LUCIANO DI SAMOSATA
A cura di Diego Fusaro
"Se i filosofi si misurassero in base alla barba, il primo posto spetterebbe alle capre".
Nato presumibilmente nel 120 d.C. a Samosata (capoluogo della Commagene di Siria), Luciano si accostò "dall’esterno" alla cultura greca, apprendendo la lingua greca a scuola. Nell’opera autobiografica Sogno, egli racconta di un fallito tentativo dei suoi genitori di avviarlo alla statuaria presso un loro parente scultore: non appena entrato nella bottega di costui, Luciano, impugnato lo scalpello, mandò in frantumi un blocco di marmo. La punizione inflittagli dal parente pose fine alla carriera scultorea di Luciano, che potè dunque dedicarsi a tempo pieno agli studi di retorica che gli fecero conoscere alla perfezione il greco e la letteratura da Omero in poi. A questo periodo risale il suo avvicinamento a quel movimento costituente la moda dell’epoca che era la "seconda sofistica": al pari degli altri sofisti, anche Luciano iniziò un incessante peregrinare che lo portò presso le città dell’Asia Minore, dell’Italia e della Gallia. Tra il 155 e il 160 d.C., dopo essere rientrato ad Atene, egli compì ulteriori viaggi che lo portarono forse nuovamente a Roma e sicuramente ad Antiochia, dove ebbe modo di conoscere l’imperatore Lucio Vero. Rientrato per breve tempo a Samosata, si trasferì definitivamente ad Atene, sua patria adottiva, dalla quale dovette poi allontanarsi perché chiamato dal prefetto di Egitto ad amministrare quella regione in qualità di archistator praefecti Aegypti (una sorta di cancelliere): tale incarico rivela le prestigiose amicizie che Luciano aveva stretto in quel torno di anni. Dimessosi per motivi politici nel 175, ritornò ad Atene e, da questo momento, perdiamo le sue tracce: senz’ombra di dubbio la sua morte va collocata dopo la fine del regno di Marco Aurelio e, pertanto, avvenne dopo il 180 d.C. Il lessico Suda tramanda che Luciano sarebbe stato sbranato da una muta di cani - sorte riservata agli atei (già Euripide ne era stato colpito) -, ma la notizia risulta poco attendibile.
La figura di Luciano di Samosata si inserisce nella cornice della "
Seconda Sofistica", quel movimento culturale fiorito nei primi decenni di vita dell’impero romano e caratterizzato dalla mercificazione della parola, dal virtuosismo retorico e dall’abbandono di quei temi filosofici che stavano alla base della "Prima Sofistica" (quella che trovava in Gorgia e Protagora i suoi eroi): se la "Prima Sofistica" non solo non aveva rigettato la filosofia, ma anzi l’aveva posta al cuore della propria riflessione, la "Seconda Sofistica", dal canto suo, la ripudia completamente, preferendo un’oratoria sgargiante ed estremamente rifinita, costellata di paignia ("scherzi") consistenti spesso in futili e paradossali elogi (in questo genere va inscritto L’elogio della mosca di Luciano, opera nella quale egli riabilita il fastidioso insetto); interamente votati ad una vuota ars dicendi in cui a contare è esclusivamente la forma, i numerosi esponenti della "Seconda Sofistica" (Dione di Prusa, Favorino di Arles, Erode Attico, Elio Aristide, Claudio Eliano, Filostrato) non tardano a rivelare tutti i limiti della loro attività (un vuoto verbalismo barocco volto a destar la meraviglia nell’uditorio) e la netta inferiorità rispetto a quella "Prima Sofistica" che tanto peso ebbe nella vita filosofica della Grecia del V secolo a.C. E in effetti in Luciano troviamo tutti gli elementi portanti della nuova corrente di pensiero. Tuttavia egli si interessa di sofistica solamente in una prima fase della propria attività, in seguito ai lunghi viaggi che lo portarono a Roma, in Asia minore, in Egitto e in Gallia: frutto di tali interessi successivi al suo girovagare per il mondo sono le numerose meletai, ovvero gli esercizi retorici consistenti in declamazioni altisonanti e roboanti: risalgono a questo periodo il Tirannicida (al centro del quale troviamo un tale che uccide il figlio di un tiranno e, dopo che il tiranno stesso si è tolto la vita per il dolore, chiede un premio come tirannicida), il Diseredato (in cui un medico, diseredato dal padre impazzito, guarisce il genitore, che però lo disereda nuovamente per il suo rifiuto a guarire la matrigna, impazzita anch’ella), i due Falaridi (discorsi che accompagnavano il celebre toro di bronzo, donato dal tremendo tiranno Falaride a Delfi), il succitato Elogio della mosca e l’esilarante Tribunale delle vocali (davanti alla giuria delle vocali la consonante Sigma querela il Tau per le prevaricazioni di cui questo si è reso responsabile nel dialetto attico). Oltre alle , Luciano compone anche alcune prolaliai (o anche dialexeiV), ossia delle "chiacchierate" che introducevano alla recitazione e che di norma erano volte ad ingraziarsi il pubblico: tali erano l’Erodoto, Scita, Zeusi e – risalenti ad un periodo più tardo – Sulla dipsade (serpente velenoso della Libia il cui morso provoca un’arsura inestinguibile, come la sete che Luciano ha di pubblico), Bacco ed Eracle: in quest’ultima "chiacchierata" è descritta vivacemente una raffigurazione, vista in Gallia, del dio in sembianze di vecchio canuto. Ben presto però (a partire dallo scritto Due volte accusato), Luciano prenderà le distanze dalla sofistica: ciò non toglie, comunque, che essa lascerà in lui un retaggio imprescindibile, che costituirà la base del suo modo di far filosofia. In particolare, egli non si staccherà mai da quella dialettica implicante il contrapporsi di posizioni opposte (i classici dissoi logoi sofistici), da quel gradevole umorismo spesso coniugato con una satira pungente che ereditò dalla frequentazione dell’arte sofistica. Tuttavia, il fatto che l’Eracle risalga ad una fase della maturità di Luciano fa pensare che egli possa aver ripreso contatti con la sofistica.L’ALLONTANAMENTO DALLA SOFISTICA E LA SCOPERTA DELLA FILOSOFIA
L’abbandono della Sofistica avviene quando Luciano ha ormai quasi quarant’anni, com’egli stesso racconta nel Due volte accusato: quest’opera costituisce un imprescindibile punto cardinale nella riflessione del pensatore di Samosata, in quanto segna il passaggio dalla sofistica alla filosofia. Dietro l’indiavolata finzione di un processo intentato a Luciano sull’Acropoli di Atene dalla Retorica e dal Dialogo platonico, che lo accusano l’una di averlo abbandonato e l’altro di averlo stravolto e contaminato con la satira, veniamo a conoscenza dei motivi che inducono Luciano a cambiar rotta: la Retorica "non era più una donna per bene e non aveva più il decoro che portava ai tempi di Demostene, che se la sposò, ma ormai si conciava come una sgualdrina, tutta trucco e belletto", tanto più che l’irrequieto spirito di Luciano non poteva più sentirsi appagato dalla frequentazione di "tiranni, encomi e principi" e doveva dedicarsi a qualcosa di più elevato. In forza di ciò, egli si risolse a "divorziare" dalla Retorica e ad accostarsi al Dialogo (ovvero alla filosofia), lontano dalle lodi, dai rumorosi applausi e dalle "chiassate" caratterizzanti la sofistica: ciò non significa, tuttavia, ch’egli intendesse dedicarsi alla filosofia in maniera tradizionale, ed è appunto per via della sua concezione assolutamente originale e mai percorsa prima che il Dialogo lo accusa aspramente (forse anche più della Retorica). All’abbandono della sofistica, Luciano fece seguire alcuni scritti irriverenti in cui la metteva alla berlina, rivelandone i limiti e le contraddizioni: così nell’epistola Precettore dei retori (indirizzata fittiziamente ad un giovane) egli inscena una sarcastica descrizione dell’istruzione retorica; nello Pseudosofista invece egli fa una dura tirata contro un sofista che si vanta di saper riconoscere gli errori linguistici ma che, messo alla prova, fallisce miseramente. Occorre però prestare attenzione a non farsi trarre in inganno: il rigetto della Retorica in Luciano non si traduce in un’automatica "conversione" alla Filosofia, nei confronti della quale egli è anzi sempre un severo critico (riconoscendole più difetti che pregi); è piuttosto corretto affermare che l’irrequietezza che percorre lo spirito di Luciano lo porta a cercare nella Filosofia ciò che non era stato in grado di rinvenire nella Retorica: ma anche la Filosofia delude le attese di Luciano, tant’è che egli non appoggerà mai nessuna Scuola (pur provando di volta in volta simpatie e aperture verso certe scuole di pensiero - in primis l’epicureismo e la scuola cinica - e una costante insofferenza per lo stoicismo) né abbraccerà alcun credo filosofico. Originariamente deluso dal vuoto e capzioso verbalismo fine a se stesso di una Retorica incapace di risolvere i problemi concreti in cui l’uomo si trova impigliato, Luciano non tarderà a restare parimenti deluso dalla Filosofia, la quale, pur proponendosi (e qui sta il reale discrimine rispetto alla Retorica) di risolvere problemi concreti, finisce poi per tradursi in un desolante universo di sistemi contrastanti tra loro e uno più astratto dell’altro, tradendo in tal maniera i propri propositi. Essa, anziché offrire certezze in grado di diradare i dubbi martellanti che albergano nell’animo umano, finisce per destarne di nuovi: ciò è innanzitutto provato dal pullulare di teorie e sistemi che affollano lo scenario filosofico e che, in perpetuo contrasto fra loro, pongono l’uomo in un labirinto da cui egli è poi impossibilitato ad uscire. L’avvicinamento di Luciano alla filosofia avviene, oltrechè in virtù dello scontento in lui prodotto dalla Retorica, grazie all’incontro a Roma col platonico Nigrino, che verrà posto al centro di un dialogo (il Nigrino appunto) in cui Roma, ormai devastata dalla corruzione e dall’opulenza, è contrapposta ad un’Atene ideale ed eterna. Luciano affida la propria produzione a opuscoli irriverenti, a dialoghi esilaranti, a romanzi fantastici (anticipando, in ciò, Cyrano de Bergerac), da cui sempre traspare la stretta relazione intrattenuta con la satira e con la sofisticai: così, nell’Ermotimo (che degli opuscoli a carattere filosofico è il meno insolente) Luciano si fa portavoce di quella profonda insofferenza per il dogmatismo rigoristico degli Stoici che lo accompagnerà per tutta la vita. Nelle Vite d’incanto si immagina che Zeus venda al miglior offerente le diverse vite filosofiche, quali quella epicurea, quella scettica, quella peripatetica, quella pitagorica, ecc. Nel Pescatore Luciano – sotto lo pseudonimo di Parresiade (la
parrhsia era la "libertà d’espressione" di cui faceva professione il cinico Diogene di Sinope) – viene raggiunto dai filosofi da lui dileggiati nelle Vite d’incanto, ai quali Zeus ha concesso di far ritorno per un giorno sulla terra: viene pertanto istituito un processo al cospetto della Filosofia, ma Luciano viene assolto perché dimostra che era sua intenzione smascherare i ciarlatani che hanno continuato, a fin di lucro, l’insegnamento degli antichi maestri. Per questa via, proprio il Dialogo, che con Platone aveva fatto raggiungere al pensiero greco i suoi momenti più intensi ed elevati, diventa ora tra le mani dell’irriverente Luciano uno strumento agile e brioso – oltrechè gradevole e divertente – non già per condurre argomentazioni sull’immortalità dell’anima o sulla giustizia ideale, bensì per liquidare i principi filosofici e le sette filosofiche che ad essi fanno capo, tutte accusate di essersi intorpidite in pesanti e rigidi apparati concettuali che mal si attagliano ad una realtà babelica e spaesante – lungi dall’essere ordinata e teleologica, come la supponevano Aristotele e Platone – quale la intende Luciano. Gli dei stessi – che in quanto uomini all’ennesima potenza presentano gli stessi difetti dell’uomo, ma all’ennesima potenza - divengono il bersaglio dei dissacranti dialoghi di Luciano. Convolato a giuste nozze col dialogo, Luciano non lo lascerà mai, per tutta la sua produzione letteraria: in tale forma letteraria sono composti i celebri ventisei Dialoghi sugli dei e i quindici Dialoghi marini, in cui i miti tradizionali vengono rielaborati dalla fervida fantasia di Luciano, che attraverso di essi ci offre incantevoli scenette di vita quotidiana dei protagonisti (niente poco di meno che gli dei dell’Olimpo e quelli degli abissi marini); stessa forma presentano i quindici Dialoghi delle cortigiane, al cui centro troviamo, con un’ironia tenue e leggera, quei personaggi femminili già portati in scena dalla commedia "nuova" di Menandro. Di genere diametralmente opposto sono poi i trenta Dialoghi dei morti, nei quali la satira religiosa (sempre al centro della produzione di Luciano) e la lucidissima critica dei troppi luoghi comuni (l’importanza dei beni terreni, il valore della bellezza, ecc) costituiscono gli argomenti principe; il tutto è ravvivato dall’indiavolata presenza del celeberrimo filosofo cinico Menippo di Gadara (del III secolo a.C.), qui raffigurato – morto tra i morti – nell’atto di gettar scompiglio tra gli inquilini dell’Ade col suo irrinunciabile nichilismo. La stessa memorabile figura di Menippo troviamo nell’Icaromenippo e nel Menippo: nel primo, il filosofo cinico compie un incredibile viaggio in cielo al fine di rendersi personalmente conto della conformazione del cielo, poiché poco persuaso dalle numerose e confusionarie teorie formulate in merito dai filosofi; nel secondo, invece, egli scende agli Inferi col pretesto di chiedere all’indovino Tiresia quale vita sia preferibile vivere: la risposta è che la migliore è quella dell’uomo comune. Con questa sorprendente risposta, Luciano non fa che calcare le orme di Platone e del suo mito di Er (Repubblica, X). L’attenzione da Luciano rivolta a Menippeo può essere spiegata facendo riferimento all’ininterrotta battaglia da questi condotta per smascherare e smitizzare i falsi filosofi che si atteggiano come oracolari detentori della verità: proprio l’avversione palese di Luciano per ogni forma di dogmatismo che si dica possessore della verità è il punto di incontro della battaglia che egli intenta contro la religione e contro la filosofia cristallizzata in sistemi infinitamente lontani dal reale. Anziché risolvere i problemi concreti che gli sbarrano la strada, l’uomo preferisce alzare lo sguardo verso i cieli dell’Olimpo o verso i nebbiosi cieli della metafisica che, introducendo parole roboanti ma fondamentalmente prive di significato, finisce per creare ulteriore confusione (al pari della Retorica) in un mondo in cui la confusione domina già di suo. Il sarcasmo lucianeo verso le teorie delle diverse scuole filosofiche e verso il dogmatismo in cui è impantanata la religione diventa feroce e irrisorio nell’opuscolo redatto in forma epistolare Morte di Peregrino: Peregrino era un filosofo cinico assai noto (Aulo Gellio, VIII, 3; XII, 11) che Luciano conobbe occasionalmente mentre stava rientrando dall’Oriente ad Atene. Costui decise di suicidarsi platealmente dandosi fuoco ad Olimpia durante i Giochi del 165 d.C., e appunto a qualche anno dopo risale l’opuscolo di Luciano, dal quale traspaiono parecchie allusioni satiriche al fanatismo dei Cristiani (partorito, ancora una volta, da quel dogmatismo che pretende di stringere in pugno la verità). Negli Schiavi fuggitivi Zeus si lamenta per via del fetore che il rogo di Peregrino ha fatto salire fino alle vette dell’Olimpo, finchè non giunge la Filosofia sdegnata dei tanti filosofi impostori che maldestramente vorrebbero imitare Menippeo o Diogene e, calatasi sulla terra, sorprende quei ribaldi in sembianze di schiavi fuggitivi e li riporta dai rispettivi padroni. Nell’Eunuco, Diocle e l’eunuco Bagoa – entrambi appartenenti alla schiera degli Aristotelici – litigano aspramente dinanzi a una giuria di eminenti Ateniesi per l’assegnazione della cattedra di filosofia. Ci si domanda se un eunuco possa degnamente rivestire il prestigioso ufficio, ma ad un certo punto qualcuno dei presenti propone che ci si sinceri che Bagoa sia realmente eunuco. La lotta di Luciano contro il dogmatismo religioso si appunta, oltrechè sul cristianesimo, sulla religione dei Greci stessi: in questa cornice rientrano tre dialoghi dissacranti e insolenti scritti contro Zeus: in Zeus confutato, il padre degli dei si trova in inestricabili difficoltà di fronte alle argomentazioni di un tal Cinisco, indaffarato a dimostrare sia l’inutilità degli dei, in quanto meri esecutori della volontà della Moira, sia la falsità delle credenze relative ai premi e castighi che attendono le anime dopo la morte (stoccata al cristianesimo e al platonismo). In Zeus tragedo, Zeus cerca di far prevalere l’opinione dello stoico Timocle in un dibattito con l’epicureo Damide; quest’ultimo pare aver la meglio, ma il confronto degenera in zuffa, sotto gli occhi degli dei incapaci di riportare l’ordine. Infine, nel Concilio degli dei, il protagonista Momo (il "Biasimo", nume allegorico), in un’assemblea divina lamenta che troppi abitanti dell’Olimpo non siano equipaggiati dei requisiti necessari per essere considerati realmente dei: sicchè Zeus decide una verifica e il risultato è che molti inquilini della sacra dimora (fra cui Ganimede e Dioniso) sono da considerarsi abusivi: l’aspetto paradossale è che Zeus stesso è un abusivo! Di contro all’astrattezza della filosofia e della religione, Luciano ha a cuore i problemi concreti che travagliano gli uomini: così nei Saturnali – risalenti alla produzione tarda dello scrittore – egli prende spunto dalle festività in onore del Dio Saturno (durante le quali si praticava per un giorno l’appianamento delle disuguaglianze sociali e gli schiavi sedevano a tavola coi padroni) per fare delle amare riflessioni sulle ingiustizie sociali gravanti sulla società del tempo, in cui le ricchezze sono concentrate nelle mani di pochi (e malvagi), mentre i più (e buoni) sono condannati a vivere nella miseria. Sempre all’anzianità di Luciano risale l’Apologia, un discorso di genere giudiziario redatto poco prima che Luciano accettasse l’incarico in Egitto: essa si configura come una palinodia dell’opuscolo scritto parecchi anni prima Su coloro che vengono assunti per mercede, in cui l’autore tentava di dissuadere gli intellettuali greci dall’accettare incarichi umilianti, anche se ben retribuiti, presso le case romane. Nell’Apologia, ora che Luciano sente la necessità di giustificarsi poiché è lui in prima persona a non disdegnare un ben remunerato ufficio al soldo di Roma, si difende sofisticamente (e in maniera davvero poco persuasiva) distinguendo fra chi si umilia al servizio di una casa privata e chi, come lui, si presta ad un servizio pubblico, nell’espletamento del quale può certamente essere utile a città e popoli. Gli interessi di Luciano orbitano anche intorno alla storia e, soprattutto, intorno al modo di scriverla: sotto forma di breve trattato, egli compone una lettera su Come si deve scrivere la storia, in cui si schiera contro coloro che si attribuiscono la qualifica di storici senza realmente essere tali; il vero storico, dal canto suo, è tenuto ad essere obiettivo e fedele nella narrazione degli accadimenti storici, senza far trasparire le proprie opinioni. Sembrerebbero smentire in toto la tesi di un Luciano "concreto" e accanito rivale di chi – i filosofi e i religiosi, ma anche i sedicenti storici – si allontana dal vero i due libri in cui si articola il romanzo fantastico Storia vera, in cui, nella cornice di un’avventura incredibile e coinvolgente, l’autore racconta di un suo viaggio tra mille peripezie che l’han portato sulla luna, nella pancia di una balena, nella terra del ghiaccio e in moltissime altre lande sperdute. In realtà, dietro la finzione di questo viaggio incredibile, Luciano ci sta trasmettendo nitidamente un messaggio chiarissimo: la realtà, lungi dal presentarsi come un Tutto disciplinato in cui ad ogni causa segue un determinato effetto e in cui ogni cosa è stata posta da un Divino artefice in vista di qualcos’altro (questa era la dottrina dei Platonici, ma l’idea di un kosmoV ordinato era presente in pressoché tutte le scuole filosofiche), si configura come un caotico guazzabuglio irrazionale di eventi privi di significato e tali da non poter mai essere padroneggiati dalla ragione umana, quella tremenda facoltà con la quale i filosofi pretendono di rinvenire un ordine laddove esso manca. In maniera volutamente esagerata, con parecchi secoli d’anticipo rispetto all’Ariosto dell’Orlando furioso, Luciano mette magnificamente in luce come il mondo in cui ci troviamo a vivere sia il terribile regno del caos: nell’introduzione all’opera, tuttavia, Luciano sostiene filantropicamente che essa è stata redatta al fine di far riposare la mente del lettore ed ha come intento quello di parodiare sia i falsi discorsi dei poeti e degli storici sia – soprattutto - le elucubrazioni dei filosofi, che hanno scritto di cose mai viste spacciandole per verità assolute; sicchè l’autore ci avverte fin dalle prime pagine: "in una sola cosa dirò la verità, nel riconoscere che dirò unicamente menzogne". Ma egli sembra anche suggerirci, per via sotterranea, che con tale premessa egli è molto più corretto di filosofi e religiosi, i quali, pur dicendo anch’essi esclusivamente menzogne, non si premurano di avvisare il loro uditorio e anzi le fan passare per solenni verità. E così il viaggio di Luciano sulla luna o il suo ingresso nella pancia della balena saranno falsi non meno della dottrina delle Idee elaborata da Platone o di quella del LogoV universale partorita dalla mente degli Stoici, con l’aggravante che questi sedicenti filosofi eran convinti di aver colto la verità. Parimenti debbono essere disprezzati i poeti, anch’essi trasudanti dogmatismo: la conclusione cui perviene Luciano – con la solita dose di ironia – è che gli uomini sono soliti fare affidamento sui versi di Omero, poeta che "descriveva quel che c’era in cielo, ma che non poteva nemmeno vedere quel che c’era sulla terra". Ma sarebbe sbagliato limitarsi a leggere il Luciano della Storia vera (o, meglio, delle Storie vere) come mero confutatore del carattere veritativo che la filosofia e la religione falsamente si attribuiscono: quel mondo pervaso dalla follia e dall’assurdo ch’egli tratteggia con l’abile mano dello scrittore di satire non è poi così lontano dal vero mondo, in cui è possibile imbattersi in uomini imbevuti di fanatismo o in gente che si dà fuoco, un mondo insomma dove le regioni padroneggiate dalla ragione sono davvero poche. La trama dell’opera è particolarmente movimentata, ma proveremo a percorrerla sinteticamente: una tempesta solleva in cielo la nave su cui Luciano e cinquanta suoi compagni erano partiti dalle colonne di Ercole. Pervenuti così nell’isola delle Donne-viti, vengono trasportati da un’altra tempesta sulla luna, dove sono costretti a partecipare alla guerra fra Seleniti (abitanti della luna) ed Elioti (abitanti del sole). La nave riesce infine a scendere sul mare, ma una balena la inghiotte con tutto l’equipaggio superstite. In qualche maniera Luciano e compagni riescono a uccidere il cetaceo e a venirne fuori e così riprendono la navigazione che li conduce sul mar Ghiacciato. Allo scioglimento di questo, costeggiano svariate isole, come quella dei Tori e del Formaggio, e giungono alla terra dei Beati. Odisseo, che lì dimora, ne approfitta per affidare loro una lettera da recapitare a Calipso, presso cui la nave giunge dopo una lunga sosta. Lasciata anche la ninfa, l’equipaggio si imbatte in avventure ancora più strabilianti, quali l’assalto dei Zucchipirati e dei Nocinauti, l’attraversamento di un bosco marino, l’assalto dei Bucefali, l’incontro con gli Uomini-nave e altre ancora. Dopo tante peripezie, Luciano e i suoi compagni giungono agli Antipodi della terra, ma la distruzione della nave li obbliga ad approdarvi a nuoto. Vicenda altrettanto fantastica rispetto a quella della Storia vera è quella narrata in Lucio o l’asino (ammesso che si tratti di un’opera effettivamente attribuibile a Luciano: i dubbi in merito sono molti): un tale di nome Lucio, mentre sta incautamente armeggiando con alcuni filtri aiutato dall’ancella di una maga, viene repentinamente trasformato in asino, sebbene egli intendesse tramutarsi in uccello. Per poter riassumere le sembianze di uomo, egli si trova costretto ad affrontare una caterva di mirabolanti avventure e peripezie. L’argomento della trasformazione in asino era già stato trattato (stando alla testimonianza di Fozio) da un certo Lucio di Patre - la cui opera (Metamorfosi) tuttavia non ci è giunta – e sarà ripreso, in ambito latino, dallo stesso Apuleio.Troppo spesso presentato semplicemente come esponente della Seconda Sofistica o come narratore di romanzi esilaranti, in Luciano si è raramente ravvisato un ingegno filosofico non di second’ordine, ancorché egli si serva della filosofia per liquidare la filosofia stessa: questa – al suo sguardo lungimirante – pecca di astrattezza e di dogmatismo, giacchè – anziché, se non risolvere, almeno affrontare le tematiche che travagliano l’uomo di tutti i giorni – si è arroccata dietro rigidi sistemi infinitamente lontani dalla realtà e implicanti una sorta di fede in cose mai esperite. Ciò è, in definitiva, quel che accomuna filosofia e religione (Luciano ha soprattutto in mente quella cristiana), immancabilmente tendenti a cristallizzarsi in dogmi e, in forza di ciò, a tacitare la voce della ragione: con l’espediente del riso demolitore, Luciano mette sapientemente in evidenza come quelli che vengono acclamati come "filosofi" altro non sono se non ciarlatani e mistificatori che sciorinano il loro presunto sapere in sistemi risolventisi in cumuli di fandonie. Di qui il ruolo preminentemente distruttivo che assume il filosofare di Luciano: egli filosofa per distruggere i filosofi – cosa in cui si rivela abilissimo -, ma quando poi si tratta di edificare sistemi alternativi a quelli aborriti, egli tace, rivelando in ciò una totale incapacità di proporre alternative valide. Già il patriarca Fozio aveva pienamente colto questo bifrontismo del pensiero lucianeo, in virtù del quale il filosofo di Samosata demolisce i sistemi di pensiero altrui senza però proporne di troppi: in tal senso, non sorprende il fatto che Fozio esprima un giudizio incontrovertibilmente negativo su di lui, giudicandolo un uomo senza rispetto di nulla e abile solo a contestare col suo riso beffardo le opinioni altrui ma incapace di proporne una e di prenderla veramente sul serio, "a meno che non si voglia dire che la sua opinione è quella di non avere opinioni" (e, in effetti, parecchi sono gli indizi di una sostanziale adesione di Luciano allo Scetticismo). La filosofia come viene intesa da Luciano pare allora configurarsi come un’instancabile attività di demistificazione e di abbattimento dei pregiudizi (religiosi e filosofici) che affollano le menti degli uomini: tale sarà, del resto, il compito che Nietzsche stesso attribuirà a se stesso in quanto filosofo in Ecce homo. Ma è forse possibile far tabula rasa di pregiudizi e opinioni senza poi introdurne di nuovi? Eliminate le opinioni, si dovrà dunque vivere senza di esse, come quel Pirrone di Elide che, liberatosi delle opinioni, si lasciava cadere nei precipizi e investire dai carri nell’impossibilità di opinare se ciò fosse un bene o un male? Qui risiede, francamente, il lato debole della prospettiva lucianea, pur così lucida nel ridicolizzare gli insensati luoghi comuni che ci accompagnano nell’agire senza che noi nemmeno ce ne accorgiamo. L’adesione di Luciano agli ammaestramenti epicurei e a quelli cinici (in particolare l’entusiasmo per la figura di Menippo) dev’essere a tal proposito intesa come un momentaneo traviamento del suo spirito troppo corrosivo per adagiarsi sui dogmi dei sistemi filosofici. Oltrechè dall’avversione verso il dogmatismo in sé, la polemica di Luciano nei confronti della filosofia trae origine anche dalla constatazione della sua sostanziale inutilità: di tutti i quesiti che essa ha sollevato nel corso dei secoli, a quanti ha definitivamente trovato una risposta? A nessuno, risponde ironicamente Luciano; al che gli si potrebbe obiettare – con Bobbio - che forse l’ufficio della filosofia consiste appunto nel mettere a fuoco i problemi, non nell’eliminarli. Se Aristotele (Protrettico; Metafisica, I) non si stanca mai di esaltare la superiorità della filosofia facendo leva sulla sua inutilità (proprio dalla constatazione ch’essa non serva a nulla se ne deduce che è la suprema delle scienze, poiché sciolta dal vincolo di servitù), Luciano la condanna in quanto inutile: per quanto ricca di una secolare esperienza, non è riuscita a fornire risposte chiare ed esaurienti, ma ha solo generato ulteriore confusione e ha partorito i tanti imbroglioni che si vendono per filosofi, senza in realtà essere addivenuti ad alcuna risposta concreta. Eppure Luciano – consapevole o no – nel momento in cui mette al muro la filosofia, sta filosofando, avvalorando l’assunto aristotelico dell’impossibilità di non fare filosofia (se si fa filosofia, si filosofa; e se si dimostra che non si deve far filosofia, si filosofa ugualmente). In maniera sotterranea, dietro ai riflessi abbaglianti delle sue molteplici opere (tutte orbitanti intorno agli stessi concetti di fondo: ripudio del dogmatismo, della religione, della filosofia, ecc ), Luciano ci sta suggerendo che se la filosofia mai è addivenuta a risultati convincenti, ciò è dovuto alla connaturata debolezza della nostra ragione (a Luciano sono debitori Montaigne e il "pensiero debole" di Vattimo), incapace di far presa su una realtà magmatica e sfuggente, caotica e inafferrabile, per sua natura renitente a farsi disciplinare dall’attività ordinatrice della ragione. Ne segue – così pare dirci Luciano – che una vita trascorsa in meditazioni è una vita non vissuta: sicchè, al lavoro intellettuale ed inconcludente dei filosofi, Luciano contrappone l’esistere dell’uomo comune (nel Menippo), che cavalca l’onda degli accadimenti mondani vivendo fino in fondo la vita e accettandola per quella che è, anche nei suoi aspetti più paradossali (un viaggio sulla luna o nella pancia di una balena, ad esempio): di qui l’accettazione – seppur parziale e momentanea – dell’epicureismo. Sempre nell’ambito della "distruttività" del filosofare lucianeo va annoverata la denuncia delle storture dilaganti all’epoca: in particolare (nei Saturnali) l’invettiva contro le disuguaglianze sociali che andavano sempre più inasprendosi; ancora una volta, però, Luciano diagnostica il male ma non sa proporre la cura: sicchè la sua è e resta una filosofia demolitrice ma non propositiva, venata da un certo pessimismo che impedisce all’autore di spingersi al di là della semplice constatazione dell’ingiustizia imperante nel mondo; dopo aver interpretato e criticato la realtà, egli non si rivela in grado di trasformarla, anche perché non provvisto di un disegno alternativo su cui modellarla. Sarebbe del resto da stolti ribellarsi ad un mondo in cui la volontà umana e, con essa, ogni singolo avvenimento dipendono direttamente da quella capricciosa e imperscrutabile entità che è la
Tuch: nel Menippo, Luciano ci esibisce un’icastica raffigurazione di ciò, descrivendo la vita umana come un corteo di maschere guidato dalla Tuch, che prima attribuisce a caso ai partecipanti certe qualifiche e i relativi abbigliamenti (da re, da schiavo, da nobile) e poi si diverte a scambiare di tanto in tanto e senza ragione il costume che essa stessa ha dato loro, trasformando improvvisamente chi è re in uno schiavo o viceversa. Solo la morte – e non l’operare dell’uomo – potrà appianare le disuguaglianze sociali che lacerano il mondo, distribuendo quella dose di giustizia e di parità che sulla terra manca. Gli dei stessi sono il frutto, oltre che della superstizione e del dogmatismo, dell’asservimento a cui l’uomo è condannato: avvezzo alle disuguaglianze nella società, egli non ha fatto che potenziarle e renderle insite alla natura stessa inventandosi gli dei come entità consustanzialmente superiori, di fronte ai quali l’uomo è tenuto a chinare il capo e a mostrare rispetto. E proprio contro gli abitanti dell’Olimpo Luciano scaglia i suoi dardi più velenosi: nello Zeus confutato il padre degli dei non riesce a reggere al fuoco della confutazione di chi gli fa notare l’inutilità degli dei e nel Concilio degli dei si arriva addirittura a sostenere che Zeus è un abusivo. Ha acutamente notato Karl Marx che "la storia è radicale e attraversa parecchie fasi quando vuole seppellire una vecchia forma sociale. L’ultima fase di una forma storica è la commedia. Gli dei della Grecia, tragicamente feriti a morte nel ‘Prometeo incatenato’ di Eschilo, dovettero subire una seconda morte, la morte comica nei ‘Dialoghi’ di Luciano...perché l’umanità si separi serenamente dal suo passato" (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel).