L’emigrazione degli intellettuali, durante il regime nazista, fu un fenomeno assai diffuso, che non coinvolse soltanto i pensatori legati alla tradizione liberale e democratica o a quella marxista, ma anche avversari di tali tradizioni e della Modernità tout court. Per questi pensatori, si trattava piuttosto di guardare indietro nel tempo, per cercare nel pensiero e nell’esperienza politica degli Antichi gli strumenti coi quali affrontare i dilemmi del presente, ripararne le storture e indirizzare la storia verso una direzione più umana di quella intrapresa dalla Modernità. Insieme a Erich Voegelin, il più insigne esponente di questa corrente di pensiero, che scorge negli Antichi il rimedio dei mali presenti, è sicuramente Leo Strauss (Kirchhain 20/9/1899 - 1973). Di origini ebree, allievo di Heidegger e professore presso l’Università di Chicago, Strauss prende le mosse dalla convinzione che il pensiero politico moderno, da Hobbes in avanti, tendendo a modellarsi sul paradigma della scienze naturali, abbia avuto come suoi inevitabili esiti il liberalismo (Locke) e la democrazia (Rousseau), e infine il nazismo (Hitler) e il comunismo (Stalin). Le cause di queste tragiche regressioni della modernità sono scorte da Strauss nel fatale abbandono della teoria classica del diritto naturale, formulata chiaramente per la prima volta nella Politica di Aristotele. Strauss concorda col positivismo giuridico di Hans Kelsen nel riconoscere a fondamento della democrazia una concezione storicistica e relativistica della verità e dei valori. Ma la conseguenza inevitabile di ciò, lungi dall’essere positiva (quale era in Kelsen), è per Strauss il nichilismo distruttivo delle tirannidi del XX secolo. Proprio sul concetto di tirannide, il filosofo ebreo compie diversi studi volti a coglierne la genesi storica, a partire dai Greci stessi. In una siffatta prospettiva, il compito di una filosofia politica autentica risiede allora, secondo Strauss, nell’indivisuare quale sia l’ordine politico giusto, in grado di coniugare sapientemente una libertà che non si capovolga in arbitrio con un ordine che non si rovesci in oppressione. Ma non si tratta di un compito facile: esso richiede infatti il possesso di una forma di sapere pratico, quale era quello tematizzato da Platone e soprattutto da Aristotele. Un tale sapere – che Aristotele aveva significativamente chiamato phrònesis – deve, da un lato, discernere il bene dal male, riconoscendo l’esistenza oggettiva di fini buoni perché inscritti nella natura e di un bene comune della società; e, dall’altro lato, deve assolvere una funzione di persuasione e di guida degli individui nella loro personale condotta politica ed etica. Questo ritorno ai Greci e al sapere pratico si incastona perfettamente in quella cornice di “riabilitazione della filosofia pratica” di cui erano in quegli anni sostenitori, tra gli altri, anche Hans-Georg Gadamer e Hannah Arendt.