Giacomo Leopardi
Operette morali
DIALOGO DI TIMANDRO E DI ELEANDRO
Timandro. Io ve lo voglio anzi debbo pur dire liberamente. La sostanza
e l'intenzione del vostro scrivere e del vostro parlare, mi paiono molto
biasimevoli.
Eleandro. Quando non vi paia tale anche l'operare, io non
mi dolgo poi tanto: perché le parole e gli scritti importano
poco.
Timandro. Nell'operare, non trovo di che riprendervi. So che non
fate bene agli altri per non potere, e veggo che non fate male per non volere.
Ma nelle parole e negli scritti, vi credo molto riprensibile; e non vi concedo
che oggi queste cose importino poco; perché la nostra vita presente non
consiste, si può dire, in altro. Lasciamo le parole per ora, e diciamo degli
scritti. Quel continuo biasimare e derider che fate la specie umana,
primieramente è fuori di moda.
Eleandro. Anche il mio cervello è fuori
di moda. E non è nuovo che i figliuoli vengano simili al
padre.
Timandro. Né anche sarà nuovo che i vostri libri, come ogni
cosa contraria all'uso corrente, abbiano cattiva fortuna.
Eleandro.
Poco male. Non per questo andranno cercando pane in sugli usci.
Timandro. Quaranta o cinquant'anni addietro, i filosofi solevano
mormorare della specie umana; ma in questo secolo fanno tutto al
contrario.
Eleandro. Credete voi che quaranta o cinquant'anni
addietro, i filosofi, mormorando degli uomini, dicessero il falso o il
vero?
Timandro. Piuttosto e più spesso il vero che il
falso.
Eleandro. Credete che in questi quaranta o cinquant'anni, la
specie umana sia mutata in contrario da quella che era
prima?
Timandro. Non credo; ma cotesto non monta nulla al nostro
proposito.
Eleandro. Perché non monta? Forse è cresciuta di potenza, o
salita di grado; che gli scrittori d'oggi sieno costretti di adularla, o tenuti
di riverirla?
Timandro. Cotesti sono scherzi in argomento
grave.
Eleandro. Dunque tornando sul sodo, io non ignoro che gli
uomini di questo secolo, facendo male ai loro simili secondo la moda antica, si
sono pur messi a dirne bene, al contrario del secolo precedente. Ma io, che non
fo male a simili né a dissimili, non credo essere obbligato a dir bene degli
altri contro coscienza.
Timandro. Voi siete pure obbligato come tutti
gli altri uomini, a procurar di giovare alla vostra specie.
Eleandro.
Se la mia specie procura di fare il contrario a me, non veggo come mi corra
cotesto obbligo che voi dite. Ma ponghiamo che mi corra. Che debbo io fare, se
non posso?
Timandro. Non potete, e pochi altri possono, coi fatti. Ma
cogli scritti, ben potete giovare, e dovete. E non si giova coi libri che
mordono continuamente l'uomo in generale; anzi si nuoce
assaissimo.
Eleandro. Consento che non si giovi, e stimo che non si
noccia. Ma credete voi che i libri possano giovare alla specie
umana?
Timandro. Non solo io, ma tutto il mondo lo
crede.
Eleandro. Che libri?
Timandro. Di più generi; ma
specialmente del morale.
Eleandro. Questo non è creduto da tutto il
mondo; perché io, fra gli altri, non lo credo; come rispose una donna a Socrate.
Se alcun libro morale potesse giovare, io penso che gioverebbero massimamente i
poetici: dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente; cioè libri
destinati a muovere la immaginazione; e intendo non meno di prose che di versi.
Ora io fo poca stima di quella poesia che letta e meditata, non lascia al
lettore nell'animo un tal sentimento nobile, che per mezz'ora, gl'impedisca di
ammettere un pensier vile, e di fare un'azione indegna. Ma se il lettore manca
di fede al suo principale amico un'ora dopo la lettura, io non disprezzo perciò
quella tal poesia: perché altrimenti mi converrebbe disprezzare le più belle,
più calde e più nobili poesie del mondo. Ed escludo poi da questo discorso i
lettori che vivono in città grandi: i quali, in caso ancora che leggano
attentamente, non possono essere giovati anche per mezz'ora, né molto dilettati
né mossi, da alcuna sorta di poesia.
Timandro. Voi parlate, al solito
vostro, malignamente, e in modo che date ad intendere di essere per l'ordinario
molto male accolto e trattato dagli altri: perché questa il più delle volte è la
causa del mal animo e del disprezzo che certi fanno professione di avere alla
propria specie.
Eleandro. Veramente io non dico che gli uomini mi
abbiano usato ed usino molto buon trattamento: massime che dicendo questo, io mi
spaccerei per esempio unico. Né anche mi hanno fatto però gran male: perché, non
desiderando niente da loro, né in concorrenza con loro, io non mi sono esposto
alle loro offese più che tanto. Ben vi dico e vi accerto, che siccome io conosco
e veggo apertissimamente di non saper fare una menoma parte di quello che si
richiede a rendersi grato alle persone; e di essere quanto si possa mai dire
inetto a conversare cogli altri, anzi alla stessa vita; per colpa o della mia
natura o mia propria; però se gli uomini mi trattassero meglio di quello che
fanno, io gli stimerei meno di quel che gli stimo.
Timandro. Dunque
tanto più siete condannabile: perché l'odio, e la volontà di fare, per dir così,
una vendetta degli uomini, essendone stato offeso a torto, avrebbe qualche
scusa. Ma l'odio vostro, secondo che voi dite, non ha causa alcuna particolare;
se non forse un'ambizione insolita e misera di acquistar fama dalla misantropia,
come Timone: desiderio abbominevole in sé, alieno poi specialmente da questo
secolo, dedito sopra tutto alla filantropia.
Eleandro. Dell'ambizione
non accade che io vi risponda; perché ho già detto che non desidero niente dagli
uomini: e se questo non vi par credibile, benché sia vero; almeno dovete credere
che l'ambizione non mi muova a scriver cose che oggi, come voi stesso affermate,
partoriscono vituperio e non lode a chi le scrive. Dall'odio poi verso tutta la
nostra specie, sono così lontano, che non solamente non voglio, ma non posso
anche odiare quelli che mi offendono particolarmente; anzi sono del tutto
inabile e impenetrabile all'odio. Il che non è piccola parte della mia tanta
inettitudine a praticare nel mondo. Ma io non me ne posso emendare: perché
sempre penso che comunemente, chiunque si persuade, con far dispiacere o danno a
chicchessia, far comodo o piacere a se proprio; s'induce ad offendere; non per
far male ad altri (che questo non è propriamente il fine di nessun atto o
pensiero possibile), ma per far bene a sé; il qual desiderio è naturale, e non
merita odio. Oltre che ad ogni vizio o colpa che io veggo in altrui, prima di
sdegnarmene, mi volgo a esaminare me stesso, presupponendo in me i casi
antecedenti e le circostanze convenevoli a quel proposito; e trovandomi sempre o
macchiato o capace degli stessi difetti, non mi basta l'animo d'irritarmene.
Riserbo sempre l'adirarmi a quella volta che io vegga una malvagità che non
possa aver luogo nella natura mia: ma fin qui non ne ho potuto vedere.
Finalmente il concetto della vanità delle cose umane, mi riempie continuamente
l'animo in modo, che non mi risolvo a mettermi per nessuna di loro in battaglia;
e l'ira e l'odio mi paiono passioni molto maggiori e più forti, che non è
conveniente alla tenuità della vita. Dall'animo di Timone al mio, vedete che
diversità ci corre. Timone, odiando e fuggendo tutti gli altri, amava a
accarezzava solo Alcibiade, come causa futura di molti mali alla loro patria
comune. Io, senza odiarlo, avrei fuggito più lui che gli altri, ammoniti i
cittadini del pericolo, e confortati a provvedervi. Alcuni dicono che Timone non
odiava gli uomini, ma le fiere in sembianza umana. Io non odio né gli uomini né
le fiere.
Timandro. Ma né anche amate nessuno.
Eleandro.
Sentite, amico mio. Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto
quanto può mai cadere in anima viva. Oggi, benché non sono ancora, come vedete,
in età naturalmente fredda, né forse anco tepida; non mi vergogno a dire che non
amo nessuno, fuorché me stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è
possibile. Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io,
che esser cagione di patimento agli altri. E di questo, per poca notizia che
abbiate de' miei costumi, credo mi possiate essere
testimonio.
Timandro. Non ve lo nego.
Eleandro. Di modo che
io non lascio di procurare agli uomini per la mia parte, posponendo ancora il
rispetto proprio, quel maggiore, anzi solo bene che sono ridotto a desiderare
per me stesso, cioè di non patire.
Timandro. Ma confessate voi
formalmente, di non amare né anche la nostra specie in
comune?
Eleandro. Sì, formalmente. Ma come tuttavia, se toccasse a me,
farei punire i colpevoli, se bene io non gli odio; così, se potessi, farei
qualunque maggior benefizio alla mia specie, ancorché io non l'ami.
Timandro. Bene, sia così. Ma in fine, se non vi muovono ingiurie
ricevute, non odio, non ambizione; che cosa vi muove a usare cotesto modo di
scrivere?
Eleandro. Diverse cose. Prima, l'intolleranza di ogni
simulazione e dissimulazione: alle quali mi piego talvolta nel parlare, ma negli
scritti non mai; perché spesso parlo per necessità, ma non sono mai costretto a
scrivere; e quando avessi a dire quel che non penso, non mi darebbe un gran
sollazzo a stillarmi il cervello sopra le carte. Tutti i savi si ridono di chi
scrive latino al presente, che nessuno parla quella lingua, e pochi la
intendono. Io non veggo come non sia parimente ridicolo questo continuo
presupporre che si fa scrivendo e parlando, certe qualità umane che ciascun sa
che oramai non si trovano in uomo nato, e certi enti razionali o fantastici,
adorati già lungo tempo addietro, ma ora tenuti internamente per nulla e da chi
gli nomina, e da chi gli ode a nominare. Che si usino maschere e travestimenti
per ingannare gli altri, o per non essere conosciuti; non mi pare strano: ma che
tutti vadano mascherati con una stessa forma di maschere, e travestiti a uno
stesso modo, senza ingannare l'un l'altro, e conoscendosi ottimamente tra loro;
mi riesce una fanciullaggine. Cavinsi le maschere, si rimangano coi loro
vestiti; non faranno minori effetti di prima, e staranno più a loro agio. Perché
pur finalmente, questo finger sempre, ancorché inutile, e questo sempre
rappresentare una persona diversissima dalla propria, non si può fare senza
impaccio e fastidio grande. Se gli uomini dallo stato primitivo, solitario e
silvestre, fossero passati alla civiltà moderna in un tratto, e non per gradi;
crediamo noi che si troverebbero nelle lingue i nomi delle cose dette dianzi,
non che nelle nazioni l'uso di ripetergli a ogni poco, e di farvi mille
ragionamenti sopra? In verità quest'uso mi par come una di quelle cerimonie o
pratiche antiche, alienissime dai costumi presenti, le quali contuttociò si
mantengono, per virtù della consuetudine. Ma io che non mi posso adattare alle
cerimonie, non mi adatto anche a quell'uso; e scrivo in lingua moderna, e non
dei tempi troiani. In secondo luogo; non tanto io cerco mordere ne' miei scritti
la nostra specie, quanto dolermi del fato. Nessuna cosa credo sia più manifesta
e palpabile, che l'infelicità necessaria di tutti i viventi. Se questa
infelicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo e qualunque altro
discorso. Se è vera, perché non mi ha da essere né pur lecito di dolermene
apertamente e liberamente, e dire, io patisco? Ma se mi dolessi piangendo (e
questa si è la terza causa che mi muove), darei noia non piccola agli altri, e a
me stesso, senza alcun frutto. Ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto;
e procuro di recarne altrui nello stesso modo. Se questo non mi vien fatto,
tengo pure per fermo che il ridere dei nostri mali sia l'unico profitto che se
ne possa cavare, e l'unico rimedio che vi si trovi. Dicono i poeti che la
disperazione ha sempre nella bocca un sorriso. Non dovete pensare che io non
compatisca all'infelicità umana. Ma non potendovisi riparare con nessuna forza,
nessuna arte, nessuna industria, nessun patto; stimo assai più degno dell'uomo,
e di una disperazione magnanima, il ridere dei mali comuni; che il mettermene a
sospirare, lagrimare e stridere insieme cogli altri, o incitandoli a fare
altrettanto. In ultimo mi resta a dire, che io desiderio quanto voi, e quanto
qualunque altro, il bene della mia specie in universale; ma non lo spero in
nessun modo; non mi so dilettare e pascere di certe buone aspettative, come
veggo fare a molti filosofi in questo secolo; e la mia disperazione, per essere
intera, e continua, e fondata in un giudizio fermo e in una certezza, non mi
lascia luogo a sogni e immaginazioni liete circa il futuro, né animo
d'intraprendere cosa alcuna per vedere di ridurle ad effetto. E ben sapete che
l'uomo non si dispone a tentare quel che egli sa o crede non dovergli succedere,
e quando vi si disponga, opera di mala voglia e con poca forza; e che scrivendo
in modo diverso o contrario all'opinione propria, se questa fosse anco falsa,
non si fa mai cosa degna di considerazione.
Timandro. Ma bisogna ben
riformare il giudizio proprio quando sia diverso dal vero; come è il
vostro.
Eleandro. Io giudico quanto a me di essere infelice, e in
questo so che non m'inganno. Se gli altri non sono, me ne congratulo seco loro
con tutta l'anima. Io sono anche sicuro di non liberarmi dall'infelicità, prima
che io muoia. Se gli altri hanno diversa speranza di sé, me ne rallegro
similmente.
Timandro. Tutti siamo infelici, e tutti sono stati: e
credo non vorrete gloriarvi che questa vostra sentenza sia delle più nuove. Ma
la condizione umana si può migliorare di gran lunga da quel che ella è, come e
già migliorata indicibilmente da quello che fu. Voi mostrate non ricordarvi, o
non volervi ricordare, che l'uomo è perfettibile.
Eleandro.
Perfettibile lo crederò sopra la vostra fede; ma perfetto, che e quel che
importa maggiormente, non so quando l'avrò da credere né sopra la fede di chi.
Timandro. Non è giunto ancora alla perfezione, perché gli e mancato
tempo; ma non si può dubitare che non vi sia per giungere.
Eleandro.
Né io ne dubito. Questi pochi anni che sono corsi dal principio del mondo al
presente, non potevano bastare; e non se ne dee far giudizio dell'indole, del
destino e delle facoltà dell'uomo: oltre che si sono avute altre faccende per le
mani. Ma ora non si attende ad altro che a perfezionare la nostra
specie.
Timandro. Certo vi si attende con sommo studio in tutto il
mondo civile. E considerando la copia e l'efficacia dei mezzi, l'una e l'altra
aumentate incredibilmente da poco in qua, si può credere che l'effetto si abbia
veramente a conseguire fra più o men tempo: e questa speranza è di non piccolo
giovamento a cagione delle imprese e operazioni utili che ella promuove o
partorisce. Però se fu mai dannoso e riprensibile in alcun tempo, nel presente è
dannosissimo e abbominevole l'ostentare cotesta vostra disperazione, e
l'inculcare agli uomini la necessità della loro miseria, la vanità della vita,
l'imbecillità e piccolezza della loro specie, e la malvagità della loro natura:
il che non può fare altro frutto che prostrarli d'animo; spogliarli della stima
di se medesimi, primo fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa;
e distorli dal procurare il proprio bene.
Eleandro. Io vorrei che mi
dichiaraste precisamente, se vi pare che quello che io credo e dico intorno
all'infelicità degli uomini, sia vero o falso.
Timandro. Voi riponete
mano alla vostra solita arme; e quando io vi confessi che quello che dite è
vero, pensate vincere la questione. Ora io vi rispondo, che non ogni verità è da
predicare a tutti, né in ogni tempo.
Eleandro. Di grazia, soddisfatemi
anche di un'altra domanda. Queste verità che io dico e non predico, sono nella
filosofia, verità principali, o pure accessorie?
Timandro. Io, quanto
a me, credo che sieno la sostanza di tutta la filosofia.
Eleandro.
Dunque s'ingannano grandemente quelli che dicono e predicano che la perfezione
dell'uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono
dalle opinioni false e dalla ignoranza, e che il genere umano allora finalmente
sarà felice, quando ciascuno o i più degli uomini conosceranno il vero, e a
norma di quello solo comporranno e governeranno la loro vita. E queste cose le
dicono poco meno che tutti i filosofi antichi e moderni. Ecco che a giudizio
vostro, quelle verità che sono la sostanza di tutta la filosofia, si debbono
occultare alla maggior parte degli uomini; e credo che facilmente consentireste
che debbano essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute
nell'animo, non possono altro che nuocere. Il che è quanto dire che la filosofia
si debba estirpare dal mondo. Io non ignoro che l'ultima conclusione che si
ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non bisogna filosofare. Dal
che s'inferisce che la filosofia, primieramente è inutile, perché a questo
effetto di non filosofare, non fa di bisogno esser filosofo; secondariamente è
dannosissima, perché quella ultima conclusione non vi s'impara se non alle
proprie spese, e imparata che sia, non si può mettere in opera; non essendo in
arbitrio degli uomini dimenticare le verità conosciute, e deponendosi più
facilmente qualunque altro abito che quello di filosofare. In somma la
filosofia, sperando e promettendo a principio di medicare i nostri mali, in
ultimo si riduce a desiderare invano di rimediare a se stessa. Posto tutto ciò,
domando perché si abbia da credere che l'età presente sia più prossima e
disposta alla perfezione che le passate. Forse per la maggior notizia del vero;
la quale si vede essere contrarissima alla felicità dell'uomo? O forse perché al
presente alcuni pochi conoscono che non bisogna filosofare, senza che però
abbiano facoltà di astenersene? Ma i primi uomini in fatti non filosofarono, e i
selvaggi se ne astengono senza fatica. Quali altri mezzi o nuovi, o maggiori che
non ebbero gli antenati, abbiamo noi, di approssimarci alla
perfezione?
Timandro. Molti, e di grande utilità: ma l'esporgli
vorrebbe un ragionamento infinito.
Eleandro. Lasciamoli da parte per
ora: e tornando al fatto mio, dico, che se ne' miei scritti io ricordo alcune
verità dure e triste, o per isfogo dell'animo, o per consolarmene col riso, e
non per altro; io non lascio tuttavia negli stessi libri di deplorare,
sconsigliare e riprendere lo studio di quel misero e freddo vero, la cognizione
del quale è fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d'animo,
iniquità e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo
contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano atti e
pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune o privato;
quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita;
le illusioni naturali dell'animo; e in fine gli errori antichi, diversi assai
dagli errori barbari; i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti cadere
per opera della civiltà moderna e della filosofia. Ma queste, secondo me,
trapassando i termini (come è proprio e inevitabile alle cose umane); non molto
dopo sollevati da una barbarie, ci hanno precipitati in un'altra, non minore
della prima; quantunque nata dalla ragione e dal sapere, e non dall'ignoranza; e
però meno efficace e manifesta nel corpo che nello spirito, men gagliarda nelle
opere, e per dir così, più riposta ed intrinseca. In ogni modo, io dubito, o
inclino piuttosto a credere, che gli errori antichi, quanto sono necessari al
buono stato delle nazioni civili, tanto sieno, e ogni dì più debbano essere,
impossibili a rinnovarveli. Circa la perfezione dell'uomo, io vi giuro, che se
fosse già conseguita, avrei scritto almeno un tomo in lode del genere umano. Ma
poiché non è toccato a me di vederla, e non aspetto che mi tocchi in mia vita,
sono disposto di assegnare per testamento una buona parte della mia roba ad uso
che quando il genere umano sarà perfetto, se gli faccia e pronuncisi
pubblicamente un panegirico tutti gli anni; e anche gli sia rizzato un tempietto
all'antica, o una statua, o quello che sarà creduto a proposito.
Scena prima.
L'Ora prima e il Sole
Ora prima.
Buon giorno, Eccellenza.
Sole. Sì: anzi buona notte.
Ora
prima. I cavalli sono in ordine.
Sole. Bene.
Ora prima.
La diana è venuta fuori da un pezzo.
Sole. Bene: venga o vada a suo
agio.
Ora prima. Che intende di dire vostra
Eccellenza?
Sole. Intendo che tu mi lasci stare.
Ora prima.
Ma, Eccellenza, la notte già è durata tanto, che non può durare più; e se noi
c'indugiassimo, vegga, Eccellenza, che poi non nascesse qualche
disordine.
Sole. Nasca quello che vuole, che io non mi
muovo.
Ora prima. Oh, Eccellenza, che è cotesto? si sentirebbe ella
male?
Sole. No no, io non mi sento nulla; se non che io non mi voglio
muovere: e però tu te ne andrai per le tue faccende.
Ora prima. Come
debbo io andare se non viene ella, ché io sono la prima Ora del giorno? e il
giorno come può essere, se vostra Eccellenza non si degna, come è solita, di
uscir fuori?
Sole. Se non sarai del giorno, sarai della notte; ovvero
le Ore della notte faranno l'uffizio doppio, e tu e le tue compagne starete in
ozio. Perché, sai che è? io sono stanco di questo continuo andare attorno per
far lume a quattro animaluzzi, che vivono In su un pugno di fango, tanto
piccino, che io, che ho buona vista, non lo arrivo a vedere: e questa notte ho
fermato di non volere altra fatica per questo; e che se gli uomini vogliono
veder lume, che tengano i loro fuochi accesi, o proveggano in altro
modo.
Ora prima. E che modo, Eccellenza, vuole ella che ci trovino i
poverini? E a dover poi mantenere le loro lucerne, o provvedere tante candele
che ardano tutto lo spazio del giorno, sarà una spesa eccessiva. Che se fosse
già ritrovato di fare quella certa aria da servire per ardere, e per illuminare
le strade, le camere, le botteghe, le cantine e ogni cosa, e il tutto con poco
dispendio; allora direi che il caso fosse manco male. Ma il fatto è che ci
avranno a passare ancora trecento anni, poco più o meno, prima che gli uomini
ritrovino quel rimedio: e intanto verrà loro manco l'olio e la cera e la pece e
il sego; e non avranno più che ardere.
Sole. Andranno a caccia delle
lucciole, e di quei vermicciuoli che splendono.
Ora prima. E al freddo
come provvederanno? che senza quell'aiuto che avevano da vostra Eccellenza, non
basterà il fuoco di tutte le selve a riscaldarli. Oltre che si morranno anco
dalla fame: perché la terra non porterà più i suoi frutti. E così, in capo a
pochi anni, si perderà il seme di quei poveri animali: che quando saranno andati
un pezzo qua e là per la Terra, a tastone, cercando di che vivere e di che
riscaldarsi; finalmente, consumata ogni cosa che si possa ingoiare, e spenta
l'ultima scintilla di fuoco, se ne morranno tutti al buio, ghiacciati come pezzi
di cristallo di roccia.
Sole. Che importa cotesto a me? che, sono io
la balia del genere umano; o forse il cuoco, che gli abbia da stagionare e da
apprestare i cibi? e che mi debbo io curare se certa poca quantità di creaturine
invisibili, lontane da me i milioni delle miglia, non veggono, e non possono
reggere al freddo, senza la luce mia? E poi, se io debbo anco servir, come dire,
di stufa o di focolare a questa famiglia umana, è ragionevole, che volendo la
famiglia scaldarsi, venga essa intorno del focolare, e non che il focolare vada
dintorno alla casa. Per questo, se alla Terra fa di bisogno della presenza mia,
cammini ella e adoprisi per averla: che io per me non ho bisogno di cosa alcuna
dalla Terra, perché io cerchi di lei.
Ora prima. Vostra Eccellenza
vuol dire, se io intendo bene, che quello che per lo passato ha fatto ella, ora
faccia la Terra.
Sole. Sì: ora, e per l'innanzi sempre.
Ora
prima. Certo che vostra Eccellenza ha buona ragione in questo: oltre che
ella può fare di sé a suo modo. Ma pure contuttociò, si degni, Eccellenza, di
considerare quante cose belle è necessario che sieno mandate a male, volendo
stabilire questo nuovo ordine. Il giorno non avrà più il suo bel carro dorato,
co' suoi bei cavalli, che si lavavano alla marina: e per lasciare le altre
particolarità, noi altre povere Ore non avremo più luogo in cielo, e di
fanciulle celesti diventeremo terrene; se però, come io aspetto, non ci
risolveremo piuttosto in fumo. Ma sia di questa parte come si voglia: il punto
sarà persuadere alla Terra di andare attorno; che ha da esser difficile pure
assai: perch'ella non ci è usata; e le dee parere strano di aver poi sempre a
correre e affaticarsi tanto, non avendo mai dato un crollo da quel suo luogo
insino a ora. E se vostra Eccellenza adesso, per quel che pare, comincia a
porgere un poco di orecchio alla pigrizia; io odo che la Terra non sia mica più
inclinata alla fatica oggi che in altri tempi.
Sole. Il bisogno, in
questa cosa, la pungerà, e la farà balzare e correre quanto convenga. Ma in ogni
modo, qui la via più spedita e la più sicura è di trovare un poeta ovvero un
filosofo che persuada alla Terra di muoversi, o che quando altrimenti non la
possa indurre, la faccia andar via per forza. Perché finalmente il più di questa
faccenda è in mano dei filosofi e dei poeti; anzi essi ci possono quasi il
tutto. I poeti sono stati quelli che per l'addietro (perch'io era più giovane, e
dava loro orecchio), con quelle belle canzoni, mi hanno fatto fare di buona
voglia, come per un diporto, o per un esercizio onorevole, quella sciocchissima
fatica di correre alla disperata, così grande e grosso come io sono, intorno a
un granellino di sabbia. Ma ora che io sono maturo di tempo, e che mi sono
voltato alla filosofia, cerco in ogni cosa l'utilità, e non il bello; e i
sentimenti dei poeti, se non mi muovono lo stomaco, mi fanno ridere. Voglio, per
fare una cosa, averne buone ragioni, e che sieno di sostanza: e perché io non
trovo nessuna ragione di anteporre alla vita oziosa e agiata la vita attiva; la
quale non ti potria dar frutto che pagasse il travaglio, anzi solamente il
pensiero (non essendoci al mondo un frutto che vaglia due soldi); perciò sono
deliberato di lasciare le fatiche e i disagi agli altri, e io per la parte mia
vivere in casa quieto e senza faccende. Questa mutazione in me, come ti ho
detto, oltre a quel che ci ha cooperato l'età, l'hanno fatta i filosofi; gente
che in questi tempi è cominciata a montare in potenza, e monta ogni giorno più.
Sicché, volendo fare adesso che la Terra si muova, e che diasi a correre attorno
in vece mia; per una parte veramente sarebbe a proposito un poeta più che un
filosofo: perché i poeti, ora con una fola, ora con un'altra, dando ad intendere
che le cose del mondo sieno di valuta e di peso, e che sieno piacevoli e belle
molto, e creando mille speranze allegre, spesso invogliano gli altri di
faticare; e i filosofi gli svogliano. Ma dall'altra parte, perché i filosofi
sono cominciati a stare al di sopra, io dubito che un poeta non sarebbe
ascoltato oggi dalla Terra, più di quello che fossi per ascoltarlo io; o che,
quando fosse ascoltato, non farebbe effetto. E però sarà il meglio che noi
ricorriamo a un filosofo: che se bene i filosofi ordinariamente sono poco atti,
e meno inclinati, a muovere altri ad operare; tuttavia può essere che in questo
caso così estremo, venga loro fatta cosa contraria al loro usato. Eccetto se la
Terra non giudicherà che le sia più espediente di andarsene a perdizione, che
avere a travagliarsi tanto: che io non direi però che ella avesse il torto:
basta, noi vedremo quello che succederà. Dunque tu farai una cosa: tu te
n'andrai là in Terra; o pure vi manderai l'una delle tue compagne, quella che tu
vorrai: e se ella troverà qualcuno di quei filosofi che stia fuori di casa al
fresco, speculando il cielo e le stelle; come ragionevolmente ne dovrà trovare,
per la novità di questa notte così lunga; ella senza più, levatolo su di peso,
se lo gitterà in sul dosso; e così torni, e me lo rechi insin qua: che io vedrò
di disporlo a fare quello che occorre. Hai tu inteso bene?
Ora prima.
Eccellenza sì. Sarà servita.
Scena seconda
Copernico in sul terrazzo di casa sua, guardando in cielo a
levante, per mezzo d'un cannoncello di carta; perché non erano ancora inventati
i cannocchiali.
Gran
cosa è questa. O che tutti gli oriuoli fallano, o il sole dovrebbe esser levato
già è più di un'ora: e qui non si vede né pure un barlume in oriente; con tutto
che il cielo sia chiaro e terso come uno specchio. Tutte le stelle risplendono
come fosse la mezza notte. Vattene ora all'Almagesto o al Sacrobosco, e dì che
ti assegnino la cagione di questo caso. Io ho udito dire più volte della notte
che Giove passò colla moglie d'Anfitrione: e così mi ricordo aver letto poco fa
in un libro moderno di uno Spagnuolo, che i Peruviani raccontano che una volta,
in antico, fu nel paese loro una notte lunghissima, anzi sterminata; e che alla
fine il sole uscì fuori da un certo lago, che chiamano di Titicaca. Ma insino a
qui ho pensato che queste tali, non fossero se non ciance; e io l'ho tenuto per
fermo; come fanno tutti gli uomini ragionevoli. Ora che io m'avveggo che la
ragione e la scienza non rilevano, a dir proprio, un'acca; mi risolvo a credere
che queste e simili cose possano esser vere verissime: anzi io sono per andare a
tutti i laghi e a tutti i pantani che io potrò, e vedere se io m'abbattessi a
pescare il sole. Ma che è questo rombo che io sento, che par come delle ali di
uno uccello grande?
Scena terza
L'Ora ultima e Copernico
Ora ultima. Copernico, io sono
l'Ora ultima.
Copernico. L'ora ultima? Bene: qui bisogna adattarsi.
Solo, se si può, dammi tanto di spazio, che io possa far testamento, e dare
ordine a' fatti miei, prima di morire.
Ora ultima. Che morire? io non
sono già l'ora ultima della vita.
Copernico. Oh, che sei tu dunque?
l'ultima ora dell'ufficio del breviario?
Ora ultima. Credo bene io,
che cotesta ti sia più cara che l'altre, quando tu ti ritrovi in
coro.
Copernico. Ma come sai tu cotesto, che io sono canonico? E come
mi conosci tu? che anche mi hai chiamato dianzi per nome.
Ora ultima.
Io ho preso informazione dell'esser tuo da certi ch'erano qua sotto, nella
strada. In breve, io sono l'ultima ora del giorno.
Copernico. Ah, io
ho inteso: la prima Ora è malata; e da questo e che il giorno non si vede
ancora.
Ora ultima. Lasciami dire. Il giorno non è per aver luogo più,
né oggi né domani né poi, se tu non provvedi.
Copernico. Buono sarebbe
cotesto; che toccasse a me il carico di fare il giorno.
Ora ultima. Io
ti dirò il come. Ma la prima cosa, è di necessità che tu venga meco senza
indugio a casa del Sole, mio padrone. Tu intenderai ora il resto per via; e
parte ti sarà detto da sua Eccellenza, quando noi saremo
arrivati.
Copernico. Bene sta ogni cosa. Ma il cammino, se però io non
m'inganno, dovrebbe esser lungo assai. E come potrò io portare tanta provvisione
che mi basti a non morire affamato qualche anno prima di arrivare? Aggiungi che
le terre di sua Eccellenza non credo io che producano di che apparecchiarmi
solamente una colazione.
Ora ultima. Lascia andare cotesti dubbi. Tu
non avrai a star molto in casa del Sole; e il viaggio si farà in un attimo;
perché io sono uno spirito, se tu non sai.
Copernico. Ma io sono un
corpo.
Ora ultima. Ben bene: tu non ti hai da impacciare di cotesti
discorsi, che tu non sei già un filosofo metafisico. Vien qua: montami in sulle
spalle; e lascia fare a me il resto.
Copernico. Orsù: ecco fatto.
Vediamo a che sa riuscire questa novità.
Scena quarta
Copernico e il Sole
Copernico. Illustrissimo
Signore.
Sole. Perdona, Copernico, se io non ti fo sedere; perché qua
non si usano sedie. Ma noi ci spacceremo tosto. Tu hai già inteso il negozio
dalla mia fante. Io dalla parte mia, per quel che la fanciulla mi riferisce
della tua qualità, trovo che tu sei molto a proposito per l'effetto che si
ricerca.
Copernico. Signore, io veggo in questo negozio molte
difficoltà.
Sole. Le difficoltà non debbono spaventare un uomo della
tua sorte. Anzi si dice che elle accrescono animo all'animoso. Ma quali sono
poi, alla fine, coteste difficoltà?
Copernico Primieramente, per
grande che sia la potenza della filosofia, non mi assicuro che ella sia grande
tanto, da persuadere alla Terra di darsi a correre, in cambio di stare a sedere
agiatamente; e darsi ad affaticare, in vece di stare in ozio: massime a questi
tempi; che non sono già i tempi eroici.
Sole. E se tu non la potrai
persuadere, tu la sforzerai.
Copernico. Volentieri, illustrissimo, se
io fossi un Ercole, o pure almanco un Orlando; e non un canonico di
Varmia.
Sole. Che fa cotesto al caso? Non si racconta egli di un
vostro matematico antico, il quale diceva che se gli fosse dato un luogo fuori
del mondo, che stando egli in quello, si fidava di smuovere il cielo e la terra?
Or tu non hai a smuovere il cielo; ed ecco che ti ritrovi in un luogo che è fuor
della Terra. Dunque, se tu non sei da meno di quell'antico, non dee mancare che
tu non la possa muovere, voglia essa o non voglia.
Copernico. Signor
mio, cotesto si potrebbe fare: ma ci si richiederebbe una leva; la quale
vorrebbe essere tanto lunga, che non solo io, ma vostra signoria illustrissima,
quantunque ella sia ricca, non ha però tanto che bastasse a mezza la spesa della
materia per farla, e della fattura. Un'altra difficoltà più grave è questa che
io vi dirò adesso; anzi egli è come un groppo di difficoltà. La Terra insino a
oggi ha tenuto la prima sede del mondo, che è a dire il mezzo; e (come voi
sapete) stando ella immobile, e senza altro affare che guardarsi all'intorno,
tutti gli altri globi dell'universo, non meno i più grandi che i più piccoli, e
così gli splendenti come gli oscuri, le sono iti rotolandosi di sopra e di sotto
e ai lati continuamente; con una fretta, una faccenda, una furia da sbalordirsi
a pensarla. E così, dimostrando tutte le cose di essere occupate in servizio
suo, pareva che l'universo fosse a somiglianza di una corte; nella quale la
Terra sedesse come in un trono; e gli altri globi dintorno, in modo di
cortigiani, di guardie, di servitori, attendessero chi ad un ministero e chi a
un altro. Sicché, in effetto, la Terra si è creduta sempre di essere imperatrice
del mondo: e per verità, stando così le cose come sono state per l'addietro, non
si può mica dire che ella discorresse male; anzi io non negherei che quel suo
concetto non fosse molto fondato. Che vi dirò poi degli uomini? che riputandoci
(come ci riputeremo sempre) più che primi e più che principalissimi tra le
creature terrestri; ciascheduno di noi se ben fosse un vestito di cenci e che
non avesse un cantuccio di pan duro da rodere, si è tenuto per certo di essere
uno imperatore; non mica di Costantinopoli o di Germania, ovvero della metà
della Terra, come erano gl'imperatori romani, ma un imperatore dell'universo; un
imperatore del sole, dei pianeti, di tutte le stelle visibili e non visibili; e
causa finale delle stelle, dei pianeti, di vostra signoria illustrissima, e di
tutte le cose. Ma ora se noi vogliamo che la Terra si parta da quel suo luogo di
mezzo; se facciamo che ella corra, che ella si voltoli, che ella si affanni di
continuo, che eseguisca quel tanto, né più né meno, che si è fatto di qui
addietro dagli altri globi; in fine, che ella divenga del numero dei pianeti;
questo porterà seco che sua maestà terrestre, e le loro maestà umane, dovranno
sgomberare il trono, e lasciar l'impero; restandosene però tuttavia co' loro
cenci, e colle loro miserie, che non sono poche.
Sole. Che vuol
conchiudere in somma con cotesto discorso il mio don Niccola? Forse ha scrupolo
di coscienza, che il fatto non sia un crimenlese?
Copernico. No,
illustrissimo; perché né i codici, né il digesto, né i libri che trattano del
diritto pubblico, né del diritto dell'Imperio, né di quel delle genti, o di
quello della natura, non fanno menzione di questo crimenlese, che io mi ricordi.
Ma voglio dire in sostanza, che il fatto nostro non sarà così semplicemente
materiale, come pare a prima vista che debba essere; e che gli effetti suoi non
apparterranno alla fisica solamente: perché esso sconvolgerà i gradi delle
dignità delle cose, e l'ordine degli enti; scambierà i fini delle creature; e
per tanto farà un grandissimo rivolgimento anche nella metafisica, anzi in tutto
quello che tocca alla parte speculativa del sapere. E ne risulterà che gli
uomini, se pur sapranno o vorranno discorrere sanamente, si troveranno essere
tutt'altra roba da quello che sono stati fin qui, o che si hanno immaginato di
essere.
Sole. Figliuol mio, coteste cose non mi fanno punto paura: ché
tanto rispetto io porto alla metafisica, quanto alla fisica, e quanto anche
all'alchimia, o alla negromantica, se tu vuoi. E gli uomini si contenteranno di
essere quello che sono: e se questo non piacerà loro, andranno raziocinando a
rovescio, e argomentando in dispetto della evidenza delle cose; come
facilissimamente potranno fare; e in questo modo continueranno a tenersi per
quel che vorranno, o baroni o duchi o imperatori o altro di più che si vogliano:
che essi ne staranno più consolati, e a me con questi loro giudizi non daranno
un dispiacere al mondo.
Copernico. Orsù, lasciamo degli uomini e della
Terra. Considerate, illustrissimo, quel ch'è ragionevole che avvenga degli altri
pianeti. Che quando vedranno la Terra fare ogni cosa che fanno essi, e divenuta
uno di loro, non vorranno più restarsene così lisci, semplici e disadorni, così
deserti e tristi, come sono stati sempre; e che la Terra sola abbia quei tanti
ornamenti: ma vorranno ancora essi i lor fiumi, i lor mari, le loro montagne, le
piante, e fra le altre cose i loro animali e abitatori; non vedendo ragione
alcuna di dovere essere da meno della Terra in nessuna parte. Ed eccovi un altro
rivolgimento grandissimo nel mondo; e una infinità di famiglie e di popolazioni
nuove, che in un momento si vedranno venir su da tutte le bande, come
funghi.
Sole. E tu le lascerai che vengano; e sieno quante sapranno
essere: ché la mia luce e il calore basterà per tutte, senza che io cresca la
spesa però; e il mondo avrà di che cibarle, vestirle, alloggiarle, trattarle
largamente, senza far debito.
Copernico. Ma pensi vostra signoria
illustrissima un poco più oltre, e vedrà nascere ancora un altro scompiglio. Che
le stelle, vedendo che voi vi siete posto a sedere, e non già su uno sgabello,
ma in trono; e che avete dintorno questa bella corte e questo popolo di pianeti;
non solo vorranno sedere ancor esse e riposarsi, ma vorranno altresì regnare: e
chi ha da regnare, ci hanno a essere i sudditi: però vorranno avere i loro
pianeti, come avrete voi; ciascuna i suoi propri. I quali pianeti nuovi,
converrà che sieno anche abitati e adorni come è la Terra. E qui non vi starò a
dire del povero genere umano, divenuto poco più che nulla già innanzi, in
rispetto a questo mondo solo; a che si ridurrà egli quando scoppieranno fuori
tante migliaia di altri mondi, in maniera che non ci sarà una minutissima
stelluzza della via lattea, che non abbia il suo. Ma considerando solamente
l'interesse vostro, dico che per insino a ora voi siete stato, se non primo
nell'universo, certamente secondo, cioè a dire dopo la Terra, e non avete avuto
nessuno uguale; atteso che le stelle non si sono ardite di pareggiarvisi: ma in
questo nuovo stato dell'universo avrete tanti uguali, quante saranno le stelle
coi loro mondi. Sicché guardate che questa mutazione che noi vogliamo fare, non
sia con pregiudizio della dignità vostra.
Sole. Non hai tu a memoria
quello che disse il vostro Cesare quando egli, andando per le Alpi, si abbatté a
passare vicino a quella borgatella di certi poveri Barbari: che gli sarebbe
piaciuto più se egli fosse stato il primo in quella borgatella, che di essere il
secondo in Roma? E a me similmente dovrebbe piacer più di esser primo in questo
mondo nostro, che secondo nell'universo. Ma non è l'ambizione quella che mi
muove a voler mutare lo stato presente delle cose: solo è l'amor della quiete, o
per dir più proprio, la pigrizia. In maniera che dell'avere uguali o non averne,
e di essere nel primo luogo o nell'ultimo, io non mi curo molto: perché,
diversamente da Cicerone, ho riguardo più all'ozio che alla dignità.
Copernico. Cotesto ozio, illustrissimo, io per la parte mia, il
meglio che io possa, m'ingegnerò di acquistarvelo. Ma dubito, anche riuscendo la
intenzione, che esso non vi durerà gran tempo. E prima, io sono quasi certo che
non passeranno molti anni, che voi sarete costretto di andarvi aggirando come
una carrucola da pozzo, o come una macina; senza mutar luogo però. Poi, sto con
qualche sospetto che pure alla fine, in termine di più o men tempo, vi convenga
anco tornare a correre: io non dico, intorno alla Terra; ma che monta a voi
questo? e forse che quello stesso aggirarvi che voi farete, servirà di argomento
per farvi anco andare. Basta, sia quello che si voglia; non ostante ogni
malagevolezza e ogni altra considerazione, se voi perseverate nel proposito
vostro, io proverò di servirvi; acciocché, se la cosa non mi verrà fatta, voi
pensiate ch'io non ho potuto, e non diciate che io sono di poco
animo.
Sole. Bene sta, Copernico mio: prova.
Copernico Ci
resterebbe una certa difficoltà solamente.
Sole. Via, qual
è?
Copernico. Che io non vorrei, per questo fatto, essere abbruciato
vivo, a uso della fenice: perché accadendo questo, io sono sicuro di non avere a
risuscitare dalle mie ceneri come fa quell'uccello, e di non vedere mai più, da
quell'ora innanzi, la faccia della signoria vostra.
Sole. Senti,
Copernico: tu sai che un tempo, quando voi altri filosofi non eravate appena
nati, dico al tempo che la poesia teneva il campo, io sono stato profeta. Voglio
che adesso tu mi lasci profetare per l'ultima volta, e che per la memoria di
quella mia virtù antica, tu mi presti fede. Ti dico io dunque che forse, dopo te
ad alcuni i quali approveranno quello che tu avrai fatto, potrà essere che
tocchi qualche scottatura, o altra cosa simile; ma che tu per conto di questa
impresa, a quel ch'io posso conoscere, non patirai nulla. E se tu vuoi essere
più sicuro, prendi questo partito: il libro che tu scriverai a questo proposito,
dedicarlo al papa (n.58).
In questo modo, ti prometto che né anche hai da perdere il canonicato.
DIALOGO DI PLOTINO E DI PORFIRIO
Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi di vita, Plotino se ne avvide: e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non procedere sì fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione malinconica; mi strinse che io mutassi paese. Porfirio nella vita di Plotino. Il simile in quella di Porfirio scritta da Eunapio: il quale aggiunge che Plotino distese in un libro i ragionamenti avuti con Porfirio in quella occasione.
Plotino. Porfirio, tu sai ch'io ti sono amico; e sai quanto: e non ti
dei maravigliare se io vengo osservando i tuoi fatti e i tuoi detti e il tuo
stato con una certa curiosità; perché nasce da questo, che tu mi stai sul cuore.
Già sono più giorni che io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa
guardatura, e lasci andare certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza
aggiramenti, io credo che tu abbi in capo una mala intenzione.
Porfirio. Come, che vuoi tu dire?
Plotino. Una mala
intenzione contro te stesso. Il fatto e stimato cattivo augurio a nominarlo.
Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero; non far questa ingiuria a tanto amore
che noi ci portiamo insieme da tanto tempo. So bene che io ti fo dispiacere a
muoverti questo discorso; e intendo che ti sarebbe stato caro di tenerti il tuo
proposito celato: ma in cosa di tanto momento io non poteva tacere; e tu non
dovresti avere a male di conferirla con persona che ti vuol tanto bene quanto a
se stessa. Discorriamo insieme riposatamente, e andiamo pensando le ragioni: tu
sfogherai l'animo tuo meco, ti dorrai, piangerai; che io merito da te questo: e
in ultimo io non sono già per impedirti che tu non facci quello che noi
troveremo che sia ragionevole, e di tuo utile.
Porfirio. Io non ti ho
mai disdetto cosa che tu domandassi, Plotino mio. Ed ora confesso a te quello
che avrei voluto tener segreto, e che non confesserei ad altri per cosa alcuna
del mondo; dico che quel che tu immagini della mia intenzione, è la verità. Se
ti piace che noi ci ponghiamo a ragionare sopra questa materia; benché l'animo
mio ci ripugna molto, perché queste tali deliberazioni pare che si compiacciano
di un silenzio altissimo, e che la mente in così fatti pensieri ami di essere
solitaria e ristretta in se medesima più che mai; pure io sono disposto di fare
anche di ciò a tuo modo. Anzi incomincerò io stesso; e ti dirò che questa mia
inclinazione non procede da alcuna sciagura che mi sia intervenuta, ovvero che
io aspetti che mi sopraggiunga: ma da un fastidio della vita; da un tedio che io
provo, così veemente, che si assomiglia a dolore e a spasimo; da un certo non
solamente conoscere, ma vedere, gustare, toccare la vanità di ogni cosa che mi
occorre nella giornata. Di maniera che non solo l'intelletto mio, ma tutti i
sentimenti, ancora del corpo, sono (per un modo di dire strano, ma accomodato al
caso) pieni di questa vanità. E qui primieramente non mi potrai dire che questa
mia disposizione non sia ragionevole: se bene io consentirò facilmente che ella
in buona parte provenga da qualche mal essere corporale. Ma ella nondimeno è
ragionevolissima: anzi tutte le altre disposizioni degli uomini fuori di questa,
per le quali, in qualunque maniera, si vive, e stimasi che la vita e le cose
umane abbiano qualche sostanza; sono, qual più qual meno, rimote dalla ragione,
e si fondano in qualche inganno e in qualche immaginazione falsa. E nessuna cosa
è più ragionevole che la noia. I piaceri sono tutti vani. Il dolore stesso,
parlo di quel dell'animo, per lo più è vano: perché se tu guardi alla causa ed
alla materia, a considerarla bene, ella è di poca realtà o di nessuna. Il simile
dico del timore; il simile della speranza. Solo la noia, la qual nasce sempre
dalla vanità delle cose, non è mai vanità, non inganno; mai non è fondata in sul
falso. E si può dire che, essendo tutto l'altro vano, alla noia riducasi, e in
lei consista, quanto la vita degli uomini ha di sostanzievole e di
reale.
Plotino. Sia così. Non voglio ora contraddirti sopra questa
parte. Ma noi dobbiamo adesso considerare il fatto che tu vai disegnando: dico,
considerarlo più strettamente, e in se stesso. Io non ti starò a dire che sia
sentenza di Platone, come tu sai, che all'uomo non sia lecito, in guisa di servo
fuggitivo, sottrarsi di propria autorità da quella quasi carcere nella quale
egli si ritrova per volontà degli Dei; cioè privarsi della vita spontaneamente.
Porfirio. Ti prego, Plotino mio; lasciamo da parte adesso Platone, e
le sue dottrine, e le sue fantasie. Altra cosa è lodare, comentare, difendere
certe opinioni nelle scuole e nei libri; ed altra è seguitarle nell'uso pratico.
Alla scuola e nei libri, siami stato lecito approvare i sentimenti di Platone e
seguirli; poiché tale è l'usanza oggi: nella vita, non che gli approvi, io
piuttosto gli abbomino. So ch'egli si dice che Platone spargesse negli scritti
suoi quelle dottrine della vita avvenire, acciocché gli uomini, entrati in
dubbio e in sospetto circa lo stato loro dopo la morte; per quella incertezza, e
per timore di pene e di calamità future, si ritenessero nella vita dal fare
ingiustizia e dalle altre male opere (n.58).
Che se io stimassi che Platone fosse stato autore di questi dubbi, e di queste
credenze; e che elle fossero sue invenzioni; io direi: tu vedi, Platone, quanto
o la natura o il fato o la necessità, o qual si sia potenza autrice e signora
dell'universo, è stata ed è perpetuamente inimica alla nostra specie. Alla quale
molte, anzi innumerabili ragioni potranno contendere quella maggioranza che noi,
per altri titoli, ci arroghiamo di avere tra gli animali; ma nessuna ragione si
troverà che le tolga quel principato che l'antichissimo Omero le attribuiva;
dico il principato della infelicità. Tuttavia la natura ci destinò per medicina
di tutti i mali la morte: la quale da coloro che non molto usassero il discorso
dell'intelletto, saria poco temuta; dagli altri desiderata. E sarebbe un
conforto dolcissimo nella vita nostra, piena di tanti dolori, 'aspettazione é il
pensiero del nostro fine. Tu con questo dubbio terribile, suscitato da te nelle
menti degli uomini, hai tolta da questo pensiero ogni dolcezza, e fattolo il più
amaro di tutti gli altri. Tu sei cagione che si veggano gl'infelicissimi mortali
temere più il porto che la tempesta, e rifuggire coll'animo da quel solo rimedio
e riposo loro, alle angosce presenti e agli spasimi della vita. Tu sei stato
agli uomini più crudele che il fato o la necessità o la natura. E non si potendo
questo dubbio in alcun modo sciorre, né le menti nostre esserne liberate mai, tu
hai recati per sempre i tuoi simili a questa condizione, che essi avranno la
morte piena d'affanno, e più misera che la vita. Perciocché per opera tua,
laddove tutti gli altri animali muoiono senza timore alcuno, la quiete e la
sicurtà dell'animo sono escluse in perpetuo dall'ultima ora dell'uomo. Questo
mancava, o Platone, a tanta infelicità della specie umana.
Lascio che quello effetto
che ti avevi proposto, di ritenere gli uomini dalle violenze e dalle
ingiustizie, non ti è venuto fatto. Perocché quei dubbi e quelle credenze
spaventano tutti gli uomini in sulle ore estreme, quando essi non sono atti a
nuocere: nel corso della vita, spaventano frequentemente i buoni, i quali hanno
volontà non di nuocere, ma di giovare; spaventano le persone timide, e le deboli
di corpo, le quali alle violenze e alle iniquità non hanno né la natura
inclinata, né sufficiente il cuore e la mano. Ma gli arditi, e i gagliardi, e
quelli che poco sentono la potenza della immaginativa; in fine coloro ai quali
in generalità si richiederebbe altro freno che della sola legge; non ispaventano
esse, né tengono dal male operare: come noi veggiamo per gli esempi
quotidianamente, e come la esperienza di tutti i secoli, da' tuoi dì per insino
a oggi, fa manifesto. Le buone leggi, e più la educazione buona, e la cultura
dei costumi e delle menti, conservano nella società degli uomini la giustizia e
la mansuetudine: perocché gli animi dirozzati e rammorbiditi da un poco di
civiltà, ed assuefatti a considerare alquanto le cose, e ad operare alcun poco
l'intendimento; quasi di necessità e quasi sempre abborriscono dal por mano
nelle persone e nel sangue dei compagni; sono per lo più alieni dal fare ad
altri nocumento in qualunque modo; e rare volte e con fatica s'inducono a
correre quei pericoli che porta seco il contravvenire alle leggi. Non fanno già
questo buono effetto le immaginazioni minacciose, e le opinioni triste di cose
fiere e spaventevoli: anzi come suol fare la moltitudine e la crudeltà dei
supplizi che si usino dagli stati, così ancora quelle accrescono, in un lato la
viltà dell'animo, in un altro la ferocità; principali inimiche e pesti del
consorzio umano.
Ma tu hai
posto ancora innanzi e promesso guiderdone ai buoni. Qual guiderdone? Uno stato
che ci apparisce pieno di noia, ed ancor meno tollerabile che questa vita. A
ciascheduno è palese l'acerbità di que' tuoi supplicii; ma la dolcezza de' tuoi
premii è nascosa, ed arcana, e da non potersi comprendere da mente d'uomo. Onde
nessuna efficacia possono aver così fatti premii di allettarci alla rettitudine
e alla virtù. E in vero, se molto pochi ribaldi, per timore di quel suo
spaventoso Tartaro si astengono da alcuna mala azione: mi ardisco io di
affermare che mai nessun buono, in un suo menomo atto, si mosse a bene operare
per desiderio di quel tuo Eliso. Che non può esso alla immaginazione nostra aver
sembianza di cosa desiderabile. Ed oltre che di molto lieve conforto sarebbe
eziandio la espettazione certa di questo bene, quale speranza hai tu lasciato
che ne possano avere anco i virtuosi e i giusti; se quel tuo Minosse e quello
Eaco e Radamanto, giudici rigidissimi e inesorabili, non hanno a perdonare a
qualsivoglia ombra o vestigio di colpa? E quale uomo è che si possa sentire o
credere così netto e puro come lo richiedi tu? Sicché il conseguimento di quella
qual che si sia felicità viene a esser quasi impossibile: e non basterà la
coscienza della più retta e della più travagliosa vita ad assicurare l'uomo in
sull'ultimo, dalla incertezza del suo stato futuro, e dallo spavento dei
gastighi. Così per le tue dottrine il timore, superata con infinito intervallo
la speranza, è fatto signore dell'uomo: e il frutto di esse dottrine ultimamente
è questo; che il genere umano, esempio mirabile d'infelicità in questa vita, si
aspetta, non che la morte sia fine alle sue miserie, ma di avere a essere dopo
quella, assai più infelice. Con che tu hai vinto di crudeltà, non pur la natura
e il fato, ma ogni tiranno più fiero, e ogni più spietato carnefice, che fosse
al mondo.
Ma con qual
barbarie si può paragonare quel tuo decreto, che all'uomo non sia lecito di por
fine a' suoi patimenti, ai dolori, alle angosce, vincendo l'orrore della morte,
e volontariamente privandosi dello spirito? Certo non ha luogo negli altri
animali il desiderio di terminar la vita; perché le infelicità loro hanno più
stretti confini che le infelicità dell'uomo: né avrebbe anco luogo il coraggio
di estinguerla spontaneamente. Ma se pur tali disposizioni cadessero nella
natura dei bruti, nessuno impedimento avrebbero essi al poter morire; nessun
divieto, nessun dubbio torrebbe loro la facoltà di sottrarsi dai loro mali. Ecco
che tu ci rendi anco in questa parte, inferiori alle bestie: e quella libertà
che avrebbero i bruti se loro accadesse di usarla; quella che la natura stessa,
tanto verso noi avara, non ci ha negata; vien manco per tua cagione nell'uomo.
In guisa che quel solo genere di viventi che si trova esser capace del desiderio
della morte, quello solo non abbia in sua mano il morire. La natura, il fato e
la fortuna ci flagellano di continuo sanguinosamente, con istrazio nostro e
dolore inestimabile: tu accorri, e ci annodi strettamente le braccia, e incateni
i piedi; sicché non ci sia possibile né schermirci né ritrarci indietro dai loro
colpi. In vero, quando io considero la grandezza della infelicità umana, io
penso che di quella si debbano più che veruna altra cosa, incolpare le tue
dottrine; e che si convenga agli uomini, assai più dolersi di te che della
natura. La quale se bene, a dir vero, non ci destinò altra vita che
infelicissima; da altro lato però ci diede il poter finirla ogni volta che ci
piacesse. E primieramente non si può mai dire che sia molto grande quella
miseria la quale, solo che io voglia, può di durazione esser brevissima: poi,
quando ben la persona in effetto non si risolvesse a lasciar la vita, il
pensiero solo di potere ad ogni sua voglia sottrarsi dalla miseria, saria tal
conforto e tale alleggerimento di qualunque calamità, che per virtù di esso,
tutte riuscirebbero facili a sopportare. Di modo che la gravezza intollerabile
della infelicità nostra, non da altro principalmente si dee riconoscere, che da
questo dubbio di potere per avventura, troncando volontariamente la propria
vita, incorrere in miseria maggiore che la presente. Né solo maggiore, ma di
tanto ineffabile atrocità e lunghezza, che posto che il presente sia certo, e
quelle pene incerte, nondimeno ragionevolmente debba il timore di quelle, senza
proporzione o comparazione alcuna, prevalere al sentimento di ogni qual si
voglia male di questa vita. Il qual dubbio, o Platone, ben fu a te agevole a
suscitare; ma prima sarà venuta meno la stirpe degli uomini, che egli sia
risoluto. Però nessuna cosa nacque, nessuna è per nascere in alcun tempo, così
calamitosa e funesta alla specie umana, come l'ingegno tuo.
Queste cose io direi, se
credessi che Platone fosse stato autore o inventore di quelle dottrine; che io
so benissimo che non fu. Ma in ogni modo, sopra questa materia, s'è detto
abbastanza, e io vorrei che noi la ponessimo da canto.
Plotino.
Porfirio, veramente io amo Platone, come tu sai. Ma non è già per questo, che io
voglia discorrere per autorità; massimamente poi teco e in una questione tale:
ma io voglio discorrere per ragione. E se ho toccato così alla sfuggita quella
tal sentenza platonica, io l'ho fatto più per usare come una sorta di proemio,
che per altro. E ripigliando il ragionamento ch'io aveva in animo, dico che non
Platone o qualche altro filosofo solamente, ma la natura stessa par che
c'insegni che il levarci dal mondo di mera volontà nostra, non sia cosa lecita.
Non accade che io mi distenda circa questo articolo: perché se tu penserai un
poco, non può essere che tu non conosca da te medesimo che l'uccidersi di
propria mano senza necessità, è contro natura. Anzi, per dir meglio, e l'atto
più contrario a natura, che si possa commettere. Perché tutto l'ordine delle
cose saria sovvertito, se quelle si distruggessero da se stesse. E par che abbia
repugnanza che uno si vaglia della vita a spegnere essa vita, che l'essere ci
serva al non essere. Oltre che se pur cosa alcuna ci è ingiunta e comandata
dalla natura, certo ci comanda ella strettissimamente e sopra tutto, e non solo
agli uomini, ma parimente a qualsivoglia creatura dell'universo, di attendere
alla conservazione propria, e di procurarla in tutti i modi; ch'è il contrario
appunto dell'uccidersi. E senza altri argomenti, non sentiamo noi che la
inclinazione nostra da per se stessa ci tira, e ci fa odiare la morte, e
temerla, ed averne orrore, anche a dispetto nostro? Or dunque, poiché questo
atto dell'uccidersi, è contrario a natura; e tanto contrario quanto noi
veggiamo; io non mi saprei risolvere che fosse lecito.
Porfirio. Io ho
considerata già tutta questa parte: che, come tu hai detto, è impossibile che
l'animo non la scorga, per ogni poco che uno si fermi a pensare sopra questo
proposito. Mi pare che alle tue ragioni si possa rispondere con molte altre, e
in più modi: ma studierò d'esser breve. Tu dubiti se ci sia lecito di morire
senza necessità: io ti domando se ci è lecito di essere infelici. La natura
vieta l'uccidersi. Strano mi riuscirebbe che non avendo ella o volontà o potere
di farmi né felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere.
Certo se la natura ci ha ingenerato amore della conservazione propria, e odio
della morte; essa non ci ha dato meno odio della infelicità, e amore del nostro
meglio; anzi tanto maggiori e tanto più principali queste ultime inclinazioni
che quelle, quanto che la felicità è il fine di ogni nostro atto, e di ogni
nostro amore e odio; e che non si fugge la morte, né la vita si ama, per se
medesima, ma per rispetto e amore del nostro meglio e odio del male e del danno
nostro. Come dunque può esser contrario alla natura, che io fugga la infelicità
in quel solo modo che hanno gli uomini di fuggirla? che è quello di tormi dal
mondo: perché mentre son vivo, io non la posso schifare. E come sarà vero che la
natura mi vieti di appigliarmi alla morte, che senza alcun dubbio è il mio
meglio; e di ripudiar la vita, che manifestamente mi viene a esser dannosa e
mala; poiché non mi può valere ad altro che a patire, e a questo per necessità
mi vale e mi conduce in fatto.
Plotino. A ogni modo queste cose non
mi persuadono che l'uccidersi da se stesso non sia contro natura: perché il
senso nostro porta troppo manifesta contrarietà e abborrimento alla morte: e noi
veggiamo che le bestie; le quali (quando non sieno forzate dagli uomini o
sviate) operano in ogni cosa naturalmente; non solo non vengono mai a questo
atto, ma eziandio per quanto che sieno tribolate e misere, se ne dimostrano
alienissime. E in fine non si trova, se non fra gli uomini soli qualcuno che lo
commette: e non mica fra quelle genti che hanno un modo di vivere naturale; che
di queste non si troverà niuno che non lo abbomini, se pur ne avrà notizia o
immaginazione alcuna; ma solo fra queste nostre alterate e corrotte, che non
vivono secondo natura.
Porfirio. Orsù, io ti voglio concedere anco,
che questa azione sia contraria a natura, come tu vuoi. Ma che val questo; se
noi non siamo creature naturali, per dir così? intendo degli uomini
inciviliti(n.59).
Paragonaci, non dico ai viventi di ogni altra specie che tu vogli, ma a quelle
nazioni là delle parti dell'India e della Etiopia, le quali, come si dice,
ancora serbano quei costumi primitivi e silvestri; e a fatica ti parrà che si
possa dire, che questi uomini e quelli sieno creature di una specie medesima. E
questa nostra, come a dire, trasformazione; e questa mutazion di vita, e
massimamente d'animo; io quanto a me, ho avuto sempre per fermo che non sia
stata senza infinito accrescimento d'infelicità. Certo che quelle genti
salvatiche non sentono mai desiderio di finir la vita; né anco va loro per la
fantasia che la morte si possa desiderare: dove che gli uomini costumati a
questo modo nostro e, come diciamo, civili, la desiderano spessissime volte, e
alcune se la procacciano. Ora, se è lecito all'uomo incivilito, e vivere contro
natura, e contro natura essere così misero; perché non gli sarà lecito morire
contro natura? essendo che da questa infelicità nuova, che risulta a noi
dall'alterazione dello stato, non ci possiamo anco liberare altrimenti, che
colla morte. Che quanto a ritornarci in quello stato primo, e alla vita
disegnataci dalla natura; questo non si potrebbe appena, e in nessun modo forse,
circa l'estrinseco; e per rispetto all'intrinseco, che è quello che più rileva,
senza alcun dubbio sarebbe impossibile affatto. Qual cosa è manco naturale della
medicina? così di quella che si esercita con la mano, come di quella che opera
per via di farmachi. Che l'una e l'altra, la più parte, sì nelle operazioni che
fanno, e sì nelle materie, negli strumenti e nei modi che usano, sono
lontanissime dalla natura: e i bruti e gli uomini selvaggi non le conoscono.
Nondimeno, perocché ancora i morbi ai quali esse intendono di rimediare, sono
fuor di natura, e non hanno luogo se non per cagione della civiltà, cioè della
corruttela del nostro stato; perciò queste tali arti, benché non sieno naturali,
sono e si stimano opportune, e anco necessarie. Così questo atto dell'uccidersi,
il quale ci libera dalla infelicità recataci dalla corruzione, perché sia
contrario alla natura, non seguita che sia biasimevole: bisognando a mali non
naturali, rimedio non naturale. E saria pur duro ed iniquo che la ragione, la
quale per far noi più miseri che naturalmente non siamo, suol contrariar la
natura nelle altre cose; in questa si confederasse con lei, per torci quello
estremo scampo che ci rimane; quel solo che essa ragione insegna; e costringerci
a perseverare nella miseria.
La verità è questa, Plotino.
Quella natura primitiva degli uomini antichi, e delle genti selvagge e incolte,
non è più la natura nostra: ma l'assuefazione e la ragione hanno fatto in noi
un'altra natura; la quale noi abbiamo, ed avremo sempre, in luogo di quella
prima. Non era naturale all'uomo da principio il procacciarsi la morte
volontariamente: ma né anco era naturale il desiderarla. Oggi e questa cosa e
quella sono naturali; cioè conformi alla nostra natura nuova: la quale, tendendo
essa ancora e movendosi necessariamente come l'antica, verso ciò che apparisce
essere il nostro meglio; fa che noi molte volte desideriamo e cerchiamo quello
che veramente è il maggior bene dell'uomo, cioè la morte. E non è maraviglia:
perciocché questa seconda natura è governata e diretta nella maggior parte dalla
ragione. La quale afferma per certissimo, che la morte, non che sia veramente un
male, come detta la impressione primitiva; anzi è il solo rimedio valevole ai
nostri mali, la cosa più desiderabile agli uomini, e la migliore. Adunque
domando io: misurano gli uomini inciviliti le altre azioni loro dalla natura
primitiva? Quando, e quale azione mai? Non dalla natura primitiva, ma da
quest'altra nostra, o pur vogliamo dire dalia ragione. Perché questo solo atto
del torsi di vita, si dovrà misurare non dalla natura nuova o dalla ragione, ma
dalla natura primitiva? Perché dovrà la natura primitiva, la quale non dà più
legge alla vita nostra, dar legge alla morte? Perché non dee la ragione governar
la morte, poiché regge la vita? E noi veggiamo che in fatto, sì la ragione, e sì
le infelicità del nostro stato presente, non solo estinguono, massime negli
sfortunati e afflitti, quello abborrimento ingenito della morte che tu dicevi;
ma lo cangiano in desiderio e amore, come io ho detto innanzi. Nato il qual
desiderio e amore, che secondo natura, non sarebbe potuto nascere; e stando la
infelicità generata dall'alterazione nostra, e non voluta dalla natura; saria
manifesta repugnanza e contraddizione, che ancora avesse luogo il divieto
naturale di uccidersi. Questo pare a me che basti, quanto a sapere se l'uccider
se stesso sia lecito. Resta se sia utile.
Plotino. Di cotesto non
accade che tu mi parli, Porfirio mio: che quando cotesta azione sia lecita
(perché una che non sia giusta né retta non concedo che possa esser di utilità),
io non ho dubbio nessuno che non sia utilissima. Perché la quistione in somma si
riduce a questo: quale delle due cose sia la migliore; il non patire, o il
patire. So ben io che il godere congiunto al patire, verisimilmente sarebbe
eletto da quasi tutti gli uomini, piuttosto che il non patire e anco non godere:
tanto è il desiderio, e per così dir, la sete, che l'animo ha del godimento. Ma
la deliberazione non cade fra questi termini: perché il godimento e il piacere,
a parlar proprio e diritto, è tanto impossibile, quanto il patimento è
inevitabile. E dico un patimento così continuo, come è continuo il desiderio e
il bisogno che abbiamo del godimento e della felicità, il quale non è adempiuto
mai: lasciando ancora da un lato i patimenti particolari ed accidentali che
intervengono a ciascun uomo, e che sono parimente certi; intendo dire, è certo
che ne debbono intervenire (più o meno, e d'una qualità o d'altra), eziandio
nella più avventurosa vita del mondo. E per verità, un patimento solo e breve,
che la persona fosse certa che, continuando essa a vivere, le dovesse accadere;
saria sufficiente a fare che, secondo ragione, la morte fosse da anteporre alla
vita: perché questo tal patimento non avrebbe compensazione alcuna; non potendo
occorrere nella vita nostra un bene o un diletto vero.
Porfirio. A me
pare che la noia stessa, e il ritrovarsi privo di ogni speranza di stato e di
fortuna migliore, sieno cause bastanti a ingenerar desiderio di finir la vita,
anco a chi si trovi in istato e in fortuna, non solamente non cattiva, ma
prospera. E più volte mi sono maravigliato che in nessun luogo si vegga fatta
menzione di principi che sieno voluti morire per tedio solamente, e per sazietà
dello stato proprio; come di genti private e si legge, e odesi tuttogiorno.
Quali erano coloro che udito Egesia, filosofo cirenaico, recitare quelle sue
lezioni della miseria della vita; uscendo della scuola, andavano e si
uccidevano: onde esso Egesia fu detto per soprannome il persuasor di
morire; e si dice, come credo che tu sappi, che all'ultimo il re Tolomeo gli
vietò che non disputasse più oltre in quella materia (n.60).
Che se bene si trova di alcuni, come del re Mitridate, di Cleopatra, di Ottone
romano, e forse di alquanti altri principi, che si uccisero da se stessi; questi
tali si mossero per trovarsi allora in avversità e in miseria, e per isfuggirne
di più gravi. Ora a me sarebbe paruto credibile che i principi più facilmente
che gli altri, concepissero odio del loro stato, e fastidio di tutte le cose; e
desiderassero di morire. Perché, essendo eglino in sulla cima di quella che
chiamasi felicità umana, avendo pochi altri a sperare, o nessuno forse, di
quelli che si dimandano beni della vita (poiché li posseggono tutti); non si
possono prometter migliore il domani che il giorno d'oggi. E sempre il presente,
per fortunato che sia, è tristo e inamabile: solo il futuro può piacere. Ma come
che sia di ciò; in fine, noi possiamo conoscere che (eccetto il timor delle cose
di un altro mondo) quello che ritiene gli uomini che non abbandonino la vita
spontaneamente; e quel che gl'induce ad amarla, e a preferirla alla morte; non è
altro che un semplice e un manifestissimo errore, per dir così, di computo e di
misura: cioè un errore che si fa nel computare, nel misurare, e nel paragonar
tra loro, gli utili o i danni. Il quale errore ha luogo, si potrebbe dire,
altrettante volte, quanti sono i momenti nei quali ciascheduno abbraccia la
vita, ovvero acconsente a vivere e se ne contenta; o sia col giudizio e colla
volontà, o sia col fatto solo.
Plotino. Così è veramente, Porfirio
mio. Ma con tutto questo, lascia ch'io ti consigli, ed anche sopporta che ti
preghi, di porgere orecchie, intorno a questo tuo disegno, piuttosto alla natura
che alla ragione. E dico a quella natura primitiva, a quella madre nostra e
dell'universo; la quale se bene non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti
infelici, tuttavia ci è stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati
noi coll'ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisurata, colle
speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e
particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con
occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque sia grande
l'alterazione nostra, e diminuita in noi la potenza della natura; pur questa non
è ridotta a nulla, né siamo noi mutati e innovati tanto, che non resti in
ciascuno gran parte dell'uomo antico. Il che, mal grado che n'abbia la stoltezza
nostra, mai non potrà essere altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di
computo; veramente errore, e non meno grande che palpabile; pur si commette di
continuo; e non dagli stupidi solamente e dagl'idioti, ma dagl'ingegnosi, dai
dotti, dai saggi; e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto
questo nostro genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria mano
degli uomini, non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita, non
disperazione, non senso della nullità delle cose, della vanità delle cure, della
solitudine dell'uomo; non odio del mondo e di se medesimo; che possa durare
assai: benché queste disposizioni dell'animo sieno ragionevolissime, e le lor
contrarie irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo; mutata
leggermente la disposizion del corpo; a poco a poco; e spesse volte in un
subito, per cagioni menomissime e appena possibili a notare; rifassi il gusto
alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano
quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente
all'intelletto; ma sì, per modo di dire, al senso dell'animo. E ciò basta
all'effetto di fare che la persona, quantunque ben conoscente e persuasa della
verità, nondimeno a mal grado della ragione, e perseveri nella vita, e proceda
in essa come fanno gli altri: perché quel tal senso (si può dire), e non
l'intelletto, è quello che ci governa.
Sia ragionevole l'uccidersi;
sia contro ragione l'accomodar l'animo alla vita: certamente quello è un atto
fiero e inumano. E non dee piacer più, né vuolsi elegger piuttosto di essere
secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. E perché anche non vorremo
noi avere alcuna considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei
figliuoli, dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e
domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo,
bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di
questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la
perdita di persona cara o consueta, e per l'atrocità del caso? Io so bene che
non dee l'animo del sapiente essere troppo molle; né lasciarsi vincere dalla
pietà e dal cordoglio in guisa, che egli ne sia perturbato, che cada a terra,
che ceda e che venga meno come vile, che si trascorra a lagrime smoderate, ad
atti non degni della stabilità di colui che ha pieno e chiaro conoscimento della
condizione umana. Ma questa fortezza d'animo si vuole usare in quegli accidenti
tristi che vengono dalla fortuna, e che non si possono evitare; non abusarla in
privarci spontaneamente, per sempre, della vista, del colloquio, della
consuetudine dei nostri cari. Aver per nulla il dolore della disgiunzione e
della perdita dei parenti, degl'intrinsechi, dei compagni; o non essere atto a
sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente, ma di barbaro. Non
far niuna stima di addolorare colla uccisione propria gli amici e i domestici; è
di non curante d'altrui, e di troppo curante di se medesimo. E in vero, colui
che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non
cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i
suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in questa azione del privarsi
di vita, apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e men
liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo.
In ultimo, Porfirio mio, le
molestie e i mali della vita, benché molti e continui, pur quando, come in te
oggi si verifica, non hanno luogo infortuni e calamità straordinarie, o dolori
acerbi del corpo; non sono malagevoli da tollerare; massime ad uomo saggio e
forte, come tu sei. E la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l'uomo, in
quanto a sé, non dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla.
Perciò, senza voler ponderare la cosa troppo curiosamente; per ogni lieve causa
che se gli offerisca di appigliarsi piuttosto a quella prima parte che a questa,
non dovria ricusare di farlo. E pregatone da un amico, perché non avrebbe a
compiacergliene? Ora io ti prego caramente, Porfirio mio, per la memoria degli
anni che fin qui è durata l'amicizia nostra, lascia cotesto pensiero; non volere
esser cagione di questo gran dolore agli amici tuoi buoni, che ti amano con
tutta l'anima; a me, che non ho persona più cara, né compagnia più dolce. Vogli
piuttosto aiutarci a sofferir la vita, che cosi, senza altro pensiero di noi,
metterci in abbandono. Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non
ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della
nostra specie. Si bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci
incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior
modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando
la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e
i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo
spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora.
DIALOGO DI UN
VENDITORE D'ALMANACCHI
E DI UN PASSEGGERE
Venditore. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano,
signore, almanacchi?
Passeggere. Almanacchi per l'anno
nuovo?
Venditore. Si signore.
Passeggere. Credete che sarà
felice quest'anno nuovo?
Venditore. Oh illustrissimo si,
certo.
Passeggere. Come quest'anno passato?
Venditore. Più
più assai.
Passeggere. Come quello di là?
Venditore. Più
più, illustrissimo.
Passeggere. Ma come qual altro? Non vi
piacerebb'egli che l'anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni
ultimi?
Venditore. Signor no, non mi piacerebbe.
Passeggere. Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete
almanacchi?
Venditore. Saranno vent'anni,
illustrissimo.
Passeggere. A quale di cotesti vent'anni vorreste che
somigliasse l'anno venturo?
Venditore. Io? non
saprei.
Passeggere. Non vi ricordate di nessun anno in particolare,
che vi paresse felice?
Venditore. No in verità,
illustrissimo.
Passeggere. E pure la vita è una cosa bella. Non è
vero?
Venditore. Cotesto si sa.
Passeggere. Non tornereste
voi a vivere cotesti vent'anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da
che nasceste?
Venditore. Eh, caro signore, piacesse a Dio che si
potesse.
Passeggere. Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né
più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete
passati?
Venditore. Cotesto non vorrei.
Passeggere. Oh che
altra vita vorreste rifare? la vita ch'ho fatta io, o quella del principe, o di
chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro,
risponderebbe come voi per l'appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che
avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?
Venditore. Lo credo
cotesto.
Passeggere. Né anche voi tornereste indietro con questo
patto, non potendo in altro modo?
Venditore. Signor no davvero, non
tornerei.
Passeggere. Oh che vita vorreste voi
dunque?
Venditore. Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse,
senz'altri patti.
Passeggere. Una vita a caso, e non saperne altro
avanti, come non si sa dell'anno nuovo?
Venditore.
Appunto.
Passeggere. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così
tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest'anno, ha trattato tutti
male. E si vede chiaro che ciascuno è d'opinione che sia stato più o di più peso
il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima,
con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita
ch'è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce;
non la vita passata, ma la futura. Coll'anno nuovo, il caso incomincerà a
trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è
vero?
Venditore. Speriamo.
Passeggere. Dunque mostratemi
l'almanacco più bello che avete.
Venditore. Ecco, illustrissimo.
Cotesto vale trenta soldi.
Passeggere. Ecco trenta
soldi.
Venditore. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi,
almanacchi nuovi; lunari nuovi.
DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO
Amico. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro
solito.
Tristano. Sì, al mio solito.
Amico. Malinconico,
sconsolato, disperato; si vede che questa vita vi pare una gran brutta
cosa.
Tristano. Che v'ho a dire? io aveva fitta in capo questa pazzia,
che la vita umana fosse infelice.
Amico. Infelice sì forse. Ma pure
alla fine . . .
Tristano. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata
opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quella pazzia in capo, come
vi dico. E n'era tanto persuaso, che tutt'altro mi sarei aspettato, fuorché
sentirmi volgere in dubbio le osservazioni ch'io faceva in quel proposito,
parendomi che la coscienza d'ogni lettore dovesse rendere prontissima
testimonianza a ciascuna di esse. Solo immaginai che nascesse disputa
dell'utilità o del danno di tali osservazioni, ma non mai della verità: anzi mi
credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i mali comuni, sarebbero
ripetute in cuore da ognuno che le ascoltasse. E sentendo poi negarmi, non
qualche proposizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non è
infelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effetto d'infermità, o
d'altra miseria mia particolare, da prima rimasi attonito, sbalordito, immobile
come un sasso, e per più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo; poi,
tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, e dissi: gli uomini sono in
generale come i mariti. I mariti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che
credano le mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anche quando la metà del
mondo sa che il vero e tutt'altro. Chi vuole o dee vivere in un paese, conviene
che lo creda uno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gli uomini
universalmente, volendo vivere, conviene che credano la vita bella e pregevole;
e tale la credono; e si adirano contro chi pensa altrimenti. Perché in sostanza
il genere umano crede sempre, non il vero, ma quello che è, o pare che sia, più
a proposito suo. Il genere umano, che ha creduto e crederà tante scempiataggini,
non crederà mai né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver
nulla a sperare. Nessun filosofo che insegnasse l'una di queste tre cose,
avrebbe fortuna né farebbe setta, specialmente nel popolo: perché, oltre che
tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, le due prime offendono la
superbia degli uomini, la terza, anzi ancora le altre due, vogliono coraggio e
fortezza d'animo a essere credute. E gli uomini sono codardi, deboli, d'animo
ignobile e angusto; docili sempre a sperar bene, perché sempre dediti a variare
le opinioni del bene secondo che la necessità governa la loro vita; prontissimi
a render l'arme, come dice il Petrarca (n.61),
alla loro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi di qualunque
sventura, ad accettare qualunque compenso in cambio di ciò che loro è negato o
di ciò che hanno perduto, ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque
sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d'ogni cosa desiderabile,
vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o
le più fondate del mondo. Io per me, come l'Europa meridionale ride dei mariti
innamorati delle mogli infedeli, così rido del genere umano innamorato della
vita; e giudico assai poco virile il voler lasciarsi ingannare e deludere come
sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono, essere quasi lo scherno della natura
e del destino. Parlo sempre degl'inganni non dell'immaginazione, ma
dell'intelletto. Se questi miei sentimenti nascano da malattia, non so: so che,
malato o sano, calpesto la vigliaccheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione
e ogn'inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere la privazione di ogni
speranza, mirare intrepidamente il deserto della vita, non dissimularmi nessuna
parte dell'infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze di una filosofia
dolorosa, ma vera. La quale se non è utile ad altro, procura agli uomini forti
la fiera compiacenza di vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosa
crudeltà del destino umano. Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella
filosofia dolorosa fosse d'invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti,
come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi
ricordai ch'ella era tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i
filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di
figure, di favole, di sentenze significanti l'estrema infelicità umana; e chi di
loro dice che l'uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è
non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli
Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare (n.62).
E anche mi ricordai che da quei tempi insino a ieri o all'altr'ieri, tutti i
poeti e tutti i filosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in un
altro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine. Sicché tornai di nuovo
a maravigliarmi: e così tra la maraviglia e lo sdegno e il riso passai molto
tempo: finché studiando più profondamente questa materia, conobbi che
l'infelicità dell'uomo era uno degli errori inveterati dell'intelletto, e che la
falsità di questa opinione, e la felicità della vita, era una delle grandi
scoperte del secolo decimonono. Allora m'acquetai, e confesso ch'io aveva il
torto a credere quello ch'io credeva.
Amico. E avete cambiata
opinione?
Tristano. Sicuro. Volete voi ch'io contrasti alle verità
scoperte dal secolo decimonono?
Amico. E credete voi tutto quello che
crede il secolo?
Tristano. Certamente. Oh che
maraviglia?
Amico. Credete dunque alla perfettibilità indefinita
dell'uomo?
Tristano. Senza dubbio.
Amico. Credete che in
fatti la specie umana vada ogni giorno migliorando?
Tristano. Sì
certo. È ben vero che alcune volte penso che gli antichi valevano, delle forze
del corpo, ciascuno per quattro di noi. E il corpo e l'uomo; perché (lasciando
tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la
potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore
del corpo, e senza quello non ha luogo. Uno che sia debole di corpo, non è uomo,
ma bambino; anzi peggio; perché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che
vivono, ed esso al più chiacchierare, ma la vita non è per lui. E però
anticamente la debolezza del corpo fu ignominiosa, anche nei secoli più civili.
Ma tra noi già da lunghissimo tempo l'educazione non si degna di pensare al
corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo
coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo,
rovina a vicenda anche lo spirito. E dato che si potesse rimediare in ciò
all'educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno
della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita
privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a
perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo. L'effetto è
che a paragone degli antichi noi siamo poco più che bambini, e che gli antichi a
confronto nostro si può dire più che mai che furono uomini. Parlo così
degl'individui paragonati agl'individui, come delle masse (per usare questa
leggiadrissima parola moderna) paragonate alle masse. Ed aggiungo che gli
antichi furono incomparabilmente più virili di noi anche ne' sistemi di morale e
di metafisica. A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccole obbiezioni,
credo costantemente che la specie umana vada sempre
acquistando.
Amico. Credete ancora, già s'intende, che il sapere, o,
come si dice, i lumi, crescano continuamente.
Tristano. Certissimo.
Sebbene vedo che quanto cresce la volontà d'imparare, tanto scema quella di
studiare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numero dei dotti, ma veri
dotti, che vivevano contemporaneamente cencinquant'anni addietro, e anche più
tardi, e vedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello dell'età
presente. Né mi dicano che i dotti sono pochi perché in generale le cognizioni
non sono più accumulate in alcuni individui ma divise fra molti; e che la copia
di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioni non sono come le
ricchezze, che si dividono e si adunano, e sempre fanno la stessa somma. Dove
tutti sanno poco, e' si sa poco; perché la scienza va dietro alla scienza, e non
si sparpaglia. L'istruzione superficiale può essere, non propriamente divisa fra
molti, ma comune a molti non dotti. Il resto del sapere non appartiene se non a
chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottissimo. E, levati i casi
fortuiti, solo chi sia dottissimo, e fornito esso individualmente di un immenso
capitale di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e condurre innanzi il
sapere umano. Ora, eccetto forse in Germania, donde la dottrina non è stata
ancora potuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questi uomini
dottissimi divenga ogni giorno meno possibile? Io fo queste riflessioni così per
discorrere, e per filosofare un poco, o forse sofisticare; non ch'io non sia
persuaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi il mondo tutto pieno
d'ignoranti impostori da un lato, e d'ignoranti presuntuosi dall'altro,
nondimeno crederei, come credo, che il sapere e i lumi crescano di
continuo.
Amico. In conseguenza, credete che questo secolo sia
superiore a tutti i passati.
Tristano. Sicuro. Così hanno creduto di
sé tutti i secoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, ed io con
lui. Se poi mi dimandaste in che sia egli superiore agli altri secoli, se in ciò
che appartiene al corpo o in ciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle
cose dette dianzi.
Amico. In somma, per ridurre il tutto in due
parole, pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e delle cose
(poiché ora non parliamo di letteratura né di politica) quello che ne pensano i
giornali?
Tristano. Appunto. Credo ed abbraccio la profonda filosofia
de' giornali, i quali uccidendo ogni altra letteratura e ogni altro studio,
massimamente grave e spiacevole, sono maestri e luce dell'età presente. Non è
vero?
Amico. Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da vero e non da
burla, voi siete diventato de' nostri.
Tristano. Sì certamente, de'
vostri.
Amico. Oh dunque, che farete del vostro libro? Volete che vada
ai posteri con quei sentimenti così contrari alle opinioni che ora
avete?
Tristano. Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate; e se fosse
possibile che non ischerzaste, più riderei. Non dirò a riguardo mio, ma a
riguardo d'individui o di cose individuali del secolo decimonono, intendete bene
che non v'è timore di posteri, i quali ne sapranno tanto, quanto ne seppero gli
antenati. Gl'individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i
pensatori moderni. Il che vuol dire ch'è inutile che l'individuo si prenda
nessun incomodo, poiché, per qualunque suo merito, né anche quel misero premio
della gloria gli resta più da sperare né in vigilia né in sogno. Lasci fare alle
masse; le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte
d'individui, desidero e spero che me lo spieghino gl'intendenti d'individui e di
masse, che oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al proposito del libro e de'
posteri, i libri specialmente, che ora per lo più si scrivono in minor tempo che
non ne bisogna a leggerli, vedete bene che, siccome costano quel che vagliono,
così durano a proporzione di quel che costano. Io per me credo che il secolo
venturo farà un bellissimo frego sopra l'immensa bibliografia del secolo
decimonono; ovvero dirà: io ho biblioteche intere di libri che sono costati
quali venti, quali trenta anni di fatiche, e quali meno, ma tutti grandissimo
lavoro. Leggiamo questi prima, perché la verisimiglianza è che da loro si cavi
maggior costrutto; e quando di questa sorta non avrò più che leggere, allora
metterò mano ai libri improvvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo di
ragazzi, e i pochissimi uomini che rimangono, si debbono andare a nascondere per
vergogna, come quello che camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoni
ragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altri tempi hanno fatto gli
uomini, e farlo appunto da ragazzi, così a un tratto senza altre fatiche
preparatorie. Anzi vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, e che
l'indole del tempo presente e futuro, assolvano essi e loro successori in
perpetuo da ogni necessità di sudori e fatiche lunghe per divenire atti alle
cose. Mi diceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo di maneggi e di faccende,
che anche la mediocrità è divenuta rarissima; quasi tutti sono inetti, quasi
tutti insufficienti a quegli uffici o a quegli esercizi a cui necessità o
fortuna o elezione gli ha destinati. In ciò mi pare che consista in parte la
differenza ch'è da questo agli altri secoli. In tutti gli altri, come in questo,
il grande è stato rarissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo, in
questo la nullità. Onde è tale il romore e la confusione, volendo tutti esser
tutto, che non si fa nessuna attenzione ai pochi grandi che pure credo che vi
sieno; ai quali, nell'immensa moltitudine de' concorrenti, non è più possibile
di aprirsi una via. E così, mentre tutti gl'infimi si credono illustri,
l'oscurità e la nullità dell'esito diviene il fato comune e degl'infimi e de'
sommi. Ma viva la statistica! vivano le scienze economiche, morali e politiche,
le enciclopedie portatili, i manuali, e le tante belle creazioni del nostro
secolo! e viva sempre il secolo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo
e larghissimo di parole: che sempre fu segno ottimo, come sapete. E
consoliamoci, che per altri sessantasei anni, questo secolo sarà il solo che
parli, e dica le sue ragioni.
Amico. Voi parlate, a quanto pare, un
poco ironico. Ma dovreste almeno all'ultimo ricordarvi che questo è un secolo di
transizione.
Tristano. Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti i
secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione, perché la società umana
non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella abbia stato che sia per
durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo
decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare,
andando la società per la via che oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè
se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio.
Forse volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza, cioè un
passaggio rapido da uno stato della civiltà ad un altro diversissimo dal
precedente. In tal caso chiedo licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e
rispondo che tutte le transizioni conviene che sieno fatte adagio; perché se si
fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna indietro, per poi rifarle a
grado a grado. Così è accaduto sempre. La ragione è, che la natura non va a
salti, e che forzando la natura, non si fanno effetti che durino, Ovvero, per
dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma
non reali.
Amico. Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe
persone, perché vi acquisterete molti nemici.
Tristano. Poco importa.
Oramai né nimici né amici mi faranno gran male.
Amico. O più
probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia moderna,
e poco curante del progresso della civiltà e dei lumi.
Tristano. Mi
dispiace molto, ma che s'ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di
consolarmene.
Amico. Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? e che
s'ha egli a fare di questo libro?
Tristano. Bruciarlo è il meglio. Non
lo volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d'invenzioni e di
capricci malinconici, ovvero come un'espressione dell'infelicità dell'autore:
perché in confidenza, mio caro amico, io credo felice voi e felici tutti gli
altri; ma io quanto a me, con licenza vostra e del secolo, sono infelicissimo; e
tale mi credo; e tutti i giornali de' due mondi non mi persuaderanno il
contrario.
Amico. Io non conosco le cagioni di cotesta infelicità che
dite. Ma se uno sia felice o infelice individualmente, nessuno è giudice se non
la persona stessa, e il giudizio di questa non può fallare.
Tristano.
Verissimo. E di più vi dico francamente, ch'io non mi sottometto alla mia
infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli
altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con
tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia
desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi ben
certo che, giunta l'ora, il fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque
io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che
quasi mi fa sicuro che l'ora ch'io dico non sia lontana. Troppo sono maturo alla
morte, troppo mi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto come sono
spiritualmente, così conchiusa in me da ogni parte la favola della vita, durare
ancora quaranta o cinquant'anni, quanti mi sono minacciati dalla natura. Al solo
pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma come ci avviene di tutti quei mali
che vincono, per così dire, la forza immaginativa, così questo mi pare un sogno
e un'illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se qualcuno mi parla di un
avvenire lontano come di cosa che mi appartenga, non posso tenermi dal sorridere
fra me stesso: tanta confidenza ho che la via che mi resta a compiere non sia
lunga. E questo, posso dire, è il solo pensiero che mi sostiene. Libri e studi,
che spesso mi maraviglio d'aver tanto amato, disegni di cose grandi, e speranze
di gloria e d'immortalità, sono cose delle quali è anche passato il tempo di
ridere. Dei disegni e delle speranze di questo secolo non rido: desidero loro
con tutta l'anima ogni miglior successo possibile, e lodo, ammiro ed onoro
altamente e sincerissimamente il buon volere: ma non invidio però i posteri, né
quelli che hanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho invidiato gli
sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e
volentieri mi sarei cambiato con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né
stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invidio i morti, e
solamente con loro mi cambierei. Ogni immaginazione piacevole, ogni pensiero
dell'avvenire, ch'io fo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo
passando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa uscire. Né in questo
desiderio la ricordanza dei sogni della prima età, e il pensiero d'esser vissuto
invano, mi turbano più, come solevano. Se ottengo la morte morrò così tranquillo
e così contento, come se mai null'altro avessi sperato né desiderato al mondo.
Questo e il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mi fosse
proposta da un lato la fortuna e la fama di Cesare o di Alessandro netta da ogni
macchia, dall'altro di morir oggi, e che dovessi scegliere, io direi, morir
oggi, e non vorrei tempo a risolvermi.