MACCHINARIO E GRANDE INDUSTRIA (cap. XIII)
Leggendo il cap. XIII del I libro del Capitale, intitolato "Macchinario e grande industria", salta subito agli occhi la grande differenza che separa Marx da Lenin.
Dopo la sconfitta del proletariato industriale nella rivoluzione del 1848, Marx smise di credere nella possibilità di una vittoriosa rivoluzione comunista a breve termine, anzi arrivò a teorizzare che prima di tutto occorreva attendere l'esaurirsi della spinta propulsiva del capitalismo. Di qui il suo dedicarsi agli studi approfonditi di economia politica. La Comune di Parigi infatti lo coglierà del tutto impreparato.
Sotto questo aspetto ci si chiede quale valore possa avere un testo come il Capitale. Sul piano scientifico, quello appunto dell'economia politica, ne ha indubbiamente uno grandissimo, ma su quello politico? Potrà mai nascere una rivoluzione proletaria dalla lettura del Capitale?
Sino al confronto col populismo il Marx maturo restò fermo nella convinzione che la transizione al socialismo sarebbe potuta avvenire solo sulla base dell'acuirsi delle contraddizioni del capitalismo. Quale discepolo di Hegel, egli era convinto che il motore della storia fosse la "contraddizione", che deve svilupparsi al massimo livello, al fine di poter generare una nuova formazione sociale.
Come tale formazione concretamente si generi Marx lo lascia spesso al caso, al moto spontaneo delle circostanze. Saranno gli uomini a trovare, al momento opportuno, in forza di nuove condizioni storiche, i mezzi e i metodi migliori per superare le loro contraddizioni.
Marx ha fiducia piena nella storia, ritenuta una sorta di deus ex-machina, in grado di agire motu proprio, al punto che gli operai del Capitale sembrano doversi limitare a una mera lotta sindacale, riformistica, contro gli imprenditori privati.
Viceversa, Lenin si chiedeva se avesse ancora senso aspettare l'acuirsi delle contraddizioni capitalistiche quando quelle già esistenti erano più che sufficienti per capire che la battaglia andava condotta immediatamente contro il "sistema" del capitalismo e non tanto contro le sue storture più evidenti.
Non era infatti possibile accettare, in Russia, il passaggio dalla crisi strutturale del feudalesimo alla nascita del capitalismo, senza rendersi conto che il capitalismo produceva, nelle città ma anche nelle campagne, dei guasti superiori allo stesso servaggio.
Lenin ebbe subito chiaro, e con lui migliaia di bolscevichi, che più tempo si dava al capitalismo di mettere radici e più tempo ci sarebbe voluto per estirparle.
Più in generale si può dire che la superiorità di Lenin rispetto a Marx è pari a quella che separa un politico da un teorico. Lo stesso Capitale, che pur vede il capitalismo quasi esclusivamente nella sua fase concorrenziale, è stato scritto quando ormai il capitalismo era entrato nella fase monopolistica. Viceversa l'Imperialismo è stato scritto da Lenin quando i monopoli avevano dato vita al loro impetuoso sviluppo.
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Marx afferma che "l'estensione universale della legislazione sulle fabbriche" (§ 9 di "Macchinario e grande industria", ed. Newton Compton del Capitale, p. 657) servì "per proteggere fisicamente e intellettualmente la classe operaia", tuttavia essa favorì pure "la concentrazione e il dominio esclusivo del regime di fabbrica".
Tale contraddizione, dal punto di vista del leninismo, sarebbe dovuta bastare per convincere la classe operaia sul fatto che qualunque rivendicazione sindacale, se non sostenuta da una forte esigenza rivoluzionaria, finisce col sortire l'effetto contrario a quello voluto.
Viceversa, Marx è convinto che quanto più si favorisce il "dominio esclusivo" del capitale, tanto più si "universalizza" la lotta contro tale dominio.
In altre parole, la lotta anticapitalistica, nella fase della manifattura o del capitalismo commerciale, non approdò al socialismo semplicemente perché il capitalismo non era ancora sufficientemente "concentrato" e quindi non lo era nelle fabbriche il proletariato.
L'unità organizzativa utile alla rivoluzione di sistema Marx la riteneva possibile solo come conseguenza della concentrazione dei capitali nelle imprese maggiori. Gli operai si sarebbero sentiti tanto più uniti politicamente quanto più lo sarebbero stati "fisicamente".
Questa logica deterministica è ben visibile anche a p. 639, laddove Marx ribadisce, con un'affermazione lapidaria, che "lo sviluppo delle contraddizioni di una forma storica della produzione è l'unico mezzo che offre la storia per la sua dissoluzione e trasformazione". L'istanza e quindi la prassi di liberazione vengono subordinate all'evolversi storico delle contraddizioni antagonistiche.
Essendo per sua natura "anarchico", il capitalismo, secondo Marx, era destinato all'autodistruzione o comunque al superamento da parte di quella classe che in ultima istanza non avrebbe accettato di lasciarsi coinvolgere in quella inevitabile rovina.
Lenin, pur partendo da premesse marxiste, perverrà a conclusioni praticamente opposte: il proletariato, anche se tutto concentrato nelle imprese capitalistiche, al massimo può giungere a una consapevolezza sindacale, in quanto non ha sufficienti possibilità (scientifiche, organizzative) per comprendere (agendo di conseguenza) che il sistema è in sé irriformabile. Sicché la coscienza che porta l'operaio a lottare in maniera irriducibile per il superamento del sistema, può essere sollecitata solo dall'esterno dei rapporti di lavoro.
Detto altrimenti: senza rivoluzione politica il capitalismo sarebbe stato in grado di superare le proprie crisi all'infinito, anche perché ne avrebbe sempre fatto portare il peso ai lavoratori.
Lenin capì chiaramente questo, ma non arrivò ad accettare, con pari risolutezza, il passaggio successivo, e cioè che gli uomini (non solo i militanti del partito ma l'intero popolo di una nazione), pur avendo coscienza della necessità della rivoluzione, vanno lasciati liberi di usare tale coscienza anche contro gli interessi della stessa rivoluzione.
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Nel cap. XIII Marx ribadisce a chiare lettere che l'introduzione del macchinismo è servita unicamente ad aumentare il plusvalore del capitale (e non tanto -come voleva l'economia politica borghese- ad alleviare le fatiche degli operai). Tuttavia, egli non ha spiegato il motivo culturale del passaggio dalla manifattura alla grande industria, cioè delle cause di fondo che portarono alla rivoluzione tecnico-scientifica, che poi servì da volano alla rivoluzione industriale vera e propria.
La manifattura esprimeva certamente un rapporto mutato tra uomo e uomo, ma l'industrializzazione esprime anche un rapporto profondamente mutato tra uomo e natura. La grande industria infatti ha la pretesa di superare tutti quei limiti naturali che in qualche modo ostacolavano lo sviluppo su grande scala della produzione manifatturiera. Il capitale presume di trionfare non solo sul lavoro ma anche sull'ambiente in cui esso si manifesta.
Marx lo dice nella nota 89 (ed è singolare che sia solo una nota): "La tecnologia mette in luce la condotta dell'uomo nei confronti della natura...". E tuttavia egli non compie alcuna analisi critica nei confronti della tecnologia in sé. Anzi, qualunque tecnologia che assoggetti la natura alle esigenze dell'uomo viene giustificata, con l'ovvia eccezione ch'essa non venga utilizzata per sfruttare il lavoro altrui.
Con lo sviluppo della macchina-utensile, che determinerà tecnicamente la nascita della rivoluzione industriale, s'inverte il rapporto di dipendenza del macchinario dal lavoratore. Questo non può essere considerato un processo naturale, anche se indubbiamente le scelte operate in determinate direzioni possono portare a conseguenze inevitabili.
I limiti "culturali" di Marx sono ben visibili laddove afferma, a proposito della fine della famiglia contadina o patriarcale, che "pur apparendo orrenda e disgustosa l'oppressione della vecchia famiglia operata dal sistema capitalistico, ciononostante la grande industria, con la parte grandissima che è attribuita alle donne, agli adolescenti e ai bambini d'entrambi i sessi nei processi produttivi che vengono svolti socialmente al di fuori della cerchia familiare, crea la nuova base economica per una forma più evoluta della famiglia e del rapporto tra i due sessi"(p. 641).
Cioè a dire, mentre prima le donne e i figli erano nettamente subordinati agli uomini e tutti al patriarca della famiglia allargata, ora, essendo tutta la famiglia ugualmente sottomossa al capitale, è di conseguenza aumentata la possibilità di costruire dei rapporti più democratici tra i sessi.
E' singolare che Marx non abbia sottolineato come, da un lato, nelle famiglie rurali del feudalesimo il dominio del signore o del patriarca era strettamente legato alla fisicità della sua persona e quindi a rapporti di tipo personale, la cui "forza" era in rapporto alle terre possedute o al ruolo riconosciuto per tradizione e non poteva comunque essere illimitata come sotto il capitalismo, dove il capitale si riproduce a prescindere dalla volontà del capitalista, e come, dall'altro, la nuova subordinazione al giogo del capitale non è sul piano fisico e sociale meno "orrenda" e "disgustosa" di quella feudale, mentre lo è senza dubbio molto di più sul piano morale, essendo mascherata dall'ipocrisia della libertà giuridica. Questo nei paesi del Terzo mondo è ancora oggi piuttosto evidente.
MACCHINARIO E GRANDE INDUSTRIA (cap. XIV)
Anche in questo cap. è evidente la visione limitata di Marx nei confronti delle società precapitalistiche. Egli infatti da un lato condanna il capitalismo perché basato sullo sfruttamento sistematico del lavoro altrui; dall'altro però afferma, a più riprese, che sotto il capitalismo è avvenuta la "socializzazione del lavoro", la "cooperazione dell'operaio complessivo" ecc.
Per Marx è stato un grande progresso dell'umanità la socializzazione aziendale imposta dal capitale ai lavoratori; non solo perché quest'ultimi sono stati costretti a "stare uniti", a lottare insieme per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro (il lato politico della socializzazione), ma anche perché è proprio "con il carattere cooperativo del processo di lavoro [sottinteso: capitalistico] che si estende per forza di cose il concetto del lavoro produttivo e del suo strumento, del lavoratore produttivo"(p. 665, che è appunto il lato economico della socializzazione).
Tutte le rivoluzioni precomuniste sono fallite -sembra dire Marx- perché gli uomini erano anzitutto disuniti nell'ambito del lavoro. Dice infatti a p. 664: "appropriandosi individualmente gli oggetti di natura per le esigenze della sua vita, egli [il lavoratore] controlla se stesso. In seguito egli viene controllato".
Il che in sostanza significa che l'uomo preborghese controllava sì se stesso, ma in maniera individualistica; era "libero" (relativamente parlando) ma "isolato". Sotto il capitalismo invece è sì "schiavo", in quanto "controllato", ma è "associato".
Marx non ha mai accettato l'idea di una società preborghese (anzitutto "primitiva") composta da uomini e donne "liberi e associati". Tutto ciò che è "precapitalistico" è necessariamente "individualistico". Qui il lavoro intellettuale e manuale -dice Marx- era unito e non in contrapposizione, ma il loro prodotto era quello "immediato del singolo produttore" e non quello "comune di un operaio complessivo, cioè di più persone che lavorano in combinazione"(pp. 664-5).
Egli vede l'operaio sociale del capitalismo in antitesi non solo al servo della gleba (considerato un semi-schiavo) ma anche a un operaio individualista che non è mai esistito. Il fatto che le corporazioni feudali non potessero avere più di un certo numero di operai non stava affatto a significare ch'essi facessero un lavoro individualistico, cioè se anche il lavoro in sé poteva apparire individualistico, non lo era però il contesto in cui si svolgeva. E in ogni caso il lavoro dell'operaio moderno industrializzato è sempre stato molto più parcellizzato (e quindi alienante) di quello del garzone. Il moderno operaio è semplicemente l'ingranaggio di una macchina che non vede mai il suo prodotto finito nell'insieme.
Marx equipara chiaramente la vita rurale della Germania tardo-feudale della sua epoca con la vita industrializzata della classe operaia inglese, e preferisce senza riserve quest'ultima. Egli non ha mai smesso di paragonare il capitalismo col feudalesimo del basso Medioevo, cioè un capitalismo in atto con uno in potenza, e facendo questo ha sempre avuto buon gioco nel sostenere che l'uno era migliore dell'altro sotto tutti i punti di vista.
Egli non ha mai ipotizzato l'idea che la cooperazione sarebbe potuta nascere anche a prescindere dal capitalismo. Marx parla continuamente dei vantaggi della cooperazione dimenticandosi di precisare a quale prezzo essi sono stati raggiunti. Parla della cooperazione come se essa fosse separabile dal capitalismo. Teoricamente potrebbe infatti esserlo, ma storicamente non lo è stata, almeno nell'ambito della manifattura.
Non è solo questione che con la manifattura si aumentano gli operai da impiegare contemporaneamente. La macchina non è più uno strumento di lavoro in cui una parte del tempo viene sottratta in maniera coercitiva dal proprietario della terra; ora è uno strumento completo per il profitto capitalistico, al pari della stessa forza-lavoro. Il capitalismo non nasce utilizzando semplicemente in maniera diversa i tradizionali mezzi produttivi (perché improvvisamente arrivò a capire che con la cooperazione si poteva fare di più e di meglio), ma sin dall'inizio è volto a trasformare questi mezzi in strumenti sempre più efficienti per realizzare profitti che in sostanza sono fini a se stessi. Questa rivoluzione culturale Marx non l'ha mai esaminata a fondo.
D'altra parte a Marx non interessa sapere se nel mondo contadino esisteva la cooperazione. La cooperazione, per lui, è strettamente legata al macchinismo.
Marx non ha fatto altro che proiettare nel lontano passato la vita dei contadini tedeschi, che nonostante l'adesione alla riforma protestante rimasero sostanzialmente estranei allo sviluppo dei processi democratici del tempo (come d'altra parte la stessa borghesia tedesca),
Occorrerà il contatto col populismo russo prima che Marx riveda i suoi pregiudizi nei confronti del mondo contadino.
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Del capitalismo Marx non avrebbe mai detto ch'esso poteva porsi solo come una delle possibili alternative storiche al declino del feudalesimo. Era troppo forte l'idea del capitale di connettere "lavoro" a "produttività" perché si potesse pensare a una transizione non altrettanto "esigente". Eppure proprio il capitalismo ha trasformato il lavoro altrui in un'occasione di rendita, esattamente come faceva, con molto meno calcolo, il feudalesimo nei confronti del servaggio.
La stessa equiparazione borghese di "lavoro" e "produttività" possiede dei connotati antiumanistici, poiché la misurazione del proprio lavoro in un rendiconto di tipo economico viola il principio etico secondo cui il lavoro è mezzo e non fine o comunque strumento di vita e non di profitto. Concepire il profitto come cosa fine a se stessa significa vedere gli uomini solo come strumenti di lavoro.
L'uomo deve lavorare per il bene della comunità e quindi per il suo stesso bene, ma la comunità non può sottoporre il suo lavoro a un valore di tipo matematico. Da un punto di vista sociale e non meramente economico, ciò che più conta è che, potendolo fare, l'uomo lavori e non se ne stia a oziare a spese della comunità.
Se vale il principio socialista: "Da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo bisogno", non può esistere il concetto di "lavoro produttivo", in quanto ogni lavoro lo è e tutti in misura uguale. Quanto, nella realizzazione di tale principio, occorra la presenza di comunità autogestite, è facile capirlo.
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Marx ha spiegato solo in maniera fenomenica il passaggio dalla produzione di plusvalore assoluto (che è caratteristica di ogni formazione sociale antagonistica) alla produzione di plusvalore relativo (che è tipica del capitalismo): non l'ha spiegato in maniera ontologica o culturale.
Egli ha connesso la nascita del capitalismo con il "culto dell'uomo astratto" elaborato dal cristianesimo, ma non ha mai svolto un'analisi sistematica di tale connessione, e chi ha preteso di farla -p.es. Weber o Sombart- l'ha fatto in maniera borghese.
Occorre riesaminare tutta la teologia cattolica, a partire dalla riscoperta medievale dell'aristotelismo, per giungere sino allo sviluppo del calvinismo, che è la quintessenza culturale del capitalismo. Se non si fa questo lavoro di ricerca si finisce col cadere in tautologie, da ritenersi ormai classiche nel marxismo, come la seguente: "la produzione di plusvalore assoluto costituisce il fondamento universale del sistema capitalistico e il punto di partenza per la produzione del plusvalore relativo"(p. 666).
Se così fosse, non ci si potrebbe spiegare il motivo per cui lo stesso "fondamento universale" delle altre formazioni antagonistiche non s'è mai posto come punto di partenza per la produzione del plusvalore relativo.
Marx, che si rendeva ben conto del circolo vizioso, spesso -non avendo affrontato la questione in maniera culturale- era costretto a dare delle risposte equivoche, contraddittorie, come per es. la seguente: "Il fatto che in una società sia predominante questa forma di sfruttamento [il capitale usuraio o il capitale commerciale] impedisce il modo di produzione capitalistico [che presuppone la libera vendita della forza lavoro], che tuttavia può trovare in essa una forma di transizione: fu il caso del tardo Medioevo"(p. 667).
Altrove però egli dirà che senza il "capitale commerciale" difficilmente può sorgere quello "capitalistico".
In realtà -ed è la storia che lo dimostra- fino a quando esiste un primato dell'agricoltura, la cultura che sorregge lo sfruttamento del lavoro difficilmente può favorire una transizione al capitalismo: cosa invece possibilissima se quel primato viene intaccato dallo sviluppo del capitale commerciale, cui ovviamente deve corrispondere, sul piano sovrastrutturale, una cultura opposta alla precedente.
La diretta e completa subordinazione del lavoro al capitale deve essere in qualche modo anticipata sul piano culturale, anche se qui gli strumenti teorici che si usano e lo stesso oggetto delle argomentazioni può risultare del tutto estraneo agli sviluppi sociali futuri. E' difficile sostenere che la nascita culturale del capitalismo tragga le sue origini dalla riscoperta medievale dell'aristotelismo, eppure le sue radici sono lì.
L'analisi culturale deve essere approfondita, anche per evitare di dire delle sciocchezze, come p.es. là dove Marx pretende di aver trovato una "base naturale" del plusvalore: "nessun ostacolo naturale assoluto può impedire a una persona di esimersi dal provvedere al lavoro necessario per il proprio sostentamento addossandolo sulle spalle di un altro"(p. 669).
Se l'uomo è per definizione un "essere sociale", questa sua qualità non è un prodotto solo culturale ma anche naturale, che implica delle regole la cui verità dipende dalla libera accettazione. Anche se una cultura può farlo sembrare tale, lo sfruttamento non può mai essere considerato "naturale".
L'ostacolo naturale assoluto allo sfruttamento è dato proprio dalla naturale socializzazione della vita umana, che può arrivare ad accettare le discriminazioni solo se interviene, artificiosamente, una cultura che si contrappone alla "tradizionale natura delle cose", una cultura fittizia, non popolare ma intellettualistica, che pretende di mettere in discussione quella consolidata da secoli di vita sociale, e che trova un terreno fertile in quelle realtà non sufficientemente consapevoli del valore delle cose.
La "spontanea produttività di plusvalore" è tipica delle società antagonistiche, ma era del tutto sconosciuta alle comunità primitive, che pur sono esistite per milioni di anni.
Per Marx le comunità primitive erano così arretrate da risultare assai simili alla socializzazione degli animali. Egli cita, in nota, "gli indiani selvaggi d'America" e nel testo parla di "cannibalismo".
Il fatto che fra gli indiani quasi tutto appartenesse alla comunità viene considerato possibile da Marx appunto perché "le forze produttive erano assai piccole; anche le esigenze..."(p. 669). Quindi in sostanza mancava lo sfruttamento a causa dell'arretratezza sociale della tribù!
"I rapporti secondo i quali il pluslavoro di una persona diviene condizione di esistenza di un'altra sorgono solamente quando gli uomini sono usciti tramite il lavoro dalla loro animalità, vale a dire solo quando il loro stesso lavoro è arrivato a un determinato grado di socialità"(p. 669). Dunque, il lavoro o meglio la forza-lavoro è tanto più fonte di valore quanto più si pone come unico mezzo in grado di far uscire una comunità primitiva dalla propria "animalità"!
Cos'è questo se non un modo ideologico di applicare al passato uno stile di vita moderno? In assenza di un'analisi culturale approfondita Marx è costretto ad affermare che l'uomo diventa tanto più facilmente "umano" quanto prima inizia lo "sfruttamento"! L'umanizzazione trova le sue fondamenta in ciò che la contraddice.
Di qui il rifiuto di considerare possibile l'idea che non tanto il lavoro sia fonte del valore, quanto piuttosto che sia il valore condiviso da una collettività a dare senso al lavoro.
Marx ha voluto usare categorie borghesi per ritorcercele contro la stessa borghesia: infatti se il lavoro è fonte del valore, la borghesia è una classe inutile perché vive sullo sfruttamento del lavoro altrui. Tuttavia, non è questo il modo di costruire un'alternativa globale al capitalismo.
E l'alternativa va cercata proprio nell'esperienza della comunità primitiva. Gli storici hanno sostenuto che Marx non ebbe idee chiare sullo sviluppo del comunismo primitivo perché allora gli studi critici erano molto scarsi, ma non si tratta solo di questo.
Prendiamo ad es. questa affermazione: "in quel periodo primordiale la parte della società che vive del lavoro di altri è nei confronti della massa dei produttori diretti proporzionalmente esigua, quasi insensibile"(p. 669).
Come se lo "scarso sfruttamento" del lavoro altrui fosse un difetto della comunità! Come se uno sfruttamento, seppur esiguo, debba per forza essere presente in ogni comunità primordiale! Come se il non-lavoro da parte di alcuni dovesse necessariamente coincidere con lo sfruttamento nei confronti di altri!
Chiunque può facilmente notare che non si tratta soltanto di mancanza di conoscenze. Tant'è che alla fine della sua argomentazione Marx, rendendosi conto di non aver saputo trovare una risposta convincente al problema della nascita del capitalismo, è costretto a concludere con un'affermazione generica: "Il rapporto capitalistico sorge su un terreno economico che è prodotto di un lungo processo di sviluppo... non è dono di natura, ma di una storia che comprende migliaia di secoli"(pp. 669-70).
Il processo evoluzionistico della storia qui viene chiamato in causa per giustificare un fenomeno di cui non s'è ben capita la genesi storico-culturale.
D'altra parte ancora più assurda è la risposta, di tipo "geografico" (alla Montesquieu), ch'egli qui dà a questo problema: "Non è il clima tropicale con la ricca vegetazione la madrepatria del capitale, bensì la zona temperata"(pp. 671-2).
Eppure poco prima egli aveva detto: "Quanto minore è il numero dei bisogni naturali da soddisfare in assoluto, e quanto più grande è la fertilità naturale della terra e la mitezza del clima, tanto più corto è il tempo di lavoro necessario per il mantenimento e per la riproduzione del produttore"(p. 670).
Col che si potrebbe pensare che la comunità primitiva avesse meno bisogno di praticare lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Invece secondo Marx è proprio il contrario: "tanto maggiore può quindi essere l'eccedenza del suo lavoro per altri..."(p. 670).
Ma allora -ci si può chiedere- perché il capitalismo non è per esempio nato nell'Egitto dei faraoni, che certo conosceva e praticava lo sfruttamento dell'uomo? Marx in sostanza sostiene che il capitalismo poteva nascere solo in una zona geografica la cui ricchezza naturale non fosse troppo rigogliosa, ma dipendesse dalla capacità dell'uomo di dominare la natura.
E riporta vari esempi, soprattutto in riferimento all'irrigazione dei suoli: antico Egitto, Lombardia, Olanda, India, Persia, Spagna, Sicilia...
Eppure proprio questa capacità lavorativa, riscontrabile in epoche e luoghi diversi, non spiega affatto il motivo per cui la nascita del capitalismo si sia verificata proprio in Europa occidentale, né la ragione per cui in molti dei luoghi citati da Marx il capitalismo si sia affermato solo in seguito al colonialismo europeo, cioè come una forzatura imposta da un agente esterno.
Insomma, quando Marx afferma che "la prosperità delle condizioni naturali favorisce sempre solamente la possibilità, mai la realtà del pluslavoro..."(p. 673), non si rende conto che se avesse approfondito la ricerca culturale avrebbe trovato indimostrabile questa teoria climatica anche solo per il concetto di "possibilità del pluslavoro".
Che il passaggio dalla possibilità alla realtà dipenda da fattori extranaturali, o che esso venga ritenuto impossibile semplicemente a motivo di determinati fattori naturali, bisogna in ogni caso trovare i fattori umani che hanno generato la transizione, altrimenti un qualunque nesso di clima e pluslavoro rischia di diventare una sciocchezza colossale.
MACCHINARIO E GRANDE INDUSTRIA (cap. XV)Quando Marx parla di "valore della forza-lavoro" è sempre costretto a usare dei termini generici, benché la scienza economica esiga il contrario.
Questo sta appunto a significare che quando è in gioco l'essere umano qualsiasi determinazione quantitativa del suo valore rischia sempre di apparire approssimativa. Sotto questo aspetto sarebbe stato meglio dare una definizione qualitativa del valore dell'essere umano qua talis, anche a costo di finire nella tautologia.
In effetti, dire che "il valore della forza lavorativa è determinato dal valore dei mezzi di sussistenza generalmente necessari all'operaio medio"(p. 679), è come dire che tale valore è, in sostanza, poco determinabile in maniera scientifica. Peraltro, se un operaio produce più del suo valore (cosa che determina il plusvalore, che è lavoro non pagato), non potrà mai esistere un salario matematicamente adeguato al valore della forza-lavoro.
Quando si parla di mezzi di sussistenza "generalmente" necessari a un operaio non specifico ma "medio", si finisce col cadere nell'opinabile, nel soggettivo. Non si può pretendere che un'oggettività dipenda da un'astrazione, specie quando è in causa l'essere umano.
O si parla, in maniera generica, del valore assoluto della persona umana; oppure si deve combattere la pretesa di trovare un riferimento scientificamente adeguato al valore della forza-lavoro. Se esiste un valore di tal genere, esso non potrà che oscillare fra un minimo e un massimo talmente diversi da rendere impossibile qualunque statistica attendibile.
Un operaio che lottasse solo perché sia riconosciuto il valore esatto della sua forza-lavoro, sarebbe un folle, poiché il suo essere "lavoratore" non occupa che 1/3 della sua giornata lavorativa. In realtà l'operaio ha bisogno che il valore della sua forza-lavoro non dipenda strettamente dal valore dei mezzi di sussistenza, altrimenti non gli resterebbe altro tempo per fare alcunché.
Lo stesso capitalista, che pur fa di tutto per limitare il salario al minimo indispensabile (alla riproduzione della forza-lavoro), sa benissimo che se l'operaio si limita a riprodursi non potrà mai diventare un acquirente delle merci ch'egli stesso produce.
Il valore della forza-lavoro è quindi, in realtà, il frutto di un continuo compromesso o, se si vuole, di una continua trattativa sindacale tra operaio e imprenditore. Il riferimento ai mezzi di sussistenza entra in gioco solo quando l'operaio rischia di essere licenziato o quando la sua prole non trova alcuna vera occupazione.
Il valore della forza-lavoro non è dato dal salario, che deve comunque permettere la riproduzione, poiché l'uomo non è solo ciò che mangia e il fine dell'esistenza umana non è quello di lavorare.
L'uomo ha bisogno di lavorare per riprodursi, ma ha tanti altri bisogni che non possono essere soddisfatti col lavoro o, se vogliamo, il fatto di doversi riprodurre non può coincidere strettamente coi bisogni di tipo materiale.
L'uomo deve potersi riprodurre come essere umano e non soltanto come lavoratore che produce dei beni. Il concetto di persona è antecedente a quello di lavoratore.
Possiamo accorgerci di questo solo nell'ambito di una comunità in cui l'individuo venga valorizzato anzitutto per quello che è e non per quello che fa.
Di una persona si devono stimare il carattere, i sentimenti, i pensieri, gli atteggiamenti, le virtù, le qualità morali...
Se si pone il lavoro come primo fattore di valorizzazione si pongono in essere, immediatamente, dei fattori discriminanti: p.es. tra uomo e donna, tra adulto e minore, tra abile e disabile, tra forte e debole, tra residente e immigrato, tra intellettuale e manovale ecc.
Se invece si accetta l'idea di valorizzare la persona per quello che è, occorre essere disponibili a veder emergere in questa persona le sue migliori caratteristiche.
Questo, si badi, non significa rinunciare all'idea che per eliminare il lavoro salariato occorra una rivoluzione politica, poiché è difficile credere che i capitalisti possano rinunciare spontaneamente alla possibilità di vivere di rendita sfruttando il lavoro altrui.
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In una società socialista esisterà il plusvalore, il lavoro non retribuito? Sì, se sarà determinato dalla spontaneità e non dalla coercizione.
E potrà mai esistere l'idea di "profitto" se non ci sarà la possibilità di estorcere plusvalore dalla forza-lavoro? Senza coercizione economica o extraeconomica non ci può essere "profitto", intendendo con questo termine anche quella parte di lavoro non pagata. Ci può essere il guadagno o il ricavo, ma non un profitto di tipo capitalistico. Il plusvalore infatti rappresenta proprio la garanzia che il profitto si realizzerà in maniera automatica, semplicemente pagando degli operai al di sotto del valore che rendono.
Il plusvalore infatti è la possibilità che il capitale si è dato di sfruttare l'operaio dietro l'apparenza dello scambio degli equivalenti, che in questo caso consiste nell'offrire denaro (il salario) contro merce (la forza-lavoro).
A questa finzione il capitalismo è stato costretto proprio a causa del cristianesimo, che non avrebbe tollerato un ritorno allo schiavismo stricto sensu. Il lavoratore salariato è schiavo nell'apparenza della libertà. E tale apparenza è tanto meno sofisticata quanto meno presente è stato nei secoli il cristianesimo (come p.es. in molti paesi terzomondiali, dove il capitalismo s'è sempre comportato con molti meno scrupoli).
Nel socialismo reale il plusvalore esisteva in quanto lo Stato si era sostituito a tutti i capitalisti privati, illudendo i lavoratori ch'esso fosse lo "Stato di tutto il popolo".
In una società democratica, dove i mezzi produttivi sono socializzati e non statalizzati, il lavoro non direttamente retribuito può essere solo quella forma di lavoro la cui retribuzione viene devoluta in fondi particolari che riguardano i servizi sociali, per il bene comune.
In una società del genere il lavoratore è effettivamente padrone di ciò che produce, ma appunto perché fa riferimento a una comunità di appartenenza (di lavoratori e di cittadini, della città e della campagna), in cui può liberamente decidere cosa e quanto produrre per le esigenze locali e come ripartire i beni prodotti.
Occorrono unità relativamente piccole per organizzare al meglio la produzione e la distribuzione dei beni materiali. Anzi, forse per la distribuzione tali unità devono essere ancora più piccole di quelle della produzione.
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A più riprese Marx ha sostenuto che i meccanismi del capitale sono coperti da una sorta di "velo mistico", che non esisterebbe se si producesse in maniera libera e pianificata.
Marx ha indubbiamente "strappato" questo velo, ma non ha saputo spiegare il motivo culturale per cui esso sia stato posto.
Oggi sappiamo che il capitalismo afferma in sede teorica ciò che nega in sede pratica, ma per sostenere un'incoerenza del genere esso ha avuto bisogno di grandi finzioni, in grado appunto di "mascherare" le sue insanabili, perché strutturali, contraddizioni.
Non è stato facile scoprire queste "finzioni". Gli economisti borghesi, p. es. (Smith, Ricardo ecc.), non riuscirono a comprendere la natura oppressiva del plusvalore semplicemente perché non volevano ammettere la natura oppressiva del sistema capitalistico. Loro vedevano solo un progresso nella giustizia economica, in quanto, a differenza del latifondista, l'imprenditore industriale appariva come un uomo capace di rischiare il proprio capitale, investendolo in attività produttive. E' il capitalista che dà lavoro agli operai e non il contrario.
In sostanza la domanda che ci si pone è la seguente: com'è nato questo processo, per il quale sono occorsi indubbiamente dei secoli?
La storia dell'Europa, negli ultimi duemila anni, passa attraverso continue e violente rotture nei confronti degli ideali originari del cristianesimo (lo stesso cristianesimo si pone come rottura col messaggio originario del Cristo): solo da una loro progressiva stratificazione poteva nascere una così potente negazione di quegli ideali.
L'accumulazione dei capitali è stata necessariamente preceduta da una grande accumulazione di successive e periodiche "rotture di valore" che si sono stratificate e sedimentate.
Che però la storia dell'antagonismo sociale sia a una svolta epocale è documentata dalla nascita stessa del socialismo, la cui ideologia, per la prima volta da quando esiste la lotta di classe, riporta agli uomini la necessità di tornare al comunismo primitivo, seppure in forme e modi diversi.
Il velo mistico è stato strappato, ma resta ancora appeso sul tabernacolo dell'ipocrisia,
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Lo sviluppo industriale va ripensato a prescindere dalle conseguenze negative ch'esso ha generato sotto il capitalismo. Il primato dell'industria sull'agricoltura e sull'artigianato ha provocato conseguenze catastrofiche sull'ambiente e sulla vita sociale anche in quei paesi che hanno cercato di realizzare il socialismo (il fatto che questo il più delle volte sia stato "burocratico" e non "autogestito" non cambia le cose; anzi forse si può dire che un socialismo potrà essere veramente democratico solo quando sarà finito il primato dell'industria o comunque anche quando tale primato non esisterà più).
Certo, la fine di questo primato non è di per sé sufficiente a garantire la democraticità del socialismo; meno che mai lo è quando tale fine viene proposta come obiettivo strategico a quelle nazioni che in questo momento sono soggette a rapporti di tipo neocoloniale.
Una democrazia può essere garantita solo da se stessa, cioè solo dalla libertà umana. La fine del primato dell'industria può semplicemente servire a rendere più agevole il processo che condurrà alla democrazia, ma senza garanzie di sorta.
Il destino dei paesi terzomondiali non è quello d'imboccare la strada di una industrializzazione forzata, copiando i modelli occidentali, e non è neppure quello di continuare a subire il diktat delle potenze più industrializzate del mondo. Essi hanno piuttosto il compito di reagire politicamente alla loro sottomissione economica, allo scopo di porre le basi, sul terreno sociale, di uno sviluppo della società più conforme alle leggi della natura e alle caratteristiche della specie umana.
Enrico Galavotti galarico@inwind.it www.homolaicus.com