Marx e Kuhn: la struttura delle rivoluzioni scientifiche
A cura di Pinko Pallino
il
paradigma dominante è in ogni tempo il paradigma della classe dominante
1.
Introduzione
Ci
proponiamo, con questo lavoro, di sostenere che lo sviluppo della scienza segue
le stesse leggi che spiegano l’evoluzione della società e che a questo assunto
dovrebbero rifarsi i filosofi della scienza discutendo di rivoluzioni
scientifiche, paradigmi, scienza normale. Applicando le leggi dell’evoluzione
alla scienza è possibile anche fornire una più precisa e feconda concezione del
concetto di paradigma.
Come noto,
lo sviluppo dell’epistemologia ha seguito ben altre vie. Fino a non molto tempo
fa, essa è stata dominata dal neopositivismo. Quando questa concezione è
entrata in crisi, ha lasciato il posto a una miscela di idealismo,
indeterminismo e relativismo, frutto dell’esplosione dello stesso empirismo
logico in tante piccole sette, in conflitto tra loro, concentrate sullo
sviluppo della propria versione di idealismo filosofico. La filosofia di
Popper, sorta come reazione all’empirismo logico, ha fornito una accettabile
critica del suo modo di procedere, salvo poi sostituirvi una pratica
altrettanto inadeguata. Agli imperativi calati dall’alto dai neopositivisti,
Popper sostituì altri imperativi calati dall’alto, ugualmente inutili per il
lavoro degli scienziati. La teoria di Kuhn fu una boccata d’ossigeno per la
scienza. Non più obblighi morali ma una semplice descrizione dello sviluppo
della varie discipline. Questo è il principale merito ma anche limite della
concezione kuhniana. Così essa ha accelerato il declino delle vecchie religioni
epistemologiche, ma ha anche favorito il diffondersi di nuove e se possibili
peggiori tendenze: l’anarchismo metodologico, la sociologia della conoscenza.
La ragione per cui le teorie di Kuhn hanno funzionato da cavallo di Troia del
ritorno all’idealismo è da ricercarsi nella sua confusione in campo
propriamente filosofico e particolarmente nella teoria della conoscenza. Kuhn
era principalmente uno storico e non gli è mai riuscito (né interessato) di
approfondire le basi gnoseologiche delle proprie tesi. Le sue teorie sono
descrizioni e non arrivano mai a spiegare l’oggetto delle proprie descrizioni.
Ora,
a giudizio dello scrivente, il punto centrale di ogni teoria epistemologica è
il rapporto tra le teorie e i fatti, ovvero, nella accezione classica, tra il
pensiero e l’essere. Questo è quanto divide le scuole e i metodi. Questa è una
delle mancanze della teoria di Kuhn. L’altra debolezza, su cui i suoi critici
puntano il dito, è l’indeterminatezza del concetto di paradigma. Noi cercheremo
di analizzare l’una e l’altra mancanza, proponendo rimedi e cercando infine di dimostrare
che la concezione di Kuhn, se interpretata secondo una teoria della conoscenza
più robusta, fornisce indicazioni estremamente valide allo scienziato, al
filosofo e allo storico.
2. Le
rivoluzioni scientifiche
Nella
descrizione di Kuhn, l’attività scientifica ordinaria (la scienza normale),
ignora o sottostima gli aspetti problematici di una teoria, concentrandosi
nell’arricchimento dei suoi punti forti. Per un certo periodo, le anomalie
cominciano ad accumularsi, sempre più inesorabili, sempre meno eludibili. Ad un
tratto, l’accumulo genera un effetto soglia, innescando una rivoluzione
scientifica che conduce all’abbandono del vecchio paradigma e al sorgere di una
nuova concezione scientifica.
Il punto
centrale, in questa profonda descrizione dello sviluppo della scienza, è
fornire una convincente spiegazione del perché la stessa anomalia può essere
ignorata per anni e poi, in altre condizioni, provocare il crollo del
paradigma. La storia della scienza ci dice, infatti, che spesso non sono nuove
anomalie a provocare la crisi del paradigma, ma si tratta di problemi ben noti
ai ricercatori di quel settore, a volte addirittura precedenti al sorgere del
nuovo paradigma. La principale critica che si può rivolgere a Kuhn è che il suo
modello di scienza descrive come avvengono le rivoluzioni nella scienza,
ma non perché esse avvengono. Le scuole successive (essenzialmente
anarchismo metodologico e le diverse versioni della sociologia della
conoscenza) hanno fornito indicazioni importanti, ma su una base filosofica
idealista e relativista. Non essendo stata in grado di fornire una spiegazione
obiettiva, materialista, all’evoluzione scientifica, l’epistemologia ha dovuto
prendere una strada obbligata: considerare le rivoluzioni scientifiche come il
risultato di una lotta puramente ideologica e politica delle varie scuole. Il
mondo reale può anche esistere (queste scuole sono spesso agnostiche in campo
ontologico), ma è ininfluente. Il progresso scientifico sarebbe una questione
puramente culturale, sociologica: un gruppo di scienziati si dimostra più furbo
o spietato degli altri e impone al mondo la propria interpretazione su cosa sia
il reale. Il cammino cominciato secoli fa per fornire una spiegazione razionale
al sorgere e declinare delle teorie è così finito in una piena vittoria
dell’irrazionalismo. Oggi sappiamo che i fatti non possono decidere
univocamente della sorte delle teorie, le quali possono essere sempre difese
con stratagemmi ad hoc. Ma dobbiamo per questo rinunciare ad ogni analisi
obiettiva della scienza? Un argomento bisogna concederlo alla sociologia della
conoscenza: lo sviluppo della scienza procede sulla base di eventi esterni, che
ne condizionano profondamente le sorti. Questo è vero, ma non è una novità.
Costituisce un caposaldo della teoria marxiana delle ideologie, a dimostrazione
che si può mantenere un legame tra scienza e società anche nell’ambito di una
concezione materialista. Secondo tale concezione, un’ideologia arriva a
dominare una certa epoca storica perché risulta funzionale alle caratteristiche
fondamentali di un determinato modo di produzione. Detto diversamente,
un’ideologia è una rappresentazione distorta della società che l’ha generata.
Perciò, il prevalere di una o dell’altra ideologia non dipende principalmente
da aspetti soggettivi (l’abilità dello scienziato) ma da aspetti
storico-sociali, oggettivamente determinabili. Per esempio, il creatore
dell’anarchismo metodologico, Feyerabend, cerca di spiegare per tutte le 300
pagine del suo libro più famoso (Contro il metodo) che Galileo ebbe
ragione della teoria tolemaica con l’astuzia, e non grazie a migliori argomenti
e prove. Secondo la concezione marxista dell’ideologia, lo sviluppo dei nuovi
rapporti di produzione borghesi avrebbe condotto inevitabilmente al ridimensionamento
del potere ideologico della Chiesa. In particolare, il continuo
rivoluzionamento tecnologico necessario alla sopravvivenza del capitalismo è
incompatibile con dogmi di fede nel campo delle scienze naturali. Il
ridimensionamento del ruolo epistemologico della dottrina cristiana era una
necessità storica. Le forme che questa necessità hanno preso sono invece dovute
a una combinazione di fattori accidentali. La teoria copernicana,
l’illuminismo, l’utilitarismo, l’economia politica inglese, nessuno di questi
fenomeni scientifici doveva per forza di cose svilupparsi. Ma la sostanza che
li accomuna (la critica alla religione, al vecchio potere statale, ecc.)
sarebbe inevitabilmente uscita fuori, veicolandosi in questa o quella teoria. È
dunque vero che, in ultima analisi, una rivoluzione scientifica si produce per
un cambiamento che si dà al di fuori di essa. Ma il legame tra scienza e
fattori “esterni” non è affatto soggettivo. Nella concezione materialista del
rapporto scienza-società, lo sviluppo delle teorie riproduce, in ultima
analisi, lo sviluppo della società, da cui mutua le proprie leggi generali di
funzionamento. Lo sviluppo del capitalismo è un fenomeno altrettanto oggettivo
della rotazione dei pianeti. Pertanto, la vittoria finale della teoria copernicana
su quella tolemaica era ineludibile come l’arrivo della primavera dopo
l’inverno. Se anche Galilei fosse stato un incapace, o semplicemente un
imprudente e dunque fosse finito arrostito, un altro avrebbe preso il suo
posto, finché qualche scienziato non fosse riuscito a far stare la gerarchia
ecclesiastica al suo posto. Di nuovo, la forma storica del conflitto tra
copernicani e Chiesa cattolica era contingente, ma l’esito storico della lotta
era già scritto. Alcuni filosofi riescono a vedere solo gli immediati processi
casuali e non riconoscono dietro ad essi le determinanti profonde della storia.
L’abilità di una casta di scienziati, e
soprattutto la paura e la coercizione, possono ritardare di decenni la vittoria
di una rivoluzione scientifica, ma in nessun modo possono invertire il processo
oggettivo, storico che porterà al suo trionfo. L’accanimento terapeutico non ha
mai reso immortale nessuno.
Dunque, la
scienza trae le sue ragioni profonde dalla società. Questo non significa che
ogni svolta scientifica possa spiegarsi con un cambiamento nelle condizioni
sociali di una data epoca. Il legame tra scienza e società è infinitamente
ricco, dialettico, complesso. Si può fare un’analogia con l’arte. È innegabile
che vi sia un legame fra una certa espressione artistica e l’epoca in cui è
prodotta. Ma si tratta di un rapporto indiretto, mediato dalla personalità
dell’artista e da altri mille fattori. Ciononostante esiste. Picasso avrebbe
potuto dipingere Guernica solo negli anni ’30 del ventesimo secolo e in
nessun’altra epoca. Allo stesso modo, l’economia politica classica inglese non
avrebbe potuto affermarsi né un secolo prima né un secolo dopo. Né avrebbe
potuto resistere allo sviluppo del capitalismo, i cui conflitti sociali si sono
riflessi in una lacerazione della teoria economica classica in teorie
contrapposte. Di nuovo, Marx e Walras (i fondatori di queste teorie
contrapposte) sono accidenti storici, ma la teoria marxista e la teoria
economica neoclassica, come concezioni del mondo, sarebbero inevitabilmente
sorte in base allo sviluppo del capitalismo. Questa concezione del rapporto tra
scienza e società, a ben guardare, mantiene e realizza il senso profondo della
visione popperiana e anche positivista della scienza perché è in ultima analisi
un “fatto” (lo sviluppo del capitalismo) a decidere della nascita e della crisi
di una teoria. Allo stesso tempo, adotta la teoria di Kuhn come fedele
descrizione della vita di un paradigma. Solo, vi fornisce una spiegazione.
3. La
scienza normale
Le
rivoluzioni scientifiche rappresentano le svolte epocali che avvengono nella
storia e si tratta di eventi molto rari. Tra una svolta e l’altra si svolge lo
sviluppo di una determinata società. Quando a un determinato sistema diviene
impossibile continuare a svilupparsi, si creano le condizioni per una nuova
svolta. Ma non tutte le rivoluzioni scientifiche corrispondono a delle
rivoluzioni sociali. Questo vale solo per il quadro ideologico complessivo a
cui comunque tutte le singole teorie devono in un modo o nell’altro rifarsi.
Accanto agli sconvolgimenti davvero epocali (pensiamo alla rivoluzione
francese, alla rivoluzione russa, alla caduta dell’Impero romano d’occidente
ecc.) esistono cambiamenti di minore importanza ma pur sempre rilevanti. Per
esempio, il capitalismo ha subìto profondi cambiamenti dai tempi della
rivoluzione industriale. Sarebbe meccanico trasferire questi cambiamenti nella
scienza e proporre uno schema del tipo: grande cambiamento sociale = grande
rivoluzione scientifica; medio cambiamento sociale = media rivoluzione
scientifica ecc. Tuttavia, non bisogna sottovalutare l’effetto che ha sugli
scienziati l’atmosfera culturale che si respira, le pressioni provenienti, per
mille vie, dai conflitti sociali.
Inoltre, fasi di rapido sviluppo economico conducono a grandi innovazioni
tecnologiche, che, nelle condizioni moderne, sono alla base di quasi tutte le
scoperte e teorie delle scienze naturali. Ma la connessione tra scienza e
società serve a mettere in luce un altro aspetto decisivo: il ruolo della
scienza normale. Come detto, le trasformazioni sociali sono avvenimenti rari
nella storia (in occidente 3-4 in migliaia di anni). Questo non significa che
tra due rivoluzioni non avviene nulla. La rivoluzione crea le basi per una
nuova epoca di sviluppo, sbarazzandosi repentinamente dei residui del passato.
Finché i nuovi rapporti di produzione si dimostrano fecondi a livello generale
(cioè, in ultima analisi, fin quando accrescono il rendimento del lavoro
sociale), non sussistono le condizioni per un altro cambiamento. Questo non
significa che i diversi soggetti sociali e politici accettino tutto quello che
viene come ineluttabile. Anzi, la storia ci insegna che subito dopo la
rivoluzione si aprono lotte spesso furibonde e non solo di retroguardia. Ma
queste lotte, finché il sistema si espande, sono destinate a ricomporsi, o sono
comunque perdenti. Ciò non le rende inutili: la lotta per la riduzione
dell’orario di lavoro, sviluppatasi già agli albori del capitalismo, consente
oggi a un operaio europeo di restare in azienda solo 8-9 ore, contro le 15-20
dell’Ottocento. Pretendere miglioramenti delle proprie condizioni di vita
all’interno di un sistema dato non è mai fuori luogo, anche se a volte non si
porta a casa nulla. Ebbene, questa è proprio la condizione che Kuhn definisce
scienza normale. Una volta che un paradigma è formato, almeno nei suoi tratti
fondamentali scientifici e soprattutto ideologici, metodologici, politici,
tutta la critica al paradigma si trasforma in critica nel
paradigma, il quale, finché resta fecondo, convince gli scienziati a procedere
riformandolo anziché abbattendolo. Il parallelo è sia storico (perché per le
ragioni dette, è tipico che epoche di pacifico sviluppo quantitativo si
accompagnino al fiorire della scienza normale all’interno dei paradigmi
scientifici dati), sia strutturale, nel senso che segue una dinamica assai
simile: anche nel paradigma vi sono lunghi periodi di sviluppo quantitativo e
poi brusche svolte rivoluzionarie.
Proprio come nella
società, tra una rivoluzione scientifica e l’altra non vi è affatto una
desolante bonaccia. Gli scienziati, pur all’interno dello stesso paradigma, si
combattono aspramente, si criticano, producono scoperte rilevanti e così via.
Come noto, quando Kuhn propose la sua idea di scienza normale, nessuno poté
negare l’esistenza e l’importanza di questo fenomeno. Ci fu però chi criticò
moralmente gli “scienziati normali”. Popper arrivò a dire che si dovevano
vergognare e che lui, come il rivoluzionario Trotskij in politica, era per la
rivoluzione permanente. Ora, un approccio critico è importante e su questo non
si può che concordare con Popper. Ma è ingenuo, e sviante, credere che
l’atteggiamento degli scienziati possa derivare da un imperativo morale caduto
dall’alto, proprio come avviene in politica. In fondo, gli stessi Lenin e
Trotskij hanno passato la maggior parte della loro vita a sognare una
rivoluzione inattuabile. Per quanto uno possa essere un fervente
rivoluzionario, la rivoluzione necessita di condizioni obiettive indipendenti
da lui. Quando qualcuno ha tentato di rovesciare il regime in assenza di queste
condizioni è stato facilmente annientato. Quando uno scienziato critica un
paradigma, senza che si siano ancora create le condizioni perché questo sia
superato, potrà trovare un certo ascolto, avere la sua rivista e i suoi
discepoli, ma rimarrà sempre in posizione minoritaria. Nei periodi normali, le
dispute scientifiche si svolgono all’interno del paradigma ed è perciò utile
chiarire questo concetto, tirandolo fuori dall’indeterminatezza in cui lo
stesso Kuhn lo ha lasciato.
4. Sulla
struttura dei paradigmi scientifici
Si
potrebbe dire che per difendere il concetto di paradigma non c’è che da
osservarne la fortuna: il fatto che tutti gli epistemologi successivi a Kuhn
siano stati costretti a introdurre tale concetto nel loro sistema, seppur con
altri nomi, dovrebbe essere prova sufficiente della sua validità[1].
Lakatos in particolare, quale erede designato di Popper avrebbe dovuto
continuare la lotta all’epistemologia descrittiva di Kuhn, eppure si è dovuto
piegare, tentando malamente di conciliare le due scuole e creando un sistema
sincretico, che potremmo descrivere come retorica viennese in salsa americana.
Basti notare che il falsificazionismo “sofisticato”, cioè quello di Lakatos, è
sofisticato in quanto contaminato da Kuhn. Il concetto di paradigma dunque ha
una straordinaria potenza esplicativa, ma deve essere decisamente
reinterpretato per acquisire un ruolo progressivo nella comprensione del vero
sviluppo della scienza.
Premettendo
che non è affatto nostra intenzione prenderci il merito di aver proposto per la
prima volta l’arricchimento del concetto di paradigma[2],
l’idea è quella di considerare il paradigma come un albero, formato da
una vasta serie di riferimenti intellettuali (le radici), convogliate da uno o
più fondatori in un corpus organico (il tronco) che, non appena la teoria
acquisisce un certo successo, esplode in una ramificazione. Dapprima essa è
formata da pochi snodi principali; dopo anch’essi si suddividono a loro volta
finché l’albero, cioè il paradigma, non presenta una serie molteplice di
varianti, pur ognuna risalente, in un percorso (che è possibile fare
storicamente, ma che è anche analitico) sino al tronco e alle radici.
La
metafora va approfondita. Il tronco è comune a tutto il resto. Questo significa
che le diverse scuole all’interno di un paradigma devono pur sempre condividere
una base minima. Non solo, ma tanto più le scuole hanno in comune (sono cioè
sullo stesso ramo o addirittura sullo stesso ramo secondario), tanto più
sostrato teorico ed empirico condividono. Procedendo nella ramificazione, il
paradigma si fa stringente e perciò più definibile da un punto di vista
pratico. Alla fine, in cima all’albero del paradigma, su un rametto, si situa
una scuola composta magari da un solo scienziato e dai suoi discepoli più
ortodossi. Ovviamente, esistono alberi ed alberi. Vi sono querce con centinaia
di rami molto distanti, e vi sono cipressi, i cui rami, ben stretti tra loro,
puntano tutti nella stessa direzione.
Ma la ramificazione
rappresenta la situazione del paradigma anche da un altro punto di vista. I
rami hanno tra loro una gerarchia, ben rappresentata dal fatto che non è
possibile trovare un ramo più grosso del ramo che lo sostiene. Trasposto nella
vita della scienza, questo significa che mano a mano che il paradigma attira ricercatori,
si va dividendo, innanzitutto, tra alcune grandi opzioni nell’interpretazione
della rivoluzione scientifica che è avvenuta (ovvero nella prima generazione,
ma torneremo su questo). Poi, ogni ramo comincia a fare una vita a sé,
suddividendosi ulteriormente. Ma proprio come in un albero, i rametti sono
suddivisioni dei rami e così via a ritroso fino al tronco. Così la singola
scuola fa riferimento innanzitutto alla specifica interpretazione da cui
proviene e solo in seconda battuta al paradigma più comprensivo, anche se,
ovviamente, uno scienziato può cambiare idea e spostarsi su un altro ramo (o
addirittura albero). La ramificazione, serve anche a comprendere come il
paradigma si confronta con il materiale empirico. Le anomalie (o falsificatori potenziali,
come li definiva Popper) non sono tutte uguali. Normalmente, la disconferma
empirica della teoria colpisce il rametto, o al più un ramo, ma non arriva mai
a segare il tronco, ovvero ad avviare una rivoluzione scientifica, per la quale
occorrono ben precise condizioni esterne. Inoltre, proprio come con le piante,
sono sempre i semi caduti dagli alberi di oggi che consentono la nascita degli
alberi di domani. Quando avviene una rottura che, come detto, affonda le sue
ragioni in eventi esterni al paradigma stesso, ma che comunque interagiscono
con lo sviluppo del paradigma, la forza della rottura dipenderà
sostanzialmente:
a) dalla
misura in cui i livelli del paradigma sono omogenei tra loro;
b) dalla
misura in cui sono presenti dei sostituti.
L’omogeneità
significa l’accettazione di teorie legate analiticamente e/o empiricamente tra
loro. Se l’omogeneità è alta, l’anomalia può intaccare i rami principali del
paradigma, ottenendo un effetti soglia pressoché contemporaneo a tutti i
livelli. In generale, questo avviene quando l’anomalia è logica, teoretica (si
pensi a come il teorema di Gödel colpì negli anni ’30 ogni tentativo di
assiomatizzazione della matematica, a partire da quello di stampo hilbertiano).
Quando invece è empirica colpirà a partire dall’alto, cioè della singola
scuola, quella più direttamente legata alle previsioni in questione. Lo stesso
Kuhn spiegava come le anomalie vengano contestate e imputate allo scienziato e
non al paradigma, anche perché da stesse teorie generali si possono trarre
predizioni specifiche anche opposte. Questo processo, nelle fasi in cui il
paradigma conserva la sua forza di attrazione, avviene perché i diversi
scienziati del paradigma si combattono per l’egemonia. Lo scopo di queste
critiche non è affossare il paradigma, ma piuttosto distruggere le scuole
rivali, pur mantenendo valido il paradigma generale. Si vuole potare l’albero,
non abbatterlo.
Il
fenomeno di attribuzione dell’insuccesso empirico è basilare per capire come
avvenga la lotta tra paradigmi e nel paradigma. È inutile ribadire che in
realtà una teoria non si farà mai sconfiggere da un fatto, come credeva un
tempo Popper, piuttosto è nel conflitto tra teorie e paradigmi che si inserisce
l’interpretazione dei dati empirici. Analizzando l’evoluzione dei paradigmi,
appare chiaro che i risultati dell’attacco sono sempre connessi con l’esistenza
di un’alternativa: una teoria è colpita da un fatto nella misura in cui
un’altra ne è favorita, e quando nessuna teoria ha da proporre niente riguardo
a un argomento, ciò è indice di grave difficoltà della disciplina. Dato quel
che si è detto sulla stratificazione paradigmatica, le anomalie non possono più
considerarsi nemiche indiscriminate di un paradigma. In realtà possono colpire
più scuole di paradigmi diversi che due scuole dello stesso paradigma.
Arriviamo così al problema centrale della lotta teorica. Accanto alle lotte tra
paradigmi, che si concludono, come descritto da Kuhn, con la vittoria di un
paradigma che esilia il resto della scienza e riscrive il passato a propria
glorificazione, ci sono anche le lotte intraparadigmatiche. Se una
scuola accetta i capisaldi del paradigma, non rivolgerà le armi contro di essi
fintantoché non intenderà uscire dal paradigma. Al singolo ricercatore potrà
forse sembrare una decisione personale, ma come detto, la scelta della
rivoluzione o della riforma del paradigma si basa su un processo oggettivo. Nel
periodo di lotta all’interno della teoria comune, una scuola attaccherà
direttamente la rivale su questioni che le dividono. Questo significa che
sosterrà che la propria interpretazione del paradigma è l’unica valida e gli
altri rami sono dogmatici o devianti, traditori, rinnegati, ecc.
Lo sbocco
di questo tipo di lotte, che non dipende ovviamente solo da questioni teoriche
né empiriche, ha come conseguenza l’emerge di una visione dominante all’interno
del paradigma. Le scuole sconfitte possono confluire in quella mainstream,
adattarsi a restare nell’ombra per un po’ o anche, in situazione particolari,
scegliere di uscire dal paradigma e rilanciare il confronto a livello di
paradigma contro paradigma.
Come
regola, si può dire che quanto più il livello dello scontro è “alto” cioè
analitico, astratto, tanto più grande sarà la battaglia e poi l’eventuale
scissione.
Naturalmente,
poiché il nuovo paradigma non cade dal cielo ma è la risultante della battaglia
all’interno del vecchio quadro concettuale, spesso ne accoglie molti elementi
teorici. Tuttavia se se ne distingue, è perché il riferimento è troppo labile
per poter considerare la scissione una scuola solo più eretica di altre.
Inoltre sono gli stessi scienziati “scissionisti” a dichiarare di solito la
spaccatura, ma anche qui occorre fare attenzione. Per vari motivi ci possono
essere scienziati che fingono continuità che non ci sono, anche per facilitare
il successo del nuovo paradigma. L’idea di Kuhn che il proliferare di versioni
del paradigma sia la dimostrazione di una sua crisi è dunque superficiale e va,
a mio giudizio, rigettata. Il proliferare di versioni del paradigma è invece
una fase necessaria nello sviluppo scientifico e prepara le rivoluzioni e le
nascite dei nuovi paradigmi. Gli alberi con mille rami e fronde sono più in
salute di quelli spogli.
La
stratificazione del paradigma avviene dopo che l’orientamento metodologico di
fondo che lo contraddistingue ha avuto la meglio. È difficile infatti pensare a
un paradigma che arrivi al potere già pronto. Anche qui l’analogia ci sembra
illuminante. Gli alberi non nascono come piccoli alberi in miniatura, ma con
una forma totalmente differente e assai poco ramificata. Lo sviluppo della
pianta conduce alla sua ramificazione. Questo si sposa bene con l’idea kuhniana
di paradigma, che prevede esplicitamente che ci siano molte questioni lasciate
ancora aperte al suo sorgere, che attirino la curiosità intellettuale degli
scienziati. Sebbene i paradigmi non siano uguali l’uno all’altro, è però
possibile trovarvi almeno un elemento comune: tutti sono più o meno
stratificati.
Cerchiamo
ora di studiare le dinamiche propriamente epistemologiche per cui il paradigma
si divide al proprio interno. Il paradigma nasce da una scuola eretica della
vecchia teoria. La lotta nel paradigma dominante crea le condizioni per la
nascita del nuovo paradigma. Non ci sono esempi noti in cui un paradigma è
potuto sorgere di punto in bianco già formato, senza nessun riferimento alla
scienza precedente. Non comunque nella scienza moderna. Il paradigma nasce
rifacendosi, magari per differenza, a quello dominante o alla tendenza
dominante, magari di altre discipline. Quindi diviene egemone e inizia la sua
espansione. Se la scienza è già abbastanza evoluta, si tratterà principalmente
di convincere i recalcitranti “nostalgici” ad andarsene o a convertirsi. Quanti
si convertono sono spesso il germe della lotta intraparadigmatica futura, ma
anche qui il caso può essere rovesciato, e i convertiti possono dimostrarsi più
realisti del re. Inoltre contano anche aspetti quali il vantaggio da
differenziazione del prodotto scientifico (proporre un modello leggermente diverso
da quello standard per pubblicare di più), le diverse concezioni nazionali, le
tradizioni locali di un paradigma che si sono in qualche modo trasfuse nel
nuovo ecc.
La lotta
che il nuovo paradigma fa contro gli avanzi del vecchio è condotta con armi anche
molto poco scientifiche e nobili: si tagliano i fondi e si isolano gli
irriducibili, si conquistano i comitati di redazioni delle riviste, si piazzano
in posti chiave i propri allievi, e così via. In questo, le analisi fornite dai
sociologi della conoscenza sono condivisibili. Inoltre, una teoria ha per
necessità dei punti deboli. Basta dimostrare che i punti deboli della teoria
precedente sono il fulcro della scienza e che la nuova li risolve ed ecco che
il nuovo paradigma si costruisce la giustificazione scientifica dell’eutanasia
del vecchio.
In questo
entra anche il fenomeno di ricambio generazionale, come lo stesso Kuhn aveva
suggerito. Infatti la generazione che per lo più farà scienza normale,
raccogliendo l’eredità del caposcuola, si trova in una situazione molto
tempestosa e molto feconda. Un caposcuola di qualsiasi scienza è un pensatore
che crea un nuovo paradigma, rompendo con le vecchie concezioni. Per quanto
abbia vissuto il maestro, per quanto profusamente e chiaramente abbia scritto
sulle proprie teorie, avrà sicuramente lasciato agli allievi un mare di dubbi,
lacune, incertezze e contraddizioni. Tanto più questo accadrà con quei
pensatori originali e geniali che si sono occupati di molti aspetti del reale e
da tante angolazioni. Le teorie del fondatore o dei fondatori risulteranno più
o meno chiare ma comunque ci sarà sicuramente un alone di interpretatività
lasciato agli eredi. La schiera di allievi inizia il processo di estensione e
approfondimento del paradigma. Questa estensione porterà alla nascita di scuole
separate. Non importa quanto fedeli o spregiudicati siano gli allievi nel
giudicare il pensiero del maestro, non importa quanto preciso sia il paradigma,
ineluttabilmente nasceranno scuole diverse e in varia misura rivali. Questo processo
è fondamentale per capire il nuovo concetto di paradigma e la sua
stratificazione, ed è un processo connesso con il ruolo della scienza normale.
In sintesi nell’ambito di una scuola, o più in generale di un paradigma, la
seconda generazione sviluppa il modello, la teoria, le conoscenze in qualche
direzione. Quali sono le forze che avvicinano o allontanano dal nuovo
paradigma? Premettendo che spesso le ragioni reali non sono chiare nemmeno allo
stesso scienziato, possiamo distinguere:
a) forze
“attraenti”: principalmente la forza materiale del paradigma e i problemi
aperti. Il ‘potere’ è un argomento ovvio: che carriera garantisce aderire? Che
punizione si rischia convertendosi? Sono discorsi che gli scienziati si fanno
da quando sono all’università a quando ricevono il premio Nobel. Ma contano
molto anche i problemi aperti. È per questo che la scienza normale si lega
inestricabilmente alla seconda fase della vita di un paradigma. Quando il
paradigma si è conquistato uno spazio nella propria disciplina, riuscirà ad
attirare studiosi solo se essi vedranno la possibilità di utilizzare il
paradigma per problemi nuovi. Essi vorranno cioè usare il paradigma per
risolvere nuovi problemi, smettendo di farsi domande sul paradigma in sé. Se la
teoria è insuscettibile di modificazioni progressive, gli scienziati se ne
disinteresseranno. In questo, gioca un ruolo anche la componente di vanità
intellettuale. Gli scienziati non amano applicare in modo routinario quanto
creato già in toto da altri. Ma soprattutto la teoria serve a spiegare le nuove
situazioni. Essa deve spiegare eventi nuovi che il fondatore non poteva avere
in mente se non in parte. Le condizioni oggettive sono poi, soprattutto nelle
scienze sociali, una spinta enorme, anche se non decisiva. È chiaro, ad
esempio, che la profonda crisi economica degli anni ‘30 allontanò molti
economisti dalle teorie che negano che il capitalismo possa attraversare delle
crisi. Ad ogni modo, il paradigma può conquistare il campo per varie ragioni,
ma mantiene la sua attrattiva se permette di fare ricerca delimitando il campo
di lavoro. In fondo il suo compito è proprio questo: fornire un quadro di
riferimento per il lavoro dello scienziato. Facilmente, un paradigma appena
nato sarà più movimentato ma anche “movimentista”, cioè poco inquadrato. In
seguito, accanto alla scuola fondatrice, che potrà addirittura essere messa in
un angolo, arriveranno una serie di nuove interpretazioni, estensioni,
arricchimenti del paradigma. Così, lo scienziato che comincia la carriera dopo
la vittoria del paradigma, non è attratto dal paradigma tout court ma dalla
singola scuola del paradigma. Tutti questi processi nelle scienze naturali si
vedono meno perché le condizioni storico-sociali influiscono in modo più
indiretto. Senz’altro, per il successo del paradigma conta anche l’abilità del
singolo scienziato o della singola scuola, soprattutto nel breve periodo, ma
non si può arrivare alle esagerazioni di chi, come Feyerabend, dà a questo
fattore un peso decisivo. Per riprendere il caso di Galileo: come scrisse
Gould, non basta essere perseguitati per essere Galileo, bisogna anche avere
ragione. E infatti oggi si parla ancora delle teorie scientifiche di Copernico
e Galileo perché erano un passo avanti oggettivo. Non così per le teorie
di altri eretici che pure furono perseguitati ma non per aver scoperto nuovi
“fatti”.
b) forze
“repulsive”: lo scienziato sarà respinto da un paradigma in crisi o troppo
ortodosso o del tutto indefinito. Come detto, per Kuhn la proliferazione delle
versioni del paradigma è un male. In realtà, a meno che questa proliferazione
significhi una serie di vere scissioni in cui gli scienziati abbandonano il
paradigma, vale il contrario. La proliferazione all’interno del paradigma lo
rafforza, mentre l’estendersi delle defezioni è la conseguenza della crisi del
paradigma, non la sua causa. Ovviamente, in quel caso, le proliferazioni a loro
volta alimenteranno il processo di crisi.
Infine, la
stratificazione dei paradigmi ha alle spalle un fenomeno fondamentale della
produzione moderna: la divisione del lavoro. Proprio perché spesso i creatori
del paradigma sono scienziati versatili, pensatori universali, riescono a
impostare nuove concezioni, ma in seguito, all’aumentare delle ricerche sul
paradigma, entra in funzione la specializzazione. La produzione capitalistica
spinge la scienza verso la parcellizzazione. Il paradigma perciò viene
stratificato per seguire in un certo senso la divisione del lavoro. Lo stesso
paradigma non si stratifica solo perché gli scienziati hanno opinioni
differenti sul medesimo argomento ma perché si occupano di argomenti diversi.
La teoria della stratificazione trova perciò una sua causa materiale nella
divisione sociale del lavoro. A un processo produttivo basato sulla divisione
del lavoro non può che corrispondere una scienza e un’epistemologia in cui gli
“specialisti” si dividono il lavoro. Il rapporto tra scienza e processo
produttivo passa per la divisione sociale e scientifica del lavoro.
5. Una
riformulazione materialista della teoria di Kuhn
La
concezione generale che abbiamo proposto sui legami tra scienza e storia può
essere ulteriormente affinata cogliendo più in dettaglio le analogie tra le
leggi di movimento delle rivoluzioni nella società e nella conoscenza.
Nella
teoria della rivoluzione di Marx, lo sviluppo delle forze produttive è
un’accumulazione pressoché continua di nuovi mezzi di produzione, nuove
conoscenze ecc. I rapporti di produzione, che determinano il rapporto delle classi
nel processo produttivo, hanno il compito di orientare lo sfruttamento di tali
forze produttive. A un certo momento questa loro funzione orientativa viene
meno perché lo sviluppo delle forze produttive le supera. Subentra un periodo
di rivoluzione, i rapporti di produzione vengono trasformati e le forze
produttive possono continuare a crescere[3].
Per chi ha in mente la descrizione che Kuhn fa dello sviluppo di nuovi
paradigmi, la stretta analogia dei due processi non può non colpire. Cominciamo
dunque con il cercare di “riportare” i concetti utilizzati da Marx nel mondo
dei paradigmi scientifici.
Cosa sono
le forze produttive nella scienza? Iniziamo col dire che il concetto di forze
produttive in Marx non è solo tecnico, quantitativo: egli vi ricomprende la
stessa classe dei produttori, nonché le conoscenze scientifiche incorporate
nelle macchine e in tale classe. Dunque dobbiamo definire forze produttive
scientifiche l’insieme delle conoscenze scientifiche e in genere il
“software” della conoscenza ma anche la classe degli scienziati e i macchinari
(l’“hardware”), ovvero i mezzi di produzione scientifici (laboratori,
centri di ricerca, strumentazione). Ci rimane da stabilire che cosa siano i rapporti
di produzione scientifici. Nella società, i rapporti di produzione sono
essenzialmente il modo con cui si relaziona la classe che possiede i mezzi di
produzione e si appropria dei risultati del processo produttivo e la classe che
aziona i mezzi di produzione. Vi è dunque sia un aspetto statico (la proprietà)
che dinamico (l’uso della proprietà per espandere la sfera della produzione).
Nella nostra epoca questi due aspetti sono compendiati dal concetto di
capitale, che incorpora tanto la proprietà che la funzione dei mezzi che la
società si è data per produrre. Nella scienza, l’aspetto statico (la proprietà)
non riveste particolare interesse perché ciò che è materiale è ovviamente già
di proprietà di qualcuno (il laboratorio ecc.), e ciò che è immateriale serve
solo se connesso alla produzione. Ad esempio, uno scienziato che trova un nuovo
materiale chimico, finché mantiene questa scoperta su un foglio, non modifica
nulla nel processo produttivo (né nel suo conto in banca). Non appena questa
scoperta o invenzione entra nella sfera produttiva diviene utile, cioè
appropriabile da qualcuno.
Pertanto,
i rapporti di produzione all’interno della scienza derivano dalle forme di
proprietà dominanti in una determinata epoca. Non solo, ma il modo con cui gli
scienziati si rapportano con il proprio ruolo, e cioè la concezione dominante
di cos’è e come si fa la scienza (l’ideologia e l’epistemologia dominanti),
derivano dall’ideologia dominante a livello generale.
A) La
rivoluzione
Sull’analogia
e le relazioni tra rivoluzioni sociali e scientifiche si è già detto. Lo
sviluppo della scienza è fortemente collegato con lo sviluppo della società e
nella nostra epoca si tratta di un processo circolare, con le nuove conoscenze
scientifiche che permettono un aumento nella produttività sociale e quindi uno
sviluppo nelle forze produttive. Certo, ci sono anche casi nei quali una scienza
florida si contrappone a una società in crisi oppure casi nei quali la società
fa grandi passi avanti mentre la scienza latita o vivacchia. Comunque questo
non è il caso della nostra società. Anzi, nel capitalismo la retroazione
diviene sempre più stringente, con il risultato di una continua rincorsa fra
scienza e sviluppo dei mezzi di produzione. Certo, definire il progresso
scientifico è già in sé un problema insolubile (come sappiamo dal fallimento
del falsificazionismo), ma quello che ci interessa valutare non è tanto la
bravura speculativa degli intellettuali, quanto la capacità di trasformare le
nuove conoscenze scientifiche in un progresso tecnologico. Il fatto stesso che
gli scienziati si occupino di speculare senza collegare quello che fanno con lo
sviluppo produttivo potrebbe essere un segno di crisi sociale. Facciamo
l’esempio di Leonardo. Indubbiamente è stato uno dei più grandi geni
dell’umanità, il miglior campione della rinascita della razionalità dopo la
notte del Medioevo. Come si sa Leonardo si occupò di tutto, “inventò” tutto,
dal carro armato all’elicottero. Eppure, nella misura in cui le trovate di
Leonardo non rappresentavano un certo grado di sviluppo della società ma solo
alcune straordinarie trovate di un genio, esse sono state quasi tutte inutili
ai suoi contemporanei. E oggi possiamo affermare che arricchiscono l’umanità
più le opere d’arte di Leonardo che non una serie di schizzi buoni forse per
costruire modellini e inutili sin dalla loro concezione, proprio come ora i
libri di fantascienza non aiutano in nessun modo un fisico a costruire
un’astronave o una macchina del tempo. Il caso di Leonardo serve a dimostrare
che il progresso scientifico non sta nelle trovate di una mente brillante, ma
nella capacità di sviluppare realmente le forze produttive. Ma l’esempio più
eclatante di una scienza rigogliosa in una società stagnante è forse quella dei
Greci dell’epoca classica. Per secoli i filosofi e matematici greci hanno
fornito al mondo idee e scoperte straordinarie, molte delle quali sono in uso
persino tuttora (si pensi alla geometria euclidea, alla logica aristotelica, a
molti problemi matematici archimedei e diofantei ecc.). Eppure quella società
era ben poco dinamica, essendo basata sullo schiavismo, che di per sé impedisce
ogni rapido progresso. È un caso unico e lo si vede dal fatto che l’Impero
Romano, con risorse produttive infinitamente maggiori a disposizione, ha dato
contributi alla scienza e alla matematica infinitamente minori. È più
importante un Platone per la storia della filosofia, o un Archimede per la
matematica, che tutti i filosofi e matematici di Roma, dalla sua fondazione al
crollo dell’Impero romano d’Occidente. Nella Grecia classica i problemi
concreti della società davano il via a speculazioni di filosofi “specializzati”
ad astrarre e a pensare al nocciolo analitico del problema più che al suo
risvolto operativo. Così la Grecia antica fu invasa da praticamente tutti i
suoi vicini, più forti militarmente. Eppure, anche un bravo storico della
filosofia troverebbe difficile ricordare il nome di uno solo dei filosofi
persiani o macedoni o romani di quel tempo. La scarsa comunicazione tra scienza
e tecnologia era dovuta al fatto che la classe a cui era dispensato di
lavorare, la classe dei Platone e degli Aristotele, non si occupava di
produzione. L’economia schiavile non investiva praticamente nulla. Era
un’economia in cui solo eventi straordinari al di fuori del ciclo normale
portavano dei cambiamenti (guerre, calamità). Con questi eventi eccezionali
arrivavano nuovi schiavi e la società aveva nuovo combustibile per andare
avanti. Il capitalismo invece ha creato un rapporto organico, permanente tra
scienza e processo produttivo. Un rapporto sostanzialmente di subordinazione
della scienza all’economia ma comunque fecondo. Gli scienziati sono dei
professionisti, la scienza è un mestiere, come anche l’arte. Nell’arte come
nella scienza vi è un canale già pronto che stimola, raccoglie e sfrutta
l’inventiva umana. Ovviamente, i fisici, gli economisti, come i cantanti e gli attori,
devono suonare una musica che non faccia dispiacere (per usare un eufemismo) ai
rispettivi produttori. Tuttavia, tanto nell’arte come nella scienza vi è un
ampio ventaglio di opinioni e i produttori più intelligenti sanno servirsi dei
propri “artisti” più dotati anche quando sono dei ribelli. Il tutto certamente
entro limiti prudenti: anche il guinzaglio più lungo a un certo punto si tende.
Allo stesso modo se uno scienziato vuole rompere con l’ideologia dominante deve
prepararsi ai freddi inverni dell’eterodossia. Che comunque sono da preferire
ai caldi inverni dei roghi di eretici, o di libri, di tempi passati.
B) Lo
sviluppo delle forze produttive scientifiche
Lo
sviluppo delle forze produttive scientifiche è dato dalle risorse che la
società mette a disposizione della scienza. Queste risorse nel capitalismo sono
connesse ai profitti che l’innovazione tecnologica consente di generare. Gli
scienziati scoprono, grazie alle nuove risorse e agli studi precedenti, nuove
teorie. Le forze produttive scientifiche, proprio come le forze produttive
sociali, avanzano praticamente senza interruzione. Questa è l’essenza della
scienza normale, la sua base oggettiva e necessaria. Le forze produttive, in
una nuova società e in un nuovo paradigma, hanno davanti un certo periodo di
crescita, prima rapida e tumultuosa poi più arrancante, e questo sviluppo è del
tutto progressivo. L’incessante accumularsi di nuove scoperte e nuovi mezzi di
produzione, accrescendo le forze produttive, mette in crisi le vecchie teorie e
ideologie, spingendo verso rivoluzioni scientifiche e sociali (solitamente in
questo ordine), che danno vita, in un periodo di tumultuosi rivolgimenti, a un
nuovo paradigma e a una nuova società. Questo è il fondamento sul quale si
sviluppano le scienze. Tuttavia le cause per cui un paradigma entra in crisi
sono anche interne, per esempio a causa di mancanza di coerenza logica o
semplicemente per una contraddizione tra nuove scoperte e vecchia teoria. Ma
infinitamente più importante e decisiva è la funzione che le classi assumono
nello sviluppo storico. Ogni classe è stata per un periodo la locomotiva della
storia. A un tratto della sua vita però, ogni classe diviene un peso, comincia
a frenare il convoglio e rischia perfino di farlo deragliare. Tuttavia questo
meccanismo non appare affatto così neutrale come lo descriviamo. Uno psicologo
potrebbe notare che a nessuno piace sentirsi vecchio, figurarsi a un intera
classe che ha dominato il mondo per secoli. Ma qui c’è anche ben altro. Sin
dalla propria ascesa storica una classe forgia le armi con cui dominerà il
mondo. Innanzitutto queste armi sono ideologiche e scientifiche. Sono in ultima
analisi una visione superiore del mondo. Superiore naturalmente rispetto alla
classe che fino ad allora aveva gestito la società. Tale visione incorpora
inevitabilmente una clausola e cioè che l’arrivo al potere di quella specifica
classe pone fine alla storia dell’uomo. In secondo luogo i valori della classe
in questione vengono inevitabilmente estesi oltre ogni vincolo storico,
divenendo la realizzazione dell’essenza stessa dell’umanità. Questa ideologia
muta poi nel tempo. Da rivoluzionaria diviene un placido gestire giorno per
giorno la fase della maturità. Infine, diviene una arcigna e reazionaria difesa
dell’esistente, quando la nuova classe dominante è divenuta anch’essa un pezzo
di ferraglia, da locomotiva qual era. Le clausole sull’eternità che incorporava
però rimangono. Sono anzi tali che plasmano la visione stessa. Nella fase di
ascesa, quando la classe che aspira a trasformare il mondo è oggettivamente una
classe progressista, la visione del mondo è immancabilmente materialista. Pian
piano diviene invece soggettivista, relativista. Prima prevalevano concezioni
universalistiche, progressiste. Pian piano prendono il sopravvento visioni
minute, particolaristiche, sempre più conservatrici. Con il mutare della
funzione che la classe ha, rispetto al procedere delle forze produttive, cambia
dunque anche la sua ideologia e con essa molti paradigmi scientifici. Possiamo
perciò dire che i paradigmi scientifici non mutano solo con il mutare delle
società, ma anche con il mutare del ruolo delle classi che le compongono.
Tutto
questo processo è complicato dall’esistenza della stratificazione paradigmatica
di cui abbiamo parlato. Infatti la rivoluzione scientifica, specie nelle
scienze sociali, non spazza via in una notte le teorie precedenti. Piuttosto
inizia attaccando l’ortodossia con una scuola eterodossa del paradigma
dominante. Ad un certo punto la scuola eterodossa fa una scissione oppure
semplicemente egemonizza il vecchio paradigma e lo cambia dall’interno. Spesso,
ai margini del vecchio paradigma ci sono varie scuole eretiche divise che pian
piano si unificano utilizzando nuove scoperte o riutilizzando vecchie teorie;
altre volte sono gli ortodossi di un tempo a farsi rivoluzionari ecc. I casi
sono vari, l’importante è connettere attraverso processi obiettivi la scienza e
la società. La vittoria di un paradigma su un altro ha a che vedere con
fenomeni esterni alla singola scienza o teoria, ma è la scienza nel suo
complesso che è legata inestricabilmente a questi processi. La crisi o la
vittoria di un paradigma sono in ultima analisi la crisi o la vittoria di una
classe e di una società.
6.
Conclusioni
La scienza e la
società, nel loro sviluppo, sono strettamente collegate. Non solo le leggi di
questo sviluppo sono precisamente le stesse, ma i due processi si intersecano e
influenzano a vicenda. Le esigenze sociali della classe dominante si
cristallizzano in un paradigma e nella sua storia di stratificazioni, lotte
intestine, parziali rivolgimenti, fino a una morte decretata per lo più in
concomitanza con la morte dei propri referenti sociali. La spiegazione di
questa stratificazione e delle basi oggettive della scienza normale non ne
vuole essere una giustificazione. Diamo assolutamente ragione a Popper quando
sostiene la “rivoluzione permanente” in campo scientifico (salvo sostituirvi la
reazione permanente in campo sociale), solo spieghiamo perché non tutte le
epoche storiche possono essere rivoluzionarie, per la scienza e per la società.
Il grande
contributo che Kuhn ha dato alla comprensione della scienza viene purtroppo
disperso nei meandri di un relativismo cinico e inutile, la cui difesa dello
status quo avviene attraverso l’equiparazione di ogni teoria scientifica, di
ogni credo e ideologia con la “scoperta” che è impossibile dirimere per vie
puramente scientifiche le controversie teoriche. Ma, seppure consideriamo
questo sviluppo della filosofia della scienza come nefasto, ne accettiamo un
presupposto che peraltro risale a molto tempo addietro e cioè che nessuno
scienziato può pensare di disinteressarsi non solo e non tanto della filosofia
della scienza ma soprattutto della società in cui vive. La scienza non può
sperare di lasciar perdere la politica credendo che essa lascerà perdere lei.
L’unico modo per avere le idee chiare sul proprio lavoro, come scienziati e
come cittadini di questa epoca, è di comprendere le determinanti dello sviluppo
di questa società.
7.
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[1] Si pensi alle tradizioni di Laudan, all’hard core e ai programmi di ricerca di Lakatos, e così via.
[2] Sebbene non ci sia mai capitato di trovare un perfetto equivalente della teoria che ora andremo a proporre, alcuni passaggi del libro di M. Cini Un paradiso perduto, si avvicinano molto a queste idee (pagg. 200 e seguenti). Qualcosa di simile si trova anche negli scritti di Laudan e Hausman citati in bibliografia.
[3] Ci riferiamo alla teoria dello sviluppo
storico di Marx in generale. Ma soprattutto abbiamo in mente il celeberrimo
passo che, seppur un po’ meccanicamente, la compendia in modo egregio:
“nella produzione
sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati,
necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che
corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive
materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura
economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una
sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme
determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale
condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita.
Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al
contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato
punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in
contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di
proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali
forze per l’innanzi si erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle
forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di
rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o
meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili
sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento
materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere
constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche,
politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che
permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non
si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può
giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se
stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della
vita materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della
società e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché
non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dar corso; nuovi e
superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate
in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco
perché l’umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché,
a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo
quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono
in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico, feudale e
borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso
della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghese sono
l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica
non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga
dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si
sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni
materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale
si chiude dunque la preistoria della società umana” (Prefazione a Per la
critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 5-6).