LICONE

 

A cura di Diego Fusaro

 

 

 

Dal 270 circa a.C. fino verso la metà del I secolo a.C. la vita del Peripato – la scuola fondata da Aristotele – proseguì in un’atmosfera di mediocrità generale, senza innovazioni di rilievo. È vero che, di per sé, la scuola continuò a riscuotere successi in veste di istituzione di carattere educativo, ma restò quasi del tutto al di fuori dai grandi dibattiti di idee. Gli uomini che ne ressero le sorti mostrarono di avere capacità filosofiche molto modeste, e, in fin dei conti, non seppero fare altro che operare timidissimi accomodamenti di carattere eclettico con alcune delle più importanti concezioni dell’epoca. La scuola filosofica sopravviveva, ma per inerzia: i suoi esponenti, infatti, non sembravano più in grado di elaborare teorie innovative e di un qualche spessore teoretico, limitandosi a ripetere le tesi elaborate dal maestro o, tutt’al più, a coniugarle – con esiti non sempre convincenti, in verità – con quelle di altre scuole filosofiche. Intorno al 270 a.C. divenne scolarca del Peripato Licone, che successe a Stratone di Lampsaco e tenne la direzione della scuola per quasi mezzo secolo. Con Licone non ci troviamo certo dinanzi a un innovatore, né tanto meno a un pensatore profondo e originale: egli scrisse, infatti, opere che si distinsero per lo stile, ma non certo per la profondità di contenuto; quest’ultima, al contrario, si mantenne piuttosto bassa. A proposito di Licone, disponiamo di un’interessante testimonianza di Cicerone. Scrive l’Arpinate, in termini non propriamente lusinghieri:

 

“Licone tu ricco di parole, ma troppo meschino nei concetti stessi”.

 

Gli interessi filosofici di Licone orbitarono principalmente attorno al problema dell’etica, senza andare a coinvolgere – di fatto – altri settori. L’etica fu, in altri termini, il solo fuoco prospettico dell’analisi liconea. L’aspetto gnoseologico e quello politico, ad esempio, esularono dalle sue indagini. Licone definì il sommo bene come “gioia spirituale” o “gioia dell’anima”. Rivelando una decisiva influenza dello Stoicismo, provò a ridurre considerevolmente la rilevanza dell’afflizione che viene dalle cose che sono estranee all’anima, come per esempio le afflizioni che provengono dal corpo e dalla sorte. In questo modo, la riflessione aristotelica sull’etica – centrale in opere come l’Etica a Eudemo e l’Etica a Nicomaco – veniva a incontrarsi, grazie a Licone, con l’istanza stoica dell’“autosufficienza” del saggio, impermeabile agli strali della sorte e, più in generale, delle faccende esterne. La vera etica del saggio consiste allora, per Licone, in una sostanziale autarchia del sapiente, che deve saper essere virtuoso a prescindere da ciò che accade attorno a lui: secondo la dottrina stoica, il saggio sa rimanere virtuoso e impassibile anche se chiuso nel tremendo “toro” di Falaride. Anche sul modo in cui Licone declinò il problema etico è Cicerone a fornirci preziosissime testimonianze, sostenendo quanto segue (Tusc. disput., III, 32, 78):

 

“E sentiamo Licone: per svalutare l’afflizione egli sostiene ch’essa è prodotta da cose di nessuna importanza: fastidi derivanti dal corpo e dalla sorte, non mali dell’anima”.

 

Più in generale, gli interessi principali di Licone dovettero essere non quelli di carattere propriamente filosofico e teoretico – come peraltro abbiamo già chiarito –, bensì quelli di carattere pedagogico ed educativo, come si ricava dalle esplicite testimonianze degli antichi. Un pensatore eclettico, dunque: il cui eclettismo, tuttavia, non apportò sostanziali novità e, in certa misura, contribuì a indebolire il messaggio originario dell’aristotelismo, contaminandolo con l’influenza stoica.

 


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