MANILIO


"Nascentes morimur" (IV, 6)


Leggi il testo integrale (in latino) degli ASTRONOMICA


Figura enigmaticamente avvolta da un alone di mistero, Marco Manilio presenta una biografia per noi pressoché totalmente oscura. Quel poco che sappiamo di lui lo dobbiamo agli spunti autobiografici che, a sprazzi, qua e là punteggiano il suo scritto, il poema didascalico intitolato Astronomica (Poema sugli astri), in cinque libri; da esso apprendiamo che Manilio visse sotto Augusto (a cui l’opera è dedicata) e, in parte, sotto il suo successore Tiberio. L’opera tratta temi filosofici ed astronomici di carattere generale: il primo libro è dedicato all’astronomia, con una dettagliata descrizione del cosmo che comprende le ipotesi sulla sua formazione, le stelle, i pianeti, i circoli celesti, le comete. Il secondo libro analizza le caratteristiche dei segni dello zodiaco e le possibilità offerte dalle loro congiunzioni; il terzo tratteggia le dodici sorti, il Locus Fortunae e il modo di determinare l’oroscopo. Il libro quarto analizza i decani dei segni zodiacali (ogni segno consta di tre unità o decani – di dieci gradi ciascuno – per un totale di 36 decani) e il loro influsso sui caratteri umani. Il quinto libro esamina i segni extrazodiacali che accompagnano il moto dello zodiaco e le grandezze stellari. Nel corso del I secolo a.C., le dottrine astrali erano state accolte dai più disparati livelli della cultura ufficiale romana, benché continuassero a sussistere forti sospetti verso alcune figure di astrologhi/maghi. Il poema di Manilio è il più serio tentativo mai realizzato dal mondo romano di conferire dignità poetica a questo filone di pensiero ampiamente percorso dalla cultura greca (in particolare da Arato di Soli). La struttura dell’opera in versi di Manilio – la quale si interrompe improvvisamente nel libro V, risultando pertanto incompiuta – è interamente percorsa dalla necessità di rinvenire un ordine universale, una ratio cosmica che muove la grande macchina dell’universo e determina la storia umana. La professione filosofica di stoicismo che Manilio non si stanca mai di fare rientra perfettamente in questo quadro. In un bellissimo passo della sua opera (V, 734 e seguenti), egli paragona l’ordine delicato della natura alla struttura gerarchica della società umana:

"E come è suddiviso il popolo nelle grandi città, ove i senatori occupano il posto più elevato e il più vicino a questo i cavalieri, e tu potresti vedere i cittadini seguire i cavalieri e il volgo senza qualità i cittadini e poi la folla senza nome, così anche nell’universo c’è una forma di stato fatta dalla natura, che ha creato nel cielo una città".

Come nella città umana sussiste una gerarchia fissata dal destino e, in forza di ciò, tale da non poter essere rovesciata, così nella città celeste tutto è disciplinato da un ordine mai sovvertibile. Rivelandoci questo splendido ordine celeste, Manilio ci sta invitando a non peccare di presunzione e di stoltezza, ossia a non cercare di voler piegare il mondo al nostro volere, ma, piuttosto, a piegare il nostro volere alla ratio del cosmo. L’accettazione della realtà nella sua datiti è tema tipicamente stoico, presente tanto in Crisippo e Zenone quanto nei nuovi eroi della Stoà (Panezio e Posidonio), dai quali Manilio trae l’ispirazione. Proprio Posidonio di Apamea aveva rivalutato l’astronomia e, soprattutto, l’astrologia, fondando la validità delle sue predizioni sulla teoria stoica della sumpaqhia universale, cioè dello stretto legame che unisce l’uomo e l’universo, costituenti un unico organismo animato da un soffio vitale (pneuma) che permea di sé ogni singola parte e la collega con tutte le altre in una struttura compatta e inscindibile, ordinata secondo un disegno razionale e provvidenziale che l’uomo, grazie alla propria ragione (che è una scheggia della ragione cosmica) può studiare e conoscere. Già con Lucrezio la filosofia aveva trovato la propria espressione poetica più adeguata nei versi della poesia: anche Manilio segue tale strada, ma il messaggio di cui egli è alfiere non è più quello epicureo (veicolato da Lucrezio), bensì quello stoico, che, per sua stessa natura, era assai propenso ad accettare tanto l’astronomia quanto l’astrologia e la divinazione, ossia la predizione del futuro in base all'interpretazione dei segni che in vari modi la divinità invia agli uomini. Come Cicerone, come Germanico e, in generale, come tutto il pensiero latino, anche Manilio prende spunto dai Fenomeni di Arato di Soli, il grande poema didascalico di età ellenistica, benché egli non si stanchi mai di rivendicare la propria autonomia e, soprattutto, la propria originalità:

"racconterò una mia storia, senza nulla dovere a nessun poeta che mi ha preceduto; su un carro solitario solcherò il cielo, con una barca tutta mia fenderò le onde" (libro II, proemio)

E in effetti Arato si era in certa misura – a partire dal titolo stesso, fainomena, ossia "le cose quali appaiono" – limitato a render conto delle apparenze, non già della profonda struttura del reale ad esse soggiacente: dal canto suo, Manilio accampa il ben più ambizioso progetto di render ragione di come proceda il mondo, disgelandone i segreti più intimi. Sicchè, nelle stesse pagine, convivono raffinatissime descrizioni scientifiche (la sfericità della Terra, la durata di sei mesi del giorno e della notte al Polo) con una cieca fede nell’influsso degli astri sulla vita umana (ciò resta vero ancora in Keplero). Il cielo di Manilio, pertanto, è retto da una mirabilis ratio, da una necessità che l’uomo, pur non potendo mutare, può ciò non di meno comprendere:

"nulla vi è di più mirabile, nell’immensità dell’universo, del fatto stesso che tutto debba obbedire a leggi immutabili".

I nomi stessi degli astri non sono, secondo Manilio, dettati dal caso, ma piuttosto dalla lunga esperienza degli astronomi che ne riconobbero l’eterna natura fissandola nei nomi e nelle storie del mito. Il cielo stellato diventa così l’immensa pagina di una narrazione di miti, legati l’uno all’altro dai vincoli parimenti potenti della matematica e della genealogia. Le parti del cielo si reggono e si influenzano l’una con l’altra, e lo si può mostrare altrettanto bene calcolandone la disposizione nella sfera celeste o raccontandone i miti; inoltre la sfera celeste avvolge e condiziona la sfera terrestre: perciò il libro quarto contiene un’ampia sezione corografica, in cui le sezioni della Terra sono una per una ripercorse e poste sotto l’influenza delle loro stelle e dei loro miti. Per questo motivo sono richiamati anche gli eventi e i personaggi della storia umana, anch’essi fatalmente soggetti alle regole immutabili dettate dagli astri e, in questa cornice, Manilio si mette alla prova in una moltitudine di microdrammi, comprimendo in sei versi la gloria e la morte di Pompeo, in cinque il mito di Salmoneo, il re che sfidò Zeus violando i confini fra terra e cielo; e poi Manilio incastona nel suo poema un vero e proprio poema minore, la storia di Andromeda, che occupa ottanta versi del quanto libro. L’autore è pienamente consapevole dell’operato dei poeti che l’hanno preceduto: Omero cantò Troia, Esiodo le genealogie degli dei e il lavoro agreste, altri scrissero sulle costellazioni, "ma per essi nulla è se non favola il cielo, quasi lo avesse fabbricato la terra, che invece tutta ne dipende" (libro II); Teocrito cantò i pastori, altri gli uccelli, la caccia di belve, le serpi perniciose, le erbe e le piante, o l’oltretomba. Tutto è già stato cantato:

"io invece cercherò un vergine prato cosparso d’intatta rugiada, una sorgente che sgorghi in una grotta inesplorata, che neanche Apollo abbia ancora gustato".

Quella di Manilio viene allora a configurarsi come una scoperta sensazionale: la commistione di ammaestramenti filosofici inerenti la struttura dei cieli e versi poetici. E la scienza del cielo rivela all’uomo il proprio destino, perché ormai "conosciamo abbastanza la natura, possiamo penetrarvi fino in fondo, impadronirci del cielo che ci dà la vita, muoverci fra gli astri, noi che dagli astri fummo originati". Tale professione di fede spiega perché Manilio possa parlare di stelle con tanta passione poetica: penetrandone la natura, l’uomo soggiogato dal destino ridiviene padrone di se stesso, non già perché possa mutare la fortuna, bensì in quanto può conoscerla. Spetta all’uomo (e a lui soltanto) disgelare i serrami della natura celeste e della ragione cosmica, giacché solamente l’uomo partecipa massimamente di tale ragione (questo passo piacque molto a Goethe):

"Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo,
e trovare Dio, se non chi partecipa della divinità?
E questa vastità della volta che si estende senza fine,
e le danze degli astri e i fiammeggianti tetti del cielo,
e l’eterno conflitto dei pianeti contrapposti alle stelle,
chi potrebbe discernere e racchiudere nell’angusto petto,
se la natura non avesse dato alla mente occhi così potenti
e non avesse rivolto a sé un’intelligenza ad essa affine,
e non avesse ispirato un compito così alto, e non venisse dal cielo
ciò che ci chiama al cielo, per partecipare ai sacri riti?
"
(II, 115-125)

Proprio la conoscenza delle leggi naturali deve secondo Manilio condurre all’accettazione del destino assegnatoci: sicchè egli, nel proemio del libro IV, esorta gli uomini con un’apostrofe solenne:

"Liberate i vostri animi, o mortali, alleviate gli affanni,
svuotate la vita di tanti, inutili lamenti. I fati reggono il mondo, tutto è determinato da leggi precise,
e le lunghe età sono segnate da vicende prestabilite.
Nascendo moriamo [nascentes morimur] e la fine dipende dall’inizio
".
(IV, 12-16)


INDIETRO