GEORG FRIEDRICH MEIER

 

A cura di Diego Fusaro

 

 

Georg Friedrich Meier (1718-1777) è passato alla storia soprattutto per il suo tentativo di costruire, tramite lo strumentario concettuale proprio dell’Illuminismo, una teoria generale dell’interpretazione. È a quest’obiettivo che egli consacra la sua Ricerca di un’arte generale dell’interpretazione (Versuch einer Allgemeinen Auslegungskunst). In questo scritto ambizioso, Meier si propone di presentare la teoria dell’interpretazione come una parte di una più ampia semiotica generale, vale a dire di una dottrina dei segni. In questa teoria, la nozione di “segno” indica per Meier un “mezzo tramite cui può venir conosciuta la realtà di un’altra cosa”. Egli segue la tradizionale suddivisione dei segni in “naturali”, “arbitrari” e “artificiali” e, in virtù di tale distinzione, distingue a sua volta nell’ars interpretandi tre parti: di queste, soltanto la terza parte – la hermeneutica significatu strictiori – è intesa come “la scienza delle regole che devono essere osservate qualora si voglia conoscere il senso sulla base del discorso, ed esporlo agli altri”. Anche il linguaggio è inteso da Meier come un insieme di segni, nella fattispecie di “segni artificiali”: per questo motivo, il linguaggio può essere decifrato sia in rapporto alla cosa che per mezzo di esso viene designata, sia in rapporto all’intenzione che lo ha posto in essere, vale a dire alla volontà dell’autore, il quale viene dunque ad assumere un rilievo decisivo (e Meier rivela in ciò l’influenza della “equità ermeneutica” già tematizzata da Wolff). Che cos’è, in concreto, l’equità ermeneutica? Lo si può capire solo se si tiene a mente che per Meier il significato di un segno diventa rilevante soltanto quando esprime una precisa volontà dell’autore. E Meier fonda questo principio sulla metafisica di Leibniz, sostenendo che: “in questo mondo, poiché esso è il migliore di quelli possibili, si realizza la massima e più universale connessione logica possibile. Perciò ogni porzione di realtà in questo mondo può essere un segno naturale immediato o mediato, lontano o vicino, di ogni altra porzione di realtà”. Quest’idea sarà ripresa dal Romanticismo sotto forma di “simbolica universale”. Meier la pone al servizio della conoscenza di Dio, giacché ogni segno naturale deve essere inteso come “prodotto dall’azione divina e quindi conseguenza della scelta più saggia e della migliore volontà”. L’interpreta sarà dunque chiamato a considerare veri quei significati che più concordano “con la perfezione dell’autore dei segni”. Occorrerà allora seguire attentamente una vera e propria “reverentia erga Deum hermeneutica”, che costituisce la forma più alta del principio di “equità ermeneutica”. Anche di fronte ad altri autori l’interprete deve considerare veri dal punto di vista ermeneutico i significati che più corrispondono alle perfezioni della conoscenza e della volontà dell’autore dei segni”. L’interprete dovrà allora sempre essere in grado di conoscere le “perfezioni” dell’autore dei segni, che Meier individua nel seguente modo: in primis, la fecondità della sua mente, in forza della quale “egli usa soltanto segni fecondi”; in secondo luogo, la grandezza dell’animo, la veridicità, la profondità, l’attitudine a usare segni gravidi di utilità pratica. Assai importante, e degno di essere sottolineato, è il problema del “pregiudizio” (Vorurteil), ampiamente sviluppato da Meier in sede ermeneutica. Con le sue riflessioni si sviluppa un modo differente di considerare il pregiudizio: soprattutto nei suoi Beyträge zu der Lehre von den Vorurtheilen des menschlichen Geschlechts (Contributi alla dottrina dei pregiudizi del genere umano). Egli inaugura, in questo modo, quella rielaborazione dei pregiudizi che Verità e metodo (1960) di Hans-Georg Gadamer porterà a compimento. Benché Meier riconosca il dovere da parte di ogni persona istruita di scoprire la verità mediante il Selbstdenken (letteralmente: “pensare da sé”, cioè “autonomia di pensiero”), tuttavia accetta l’inevitabilità di alcuni dei nostri pregiudizi, dato che non possiamo, in ogni preciso momento, sottoporre tutta la nostra conoscenza al tipo di critica richiesta proprio dal Selbstdenken. La riflessione meieriana sui pregiudizi assume toni antropologici e al proposito è rinvenibile un’intonazione da manifesto nel §2 dei Contributi nella parte in cui recita: “l’utilità della dottrina generale dei pregiudizi del genere umano consiste dunque in ciò: mediante essa si può far luce sulla conoscenza della natura umana in generale meglio di quanto non sia possibile fare in sua assenza”. Nell’articolare la sua sottile argomentazione, l’autore individua un punto di svolta nel §15 relativo al pregiudizio fondamentale della conoscenza empirica in base al quale “si suppone che le nostre sensazioni ci rappresentino la qualità e la quantità degli oggetti delle nostre sensazioni” di modo che “ognuno denomina gli oggetti sulla base della qualità delle sensazioni che ne ha”. Questa individuazione di un tale pregiudizio ha indubbiamente esercitato un’influenza decisiva sull’elaborazione della dottrina kantiana delle antinomie della ragione e dei fondamenti del criticismo in generale. Va senz’altro ascritto a merito di Meier l’aver posto in essere una vera e propria “riabilitazione del pregiudizio” ante litteram, cercando di eliminare ogni dualismo mediante l’impostazione di un concetto generale di pregiudizio che è parimenti riscontrabile nella conoscenza comune come in quella erudita e dichiarando apertamente nel §48: ”spero tuttavia di dimostrare a sufficienza che spesso è assai ragionevole risparmiarsi quella coscienziosità senza cui nessun pregiudizio potrebbe essere evitato, e lasciarsi quindi andare in qualche caso alla precipitazione, cadendo vittima del pregiudizio”.

 


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