ODO MARQUARD

 

A cura di Roberta Musolesi

 

 

"I filosofi hanno certamente cambiato il mondo in modi differenti, ma si tratta di risparmiarlo".




Odo Marquard, filosofo tedesco, ha studiato, fra il 1947 e il 1954, filosofia, germanistica, teologia evangelica e cattolica ed ha affrontato approfonditi studi storici. Nato nel 1928, professore emerito all Justus Liebig Universität di Giessen, Marquard è stato anche presidente della società tedesca di filosofia. Esperto di antropologia, estetica, religione, attribuisce alle scienze umane un ruolo di resistenza e apertura positiva rispetto alla deriva nichilistica cui è esposto il nostro mondo scientifico e tecnico; rilancia inoltre il ruolo del mito inteso non come qualcosa di vincolante, ma piuttosto come una polifonia di voci diverse e contrastanti. Forse, però, l'elemento più originale della sua opera sta nel taglio ironico e disincantato con cui presenta tutte le grandi questioni legate all'origine e al destino dell'uomo. Ha ricevuto il premio “Sigmun Freud” per la prosa scientifica, il premio “Ervin Stone” nel 1992 e nel 1996 e nel 1984 ha ottenuto il premio “Robert Curtis” per la saggistica.

 

Principali opere tradotte in italiano:

 

Apologia del caso, il Mulino, 1991

Estetica e anestetica. Il Mulino, 1994

 

La tribunalizzazione della storia e il problema del male. 

 

Odo Marquard è lo studioso del Novecento che per primo ha riflettuto sulla tribunalizzazione della storia, svelandone i meccanismi. Con tale tale espressione il filosofo intende la trasformazione del sapere storiografico in una sorta di tribunale davanti al quale compare l’uomo al puro scopo di assolvere se stesso nel passato e nel presente. Lo spunto per affrontare ed approfondire tale questione è stato fornito a Marquard da un saggio del 1974 dell’allora professor Joseph Ratzinger a proposito della “liquidazione del diavolo”. In risposta agli studiosi del Nuovo Testamento che ritengono che l’espressione “diavolo” non fosse altro che un modo mediante il quale la cultura dell’epoca di Gesù indicava ciò che per noi sono il peccato e il male, Ratzinger, pur non volendo mortificare la modernità a favore della fede, riteneva comunque indispensabile affermare la visione biblica del male come “non-persona”. La tentata liquidazione del diavolo da parte degli studiosi del Nuovo Testamento rifletteva questioni che toccavano punti nodali riguardanti non solo lo spazio della teologia, ma che interessavano e riguardavano anche e soprattutto il contenuto e la funzione della storia, della memoria, della giustizia. L’introduzione del diavolo aveva permesso di rispondere ad un pressante interrogativo, che da Agostino e Boezio attraversa la teologia fino a Leibniz: Si Deus, unde malum? Secondo Marquard, tuttavia, già nella seconda metà del Settecento la filosofia scettica aveva accantonato la teodicea e i credenti rinunciavano a interrogarsi sul male in termini di ineluttabilità, per confinarsi negli spazi della morale. C'è stata, come sottolinea Marquard, una trasformazione della storia e dalla filosofia della storia che, senza più seccare tanto Dio, ha dovuto misurarsi con un fatto nuovo: l'uomo contemporaneo è il solo responsabile davanti a un male di cui sa di essere diventato il solo autore e di cui deve chiedere giustizia solo a se stesso. L’uomo viene in tal modo investito di un peso enorme, cui egli cerca di resistere con stratagemmi che “compensino” ciò che il passato, lontano o vicino che sia, rivela sul suo stesso agire. Il concetto di compensazione è un concetto chiave dell’antropologia filosofica moderna e corrisponde alla visione dell’uomo come essere carente.  In epoca premoderna prevaleva un’idea della compensazione come castigo divino, cioè come conseguenza della peccaminosità dell’uomo, nella  modernità si afferma invece, almeno in parte, l’idea di un male subito o almeno non intenzionale, rispetto al quale il rimedio migliore è proprio la compensazione, intesa come lenimento e come risarcimento, ma mai come ritorsione o punizione. Marquard parla quindi dell’uomo attale in termini di homo compensator, che oppone cioè al peso del male le attenuanti generiche, come l’impossibilità di giudicare e comprendere i grandi soggetti collettivi che agiscono nella storia, l’incognita che è rappresentata dall'individuo come tale, l'ingiudicabilità dei "gusti" che ognuno accetta di avere, la rappresentazione di sé come soggetto limitato che poco può. L’uomo quindi, unico soggetto assolutamente responsabile dei mali del mondo, davanti a un tribunale permanente nel quale egli stesso è contemporaneamente accusatore e giudice, cade vittima di una propensione all'autogiustificazione. Tale giustificazione è fornita proprio dalla tribunalizzazione della storia: mentre essa certifica l'immensità del male, afferma nel contempo che nessuno dei suoi protagonisti può averne compiuto una quantità abbastanza grande da diventare responsabile del tutto. E viceversa, nel comparare le minuscole capacità degli individui con la totalità dei fatti, nel confrontare i piccoli segmenti del tempo umano con i processi di lungo periodo della storia profonda, assolve da tutto ciò che un attimo prima aveva la forma del capo d'imputazione.
La
 tribunalizzazione della storia assolve in definitiva stabilmente tutta l’umanità, che dei traumi e degli abusi che costellano la storia è discendente per generazione o per volontaria appartenenza.

 

 

Il rapporto con la modernità.

 

In relazione e come conseguenza dei suoi interessi storici, Marquard si è occupato dell’analisi di un fenomeno nel apparentemente paradossale, quello cioè del sentimento di diffidenza ed ostilità nei confronti dei risultati della ricerca scientifica e tecnologica, sentimento che appare sempre più evidente in una società profondamente permeata dai risultati della scienza e della tecnologia, che sono riuscite  peraltro a migliorare la qualità della vita di almeno una parte fortunata dell’umanità. Secondo Marquard,  i vantaggi e gli “esoneri” da sofferenze e fatiche che la scienza e la tecnologia concedono all’uomo sono stati in un primo momento accolti con entusiasmo dall’umanità in generale, poi con indifferenza ed infine con diffidenza ed ostilità; quest’ultima fase di rifiuto, che appare come inevitabile, porterebbe l’uomo a provare una sorta di nostalgia per le originarie condizioni di difficoltà da cui l’evoluzione tecnologica ha liberato l’umanità nel suo complesso. Così come emerge dalla lettura di Apologia del caso, a giudizio di Marquard, spetterebbe alle scienze umane e all’arte il compito di compensare il vuoto di valori e di senso generato dall’età della tecnologia, lasciando nel contempo ampio spazio a ironia e atteggiamento scettico e trasformando la società della tecnica in società del caso. A suo avviso, a partire dall’Illuminismo e contro il predominio della ragione, l’arte e l’estetica avrebbero assunto il compito di compensare il disincanto del mondo indotto dall’incalzante progredire della scienza e della tecnica, andando a svolgere una funzione di risarcimento e salvataggio dei diritti della sensibilità e della bellezza. Queste ultime avrebbero trovato così rifugio e compensazione nella creazione artistica, allontanandosi dalla realtà e dal quotidiano. L’arte contemporanea, al contrario, nel tentativo di ricucire questo strappo, ha trasformato la centralità del momento estetico in un’eccessiva estetizzazione della realtà che ha finito per essere paradossalmente un potente anestetico che porta il reale verso l’ebbrezza di un sogno artistico illusorio e degrada la tensione artistica verso il basso. Rispetto all’opposizione nei confronti della modernità, secondo Marquard, il quale esclude in ogni caso la possibilità di una sua soppressione, esistono tre tipi di antimodernismo, quello coniugato al passato, quello coniugato al futuro ed infine quello che si coniuga con il presente e che si esprime nel rapporto fra gli intellettuali e il loro tempo. L’unico atteggiamento positivo, a suo avviso, è l'affermazione del presente a spese del passato, che è l'atteggiamento dell'illuminismo classico da Voltaire a Hegel. Questo assenso nei confronti del presente che stava all'origine del moderno, è stato tuttavia ripetutamente abbandonato tramite la negazione del presente in nome del passato o del futuro. Anche il programma della postmodernità si traduce in effetti in un rifiuto del modernismo: nel postmoderno non è tanto la modernità a scomparire, ma viene piuttosto a mancare il ruolo del futuro come elemento di progresso e di evoluzione; il massimo successo si raggiunge così lasciando semplicemente  dietro di sè la modernità. Si può affermare, in conclusione, che secondo Marquard il programma del postmoderno altro non è che la fase implosiva dell'antimodernismo coniugato al futuro.




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