gli spiriti sommi e singoli, che si danno alla speculazione di
quest'universo sensibile all'uomo o intelligibile, ed al rintracciamento del
vero, camminano, anzi talora corrono, velocemente, e quasi senza misura alcuna.
E non per questo è possibile che il mondo, in vederli procedere così spediti,
affretti il cammino tanto, che giunga con loro o poco più tardi di loro, colà
dove essi per ultimo si rimangono. Anzi non esce del suo passo; e non si conduce
alcune volte a questo o a quel termine, se non solamente in ispazio di uno o di
più secoli da poi che qualche alto spirito vi si fu condotto.
È sentimento, si può dire,
universale, che il sapere umano debba la maggior parte del suo progresso a
quegl'ingegni supremi, che sorgono di tempo in tempo, quando uno quando altro,
quasi miracoli di natura. Io per lo contrario stimo che esso debba agl'ingegni
ordinari il più, agli straordinari pochissimo. Uno di questi, ponghiamo, fornito
che egli ha colla dottrina lo spazio delle conoscenze de' suoi contemporanei,
procede nel sapere, per dir così, dieci passi più innanzi. Ma gli altri uomini,
non solo non si dispongono a seguitarlo, anzi il più delle volte, per tacere il
peggio, si ridono del suo progresso. Intanto molti ingegni mediocri, forse in
parte aiutandosi dei pensieri e delle scoperte di quel sommo, ma principalmente
per mezzo degli studi propri, fanno congiuntamente un passo; nel che per la
brevità dello spazio, cioè per la poca novità delle sentenze, ed anche per la
moltitudine di quelli che ne sono autori, in capo di qualche anno, sono
seguitati universalmente. Così, procedendo, giusta il consueto, a poco a poco, e
per opera ed esempio di altri intelletti mediocri, gli uomini compiono
finalmente il decimo passo; e le sentenze di quel sommo sono comunemente
accettate per vere in tutte le nazioni civili. Ma esso, già spento da gran
tempo, non acquista pure per tal successo una tarda e intempestiva riputazione;
parte per essere già mancata la sua memoria, o perché l'opinione ingiusta avuta
di lui mentre visse, confermata dalla lunga consuetudine, prevale a ogni altro
rispetto; parte perché gli uomini non sono venuti a questo grado di cognizioni
per opera sua; e parte perché già nel sapere gli sono uguali, presto lo
sormonteranno, e forse gli sono superiori anche al presente, per essersi potute
colla lunghezza del tempo dimostrare e dichiarare meglio le verità immaginate da
lui, ridurre le sue congetture a certezza, dare ordine e forma migliore a' suoi
trovati, e quasi maturarli. Se non che forse qualcuno degli studiosi, riandando
le memorie dei tempi addietro, considerate le opinioni di quel grande, e messe a
riscontro con quelle de' suoi posteri, si avvede come e quanto egli precorresse
il genere umano, e gli porge alcune lodi, che levano poco romore, e vanno presto
in dimenticanza.
Se bene il
progresso del sapere umano, come il cadere dei gravi, acquista di momento in
momento, maggiore celerità; nondimeno egli è molto difficile ad avvenire che una
medesima generazione d'uomini muti sentenza, o conosca gli errori propri, in
guisa, che ella creda oggi il contrario di quel che credette in altro tempo.
Bensì prepara tali mezzi alla susseguente, che questa poi conosce e crede in
molte cose il contrario di quella. Ma come niuno sente il perpetuo moto che ci
trasporta in giro insieme colla terra, così l'universale degli uomini non si
avvede del continuo procedere che fanno le sue conoscenze, né dell'assiduo
variare de' suoi giudizi. E mai non muta opinione in maniera, che egli si creda
di mutarla. Ma certo non potrebbe fare di non crederlo e di non avvedersene,
ogni volta che egli abbracciasse subitamente una sentenza molto aliena da quelle
tenute or ora. Per tanto, niuna verità così fatta, salvo che non cada sotto ai
sensi, sarà mai creduta comunemente dai contemporanei del primo che la conobbe.
CAPITOLO NONO
Facciamo che superato ogni
ostacolo, aiutato il valore dalla fortuna, abbi conseguito in fatti, non pur
celebrità, ma gloria, e non dopo morte ma in vita. Veggiamo che frutto ne
ritrarrai. Primieramente quel desiderio degli uomini di vederti e conoscerti di
persona, quell'essere mostrato a dito, quell'onore e quella riverenza
significata dai presenti cogli atti e colle parole, nelle quali cose consiste la
massima utilità di questa gloria che nasce dagli scritti, parrebbe che più
facilmente ti dovessero intervenire nelle città piccole, che nelle grandi; dove
gli occhi e gli animi sono distratti e rapiti parte dalla potenza, parte dalla
ricchezza, in ultimo dalle arti che servono all'intrattenimento e alla
giocondità della vita inutile. Ma come le città piccole mancano per lo più di
mezzi e di sussidi onde altri venga all'eccellenza nelle lettere e nelle
dottrine; e come tutto il raro e il pregevole concorre e si aduna nelle città
grandi; perciò le piccole, di rado abitate dai dotti, e prive ordinariamente di
buoni studi, sogliono tenere tanto basso conto, non solo della dottrina e della
sapienza, ma della stessa fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi,
che l'una e l'altre in quei luoghi non sono pur materia d'invidia. E se per caso
qualche persona riguardevole o anche straordinaria d'ingegno e di studi, si
trova abitare in luogo piccolo; l'esservi al tutto unica, non tanto non le
accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte, quando anche famosa al
di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli uomini, la più negletta e oscura
persona del luogo. Come là dove l'oro e l'argento fossero ignoti e senza pregio,
chiunque essendo privo di ogni altro avere, abbondasse di questi metalli, non
sarebbe più ricco degli altri, anzi poverissimo, e per tale avuto; così là dove
l'ingegno e la dottrina non si conoscono, e non conosciuti non si apprezzano,
quivi se pur vi ha qualcuno che ne abbondi, questi non ha facoltà di soprastare
agli altri, e quando non abbia altri beni, è tenuto a vile. E tanto egli e lungi
da potere essere onorato in simili luoghi, che bene spesso egli vi è riputato
maggiore che non è in fatti, né perciò tenuto in alcuna stima. Al tempo che,
giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo Bosisio; conosciutosi per la
terra ch'io soleva attendere agli studi, e mi esercitava alcun poco nello
scrivere; i terrazzani mi riputavano poeta, filosofo, fisico, matematico,
medico, legista, teologo, e perito di tutte le lingue del mondo; e
m'interrogavano, senza fare una menoma differenza, sopra qualunque punto di qual
si sia disciplina o favella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E
non per questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore
assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io li lasciava venire
in dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco meno smisurata che essi non
pensavano, io scadeva ancora moltissimo nel loro concetto, e all'ultimo si
persuadevano che essa mia dottrina non si stendesse niente più che la loro.
Nelle città grandi, quanti
ostacoli si frappongano, siccome all'acquisto della gloria, così a poter godere
il frutto dell'acquistata, non ti sarà difficile a giudicare dalle cose dette
alquanto innanzi. Ora aggiungo, che quantunque nessuna fama sia più difficile a
meritare, che quella di egregio poeta o di scrittore ameno o di filosofo, alle
quali tu miri principalmente, nessuna con tutto questo riesce meno fruttuosa a
chi la possiede. Non ti sono ignote le querele perpetue, gli antichi e i moderni
esempi, della povertà e delle sventure de' poeti sommi. In Omero, tutto (per
cosi dire) è vago e leggiadramente indefinito, siccome nella poesia, così nella
persona; di cui la patria, la vita, ogni cosa, è come un arcano impenetrabile
agli uomini. Solo, in tanta incertezza e ignoranza, si ha da una costantissima
tradizione, che Omero fu povero e infelice: quasi che la fama e la memoria dei
secoli non abbia voluto lasciar luogo a dubitare che la fortuna degli altri
poeti eccellenti non fosse comune al principe della poesia. Ma lasciando degli
altri beni, e dicendo solo dell'onore, nessuna fama nell'uso della vita suol
essere meno onorevole, e meno utile a esser tenuto da più degli altri, che sieno
le specificate or ora. O che la moltitudine delle persone che le ottengono senza
merito, e la stessa immensa difficoltà di meritarle, tolgano pregio e fede a
tali riputazioni; o piuttosto perché quasi tutti gli uomini d'ingegno
leggermente culto, si credono avere essi medesimi, o potere facilmente
acquistare, tanta notizia e facoltà sì di lettere amene e sì di filosofia, che
non riconoscono per molto superiori a sé quelli che veramente vagliono in queste
cose; o parte per l'una, parte per l'altra cagione; certo si è che l'aver nome
di mediocre matematico, fisico, filologo, antiquario; di mediocre pittore,
scultore, musico; di essere mezzanamente versato anche in una sola lingua antica
o pellegrina; è causa di ottenere appresso al comune degli uomini, eziandio
nelle città migliori, molta più considerazione e stima, che non si ottiene
coll'essere conosciuto e celebrato dai buoni giudici per filosofo o poeta
insigne, o per uomo eccellente nell'arte del bello scrivere. Così le due parti
più nobili, più faticose ad acquistare, più straordinarie, più stupende; le due
sommità, per così dire, dell'arte e della scienza umana; dico la poesia e la
filosofia; sono in chi le professa, specialmente oggi, le facoltà più neglette
del mondo; posposte ancora alle arti che si esercitano principalmente colla
mano, così per altri rispetti, come perché niuno presume né di possedere alcuna
di queste non avendola procacciata, né di poterla procacciare senza studio e
fatica. In fine, il poeta e il filosofo non hanno in vita altro frutto del loro
ingegno, altro premio dei loro studi, se non forse una gloria nata e contenuta
fra un piccolissimo numero di persone. Ed anche questa è una delle molte cose
nelle quali si conviene colla poesia la filosofia, povera anch'essa e
nuda, come canta il Petrarca (n.35),
non solo di ogni altro bene ma di riverenza e di onore.
CAPITOLO DECIMO
Non potendo nella
conversazione degli uomini godere quasi alcun beneficio della tua gloria, la
maggiore utilità che ne ritrarrai, sarà di rivolgerla nell'animo e di
compiacertene teco stesso nel silenzio della tua solitudine, con pigliarne
stimolo e conforto a nuove fatiche, e fartene fondamento a nuove speranze.
Perocché la gloria degli scrittori, non solo, come tutti i beni degli uomini,
riesce più grata da lungi che da vicino, ma non è mai, si può dire, presente a
chi la possiede, e non si ritrova in nessun luogo.
Dunque per ultimo ricorrerai
coll'immaginativa a quell'estremo rifugio e conforto degli animi grandi, che è
la posterità. Nel modo che Cicerone, ricco non di una semplice gloria, né questa
volgare e tenue, ma di una moltiplice, e disusata, e quanta ad un sommo antico e
romano, tra uomini romani e antichi, era conveniente che pervenisse; nondimeno
si volge col desiderio alle generazioni future, dicendo, benché sotto altra
persona (n.36):
pensi tu che io mi fossi potuto indurre a prendere e a sostenere tante
fatiche il dì e la notte, in città e nel campo, se avessi creduto che la mia
gloria non fosse per passare i termini della mia vita? Non era molto più da
eleggere un vivere ozioso e tranquillo, senza alcuna fatica o sollecitudine? Ma
l'animo mio, non so come, quasi levato alto il capo, mirava di continuo alla
posterità in modo, come se egli, passato che fosse di vita, allora finalmente
fosse per vivere. Il che da Cicerone si riferisce a un sentimento
dell'immortalità degli animi propri, ingenerato da natura nei petti umani. Ma la
cagione vera si è, che tutti i beni del mondo non prima sono acquistati, che si
conoscono indegni delle cure e delle fatiche avute in procacciarli; massimamente
la gloria, che fra tutti gli altri è di maggior prezzo a comperare, e di meno
uso a possedere. Ma come, secondo il detto di Simonide (n.37),
La bella speme tutti ci nutrica Di sembianze beate; Onde ciascuno indarno si affatica; Altri l'aurora amica, altri l'etate O la stagione aspetta: E nullo in terra il mortal corso affretta, Cui nell'anno avvenir facili e pii Con Pluto gli altri iddii La mente non prometta; |
così, di mano in mano che altri per prova è fatto certo della vanità della gloria, la speranza, quasi cacciata e inseguita di luogo in luogo, in ultimo non avendo più dove riposarsi in tutto lo spazio della vita, non perciò vien meno, ma passata di là dalla stessa morte, si ferma nella posterità. Perocché l'uomo è sempre inclinato e necessitato a sostenersi del ben futuro, così come egli è sempre malissimo soddisfatto del ben presente. Laonde quelli che sono desiderosi di gloria, ottenutala pure in vita, si pascono principalmente di quella che sperano possedere dopo la morte, nel modo stesso che niuno è così felice oggi, che disprezzando la vana felicità presente, non si conforti col pensiero di quella parimente vana, che egli si promette nell'avvenire.
CAPITOLO UNDECIMO
Ma in fine, che è questo
ricorrere che facciamo alla posterità? Certo la natura dell'immaginazione umana
porta che si faccia dei posteri maggior concetto e migliore, che non si fa dei
presenti, né dei passati eziandio; solo perché degli uomini che ancora non sono,
non possiamo avere alcuna contezza, né per pratica né per fama. Ma riguardando
alla ragione, e non all'immaginazione, crediamo noi che in effetto quelli che
verranno, abbiano a essere migliori dei presenti? Io credo piuttosto il
contrario, ed ho per veridico il proverbio, che il mondo invecchia peggiorando.
Miglior condizione mi parrebbe quella degli uomini egregi, se potessero
appellare ai passati; i quali, a dire di Cicerone (n.38),
non furono inferiori di numero a quello che saranno i posteri, e di virtù furono
superiori assai. Ma certo il più valoroso uomo di questo secolo non riceverà
dagli antichi alcuna lode. Concedasi che i futuri, in quanto saranno liberi
dall'emulazione, dall'invidia, dall'amore e dall'odio, non già tra se stessi, ma
verso noi, sieno per essere più diritti estimatori delle cose nostre, che non
sono i contemporanei. Forse anco per gli altri rispetti saranno migliori
giudici? Pensiamo noi, per dir solamente di quello che tocca agli studi, che i
posteri sieno per avere un maggior numero di poeti eccellenti, di scrittori
ottimi, di filosofi veri e profondi? poiché si è veduto che questi soli possono
fare degna stima dei loro simili. Ovvero, che il giudizio di questi avrà maggior
efficacia nella moltitudine di allora, che non ha quello dei nostri nella
presente? Crediamo che nel comune degli uomini le facoltà del cuore,
dell'immaginativa, dell'intelletto, saranno maggiori che non sono oggi?
Nelle lettere amene non
veggiamo noi quanti secoli sono stati di sl perverso giudizio, che disprezzata
la vera eccellenza dello scrivere, dimenticati o derisi gli ottimi scrittori
antichi o nuovi, hanno amato e pregiato costantemente questo o quel modo
barbaro; tenendolo eziandio per solo convenevole e naturale; perché qualsivoglia
consuetudine, quantunque corrotta e pessima, difficilmente si discerne dalla
natura? E ciò non si trova essere avvenuto in secoli e nazioni per altro gentili
e nobili? Che certezza abbiamo noi che la posterità sia per lodar sempre quei
modi dello scrivere che noi lodiamo? se pure oggi si lodano quelli che sono
lodevoli veramente. Certo i giudizi e le inclinazioni degli uomini circa le
bellezze dello scrivere, sono mutabilissime, e varie secondo i tempi, le nature
dei luoghi e dei popoli, i costumi, gli usi, le persone. Ora a questa varietà ed
incostanza è forza che soggiaccia medesimamente la gloria degli scrittori.
Anche più varia e mutabile
si è la condizione così della filosofia come delle altre scienze: se bene al
primo aspetto pare il contrario: perché le lettere amene riguardano al bello,
che pende in gran parte dalle consuetudini e dalle opinioni; le scienze al vero,
ch'è immobile e non patisce cambiamento. Ma come questo vero è celato ai
mortali, se non quanto i secoli ne discuoprono a poco a poco; però da una parte,
sforzandosi gli uomini di conoscerlo, congetturandolo, abbracciando questa o
quella apparenza in sua vece, si dividono in molte opinioni e molte sette: onde
si genera nelle scienze non piccola varietà. Da altra parte, colle nuove notizie
e coi nuovi quasi barlumi del vero, che si vengono acquistando di mano in mano,
crescono le scienze di continuo: per la qual cosa, e perché vi prevagliono in
diversi tempi diverse opinioni, che tengono luogo di certezze, avviene che esse,
poco o nulla durando in un medesimo stato, cangiano forma e qualità di tratto in
tratto. Lascio il primo punto, cioè la varietà; che forse non è di minore
nocumento alla gloria dei filosofi o degli scienziati appresso ai loro posteri,
che appresso ai contemporanei. Ma la mutabilità delle scienze e della filosofia,
quanto pensi tu che debba nuocere a questa gloria nella posterità? Quando per
nuove scoperte fatte, o per nuove supposizioni e congetture, lo stato di una o
di altra scienza sarà notabilmente mutato da quello che egli è nel nostro
secolo; in che stima saranno tenuti gli scritti e i pensieri di quegli uomini
che oggi in essa scienza hanno maggior lode? Chi legge ora più le opere di
Galileo? Ma certo elle furono al suo tempo mirabilissime; né forse migliori, né
più degne di un intelletto sommo, né piene di maggiori trovati e di concetti più
nobili, si potevano allora scrivere in quelle materie. Nondimeno ogni mediocre
fisico o matematico dell'età presente, si trova essere, nell'una o nell'altra
scienza, molto superiore a Galileo. Quanti leggono oggidì gli scritti del
cancellier Bacone? chi si cura di quello del Mallebranche? e la stessa opera del
Locke, se i progressi della scienza quasi fondata da lui, saranno in futuro così
rapidi, come mostrano dover essere, quanto tempo andrà per le mani degli uomini?
Veramente la stessa forza
d'ingegno, la stessa industria e fatica, che i filosofi e gli scienziati usano a
procurare la propria gloria, coll'andar del tempo sono causa o di spegnerla o di
oscurarla. Perocché dall'aumento che essi recano ciascuno alla loro scienza, e
per cui vengono in grido, nascono altri aumenti, per li quali il nome e gli
scritti loro vanno a poco a poco in disuso. E certo è difficile ai più degli
uomini l'ammirare e venerare in altri una scienza molto inferiore alla propria.
Ora chi può dubitare che l'età prossima non abbia a conoscere la falsità di
moltissime cose affermate oggi o credute da quelli che nel sapere sono primi, e
a superare di non piccolo tratto nella notizia del vero l'età presente?
CAPITOLO DUODECIMO
Forse in ultimo luogo ricercherai d'intendere il mio parere e consiglio espresso, se a te, per tuo meglio, si convenga più di proseguire o di omettere il cammino di questa gloria, sì povera di utilità, sì difficile e incerta non meno a ritenere che a conseguire, simile all'ombra, che quando tu l'abbi tra le mani, non puoi né sentirla, né fermarla che non si fugga. Dirò brevemente, senz'alcuna dissimulazione, il mio parere. Io stimo che cotesta tua maravigliosa acutezza e forza d'intendimento, cotesta nobiltà, caldezza e fecondità di cuore e d'immaginativa, sieno di tutte le qualità che la sorte dispensa agli animi umani, le più dannose e lacrimevoli a chi le riceve. Ma ricevute che sono, con difficoltà si fugge il loro danno: e da altra parte, a questi tempi, quasi l'unica utilità che elle possono dare, si è questa gloria che talvolta se ne ritrae con applicarle alle lettere e alle dottrine. Dunque, come fanno quei poveri, che essendo per alcun accidente manchevoli o mal disposti di qualche loro membro, s'ingegnano di volgere questo loro infortunio al maggior profitto che possono, giovandosi di quello a muovere per mezzo della misericordia la liberalità degli uomini; così la mia sentenza è, che tu debba industriarti di ricavare a ogni modo da coteste tue qualità quel solo bene, quantunque piccolo e incerto, che sono atte a produrre. Comunemente elle sono avute per benefizi e doni della natura, e invidiate spesso da chi ne è privo, ai passati o ai presenti che le sortirono. Cosa non meno contraria al retto senso, che se qualche uomo sano invidiasse a quei miseri che io diceva, le calamità del loro corpo; quasi che il danno di quelle fosse da eleggere volentieri, per conto dell'infelice guadagno che partoriscono. Gli altri attendono a operare, per quanto concedono i tempi, e a godere, quanto comporta questa condizione mortale. Gli scrittori grandi, incapaci, per natura o per abito, di molti piaceri umani; privi di altri molti per volontà; non di rado negletti nel consorzio degli uomini, se non forse dai pochi che seguono i medesimi studi; hanno per destino di condurre una vita simile alla morte, e vivere, se pur l'ottengono, dopo sepolti. Ma il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande; la qual cosa è richiesta massime alla tua virtù, e di quelli che ti somigliano.
DIALOGO DI FEDERICO
RUYSCH
E DELLE SUE MUMMIE (n.39)
Coro di morti nello studio di Federico Ruysch |
Sola nel mondo eterna, a cui si
volve Ogni creata cosa, In te, morte, si posa Nostra ignuda natura; Lieta no, ma sicura Dall'antico dolor. Profonda notte Nella confusa mente Il pensier grave oscura; Alla speme, al desio, l'arido spirto Lena mancar si sente: Così d'affanno e di temenza è sciolto, E l'età vote e lente Senza tedio consuma. Vivemmo: e qual di paurosa larva, E di sudato sogno, A lattante fanciullo erra nell'alma Confusa ricordanza: Tal memoria n'avanza Del viver nostro: ma da tema è lunge Il rimembrar. Che fummo? Che fu quel punto acerbo Che di vita ebbe nome? Cosa arcana e stupenda Oggi è la vita al pensier nostro, e tale Qual de' vivi al pensiero L'ignota morte appar. Come da morte Vivendo rifuggia, così rifugge Dalla fiamma vitale Nostra ignuda natura; Lieta no ma sicura, Però ch'esser beato Nega ai mortali e nega a' morti il fato. |
Ruysch fuori dello studio, guardando per gli spiragli
dell'uscio. Diamine.! Chi ha insegnato la musica a questi morti, che cantano
di mezza notte come galli? In verità che io sudo freddo, e per poco non sono più
morto di loro. Io non mi pensava perché gli ho preservati dalla corruzione, che
mi risuscitassero. Tant'è: con tutta la filosofia, tremo da capo a piedi. Mal
abbia quel diavolo che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Non so che mi
fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che non rompano l'uscio, o non escano pel
buco della chiave, e mi vengano a trovare al letto? Chiamare aiuto per paura de'
morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, e proviamo un poco di far
paura a
loro.
Entrando.
Figliuoli, a che giuoco giochiamo? non vi ricordate di essere morti? che è
cotesto baccano? forse vi siete insuperbiti per la visita dello Czar (n.40),
e vi pensate di non essere più soggetti alle leggi di prima? Io m'immagino che
abbiate avuto intenzione di far da burla, e non da vero. Se siete risuscitati,
me ne rallegro con voi; ma non ho tanto, che io possa far le spese ai vivi, come
ai morti; e però levatevi di casa mia. Se è vero quel che si dice dei vampiri, e
voi siete di quelli, cercate altro sangue da bere; che io non sono disposto a
lasciarmi succhiare il mio, come vi sono stato liberale di quel finto, che vi ho
messo nelle vene (n.41).
In somma, se vorrete continuare a star quieti e in silenzio, come siete stati
finora, resteremo in buona concordia, e in casa mia non vi mancherà niente; se
no, avvertite ch'io piglio la stanga dell'uscio, e vi ammazzo tutti.
Morto. Non andare in collera; che io ti prometto che resteremo tutti
morti come siamo, senza che tu ci ammazzi.
Ruysch. Dunque che è
cotesta fantasia che vi è nata adesso, di cantare?
Morto. Poco fa
sulla mezza notte appunto, si e compiuto per la prima volta quell'anno grande e
matematico, di cui gli antichi scrivono tante cose; e questa similmente è la
prima volta che i morti parlano. E non solo noi, ma in ogni cimitero, in ogni
sepolcro, giù nel fondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, e in
qualunque luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezza notte, hanno cantato come
noi quella canzoncina che hai sentita.
Ruysch. E quanto dureranno a
cantare o a parlare?
Morto. Di cantare hanno già finito. Di parlare
hanno facoltà per un quarto d'ora. Poi tornano in silenzio per insino a tanto
che si compie di nuovo lo stesso anno.
Ruysch. Se cotesto è vero, non
credo che mi abbiate a rompere il sonno un'altra volta. Parlate pure insieme
liberamente; che io me ne starò qui da parte, e vi ascolterò volentieri, per
curiosità, senza disturbarvi.
Morto. Non possiamo parlare altrimenti,
che rispondendo a qualche persona viva. Chi non ha da replicare ai vivi, finita
che ha la canzone, si accheta.
Ruysch. Mi dispiace veramente: perché
m'immagino che sarebbe un gran sollazzo a sentire quello che vi direste fra voi,
se poteste parlare insieme.
Morto. Quando anche potessimo, non
sentiresti nulla; perché non avremmo che ci dire.
Ruysch. Mille
domande da farvi mi vengono in mente. Ma perché il tempo è corto, e non lascia
luogo a scegliere, datemi ad intendere in ristretto, che sentimenti provaste di
corpo e d'animo nel punto della morte.
Morto. Del punto proprio della
morte, io non me ne accorsi. Gli altri morti. Né anche noi.
Ruysch.
Come non ve n'accorgeste?
Morto. Verbigrazia, come tu non ti accorgi
mai del momento che tu cominci a dormire, per quanta attenzione ci vogli
porre.
Ruysch. Ma l'addormentarsi è cosa naturale.
Morto. E
il morire non ti pare naturale? mostrami un uomo, o una bestia, o una pianta,
che non muoia.
Ruysch. Non mi maraviglio più che andiate cantando e
parlando, se non vi accorgeste di morire.
Cosi colui, del colpo non accorto, Andava combattendo, ed era morto, |
dice un poeta italiano. Io mi pensava che sopra questa faccenda della morte,
i vostri pari ne sapessero qualche cosa più che i vivi. Ma dunque, tornando sul
sodo, non sentiste nessun dolore in punto di morte?
Morto. Che dolore
ha da essere quello del quale chi lo prova, non se n'accorge?
Ruysch.
A ogni modo, tutti si persuadono che il sentimento della morte sia
dolorosissimo.
Morto. Quasi che la morte fosse un sentimento, e non
piuttosto il contrario.
Ruysch. E tanto quelli che intorno alla natura
dell'anima si accostano col parere degli Epicurei, quanto quelli che tengono la
sentenza comune, tutti, o la più parte, concorrono in quello ch'io dico; cioè
nel credere che la morte sia per natura propria, e senza nessuna comparazione,
un dolore vivissimo.
Morto. Or bene, tu domanderai da nostra parte
agli uni e agli altri: se l'uomo non ha facoltà di avvedersi del punto in cui le
operazioni vitali, in maggiore o minor parte, gli restano non più che
interrotte, o per sonno o per letargo o per sincope o per qualunque causa; come
si avvedrà di quello in cui le medesime operazioni cessano del tutto, e non per
poco spazio di tempo, ma in perpetuo? Oltre di ciò, come può essere che un
sentimento vivo abbia luogo nella morte? anzi, che la stessa morte sia per
propria qualità un sentimento vivo? Quando la facoltà di sentire è, non solo
debilitata e scarsa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e si
annulla, credete voi che la persona sia capace di un sentimento forte? anzi
questo medesimo estinguersi della facoltà di sentire, credete che debba essere
un sentimento grandissimo? Vedete pure che anche quelli che muoiono di mali
acuti e dolorosi, in sull'appressarsi della morte, più o meno tempo avanti dello
spirare, si quietano e si riposano in modo, che si può conoscere che la loro
vita, ridotta a piccola quantità, non e più sufficiente al dolore, sicché questo
cessa prima di quella. Tanto dirai da parte nostra a chiunque si pensa di avere
a morir di dolore in punto di morte.
Ruysch. Agli Epicurei forse
potranno bastare coteste ragioni. Ma non a quelli che giudicano altrimenti della
sostanza dell'anima; come ho fatto io per lo passato, e farò da ora innanzi
molto maggiormente, avendo udito parlare e cantare i morti. Perché stimando che
il morire consista in una separazione dell'anima dal corpo, non comprenderanno
come queste due cose, congiunte e quasi conglutinate tra loro in modo, che
constituiscono l'una e l'altra una sola persona, si possano separare senza una
grandissima violenza, e un travaglio indicibile.
Morto. Dimmi: lo
spirito e forse appiccato al corpo con qualche nervo, o con qualche muscolo o
membrana, che di necessità si abbia a rompere quando lo spirito si parte? o
forse è un membro del corpo, in modo che n'abbia a essere schiantato o reciso
violentemente? Non vedi che l'anima in tanto esce di esso corpo, in quanto solo
è impedita di rimanervi, e non v'ha più luogo; non già per nessuna forza che ne
la strappi e sradichi? Dimmi ancora: forse nell'entrarvi, ella vi si sente
conficcare o allacciare gagliardamente, o come tu dici, conglutinare? Perché
dunque sentirà spiccarsi all'uscirne, o vogliamo dire proverà una sensazione
veementissima? Abbi per fermo, che l'entrata e l'uscita dell'anima sono
parimente quiete, facili e molli.
Ruysch. Dunque che cosa è la morte,
se non è dolore?
Morto. Piuttosto piacere che altro. Sappi che il
morire, come l'addormentarsi, non si fa in un solo istante, ma per gradi. Vero è
che questi gradi sono più o meno, e maggiori o minori, secondo la varietà delle
cause e dei generi della morte. Nell'ultimo di tali istanti la morte non reca né
dolore né piacere alcuno, come né anche il sonno. Negli altri precedenti non può
generare dolore perché il dolore è cosa viva, e i sensi dell'uomo in quel tempo,
cioè cominciata che è la morte, sono moribondi, che è quanto dire estremamente
attenuati di forze. Può bene esser causa di piacere: perché il piacere non
sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte dei diletti umani consistono in
qualche sorta di languidezza. Di modo che i sensi dell'uomo sono capaci di
piacere anche presso all'estinguersi; atteso che spessissime volte la stessa
languidezza e piacere; massime quando vi libera da patimento; poiché ben sai che
la cessazione di qualunque dolore o disagio, e piacere per se medesima. Sicché
il languore della morte debbe esser più grato secondo che libera l'uomo da
maggior patimento. Per me, se bene nell'ora della morte non posi molta
attenzione a quel che io sentiva, perché mi era proibito dai medici di
affaticare il cervello; mi ricordo però che il senso che provai, non fu molto
dissimile dal diletto che è cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel
tempo che si vengono addormentando.
Gli altri morti. Anche a noi pare
di ricordarci altrettanto.
Ruysch. Sia come voi dite: benché tutti
quelli coi quali ho avuta occasione di ragionare sopra questa materia,
giudicavano molto diversamente: ma, che io mi ricordi, non allegavano la loro
esperienza propria. Ora ditemi: nel tempo della morte, mentre sentivate quella
dolcezza, vi credeste di morire, e che quel diletto fosse una cortesia della
morte; o pure immaginaste qualche altra cosa?
Morto. Finché non fui
morto, non mi persuasi mai di non avere a scampare di quel pericolo; e se non
altro, fino all'ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, sperai che mi
avanzasse di vita un'ora o due: come stimo che succeda a molti, quando
muoiono.
Gli altri morti. A noi successe il
medesimo.
Ruysch. Così Cicerone (n.42)
dice che nessuno è talmente decrepito, che non si prometta di vivere almanco un
anno. Ma come vi accorgeste in ultimo, che lo spirito era uscito del corpo?
Dite: come conosceste d'essere morti? Non rispondono. Figliuoli, non
m'intendete? Sarà passato il quarto d'ora. Tastiamogli un poco. Sono rimorti ben
bene: non è pericolo che mi abbiano da far paura un'altra volta: torniamocene a
letto.