VITTORIO MATHIEU

 

A cura di Osvaldo Ottaviani

 

 

"L’uomo è un animale ermeneutico, perché parla: perciò la filosofia ritrova l’unità dell’uomo con se stesso e col mondo. Risale a ciò che non si può costruire, come fonte della costruzione. Quindi a ciò che va rispettato, perché non si può manipolare: l’uomo, e la natura della realtà, che va rispettata anche quando la si vuole assoggettare. La filosofia ermeneutica rispetta l’essenza, perché ha imparato che l’essenza non è una cosa".


Vittorio Mathieu è nato a Varazze (Savona) il 12 dicembre 1923. Allievo di Augusto Guzzo all’Università di Torino, si laurea in filosofia teoretica nel 1946, con una tesi dal titolo Della distinzione kantiana fra fenomeno e cosa in sé.  Libero docente nella stessa materia nel 1956, dal 1958 è stato incaricato e dal 1961 ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Trieste. Primo vincitore del concorso di Storia della Filosofia del 1960, dal 1967 è stato ordinario di Filosofia, poi di Filosofia morale, nell’Università di Torino.  Dal 1987 è Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei; vice-presidente del Comitato Premi della Fondazione Internazionale Balzan; membro del Consiglio nazionale per la Bioetica istituito presso la Presidenza del Consiglio del Governo italiano; Presidente del Comitato scientifico della Fondazione Ideazione. Dal 1972 al 1980 è stato membro del comitato per le Scienze Storiche, Filosofiche e Filologiche del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR); dal 1976 al 1980 è stato membro, poi vicepresidente, del Consiglio esecutivo dell’UNESCO; dal 1994 al 1997 è stato il rappresentante italiano nella Commissione consultiva del Consiglio Europeo contro il razzismo e la xenofobia.

Massimo conoscitore italiano dell’opera di Bergson, cui ha dedicato un’importante monografia, Bergson, il profondo e la sua espressione (1954, 1971), e di cui ha curato l’edizione italiana dell’Evoluzione creatrice e dell’Introduzione alla metafisica (presso Laterza). Grande studioso di Kant, in particolare dell’Opus Postumum, cui ha dedicato La Filosofia trascendentale e l’Opus postumum di Kant (Torino, 1958), successivamente tradotto in tedesco; ha curato l’edizione italiana (parziale) dell’Opus Postumum (Bologna, 1963); ha operato una fondamentale revisione della traduzione Gentile.-Lombardo Radice della Critica della Ragion Pura (Roma- Bari, 1958) e ha curato la traduzione della Critica della Ragion Pratica e della Fondazione della Metafisica dei Costumi.  Ha dedicato una monografia al carteggio Leibniz- Des Bosses sul problema del “vinculum substantiale” (Leibniz e Des Bosses, Torino, 1960).  Ha scritto una popolare Introduzione a Leibniz (Laterza), del quale ha curato anche i Saggi di Teodicea e un’importante edizione degli Scritti Politici e di diritto naturale. Le sue opere maggiori sul rapporto tra scienza e filosofia sono L’oggettività nella scienza e nella filosofia moderna e contemporanea (1960) e Il problema dell’esperienza (1963).  Numerose le raccolte di saggi: sull’ermeneutica (L’uomo animale ermeneutico, 2000) e la filosofia del diritto (Luci ed ombre del giusnaturalismo, 1989), Dialettica della libertà (1970), La speranza nella rivoluzione (1972), Perché punire (1980), Cancro in Occidente (1983), Filosofia del denaro (1985), Elzeviri swiftiani (1986). Numerose pure le opere di estetica, dall’importante voce Romanticismo dell’Enciclopedia Filosofica Sansoni, ai libri Dio nel Libro d’ore di R. M. Rilke, 1968, La voce, la musica, il demoniaco (1983), Goethe e il suo diavolo custode (2002).  Ricordiamo infine la Storia della Filosofia, Brescia, 1965; Perché leggere Plotino, Milano, 1992;   Per una cultura dell’essere, Roma, 1998; Le radici classiche dell’Europa, Milano, 2002. Per la bibliografia completa, anche se aggiornata solo al 1995, si veda il volume Trascendenza, trascendentale, esperienza. Studi in onore di Vittorio Mathieu, Padova, 1995.

 

 

 

L’oggettività e la concezione “prospettica” del reale

 

La riflessione filosofica di Mathieu si sviluppa parallelamente ai suoi studi su filosofi come Kant e Bergson, ma non rimane sul piano della mera esegesi del testo, bensì sviluppa, attraverso il confronto con gli autori studiati, una propria sintesi originale, che illumina tutti i campi della ricerca filosofica. Per cominciare, possiamo prendere in considerazione un saggio del 1954 dal titolo Il reale in prospettiva (da cui sono tratte le citazioni di questo paragrafo), successivamente rielaborato come conclusione del libro su Bergson, Il profondo e la sua espressione.   Il confronto con Bergson induce Mathieu a riflettere sul rapporto tra filosofia e scienza e lo porta a formulare la sua teoria della “stratificazione dell’essere”. L’intento dello scritto è quello di mostrare che le determinazioni del reale non sono “tutte in una barca” (Whitehead), ma si trovano su piani diversi ordinati in una successione continua che costituisce la stessa realtà.  La considerazione iniziale è volta a chiarire come il modo d’essere “spaziale” delle cose non ci presenta l’essere nella sua totalità. Il punto più importante da sottolineare è che, anche se una cosa non può non essere da noi pensata senza lo spazio, lo spazio non è mai capace di contenere l’essere della cosa, anche quando si tratti di una cosa materiale. Il problema è che non è facile uscire dalla spazialità col pensiero, perché l’oggetto di pensiero in quanto tale è spaziale: i corpi sono l’uno fuori dall’altro non per una necessità fisica, bensì per una necessità insita nel pensare l’uno come non essente l’altro, l’esser pensata rende la materia impenetrabile, tale, cioè, che ogni sua parte dev’essere fuori dell’altra, nello spazio. In realtà, pensare una cosa significa identificarla, pensarla come questa e non altra. Se l’oggetto di pensiero in quanto tale è spaziale, risulta difficile affermare che vi sono modi di essere non spaziali. Eppure, il compito del pensiero filosofico è appunto questo.

I caratteri della filosofia in quanto tale vengono messi in risalto da Mathieu attraverso un confronto con il modo di procedere della scienza.  Innanzi tutto, bisogna mostrare il legame della scienza col modo d’essere spaziale, anzi, la scienza è definita come la sistematicità del modo di pensare spaziale. Il carattere matematico della scienza moderna richiede che in essa si introducano i concetti di numero e misura. Il numero implica l’esteriorità spaziale, secondo Bergson, perché le unità che formano il numero devono essere omogenee e due entità omogenee non hanno altro modo di distinguersi che una reciproca esteriorità.  Per poter misurare, cioè stabilire le sue relazioni numeriche, la scienza deve, dunque, squadernare i propri oggetti nello spazio, che rende possibile il numero e, quindi, la misura. Ora, poiché la scienza tende a fare astrazione da tutto ciò che non è la pura forma matematica delle relazioni, l’oggetto della scienza tende di conseguenza a spazializzarsi e perde ciò che della sua essenza non si riduce a spazialità. Il successo della scienza galileiana si spiega col fatto che l’isolamento del particolare aspetto della spazialità nell’essere fisico, permette di prevedere il comportamento della natura e di dominarlo praticamente.

In altri termini, la scienza considera soltanto la “buccia” dell’essere e da questo riconoscimento nasce il problema della stratificazione dell’essere. Lo spazio viene ora ad essere considerato come il primo e il più superficiale degli strati dell’essere (l’unico che possa dirsi “strato” in senso proprio e non per metafora). Rimane il problema di determinare, rispetto ad esso, il modo in cui si presenta il resto dell’essere. Questo problema non è presente nella filosofia antica e medievale, non perché questa non si ponga il problema dell’essere, ma perché non si trova di fronte la realtà della nuova scienza. Con essa il termine “astrazione” assume un significato del tutto diverso rispetto al mondo antico. La filosofia moderna a partire da Cartesio (con importanti eccezioni, come Leibniz e Vico) non ha la coscienza che l’aspetto di cui si occupa la nuova scienza sia solo la “buccia” delle cose: per Cartesio l’estensione è sostanza, è l’essere della materia senz’altro, non una “buccia” o un suo aspetto superficiale.

Nel pensiero contemporaneo, di fronte all’affermarsi del positivismo, che conduce alle estreme conseguenze il modo di pensare cartesiano, Mathieu vede la reazione più acuta nell’opera di Bergson, che, partendo dagli stessi presupposti del positivismo, giunse a scoprire che per sua natura il modo di vedere della nuova scienza lascia fuori certi modi dell’essere (…) di cui non coglie che l’aspetto esteriore.

La riflessione di Mathieu vuol dunque inserirsi in questa linea di pensiero “bergsoniana”, ma con l’obiettivo, inevitabile, di andare oltre Bergson. Bergson si concentra sugli stati d’animo profondi, mentre Mathieu preferisce cominciare dall’analizzare oggetti comuni, presenti nello spazio, come può essere un colore. Noi non possiamo rappresentarci concretamente un colore fuori da una certa estensione, cioè senza una molteplicità di parti esterne l’una all’altra; eppure, il modo d’essere del colore non si trova tutto sul piano dello spazio, come parrebbe a prima vista. Ciò che avesse il modo d’essere dello spazio, sarebbe divisibile indefinitamente in parti omogenee con il tutto; ma ciò che ha il modo d’essere del colore non è divisibile in parti omogenee oltre un certo limite. Il modo d’essere del colore, dunque, non si trova tutto dentro lo spazio. Il colore, per un lato si diffonde nello spazio, per un altro affonda in una “dimensione” diversa. Questa (metaforica) dimensione che evade dalle dimensioni spaziali è ciò che chiamiamo “profondità metafisica”degli enti. Il primo carattere di questa altra “dimensione” è il raccogliersi in unità dell’esteriorità reciproca.  Le cose materiali, che si presentano a noi contenute nello spazio, non hanno nello spazio il loro essere, ma si affacciano nello spazio, si fanno presenti ad esso [ si manifestano] da una profondità metafisica ulteriore.

Dunque, l’oggetto della scienza non è che un piano, una sezione superficiale dell’essere, rispetto a cui le qualità concrete si trovano su piani più profondi, ma il concreto risulta dalla proiezione di queste qualità più profonde sul piano dell’oggettività.

L’oggetto di una scienza, ad es. della meccanica razionale (considerazione non empirica, ma pensata del movimento) è astratto, ossia, quanto quella scienza prende in considerazione è ricavato da qualcosa di più complesso, di cui una “parte” è lasciata fuori. La meccanica razionale considera ciò che del movimento è spaziale, ma l’aspetto spaziale del movimento, da solo, non sarebbe nulla: è qualcosa solo come uno strato terminale d’un fenomeno complesso, non contenuto, nella sua interezza, dallo spazio.  Lo stesso discorso vale per le determinazioni geometriche dello spazio. La più fondamentale di tali determinazioni, apposte dal di fuori, allo spazio, è il punto: il punto è nello spazio, ma come segno del farsi presente ad esso di ciò che è assolutamente aspaziale (inesteso). L’inesteso, in quanto è, non è certo nello spazio (…), ma può farsi presente allo spazio, segnandovi un punto.  A questo punto, bisogna precisare che tutta questa concezione delle dimensioni dell’essere implica un ricorso alla metafora. La stessa similitudine usata da Mathieu, la sezione di un tronco d’albero, le cui linee concentriche (spaziali), presuppongono la dimensione solida del tronco, ha il pregio della chiarezza ma rischia di trarre in inganno, come egli stesso sottolinea: uscendo da una sezione di tronco per considerare altre sezioni, o il tutto dell’albero, io mi trovo sempre ancora nello spazio, cioè in qualcosa che, ontologicamente, ha le stesse proprietà di ciò da cui ero partito. Invece, l’uscita dallo spazio, implica il passaggio ad una dimensione qualitativamente ed ontologicamente diversa, che potrà essere detta “sezione” o “strato” solo per metafora. Si noti che tutte le espressioni che rinviano alla dimensione “metafisica” devono essere per forza metaforiche: “uscire” “profondità” “dimensione” “fuori dallo spazio” ecc. sono tutti termini che hanno un significato spaziale, ma vengono usati per indicare una dimensione del tutto aspaziale. Ciò implica uno sforzo concettuale nel tentativo di pensare la dimensione della “profondità metafisica” dell’essere. Allo spazio non si aggiunge una dimensione ancora spaziale, ma ciò implica che si devono utilizzare espressioni di per sé inadeguate, senza mai potersi liberare da questa metaforicità.

Dove aver parlato a lungo del primo strato dell’essere, lo spazio, si pone il problema di come affrontare la trattazione degli altri livelli. Bergson ha fatto ricorso all’osservazione psicologica, senza però ricadere nella “psicologia”; anzi, l’osservazione interiore ha il compito di presentarci oggetti dotati di caratteri utili a definire la “profondità” dell’essere.  Uscendo dalla dimensione spaziale, si esce dal campo della “oggettività”: si presenta forse il rischio di cadere nel soggettivismo? L’analisi del significato dell’oggettività permetterà di affrontare il problema dal giusto punto di vista. Gli oggetti esterni che si presentano ai nostri sensi non sono entità puramente spaziali: però sono appiattiti contro il piano dello spazio, e appunto per questo si ha l’impressione che essi siano contenuti nello spazio (vedi l’es. del colore). Oggettivare significa proprio considerare qualcosa come un oggetto, posto di fronte a noi, ossia, proiettare nello spazio. Ciò che nell’oggetto è appiattito e schiacciato sul piano dello spazio, è invece in rilievo e differenziato nella costituzione del soggetto.  Ciò non vuol significare che i soggetti sono sempre singoli, di contro al carattere pubblico, universale, che è proprio dell’oggetto.  Questa critica al soggettivismo si basa sulla credenza che il carattere dell’universalità sia da rintracciarsi solo nel campo dell’oggettività. Ma la teoria della stratificazione dell’essere vuol oltrepassare la contrapposizione soggettivismo-oggettivismo, perché fa discendere soggetto e oggetto da una relazione dinamica che si trova all’interno dell’essere, il quale rimane, pertanto, anteriore alla distinzione. L’attenzione verso la soggettività si spiega col fatto che, per il suo essere “in rilievo”, facilita l’analisi dei diversi livelli dell’essere. L’attenzione verso la soggettività è dovuta al fatto che in essa si mostra più chiaramente quella concentrazione, quel raccogliersi in unità, che è caratteristica della profondità dell’essere. Noi pensiamo –almeno indirettamente, anche se non riusciamo a rappresentarcela direttamente- la nostra personalità come un punto che racchiude nella propria in estensione una molteplicità virtuale. È evidente in questo punto l’influenza kantiana: del principio inesteso dell’io, in cui ogni molteplicità è raccolta insieme, non abbiamo, direttamente esperienza: lo cogliamo, piuttosto, per la necessità in cui si trova l’esperienza -per essere esperienza di qualcuno-di riferirsi tutta ad un unico punto, come al fuoco di una lente.  Viene così a crearsi un dipolo tra assoluto esser-dentro dell’io e il reciproco esser-fuori degli enti nello spazio: in mezzo, però, vi sono dei gradi, che partecipano più o meno, a seconda della loro posizione, dei caratteri dell’uno e dell’altro. Un modo d’essere intermedio è, ad es., quello di un sentimento: non ha parti reciprocamente esteriori nello spazio, ma neppure può essere sentito in una folgorazione assolutamente puntuale. Da un punto di vista matematico, spaziale, questo discorso non ha senso, non ha senso pensare un che di intermedio tra ciò che è esteso e l’assolutamente inesteso, ma la concezione “stratificata” dell’essere consiste precisamente nel pensare tutta una gamma di passaggi qualitativi tra un essere puntuale e un’estensione spaziale.

Occorre, a questo punto, fare una precisazione: la disposizione a diversi livelli riguarda l’essere (finito) non gli enti. Cioè: non si può pensare che gli strati più superficiali, ad es., formino la materia inorganica, e che, al di sotto, altri strati costituiscano, poniamo, la psichicità. L’essere di tutte le cose particolari è il riferirsi di un atto puntuale originario al piano dell’oggettività: esso occupa sempre, quindi, l’intera dimensione della profondità ontologica. Ciò che è diverso, nel caso della materia o dell’esistenza cosciente, è solo il modo del riferirsi: immediato in un caso, mediato nell’altro.

Man mano che si scende nella dimensione della profondità dell’essere, si assiste ad una progressiva condensazione dell’essere stesso, per cui non si possono più distinguere parti esterne l’una all’altra. L’essere perde il carattere dell’oggettività. Il senso che Mathieu conferisce a “oggetto” è quello originario di “ ciò che sta di fronte alla mente”. Abbiamo visto prima che l’oggetto spaziale è un oggetto pensato.  Il fatto che l’essere degli enti abbia una “profondità” significa esattamente che tale essere non è contenuto tutto sul piano dell’oggettività. Citando Vico, Mathieu conclude che l’essere oggettivo è come un essere piatto, rispetto all’essere reale, che è solido. L’oggettività pura si può attribuire solo ai rapporti matematici, che presentano perciò una trasparenza assoluta. Ciò che è concreto, invece, possiede uno “spessore” ontologico che emerge dalla pura oggettività. Esso può venir considerato un semplice oggetto (fisico) quando questo spessore venga proiettato tutto sul piano più esterno, quello dello spazio- è quella che Mathieu chiama “oggettivazione ingenua”. Ridurre l’ente all’oggettività, ossia ridurlo allo spazio, è invece ciò che propriamente fa la scienza. L’analisi scientifica è analisi oggettiva, cioè risoluzione dell’ente nei suoi elementi. “Dividere” significa situare i vari elementi uno fuori dell’altro, cioè spazializzare. La scienza stabilisce l’oggettività risolvendo gli enti nello spazio. Essa stabilisce rapporti e il rapporto, matematicamente, non è altro che una divisione: la misura di quante volte una grandezza sta dentro un’altra.

La radice ultima dell’essere è in se stessa in oggettivabile. Quando la designiamo con il “punto” (altro riferimento vichiano, ed in ultima analisi neoplatonico), la proiettiamo sul piano dello spazio, perché direttamente essa non ci si può porre dinanzi (come un oggetto tra gli altri). Eppure questo è il livello da cui tutto l’essere dipende.  Così facendo, Mathieu, oltre che a Bergson, si richiama al pensiero di Heidegger sulla differenza ontologica e, pur non accogliendone la terminologia (preferendo la tradizione dell’analogia entis), il suo sforzo è proprio quello di pensare l’essere degli enti non come un oggetto, seppur ideale, ossia uno sforzo di evitare la heideggeriana “dimenticanza dell’essere”.  L’essere profondo contiene, concentrato in sé , ciò che è nell’essere superficiale (ciò che per l’universo si squaderna, anche se Mathieu scrive, volutamente, “esperienza” al posto di “universo”), mentre quest’ultimo è fatto essere solo dal farsi presente, dal manifestarsi (nel senso greco di phaino) dell’essere profondo al suo livello.  Il “punto” profondo come principio degli enti finiti dà luogo all’ente muovendo verso un piano di oggettività.  Non si può, quindi, prendere il profondo tralasciando il superficiale: si può solo prendere il profondo attraverso il superficiale. La non-oggettività dell’essere profondo importa solo questa conseguenza: che le forme esteriori, che possiamo oggettivare di fronte alla mente, non contengono immediatamente l’essere, ma lo esprimono, lo indicano intenzionalmente. L’essere non va identificato senz’altro con l’oggetto della mente che, come tale, ha una dimensione di meno, bensì con ciò di cui l’oggetto della mente è espressione.

A questo punto, Mathieu qualifica la radice puntuale e profonda dell’essere come “atto”, contrapponendola all’essere superficiale che è “oggetto”. Si ripropone così la bipolarità che abbiamo visto prima in relazione alla coscienza. In mezzo, c’è sempre l’essere intermedio, dotato di entrambi i caratteri, in diversa proporzione a seconda dei livelli. Il rapporto tra l’oggettività di un ente e la sua attualità è simile al rapporto tra le figure proiettate su uno schermo e il fuoco della lente di una macchina da proiezione. Le figure divengono oggettive soltanto sullo schermo, ma sono reali solo per il rapporto che hanno con un punto che non si trova sul piano dello schermo. La distanza tra il fuoco della lente e lo schermo è ciò che abbiamo chiamato la dimensione (non oggettiva) della “profondità dell’essere”; il fuoco rappresenta l’“atto originario” dell’ente, in cui si trova raccolto, concentrato in un punto, ogni elemento che poi si sviluppa spazialmente sullo schermo oggettivo. Lo schermo è lo spazio, sede dell’oggettività. Abbiamo detto che, in quanto spaziale, ogni rappresentazione è inadeguata, è metafora dell’evadere dell’essere degli enti dalle dimensioni oggettive dello spazio. La differenza principale è che nell’immagine esposta sopra non c’è un passaggio qualitativo, ma un salto: invece la profondità dell’essere consiste precisamente in uno svilupparsi qualitativamente graduale delle articolazioni spaziali dal nucleo originario.

Poiché noi, in quanto enti finiti ci troviamo, per restare alla similitudine, nella dimensione dello schermo, non possiamo rappresentarci direttamente, oggettivamente, la profondità dell’essere, ma dobbiamo coglierla, dice Mathieu con una metafora perfetta, in prospettiva.  Identificare la dimensione spaziale con l’essere nella sua totalità, significa l’appiattimento dell’essere: dal modo di vedere l’oggettività proprio della nuova scienza nasce un problema di prospettiva: salvare, nelle linee della concezione dell’essere proiettata sul piano dell’oggettività, quella dimensione ulteriore della profondità metafisica che nel piano non è contenuta. Si tratta di far emerger a livello del “piano” quella dimensione del “profondo” che direttamente non ci si può manifestare, anche se nel far ciò deve ricorrere ad un artificio (anche in pittura la prospettiva è un artificio), cioè ad esprimersi costantemente in modo metaforico e inadeguato, alludendo (ossia, come Mathieu ricorda sempre, “giocando a rimandare a”) a quell’ulteriore dimensione, propria della metafisica (cfr. Il pensiero allusivo, in L’uomo animale ermeneutico)

La visione prospettica comporta una conseguenza caratteristica nei riguardi di nozioni come spazio e possibilità. Se gli enti mostrano di possedere una profondità metafisica non rappresentabile ( se non prospetticamente) sul piano oggettivo, allora il rapporto tra lo spazio e l’essere viene a mutare: lo spazio non è più considerato come “recipiente”, bensì come limite ( sezione terminale) dell’essere, cui l’essere tende col crescere della sua oggettività. Lo stesso discorso fatto per lo spazio sul piano intuitivo, vale per la possibilità sul piano logico : il possibile, in linea di principio, deve essere del tutto oggettivabile.  Possibilità-limite ( cfr. Kant) che contiene l’aspetto oggettivo del reale, ma cui manca la dimensione della profondità.

Nel considerare l’essere, se non teniamo conto del grado ulteriore di libertà non contenuto nel piano oggettivo, rischiamo di porre l’una accanto all’altra determinazioni che, in realtà, si trovano su piani diversi e che possono appartenere entrambe all’essere concreto unicamente perché si trovano su piani diversi. In questo modo, Mathieu mostra come si possano risolvere problemi come quello della continuità-discontinuità del reale, o quello, analogo, dell’antinomia kantiana tra divisibilità infinita o non infinita del reale composto.  In particolare, se si rimane su di un unico piano (oggettivo) entrambe le tesi sono false, ma nella concezione prospettica possono essere entrambe vere. Nell’aspetto per cui è contenuto nello spazio il reale è sempre fatto di parti: ma poiché la realtà è data dal farsi presente allo spazio di qualcosa di aspaziale, questo farsi presente di un modo d’essere più profondo, come introduce una discontinuità, così introduce una certa indivisibilità, per cui la scomposizione non può progredire indefinitamente. Con lo stesso metodo Mathieu passa in rassegna le categorie di sostanza e causa, il problema della libertà, della necessità e della contingenza. Per questioni particolari rimandiamo al testo, ma su quest’ultimo problema occorre dire qualcosa. Per Mathieu, così come per Kant, il piano dell’oggettività è il piano della necessità, solo che per Mathieu una attenta considerazione dell’oggettività rimanda per forza alla dimensione metafisica del “profondo”. Il fondamento della “contingenza” è dato proprio dalla distanza tra l’attualità profonda dell’essere e la sua oggettività. Sul piano oggettivo nulla accade senza ragione, quindi non c’è nulla di contingente, ma, per contro, l’intero piano oggettivo dipende da un’attualità posta ad un livello diverso, la quale, mentre fonda ogni ragione, non è connessa a sua volta ad una forma particolare da una ragione determinante. Per comporre necessità e contingenza si richiedono dimensioni diverse. La conclusione di questo discorso è di grande interesse: la relazione di contingenza riscontrata tra il tutto di una forma e la radice profonda dell’essere fa sì che non vi sia un’unica espressione della verità, bellezza, etc., nonostante che verità e bellezza siano tutte (…) in ogni loro espressione.  Ciò spinge Mathieu ad affrontare il problema del “valore”.

“ Valore” è per definizione un termine relativo, perché si può parlare di valore solo in relazione ad una norma atta a commisurarlo. Eppure si parla spesso di “valori assoluti” e non a torto. Perché vi siano valori assoluti vi debbono essere norme assolute, ma è possibile formulare tali criteri? La risposta è no. Questo non vuol dire cadere nel relativismo  o, nel caso del diritto, nell’affermare che esistono solo norme positive e nessuna norma “naturale”. In tutti questi casi il problema si risolve se si tiene conto che l’opera è criterio di se stessa. Rimane sempre una dualità tra il criterio di giudizio e l’oggetto giudicato, solo che le due cose non si trovano sullo stesso piano, in particolare la norma, il criterio non è considerabile alla stregua di un oggetto, sia pure ideale. In che senso, però, l’opera ha un valore intrinseco? Il problema rimane insolubile finché si rimane sul piano dell’oggettività. Si deve porre la dualità non sul piano oggettivo, ma su piani diversi dell’essere. Per questo, il criterio di giudizio non si lascia mai cogliere in una formula, ossia in una forma oggettiva. È l’essere profondo che nelle formule si esprime, ma non si lascia contenere, e le cui espressioni sono esse stesse oggetti di giudizio, di cui si deve valutare se abbiano espresso l’essere profondo bene o meno bene. La dualità norma-oggetto giudicato intercorre tra l’essere e le forme esteriori in cui si manifesta. Il criterio di giudizio di una cosa è anche il suo essere profondo. L’universalità del criterio sarà un’universalità qualitativa: il giudizio di valore, kantianamente, sarà sempre un giudizio “riflettente” e mai un giudizio “determinante”, perché l’universale, la norma, non è mai dato sul piano dell’oggetto ( a tal proposito cfr. Regola implicita e giudizio riflettente kantiano, in Luci ed ombre del giusnaturalismo). Fino a che si veda l’assolutezza in una forma oggettivamente definita, ci si espone all’obbiezione di chi mostra come a questa forma se ne contrappongano altre, al solo fine di screditarle tutte e di far vedere che non c’è una norma assoluta. (…) Ma se, al contrario, a tutte le forme esteriori e norme formulate si chiede una rispondenza alla radice dell’essere, se si chiede che esprimano, nei loro elementi articolati l’uno fuori dell’altro, l’unità profonda in cui consiste originariamente l’universalità, non si lascia più posto all’arbitrio e al convenzionalismo.  Si può leggere gran parte della produzione successiva di Mathieu come un approfondimento di questo pensiero nel campo del diritto, in particolare il rapporto tra diritto naturale e norma positiva ( Luci ed ombre del giusnaturalismo ), nell’estetica ( in particolare lo studio sul romanticismo), nella storia della filosofia, con particolare attenzione al rapporto tra l’unica verità trascendente e le varie filosofie ( cfr. la Storia della filosofia). È Mathieu stesso a riconoscere la scomodità di questa prospettiva, che comporta uno sforzo continuo, un continuo impegno e il rischio di fallimento: Dire che l’essere profondo è definito, ma non di una definitezza oggettiva, che si lasci formulare, implica l’impossibilità di trovare l’essere di fronte a sé, bell’e fatto,e di prenderne atto con una semplice constatazione.  Qui si rivela appunto la distanza, la profondità metafisica, che è compito dell’esistenza superare. “Essere” viene ad indicare non più uno stato, ma un compito: il compito di esprimere, nelle forme esteriori, un nucleo profondo, e di dare così un senso all’oggettività ( cfr. Per una cultura dell’essere). In questa apertura al rischio, allo sforzo continuo sta anche il senso della libertà dell’uomo, di cui la filosofia non può fornire una definizione, ma può mostrare la “dialettica” ( cfr. Dialettica della libertà).

 

 

La filosofia e le sue forme

 

Dovendo parlare della concezione della filosofia come attività ermeneutica, sarà meglio cominciare esponendo le idee di Mathieu sulla filosofia e la storia della filosofia, prendendo in considerazione i suoi volumi di Storia della Filosofia ed il volumetto Temi e problemi della filosofia contemporanea ( Roma, 1971).  Chiedere “che cos’è la filosofia?”significa per Mathieu domandarsi quale senso abbia la filosofia dopo la nascita della scienza moderna, se, oltre all’esistenza di fatto di un sapere filosofico, la filosofia abbia anche il “diritto” di porsi accanto alla scienza, come un sapere diverso e al tempo stesso complementare ad essa. Innanzi tutto, abbiamo già visto come l’oggetto della filosofia sia qualcosa di qualitativamente differente dall’oggetto delle altre scienze, anzi , parlando con rigore, se il carattere della scienza è proprio l’oggettività ( vedi sopra), ciò cui la filosofia di rivolge esula dal campo proprio dell’oggettività. Detto in altri termini, se ogni scienza può riferirsi in almeno due modi al suo oggetto , parlandone o mostrandolo, la filosofia non gode di questo privilegio. Il filosofo non può mostrare in natura gli oggetti intorno a cui verte propriamente il suo discorso. E, anche se muove da cose o operazioni che si incontrano nella concreta esperienza, non vuole presentarvele semplicemente come dati di fatto: vuole farvi percepire un loro senso più profondo.

D’altronde, i fatti d’esperienza sono già tutti oggetto di una qualche scienza particolare, sicché la filosofia non troverebbe un campo esclusivo in cui lavorare; però, non c’è dato d’esperienza che non possa fornire da spunto per considerazioni filosofiche.  L’oggetto cui veramente mira il filosofo si trova al di là dell’esperienza immediata, per questo egli non può indicarlo se non indirettamente, attraverso il suo stesso discorso.

Ci si può chiedere, inoltre, se i quesiti propri della filosofia non trovino una soluzione più adeguata nelle risposte della scienza. Il problema è che le ragioni indicate dalla scienza non sono mai ragioni ultime, perché la scienza muove sempre da un dato o da un’ipotesi, per mostrare la dipendenza di un dato dall’altro. Ma un dato primo e definitivo da cui partire, non c’è. Quindi le scienze non risolveranno mai tutti i problemi, o, per meglio dire, non risolveranno mai i problemi sotto tutti gli aspetti. La filosofia sussiste accanto alla scienza, come una ricerca che si giustifica di per sé, perché, nonostante la conoscenza scientifica, rimarrà sempre un fondo di enigmaticità circa le ragioni prime e gli scopi ultimi. Ancora, è lecito domandarsi: “può la filosofia fornire una risposta alle questioni ultime?” Se si intende solo il tipo di risposta proprio della scienza ( una risposta che fruisce di una certa utilizzabilità), la risposta è sicuramente: “no”.  La filosofia, per Mathieu, ha innanzi tutto una funzione critica, che si esercita anche sul sapere scientifico. La filosofia, anche se non accresce il sapere scientifico quantitativamente, gli dà tuttavia un altro senso. Senza la filosofia, il sapere degenererebbe, per ignoranza dei propri limiti qualitativi. Oltre a questo, però, la filosofia ha anche una funzione fortemente positiva. Come potrebbe la filosofia chiarire sempre meglio all’uomo che nell’esistenza c’è qualcosa da capire, se essa in qualche modo non approfondisse il senso dell’esistenza? Il compito della filosofia è dunque far emergere dall’esperienza il senso complessivo dell’esistere, scoprendo nell’esistenza un’enigmaticità che nessuna scienza potrà mai chiarire: Il “risultato” della filosofia non è quindi un risultato pratico: è piuttosto un “far risultare” all’uomo il senso dell’esistenza” . Emerge chiaramente in questi passi la preferenza di Mathieu per un metodo “fenomenologico” non nel senso husserliano , bensì hegeliano del termine: la fenomenologia hegeliana fa emergere dai fenomeni, presi nella loro singolarità, un senso non afferrabile fuori del fenomeno stesso…qualcosa che non può stare per conto suo, di fronte alla mente, ma solo emergere dal fenomeno come il suo senso ( che , appunto perciò, ha bisogno del fenomeno per mostrarsi”). Di questo metodo sono esemplificazione anche i saggi fenomenologici di Mathieu, come La speranza nella rivoluzione ( 1972), da cui è tratta l’ultima citazione.

Il senso dell’esistenza, che la filosofia ha il compito di “far risultare”, non “consta” al filosofo nello stesso modo in cui “consta” un fatto, e neppure nel modo in cui si può verificare una legge scientifica. Anche le parole che lo esprimono, dunque, non possono presentarlo come si indica un oggetto: sebbene la riflessione filosofica lo faccia emergere dall’esperienza, esso non è un dato d’esperienza. Ciò non toglie che la filosofia disponga di una propria tecnica. Solo, dice Mathieu, occorre fare attenzione per non confondere la tecnica propria di ogni filosofia col suo senso.  Strutture e procedimenti dimostrativi sono solo mezzi, strumenti per giunger a qualcosa che è al di là della tecnica …e che, appunto per questo, è chiamata con la parola “senso”: senso delle cose, del mondo, dell’esistenza.  Occorre anche una particolare “sensibilità” per coglierlo; e lo studio della filosofia ha come scopo ultimo non di fornire certe nozioni, bensì di sviluppare questa capacità, insita potenzialmente in ognuno.

Questo punto di vista permette di rendere ragione dello scandalo, suscitato in molti, filosofi e non, dalle opinioni divergenti dei vari filosofi nel corso della storia del pensiero. Lo scandalo nasce dall’aver scambiato indebitamente i mezzi con i fini, ossia lo strumento concettuale, che varia da un filosofo all’altro ( soprattutto nel pensiero contemporaneo) per la “verità” medesima, che è identica in tutti: sicché è sembrato che i filosofi dicessero ciascuno una cosa diversa, quando in realtà, dicevano-o, meglio, cercavano di dire- tutti una stessa verità, attraverso infinite prospettive diverse. La filosofia si mostra capace di verità universali, ma esprimere verità universali ( capire il senso delle cose) non significa enunciare certe proprietà o certe connessioni di fatto tra le cose, quindi non c’è da scandalizzarsi se i filosofi affrontano un tal compito per mezzo di costruzioni diverse. Il paragone di Mathieu è con l’esperienza artistica : ars una, species mille.

La verità che la filosofia intende fornire, non può trovare nel nostro discorso un’espressione perfettamente adeguata. Se ciò fosse possibile, non sarebbe ammissibile enunciare intorno ad essa tante proposizioni diverse…il discorso potrebbe, al più, diventar molto lungo; potrebbe anche allungarsi indefinitamente, se i filosofi che si succedono via via aggiungessero ciascuno un nuovo particolare…ma tutti questi particolari apparterrebbero a un medesimo sistema …e ciascuno costituirebbe la parte di un tutto, sommabile con le altre.  Una filosofia siffatta sarebbe indistinguibile dalla scienza, il cui procedimento è rispecchiato perfettamente dalla descrizione riportata sopra.  Le filosofie, invece, non si sommano in un unico sistema, non sono parti di un tutto, ma ambiscono piuttosto a rappresentare ciascuna un tutto, perché, anche quando si fermano su un particolare solo, ciascuna ce lo presenta da un punto di vista tutto suo, che non si lascia sommare agli altri. Ciò induce a sostenere che il modo d’essere della filosofia sia qualcosa di radicalmente diverso: la verità filosofica non si lascia dividere in parti, ma c’è tutta in ciascuna filosofia, sebbene a volte accada che l’una la esprima meglio dell’altra. Ciò implica anche che nessuna filosofia, per quanto contenga in sé “tutta” la verità, abbia l’esclusiva su di essa, ossia implichi il rifiuto di altre forme che esprimano in modo diverso quella stessa verità. Questo perché le forme del nostro discorso non potranno mai esprimere in modo pienamente adeguato e definitivo la verità: una forma può essere più o meno appropriata, senza mai esaurire il suo contenuto, ossia la “verità”. Le costruzioni del nostro pensiero e del nostro discorso sono in un modo diverso da quello in cui la verità (filosofica) è. In ultima analisi il modo d’essere della filosofia ci conduce al problema che, in un’ottica heideggeriana, potremmo chiamare della “differenza ontologica”. Teologicamente parlando, il senso ultimo della realtà si presenta solo per speculum et in aenigmate. La ragione che rende inevitabile ( e desiderabile) una pluralità di filosofie è la trascendenza della verità: la verità trascende le forme in cui la filosofia la esprime; ha un essere che non si colloca direttamente nel nostro discorso, ma se ne lascia adombrare.

Se i filosofi non possono dare alla verità una forma che le sia propria, da dove traggono quelle forme ( concettuali) di cui si servono? Se le inventano? Certo, una componente inventiva non può mancare al filosofo, come del resto non manca allo scienziato. Non per questo, però, ogni invenzione equivale ad una filosofia, solo un’invenzione che miri a rivelare la verità può considerarsi attinente all’attività filosofica. L’efficacia rivelativi non è propria della scienza, la quale coglie l’oggetto sotto il riguardo dell’operabilità e verifica ( rende vera) l’esattezza delle proprie concezioni per mezzo di operazioni effettive. Le forme operative…ci permettono di far nostra la realtà ( l’oggetto della scienza è , per Mathieu come per Heidegger, “ciò che è a portata di mano”), ma non in tutte le sue dimensioni, bensì in quella soltanto su cui può far presa la nostra operazione. Dunque, la molteplicità irriducibile delle filosofie non distrugge la verità, ma la porta al suo livello, superiore a quello delle forme discorsive in cui è espressa. Noi non padroneggiamo questo livello della verità come se fosse nostro, non è a portata di mano, come l’oggetto della scienza, ma questo non vuol dire che non vi sia rapporto con la verità: se con la verità non avessimo nessun rapporto, neppure ne sentiremmo il bisogno. Dunque, la stessa insoddisfazione verso i risultati raggiunti, che ci spinge a cercare sempre di nuovo, è un indizio che la filosofia non ha fallito il suo scopo, ma, anzi, lo ha realizzato. Essa ha stabilito un rapporto con la verità.

 

 

 

 

L’ermeneutica

 

 

Abbiamo visto come, per Mathieu, il senso genuino della filosofia non stia nel possesso del sapere (giacché il tipo di sapere proprio del filosofo non può essere un nostro possesso), ma nell’aspirare “socraticamente” alla verità. Il modello socratico-platonico della filosofia come amore per un sapere che non è in nostro possesso, è esplicitamente contrapposto alla pretesa hegeliana di fare filosofia dal punto di vista dell’Assoluto: noi filosofiamo appunto perché non siamo l’assoluto, non ne possediamo la scienza, ma siamo mossi da un’aspirazione verso l’assoluto, grazie a cui l’assoluto ci si rivela in forme sempre nuove, mai adeguate una volta per tutte.

Alla base di questo discorso c’è quella che si potrebbe chiamare, in linguaggio esistenzialistico, la finitudine dell’uomo e, in linguaggio teologico, la sua natura creaturale. E questa è qualcosa di molto più enigmatico del semplice “esser finiti”: è un esser finiti in rapporto a un infinito (da L’uomo animale ermeneutico, da cui sono tratte tutte le citazioni che seguono).In questa situazione l’uomo, oltre ad essere un animale che pensa, è un animale che fa pensare (quaestio mihi factus sum), e per questo un animale ermeneutico: esige e sviluppa un’interpretazione della propria natura o del proprio modo d’essere.

La riflessione sull’ermeneutica si impone come una riflessione sul linguaggio, perché “interpretare” reca in sé la radice pret di phrazein: interpretare significa “inserire il linguaggio” tra l’uomo e qualsiasi ente con cui l’uomo si trovi in un rapporto umano. La riflessione ermeneutica diventa anche una riflessione filosofica su ogni attività umana (dall’arte al diritto). La lingua è indispensabile non solo per la comunicazione con altri uomini, ma anche nel rapporto con la natura inanimata. Per conoscere il mondo e per adoperare le cose l’umanità deve servirsi di una certa lingua che, nelle scienze, diviene lingua matematica. Schematizzando, Mathieu costruisce un quadrato con al centro l’uomo: dall’alto scende la dipendenza da Dio. Verso destra l’uomo entra in rapporto con altri uomini. A sinistra e al di sotto si riferisce alla natura animata e inanimata, per conoscerla e adoperarla.  In tutti questi casi è indispensabile un’interpretazione linguistica, perché la lingua non può essere espunta da nessuna di queste relazioni. Perché la lingua è così importante? Lo è – risponde Mathieu- perché rende possibile l’attuarsi di un’essenza (quella dell’uomo), la cui esistenza è, per un verso, del tutto interiore e, per l’altro, consiste tuttavia solo in rapporti con l’esterno.  Quella che si può chiamare la “relazionalità interna” dell’uomo deve necessariamente, per non chiudersi nel solipsismo, esternarsi, ossia essere “esposta”. La lingua è l’unico mezzo con cui un ente, che manifesta un mondo chiuso in se stesso, può raggiunger una comunicazione indiretta con altri enti. Essa dunque è condizione dell’esistenza stessa del soggetto umano; e, essendo un mezzo di collegamento indiretto, deve in ogni caso venire interpretata.

In tutte le forme fondamentali dell’attività umana, comprese nello schema proposto, viene inserito un discorso tra il soggetto e l’oggetto, o tra un soggetto e l’altro. In tutte è necessaria un’interpretazione, ossia l’inserimento della lingua. L’effetto di questo inserimento è l’emergere di un senso, sviluppato dall’interpretazione. Mathieu mette in evidenza come la condizione dell’ascolto del discorso, di qualsiasi discorso, sia sostanzialmente simile a quella dell’obbedire. Obbedire ad un discorso significa essere persuasi, assoggettarsi a un certo influsso che differisce profondamente da un effetto fisico (costrizione esterna), perché nella persuasione non si è passivi (solo chi è libero può persuadersi). Diverso, dunque, l’ascoltare dall’obbedire passivamente. L’ascolto è un effetto di tipo particolare a cui solo un essere libero è sottoposto. Non si tratta, dunque, di un’obbedienza meccanica, che non richiederebbe interpretazione alcuna, bensì di un caso in cui tra la formula della prescrizione e il contenuto dell’operazione, non sussiste una corrispondenza automatica. Il senso va esplicitato, questo è il compito ermeneutico, che impegna la libertà dell’interprete.  La fedeltà al senso non consiste in una scelta tra alternative preesistenti, bensì un processo che ha un aspetto “creativo”. La massima fedeltà coincide, dunque, con la suprema libertà. E ciò chiama in causa il problema della fedeltà al vero, come problema di una interpretazione che non è, né corrispondenza meccanica, né presa di posizione arbitraria.

Gli esempi possibili sono molti. Il credente è libero solo nella misura in cui obbedisce fedelmente alla parola di Dio, così come l’artista è libero quando obbedisce al senso genuino della sua opera. In entrambi i casi, non si tratta di un’obbedienza estrinseca a regole date. Apparentemente diverso sembra il dialogo tra uomini su questioni pratiche, in cui le parole hanno un significato convenzionale, conosciuto in anticipo, grazie a cui l’esattezza della comprensione può essere controllata operativamente. Anche qui, però, ogni interlocutore deve innanzitutto capire l’intenzione dell’altro: l’intenzione è espressa con parole, ma non coincide in nessun caso con le parole. Il contenuto genuino di un’asserzione non si offre all’interlocutore come un oggetto, perché tra il contenuto della comunicazione ed il mezzo che lo comunica sussiste una differenza ontologica: differenza ontologica e non ontica, spiega Mathieu, perché non è possibile sostituire la parola con la cosa comunicata (ossia con l’intenzione), poiché quest’ultima esiste solo nel mezzo di comunicazione. In luogo della parola “sedia”si può bensì indicare o additare una sedia, perché tra il suono della parola e la cosa sussiste una differenza ontica. Per contro la differenza tra la verità divina e le espressioni che la rivelano è ontologica e, di conseguenza, la comunicazione è intrinsecamente linguistica. Anche in un senso strettamente teologico, il Padre si manifesta solo attraverso il Figlio e cioè la parola.

Uno spettacolo, un dipinto, una poesia, un edificio non comunicano solo suoni, colori, rapporti di peso etc., e neppure il semplice “significato” delle parole e delle immagini, bensì il senso dell’insieme. Che cos’è questo senso? Quando non si sia capita del tutto la frase del parlante, gli si domanda: “In che senso?”. In altri termini: con quale intenzione hai usato queste parole? Ma il senso si può indicare, di nuovo, solo con altre parole. In contrasto col significato inteso come una cosa, il senso può venire svelato (e velato) solo come intenzione, mediante parole. Non è possibile sostituire qui ad una parola la cosa designata, perché la differenza è ontologica: l’intenzione non si lascia cogliere fuori dell’enunciato. Il modo d’essere del senso non è lo stesso che quello dell’enunciato, appartengono a due diversi livelli ontologici e, pertanto, sono si possono collocare l’uno accanto all’altro, come fossero due cose. Essi sono la medesima cosa, collocata tuttavia su due diversi piani ontologici, tra i quali solo l’intenzione linguistica getta un ponte. Per questo, Mathieu sottolinea l’importanza del giudizio riflettente in tutti i campi dell’attività ermeneutica: in casi come questo, un giudizio determinante sarebbe impossibile, perché manca l’universale dato, perché l’universale (il senso) non è una cosa accanto alle altre cose (sebbene avente una generalità maggiore). L’immagine che meglio rappresenta l’ermeneutica è, dunque, il ponte tra due sponde (a patto che ci si attenga agli evidenti limiti della metafora): La lingua attraversa dunque una differenza ontologica e getta un ponte tra due sponde. Il senso è sempre “in cammino verso la lingua”; e l’interpretazione è sempre alla ricerca di un senso. 

Il linguaggio, qui, non va inteso in senso puramente “naturalistico” (il linguaggio non è la parola), altrimenti non si capirebbe il legame che Mathieu vede, ad es., tra filosofia, teologia ed esperienza artistica. L’esempio più eloquente è proprio l’opera d’arte. L’intenzione, come senso dell’opera, che non è l’intenzione “psicologica” dell’artista, coincide con la cosiddetta “ispirazione” (parola che ha a che fare anche con l’ambito teologico): l’artista deve arguire il senso dell’opera che non ha ancora eseguita, ascoltarlo e obbedirgli, per incarnarlo in un corpo sensibile. In questo processo, se esso ha da riuscire, ogni arbitrio va escluso. L’artista deve interpretare fedelmente l’ispirazione; e anche chi fruisce più tardi della sua opera deve fare lo stesso. Il pittore dipinge senza parlare, ma egli è capace di parlare: tra il sentimento e l’esecuzione si muove il suo pensiero che, anche se non usa parole, è sempre discorsivo.

L’artista interpreta un’ispirazione che, fino a quel punto, non ha ancora preso forma: qualcosa di non ancora conosciuto agisce sul suo animo come una sollecitazione, senza ancora che egli sappia che cosa gli si chiede: eppure tale sollecitazione è così precisa da respingere ogni interpretazione inadeguata (verrebbe da dire, veritas est index sui et falsi). Come può dunque questa cosa sconosciuta fornire indicazioni così precise, benché non formulate? Non si può dare una spiegazione concettuale di questo fenomeno (se la creazione fosse spiegabile non sarebbe più tale), perciò Mathieu parla di una causa ontologica (di contro a una causa fisica, psicologica, etc.): è lo stesso essere dell’opera d’arte quello che fornisce quelle indicazioni, implicite e misteriose…ciò mostra che una stessa entità può possedere due modi d’essere molto lontani tra loro: l’uno oggettivato, l’altro non oggettivato…l’entità non ancora oggettiva decide da sé quale corpo debba avere. Ciò che ispira, che spesso viene personificato in una divinità, non è tuttavia un “dato”: non perché sia vago (è anzi precisissimo), bensì al contrario, perché è sovradeterminato rispetto ad ogni dato.

Nell’essere come tale, infatti, ogni singola determinazione coesiste con ogni altra senza mescolanza e senza esclusione reciproca. Qualcosa di analogo agli intelligibili nel nous plotiniano: Mathieu non fa affatto mistero di essere risalito, attraverso pensatori più o meno consapevolmente “neoplatonici” (Bergson, Schopenauer, Leibniz) , al senso genuino della filosofia di Plotino (si veda Perché leggere Plotino): una filosofia “inattuale” ma che Mathieu ritiene fondamentale per comprendere anche il nostro tempo.

L’unità dell’essere contiene tutto, non solo ciò che è contenuto in una determinata opera, ma il senso di un’opera d’arte designa appunto un’entità che ha già subito un’individuazione incoativa. E ciò che mette in moto (nei rari casi che noi ascriviamo al “genio”) tale individuazione dell’essere rimane celato…ma l’effetto di tale individuazione si trova davanti a noi: è l’unità dell’opera d’arte, il segno che essa ha origine nell’essere. Tale unità non ha una causa “artificiale”, ossia ottenibile da una nostra attività puramente tecnica, per composizione, ma è un’unità incomposta, che viene dall’essere, ossia da ciò su cui non possiamo “mettere le mani”, e appunto perciò non si può influire in alcun modo su di essa. Ha il carattere della “spontaneità”.  Qualcosa di simile avviene per l’unità del vivente (L’unità del vivente è appunto il titolo di un saggio di Mathieu che approfondisce l’argomento).

L’unità non composta dell’opera d’arte attesta l’efficacia di un’attività dell’essere non dominabile e neppure escogitabile da noi: il punto ultimo, a cui la creazione rinvia, è dunque ancor più profondo del senso: è l’essere. Il richiamo di Mathieu è alla figura di Hermes (da cui il termine “ermeneutica”) , che trasporta i doni di Apollo, fornendo un corpo alla spiritualità. La duplicità di Hermes, dio dell’inganno, rappresenta bene il duplice problema dell’interpretazione;da un lato significa che, nel ricevere i doni di Apollo, non siamo passivi: dobbiamo impegnare la nostra attività. In secondo luogo significa che nell’esplicare tale attività possiamo ingannarci (per cui il discorso tradisce l’intenzione, nel doppio senso di “consegnarla” e “falsarla”). Un tale pericolo deriva dal fatto che il percorso tra il senso in statu nascendi e l’opera compiuta non è un tragitto spaziale, perché la distanza non è una differenza ontica, bensì ontologica. Una differenza ontica potrebbe essere coperta con mezzi puramente tecnici: in quanto ontologica, per contro, la differenza può essere superata [ anche se mai “colmata”] solo da un’attività in cui confluiscano la guida dell’essere e l’esercizio delle nostre forze. Ma la guida dell’essere non è una prescrizione esplicita, non è un comando che ci basti obbedire. Per questo l’ermeneutica non è una “tecnica”.Una tecnica è indispensabile, necessaria ma non sufficiente.  Oltre che alla divinità possiamo riferirci alla natura: un processo spontaneo, non padroneggiato da noi, guida il nostro comportamento tecnico. Come è possibile ciò? Non c’è risposta, perché un tale evento non cade sotto la categoria della possibilità…La natura deve guidare la tecnica, perché lo spirito non lo si afferra, né con l’occhio, né con la mano.

 

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