MARX NEL NOVECENTO

 



 

MARX


La prima e principale difficoltà che si pone per chi voglia affrontare il problema dell’eredità di Karl Marx nel Novecento è fissare i contorni del problema stesso, in virtù della straordinarietà del pensatore in questione: l’eccezionalità di Marx risiede nel fatto che la sua non è soltanto una storia accademica – come invece è per il kantismo o per l’hegelismo –, ma è piuttosto una vicenda che si colora di lacrime e sangue. A ben vedere, dopo Cristo, Marx è l’unico pensatore che smentisce il luogo comune che vuole la filosofia come inutile e oziosa: dal 1848 fino al crollo delle Torri Gemelle del 2001, la vicenda del marxismo è intrecciata con ciò che accade nel mondo. La difficoltà per chi voglia affrontare questo tema è duplice: disciplinare e, insieme, geografica. Partendo dal primo aspetto della difficoltà, esso può essere compendiato nella considerazione che Marx non è stato soltanto un filosofo e che anzi, da un certo momento in poi (al più tardi nel 1845) ha esplicitamente affermato di non essere più un filosofo; cosa che rende difficile capire perché, nel Novecento, ci siano parecchi pensatori che si dichiarano marxisti. Come è noto, il Novecento è infatti attraversato da tre grandi correnti filosofiche che possono essere ricondotte, rispettivamente, al Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, a Essere e tempo di Heidegger e a Storia e coscienza di classe di Lukàcs; questi tre testi fondamentali rappresentano le fonti, rispettivamente, della filosofia analitica, dell’ermeneutica e del pensiero marxista. E mentre le prime due ancora oggi paiono godere di ottima salute, l’ultima è morta già da un pezzo, verosimilmente negli anni Settanta, al più tardi con la caduta del Muro di Berlino. La domanda che ci si deve porre è se sia possibile, nell’eterogenea vicenda del marxismo, ritagliare un discorso specifico, anche alla luce del fatto che quest’operazione è già difficile da compiere in riferimento al solo Marx, che riassume in sé le figure dell’economista, del filosofo, dello scienziato. Il lato economico del marxismo, a ben vedere, muore sul nascere: la carta su cui Marx aveva puntato tutto – la teoria del valore-lavoro (ossia il lavoro incorporato nella merce determina il suo valore) – e su cui aveva costruito il suo sistema, viene presto buttata a mare; ben presto, infatti, gli economisti rilevano che coi soli mezzi marxiani non è possibile spiegare la trasformazione del valore in prezzo. All’ipotrofia del lato economico del marxismo, il Novecento risponde con un’ipertrofia del lato politico (basti fare i nomi di Lenin e Mao): ma il dramma è che Marx, nei suoi scritti, ha detto veramente poco circa la politica, non ha mai parlato di “coscienza di classe”, di “egemonia”; s’è limitato a dire qualcosa sulla “dittatura del proletariato”. Un altro punto che merita di essere preso in esame è il rapporto filosofico tra Marx ed Engels: a differenza di quel che una certa tradizione ha voluto sostenere, i due compagni inseparabili non si contraddicono; a tal punto che, com’è noto, Marx approva ogni singola riga uscita dalla penna dell’amico, il quale amava definirsi il “secondo violino” di Marx. Se soffermiamo la nostra attenzione sulla filosofia, scopriamo che la vicenda del marxismo filosofico riguarda tre Paesi: la Francia, la Germania e l’Italia. Curiosamente, la Spagna – con la sua forte tradizione anarchica – non crea un ambiente favorevole a recepire il messaggio marxiano. Scriveva Pier Paolo Pasolini: “il marxismo è l’unica ideologia che mi protegge dalla perdita della realtà” (Empirismo eretico, p. 75); una frase che ben adombra come, nel Novecento, venga meno la convinzione secondo cui il marxismo smaschererebbe le ideologie; esso stesso ideologia, il marxismo si distingue per il suo inaggirabile contatto con la realtà, configurandosi dunque come un’ideologia iper-realista. Le eredità di Marx sono molteplici: quella sicuramente più attuale riguarda il tema della critica sociale, che sarebbe bene sganciare dal tema della profezia. Come è noto, la “critica” è la cifra del pensiero del nostro autore dalla culla alla tomba (critica della religione, critica del diritto, critica della critica critica, critica del feticismo delle merci, ecc.). Si aggiunga poi che la grande scommessa di Marx è la non eternità del presente, ossia la convinzione che il mondo così com’è ora non sia eterno, bensì destinato a tramontare, contro ogni istanza adattiva. Si sa che essere marxisti in Italia, negli anni ’60, era il top del conformismo, ma ciò non di meno in quel torno di anni nessuno produsse testi veramente interessanti e originali: oggi, se è possibile, la situazione è addirittura peggiore, poiché quasi nessuno si occupa più di Marx e del suo pensiero. Tra il 1927 e il 1933 si tentò di compiere la prima edizione completa degli scritti di Marx (la cosiddetta “MEGA I”), ma l’operazione non riuscì ad andare in porto per via dell’ascesa al potere di Hitler. Successivamente, il Partito della DDR realizzò la MEW (in 60-65 volumi); infine si fece partire l’impresa grandiosa della “MEGA II”, che è ancora in corso e che, secondo le aspettative, dovrà arrivare a un totale di 200 volumi, restituendo – ma è un asserto propagandistico, che difficilmente si rivelerà veritiero – l’immagine di un Marx completamente nuovo. Ritornando per un attimo al rapporto tra Marx ed Engels, occorre notare che, in tutta la sua vita, Marx, come tutti i grandi geni, pubblicò ben poche opere in forma completa (Il diciotto Brumaio e il primo libro del Capitale); e finché Engels era vivo, gli autori che si ispiravano a Marx si rivolgevano a lui come all’interprete più fidato, il solo in grado di dire che cosa avesse davvero pensato Marx. Già sul finire dell’Ottocento, nasce il “materialismo dialettico”, una visione generale del mondo (cosa che Marx s’era ben guardato dal fare). Nell’Ottocento, la scienza era intesa come portatrice di una verità non meno assoluta e inconfutabile di quella propria della religione: e il marxismo si presentò, già in Marx, come scienza, ma furono i successori di Marx (in parte già Engels stesso) a scorgere nella dialettica il metodo per decifrare l’intera realtà (e non soltanto la storia). Abbiamo già accennato allo sviluppo che il marxismo ebbe in ambito politico, soprattutto in quello che fu detto il “marxismo orientale”: Lenin, Rosa Luxremburg, Trotsky e molti altri rappresentano una generazione marchiata a fuoco dalla prima Guerra Mondiale e dalla Rivoluzione bolscevica; sono tutti grandi leaders ma anche grandi teorici, unendo teoria e prassi. Isaiah Berlin notava molto opportunamente che “senza la Rivoluzione d’Ottobre il marxismo sarebbe rimasto completamente ottocentesco”. Ma nel Novecento, rispetto ai tempi di Marx, la società capitalistica subisce notevoli trasformazioni, delle quali gli autori marxisti devono rendere conto, misurandosi con fenomeni che erano sconosciuti a Marx: il più importanti di questi fenomeni è sicuramente l’imperialismo, l’aggressione militare di nuovi territori al fine di dominarli economicamente, ma non è l’unico; assai importante è infatti anche il fenomeno della nascita del “capitale finanziario” (Marx si occupò soltanto del “capitale produttivo”, come le macchine). Accanto alla concreta prassi politica che si ha nel marxismo orientale, è possibile individuare un’altra area di rinnovamento della teoria e della strategia politica marxista: in particolare, la guerra e il fallimento dei tentativi di esportare la Rivoluzione fanno nascere posizioni molto variegate, che si inquadrano in un orizzonte che si chiude con la morte di Lenin e l’ascesa di Stalin. La teoria del crollo cede il passo a quella della durata, della tenuta: non si crede più che la Rivoluzione sia dietro l’angolo, e la realizzazione del comunismo si sviluppa in modi e in zone che Marx non si era mai potuto immaginare: si assiste infatti alla nascita di società comuniste in zone arretrate e, come se non bastasse, i proletari di tutto il mondo non si uniscono. Quest’ultimo fatto rende evidente che la “scintilla” (“Iskra”, termine chiave in Lenin) del marxismo non si è propagata. Si ricordi inoltre che Marx non aveva certo previsto una dittatura duratura e feroce quale fu quella staliniana (che a ben vedere, come si notò, corrispondeva al “modo di produzione asiatico” di cui aveva detto Marx nei Grundrisse), durante la quale il marxismo divenne una religione di Stato. La riflessione su Marx si sposta in Italia, in Germania e in Francia, trovando in Lukàcs, Korsch e Gramsci i suoi padri; si tratta di intellettuali la cui fisionomia era paragonabile a quella di Lenin. Essi sono attivissimi, tracciano nuove rotte per il marxismo, sviluppando nuove categorie. È questo il “marxismo occidentale”, contrapposto a quello orientale: con quest’espressione, che fu coniata da Merleau-Ponty nel suo saggio Le avventure della dialettica, ci si riferisce a quella galassia di pensatori (Benjamin, Sartre, Althusser, Bloch, Marcuse, e molti altri) attivissimi tra il 1918 e il 1968. Oltre allo spostamento geografico, ciò che contraddistingue il marxismo occidentale da quello orientale è, come rileva Anderson nei suoi quattro libri su Il dibattito nel marxismo occidentale, il fatto di sapersi come il “prodotto di una sconfitta”: tutti questi intellettuali, infatti, si ispirano a Marx e al tempo stesso sanno bene che sta trionfando il fascismo (fuori dalla Russia) e il non meno feroce stalinismo (in Russia); la sconfitta che essi vivono è ben più grave di quella che Marx stesso si trovò a vivere quando la Comune di Parigi venne repressa in un bagno di sangue. Anderson segnala due grandi effetti che questa consapevolezza della sconfitta produsse sui marxisti occidentali: da un lato, in loro l’intreccio virtuoso di teoria e prassi si scinde, cosicché nessuno di questi pensatori è politico; sono tutti professori e filosofi, non riflettono più di economia nello specifico. È, a ben vedere, come se essi percossero un percorso inverso rispetto a quello di Marx: mentre quest’ultimo si era sempre più allontanato dalla filosofia, essi si allontanano dalla politica – avendo ben sotto gli occhi i suoi fallimenti – per approdare alla filosofia. Anderson compendia ottimamente questo punto asserendo che i marxisti occidentali non fanno più un discorso marxista, ma fanno un discorso sul marxismo: si domandano cioè che cosa sia il marxismo, in una pletora di discorsi sul metodo che si configurano come una riflessione al quadrato su Marx, il che ben si inquadra in un panorama tipicamente universitario. Questo spostamento verso la filosofia è giustificato dalla scoperta dei testi del giovane Marx, che sono pubblicati tra il 1927 e il 1932 e che restituiscono l’immagine nuova di un Marx filosofo, umanista e hegeliano, un Marx che crea problemi ai regimi comunisti, soprattutto se si considera che il “lavoro alienato” di cui si parla in questi scritti giovanili sembra una descrizione profetica dei “piani quinquennali” staliniani (di qui il tentativo, in Russia, di tenere ben nascosti questi scritti). Non stupisce, pertanto, se gli autori del marxismo occidentale cercano di fare del “vero marxismo” una leva per criticare il “socialismo reale”: il che aiuta a capire i difficili rapporti di questi intellettuali con Mosca; si ricordi, ad esempio, l’uso “ornamentale” che degli intellettuali faceva il PCI, mettendoli in prima fila nelle manifestazioni ma, in concreto, tenendoli a debita distanza. Da questi intellettuali nasce un marxismo eterodosso e creativo, che talvolta diventa una “religione privata” (da opporre a quella statale russa); curiosamente, essi trascurano completamente Engels, impiegano Marx per attaccare Stalin e praticano la prassi dell’innesto; a tal punto che, se letta in trasparenza, la storia del marxismo nel Novecento è storia di innesti, spesso poco giudiziosi: l’innesto di Marx sulla fenomenologia husserliana (E. Paci, A. Banfi), sul pensiero di Kant, su quello di Weber, su quello di Freud e di Nietzsche, e così via. Un’altra novità degna di nota è che alla preoccupazione pedagogica si sostituisce quello che potremmo qualificare come scrivere messaggi nella bottiglia, in una sorta di elitarismo esoterico che porta al paradosso per cui i presunti beneficiari (i proletari) del messaggio marxista non ne potrebbero capire alcunché. Detto in altri termini, gli intellettuali del marxismo occidentale abbandonano la struttura per dirigersi verso la sovrastruttura: sembra, a tutta prima, un tradimento del verbo marxiano, ma è in realtà l’acuta intuizione secondo cui a tener coesa una società è anche il materiale umano e non soltanto il “modo di produzione”. Non stupisce quindi che Adorno applichi la teoria del feticismo della merce alla musica e che Althusser abbandoni l’idea del tramonto delle ideologie, nella convinzione dell’ineliminabilità di un rapporto opaco con sé e con la società.

 


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