CORSO DI FILOSOFIA TEORETICA

 

 

A cura di Methusela

A.A. 2002/2003

Prof. Mario Ruggenini

 

 

Modulo I : Le parole della metafisica moderna

Modulo II : La metafisica della morte di Dio

 

 

I modulo: LE PAROLE DELLA METAFISICA MODERNA

 

L’uomo è al mondo come uomo in quanto parla, e il suo discorso permette di instaurare relazioni con gli altri uomini e interrogare insieme il mondo a cui tutti appartengono. L’esistere dell’uomo è dunque stare in colloquio con gli altri, l’esistenza è logos (nella sua molteplicità di significati).

Il linguaggio filosofico, pur essendo uno dei tanti linguaggi possibili, è spesso tacciato di complessità e inconclusività, a partire dalla Sofistica percepita come degenerazione del discorso, in realtà da intendere come vera rivelazione dell’importanza del linguaggio. Parlando si interpreta, e non ci sono verità che non siano verità interpretabili. Le parole sono tali solo se si aprono al discorso, e conducono il parlante all’interpretazione.

Tali concetti sono introdotti dalla riflessione moderna sull’IO, quando la metafisica si rende conto dell’ineliminabilità del Soggetto, che nel suo dar forma al mondo è la realizzazione del formarsi del mondo. L’uomo è apertura al mondo, ma ancora unilateralmente: noi siamo aperti in quanto il mondo si apre a noi, semplicemente siamo, perché sappiamo di non essere al principio della nostra esistenza.

Vi sono tre momenti distinti in cui le parole della filosofia sono qui analizzate (durante la storia le parole cambiano significato e importanza): l’antichità greca, la cristianità, il mondo moderno.

Essere è per i greci einai, per i latini esse. I primi ignorano il concetto teologico della creazione dal nulla, perché non concepiscono affatto il nulla, e presentano l’essere come qualcosa di uniforme, il bene di Platone, il primo motore, che hanno la funzione di ordinare il mondo. I latini cristiani invece considerano l’essere da una parte creatore dall’altro ente creato, appunto da un principio assoluto che fa essere qualsiasi ente differente da se stesso come prodotto dal nulla, agendo liberamente.

Il mondo non è l’ente di tutti gli enti, né un ente accanto agli altri enti, esso è differenza, quadro di riferimento all’interno del quale i fenomeni si presentano; esso è ordine solo relativamente alla rivelazione che realizza di sé nell’esserci degli uomini. La reinterpretazione del sostanzialismo e del soggettivismo portano alla contemporanea tematica della differenza, secondo cui (Heidegger) il termine ontologico si deve abbandonare, e l’essere deve essere pensato come tale, non riducendolo all’ente. Infatti la comparsa con Kant della cosa in sé, presuppone una nuova terminologia, che indichi qualcosa che non è un fenomeno, ma che non può essere quel nulla chiamato ni-ente dalla teologia cristiana. L’esperienza che noi abbiamo del mondo è sempre integrata di sensibilità e intelletto, è sempre innervata di interpretazioni, è un’esperienza di significati inafferrabili. Già in Leibniz vediamo come la monade racchiuda in sé tutto il mondo, essendo misura di realtà di tutte le cose; noi ci comprendiamo a partire dal mondo, che ci viene incontro sollecitandoci, esso è un mondo evento, liberato dalla metafisica della cosa.

Logos è una parola greca che presenta molteplici significati, poi tradotta nel latino ratio, sebbene i due termini presentino in generale un riferimento al piano discorsivo nel primo caso e scientifico, calcolatorio e rigido nel secondo, individuando già così la rottura tra le due tradizioni, che individuavano entrambe la natura dell’uomo nel logos/ratio.

Anche il termine trascendenza ha polivalenza semantica: in teologia indica la separatezza dal Dio creatore, assoluto e immutabile, autosufficiente e da cui dipende ogni realtà; l’uomo è l’unico essere dotato di parola, che partecipa alla trascendenza divina per mezzo della rivelazione, che è ascolto della parola stessa di Dio, rimanendo soggiacente a questo. Per trascendente intendiamo ciò che è al di là dell’esperienza, che è il principio di essa. Per trascendentale intendiamo con Kant, ciò che ha a che fare con gli oggetti non determinati, e che è condizione dell’esperienza del determinato.

Il Soggetto è a somiglianza di Dio per grazia divina (non dimenticando che il rapporto con la rivelazione divina è accolto dalla parola umana), in questo modo l’uomo partecipa alla trascendenza, è la creatura relativamente più vicina a Dio. Con l’Umanesimo l’uomo diventa delegato di questa trascendenza divina dandole il nome, dimostrandolo (in antichità dare il nome equivaleva ad essere padre). L’uomo non è più natura come lo era insieme al divino in Grecia (dove il rapporto uomo/Dio non era un rapporto di separazione ontologica), egli è partecipe della trascendenza di Dio, che ha la potenza di far si che tutto sia niente. Quindi sono individuati due piani ontologici, anzi tre: natura, uomo, Dio. L’uomo si potenzia infatti come Soggetto perché emerge dalla natura e le si contrappone volendola dominare (dimostrando la sua vicinanza a Dio), essa è sdivinizzata, e Dio trascende ogni realtà, pur restando immanente in quanto creatore. Cartesio metterà in discussione tale concezione avanzando l’ipotesi di una messa in discussione di Dio stesso, con il dubbio metodico attraverso il quale l’IO si interroga circa il proprio rapporto con la realtà, partendo da quel fondamentum inconcussum che è il cogito, che rende il corpo irrilevante (res cogitans/res extensa); in ogni caso Cartesio definirà Dio buono, cercando ancora una garanzia trascendente, ma presto si avvertirà l’esigenza di eliminare tale garanzia, fino a Nietzsche consapevole che la soggettività distrugge Dio. Il Soggetto finisce nella modernità per rievocare la Sostanza greca, infatti qui lo Spirito è più afferrabile che nella cristianità, e la storia diventa a pieno titolo dell’uomo, partendo da esso e in funzione di esso.

Il Soggetto nasce attraverso il dubbio, impostato come una richiesta di certezza, che poi trova facile risposta nel postulato "ciò che è semplice è anche vero", ma spesso tale postulato è usato come deterrente e possiamo facilmente criticarlo, scorgendo la complessità che invece avvolge il vero. In ogni caso rimane il dubbio come fondamento, Zweifel per Hegel, ovvero disperazione (Verzweiflung), necessaria a creare istante potenti e innovatrici. L’individualizzazione dimostra l’influenza della cristianità, che pone il peccato come universale, ma la salvezza riguarda ciascuno di noi, poi tradotta nella soggettività cartesiana, fondamentum inconcussum.

La Coscienza è sapere di sé, ora esplicato nella filosofia, che non è né scienza naturale né scienza umana, e non può essere apoditticamente certa. La Cum-scientia è etimologicamente "sapere con altri", ma la modernità le dona un significato solipsista, diventando piuttosto concentrazione su di sé, evidenziando che il sapere di sé è con sé, nel senso che si è sempre ripiegati e presenti a se stessi. La Coscienza è ciò che ci è sempre presente (analogamente alla Sostanza greca, che sempre permane), e tale presenza è più forte anche rispetto alla presenza di Dio, che secondo Hegel sta anch’esso nella Coscienza (già per Agostino il mondo è dentro di me).

Vi è dualismo anche tra Soggetto empirico e trascendentale (che risponde alla polarità Esse obiectum/idee/essere in quanto pensato - Esse formale/realtà in sè), l’IO di Cartesio resta mondano ed è quindi minacciato dalla potenza dell’Altro, nella misura in cui è certo di sè. Esso è risolto da Husserl definendo la realtà in sé non è raggiungibile se prima non definiamo cosa sia l’essere per me. L’epochè allora consiste nel levare l’IO empirico dal mondo, e riconoscere l’assolutezza dell’IO trascendentale, Soggetto conoscente (è condizione dell’esperienza, riprendendo la definizione di trascendentale kantiano) e costituente, donatore di Senso, secondo cui l’Altro è Altro perché IO gli conferisco Senso, esso è Coscienza del mondo, e non c’è altra realtà che quella che trova spazio nell’apertura trascendentale della Coscienza. Esso è comunque egoista, perché l’elargizione del Senso è unicamente in funzione della sua autocertificazione. L’IO empirico diviene oggetto dell’IO trascendentale, ma non è detto che questi siano la stessa cosa. Resta il fatto che l’IO assoluto liquida Dio cartesiano garante della conoscenza, la realtà è pura soggettività (non soggettiva). L’IO assoluto è anche caratterizzato dalla storicità, per cui anche se non esperisco direttamente posso dare senso a ciò che hanno esperito gli altri, in ogni momento della storia. L’IO trascendentale non sta nel mondo, ma comprende questo nel proprio potere di Senso, diventa esso stesso mondo, ed è da esso che gli altri soggetti ottengono il loro statuto di Soggetti, instaurando non tanto un dominio dell’IO trascendentale, ma del NOI trascendentali.

L’essere dei Greci e dei Cristiani è un essere-Sostanza (per Tommaso Dio è Sostanza, summum ens, mentre per Heidegger essere non è riducibile all’ente), mentre ora trattiamo una tematica della differenza, che partendo da Kant vuole intendere il Soggetto non più come Sostanza, ma come struttura funzionale fornita dall’intelletto che raccoglie i dati della sensibilità. In questo senso l’esperienza nasce sempre integrata di sensibilità e intelletto, cioè è un’esperienza ermeneutica, secondo cui ciò che è dato è interpretato continuamente. La complessità con cui il mondo si dà a noi presuppone la necessità di isolare le molteplicità per poterle controllare scientificamente. Il mondo non è determinato, e nemmeno l’insieme delle cose determinate, esso è evento, fatto complesso vissuto dal Soggetto responsabile della sua stessa presenza. Noi possiamo comprenderci d’altronde solo a partire dal mondo, che è quell’Altro da cui tutto ci viene e che ci è dato di interpretare, perché esso non si lascia mai cogliere nel suo significato ultimo, non essendo ente, e quindi perdendo la caratteristica del Senso che la modernità gli aveva affibbiato. L’uomo è uomo in quanto si apre al mondo; il mondo è mondo in quanto si apre all’uomo.

La scissione (Entzweiung) è un tema centrale della modernità, e consiste nella separazione dell’uomo dalla natura, la quale diventa oggetto del Soggetto, e ciò di cui il Soggetto dispone, come il corpo è oggetto del pensiero in Cartesio, da cui il Soggetto diventa principio del Senso, e la polarità Soggetto/Oggetto si traduce nel dualismo Senso/Non senso; l’uomo è fondamento di ogni certezza, e la verità è la certezza di sé del Soggetto, secondo il postulato simplex sigillum veri. L’essere è frantumato in Esse formale e Esse obiectum cioè essere in quanto tale che misura la verità delle idee e essere pensato, soggettivizzato: conoscere significa avere idee (innate, avventizie, fattizie) e domandarsi se corrispondono alla realtà, e da qui si scorge il dualismo IO/dubbi, che già Cartesio tentava di risolvere con il concetto del Dio/Sostanza. Il salto già operato dalla cristianità dal divino greco a cui tutti possono partecipare e inteso come pura qualità a cui l’universo tende, al Dio infinito che è essere e dona l’esistenza, è inasprito dalla modernità che contrappone l’IO/spirito coscienza all’OGGETTO/natura corpo sdivinizzato, ovvero la polarizzazione della realtà tra componente spirituale e materiale, esasperata poi dall’assunzione della soggettività dello spirito. Più tardi tale separazione (che evidenzia il non senso della realtà materiale esterna al Soggetto) sarà continuo tentativo di riconciliazione a partire già da Spinoza, in cui res cogitans e res extensa si presentano come modi di realizzazione dell’infinito unico che è la Sostanza (insieme di natura naturans e natura naturata) e dopo con gli idealisti come in Hölderlin "sacra natura sei la stesso in me e fuori di me […] non dev’essere difficile riunire ciò che una volta era unito […] il mondo eternamente uno è scomparso e io mi trovo nella natura estranea che mi apre le braccia […] mi trovo com’ero prima solo, ho profondamente imparato a distinguermi da ciò che mi circonda, ed ora eccomi isolato in questo mondo bello, cacciato dal giardino della natura, inaridito nel giardino del meriggio (scienza), l’uomo è un dio quando sogna, è un mendicante quando riflette"; ma soprattutto con la fenomenizzazione della natura Oggetto, cioè dandole senso perché il Soggetto la produce pensandola, e praticando la scienza (Kant). La domanda sul Senso allora è tipica della modernità, in cui l’IO diventa dominatore e spetta a lui il compito di dare Senso, mentre i greci non si opponevano alla natura, fatta di vita e morte, e i cristiani non si ponevano la domanda, in quanto il Senso è prerogativa di Dio, l’uomo ha senso solo in quanto ens creatum.

La verità si trova già in Parmenide con il nome di aletheia, tradotta da Heidegger con disvelamento, rinviando così a una sorta di rivelazione, comunque passata inosservata a coloro che la utilizzavano. In ogni caso anche i testi sacri parlano di aletheia, e non di veritas latina.

Il desiderio di dominare la natura si traduce nella necessità di verità, che per il Soggetto è il cogito, certezza di sé misurata in termini di evidenza (Cartesio cerca comunque una garanzia trascendente essendo cristiano), che presuppone l’esperienza. Verità e certezza in realtà non si equivalgono perché quest’ultima può essere a volte solo una condizione psicologica, che conduce volentieri all’errore. Ma la certezza di sé della modernità (fondamentum inconcussum = non soggetto a terremoto) fa diventare automaticamente vero ciò di cui il soggetto è autore. Inoltre tale certezza tanto ricercata nasconde un’incertezza costitutiva, concretizzata nel ricorso a un Dio buono, ombra della realtà non soggettiva che ci si contrappone. La certezza assoluta nasconde allora e suscita l’incertezza assoluto: il Soggetto di misura con il caos.

Da queste premesse possiamo individuare almeno quattro paradossi della soggettività:

1° PARADOSSO: il Senso è solo il Senso del Soggetto, a cui si contrappone la natura come caos, ma esso non ha mai abbastanza certezza, il suo donare Senso nasconde la volontà di autocertificarsi, e lo stesso Dio garante della creazione di tale Soggetto misura del Senso, se non Senso stesso, ha tale scopo. Ma in questo senso Dio diventa Oggetto rispetto al Soggetto, e l’IO è l’unica realtà indubitabile, che ha consapevolezza di sé. Ma così anche l’IO deve divenire Oggetto a se stesso, e tale conoscenza è possibile? Il Soggetto rimane uguale se oggettivizzato?

2° PARADOSSO: nella dinamica dell’autocertificazione io so di me nel momento in cui divento oggetto di me stesso, il Soggetto quindi produce se stesso come Oggetto, la riflessione del Soggetto su se stesso è senza fine, la certezza apodittica del Soggetto è sempre più limitata.

3° PARADOSSO: l’IO può essere certo di sé, ma è un IO solipsista, perché la certezza che ha di sé non può essere elargita alle altre soggettività; l’IO non ha pari, nel senso che non ha interlocutori, anche perché il linguaggio è considerato solo un mezzo e non apertura al mondo. Molti tenteranno di ovviare a questo problema: Husserl ponendo gli altri come intersoggetività che l’IO trascendentale (che ha coscienza di sé come coscienza del mondo) dona e può riconoscere; Leibniz ponendo la pluralità delle monadi, che comunque non presentano finestre, presentando tutto dentro se stesse, anche Dio, e dunque ribadendo il paradosso, fino a tapparlo con la presenza di Dio come mediatore nel rapporto con gli altri, evitando il rischio di avere infinite monadi e quindi infinite verità. C’è inoltre la tendenza a considerare gli altri come Coscienze per analogia con il Soggetto, che diventa una sorta di divinità in conflitto con Dio, è il fondamento incontrovertibile. Il linguaggio che prima (e dopo) era visto come punto d’incontro delle molteplicità è ora visto instabile e diffidato, preso in considerazione solo dopo l’acquisizione della verità solipsistica.

4° PARADOSSO: la Coscienza diventa il riferimento del mondo ma non ha mondo, ovvero l’acosmismo della soggettività. È così risolto il dualismo tra l’essere pensato e l’essere in sé. Per Husserl tutto è IO, la Coscienza è il mondo stesso. La verità come certezza appartiene a un IO solipsista e acosmico, è un IO dell’idealismo, per cui la verità è nell’intelletto e non nelle cose, e la Coscienza non ha più un mondo da incontrare come alterità.

 

1) l’assoluta certezza di sé produce l’incertezza

assoluta, per cui si ricorre a un Dio rassicurante, garante e funzionale

    1. il Soggetto si produce come Oggetto, ma la certezza apodittica del
    2. Soggetto è limitata e la domanda è condotta all’infinito

    3. problematica dell’IO solipsista e dell’intersoggettività, l’IO empirico è
    4. contrapposto all’IO trascendentale

    5. l’acosmismo dimostra che il mondo è tutto del Soggetto, è un suo

prodotto; la verità è assunta come certezza, di cui Dio rimane il solo

garante, risponde alla necessità di Senso, annunciando la sua stessa fine,

a vantaggio della ragione

 

RUGGENINI – IL DISCORSO DELL’ALTRO

 

CAPITOLO I

  1. Il discorso della filosofia nasce dalla meraviglia iniziale (per così dire dell’ignorante) per risolversi nella meraviglia finale contraria (del sapiente), che si presenta come un nuovo interrogativo. La meraviglia diventa quindi l’elemento fondamentale della speculazione filosofica. Si parla in termini di possibilità della meraviglia, quindi si individua una mancanza costitutiva dell’uomo, un desiderio costante che muove alla ricerca di altro, senza mai essere completamente soddisfatto.
  2. La filosofia è il discorso dell’uomo all’uomo, solo in quanto è prima di tutto discorso dell’altro. In questo senso l’uomo esiste in relazione all’altro, ovvero al mondo a cui è aperto: con ciò l’Essere trova fondamento della sua esistenza nel mondo, il quale è anche limite del poter essere, perché mai può condurre alla risoluzione dell’interrogazione filosofica.

    La ragione dell’esistenza sta nell’evento del mondo, quindi al di là di ogni ragione.

    Il discorso dell’altro si fa discorso di uomini, e attraverso questo si individua la finitezza costitutiva dell’essere umano proprio in relazione all’assolutezza dell’altro. L’esistenza dell’essere è soltanto il segno di altro, in quanto è il luogo in cui si annuncia l’apertura del mondo, per poter essere interpretata nella sua differenza con ogni realtà determinata, e per poter poi essere rigettata nell’enigma. Forse la morte contiene l’estrema rivelazione nella sua funzione consapevolizzante.

  3. La connessione tra il tema della meraviglia e quello della morte è dato dal pensiero della differenza. Con ciò nasce un’ermeneutica della finitezza, che concepisce l’esistenza in relazione all’altro, relazione messa in luce dalla morte. La finitezza va qui intesa non come il limite che separa l’uomo dalla verità, ma come escludente l’idea di una verità assoluta (Dio metafisico), per accogliere la dimensione mondana di questa. Tale verità è una verità finita, scaturente dal colloquio delle esistenze. Essa non è assoluta, ma è verità-evento inafferrabile e aperta. È una verità che non sta fissa in alcun intelletto trascendente, ed esclude l’ortodossia metafisica.
  4. Non si tratta di relativismo, perché nel colloquio non sono gli uomini a fare la verità, ma è questa che si fa nelle loro parole e li fa esistere. La tecnica del colloquio è un’ermeneutica della differenza, perché essa intuisce la verità della differenza del mondo, assumendo la finitezza come presupposto per una decisione, e abbandonando ogni ipotesi di trasparenza e conclusione del vero. La finitezza è la condizione che destina le esistenze a parlare insieme e le fa capaci di verità in quanto le apre al mondo; non c’è verità che non sia da cercare attraverso le incertezze.
  5. La pluralità del vero è necessaria e non legittima qualsiasi opinione relativisticamente, ma richiede l’adesione di ciascuna alla misura di verità decisa nel colloquio. Essa conduce al paradosso del pensiero finito, che non può mancare di rendere conto alla verità interrogatrice della sua finitezza, incompletezza e quindi reinterpretabilità. La verità è incontrata come differenza al limite della propria finitezza. Il pensiero della finitezza non persegue alcuna ideale filosofia del dialogo, è piuttosto impegnato a indicare la necessità di ciascuno di parlare e pensare in confronto agli altri per la forza della verità. L’ermeneutica della finitezza rivendica il carattere mondano di ogni discorso, non in senso empirista o positivista, ma in quanto sostiene l’apertura dell’esistenza al mondo come evento-differenza, che si apre attraverso il linguaggio. La verità finita non esclude la verità assoluta, è solo dimostrazione della necessità del discorso.

 

 

CAPITOLO II

 

  1. Con Nietzsche a filosofia moderna prende un carattere di leggerezza, che permette di vedere tutto dall’alto, in antitesi alla pesantezza causata dalla fede. Il superuomo però, facendosi creatore e protettore della sua creatura, diventa esso stesso in un certo modo vittima della sua azione creatrice, attiva cioè un incatenamento reattivo. Occorre distruggere incessantemente per creare sempre di nuovo.
  2. La fine della modernità rivela l’esistenza di un limite oltre il quale la filosofia cessa di essere rimedio (pharmakon), e diventa peso che grava sulla vita. Ma forse essa nasce sia dal terrore, ansia, sia dalla meraviglia indicata da Platone, suscitata dall’esperienza dell’enigma. Chi si lascia afferrare dalla filosofia capita allora di scoprire nuovi orizzonti e interrogativi, essa allora è contemporaneamente farmaco che sana e che ferisce (pharmakon significa anche veleno). Il caso di Teeteto illustra bene il pathos del filosofo, che si smarrisce davanti all’indecidibile ma è anche incantato da questo, si sente compreso nel mistero che interroga, e così vicino alla morte come rivelazione del mistero di cui l’anima è il segno. L’esperienza dell’enigmatica morte è così all’origine della filosofia, che nella filosofia contemporanea rappresenta lo scacco insormontabile della volontà di dare senso all’esistenza. Lo stupore metafisico è dunque inseparabile dalla coscienza della morte. Schopenhauer sospende la negatività della volontà di vivere e quindi solleva l’esistenza dal terrore, così riesce a vedere la morte privata di ogni mistero e di ogni meraviglia, essa diventa un non evento, un vuoto, nel cui nulla il pensiero può forse cogliere il segreto della finitezza dell’esistenza. Socrate prende le distanze dalla pretesa di conoscenza dei più, e afferma la differenza della filosofia, che sa di non sapere e per questo è obbligata alla necessità di domandare. La morte è il sigillo ineludibile della finitezza dell’esistenza e quindi ne custodisce il segreto. La filosofia è dunque ciò che deve esperire la finitezza, attraverso la meraviglia e l’interrogazione.
  3. La filosofia, proprio nella sua ricerca dell’ente come totalità, come desiderio di un sapere assoluto, si pone come pensiero della finitezza, sancisce un limite che l’uomo non può oltrepassare. Già Platone separa l’essere dal mondo dei fenomeni, e individua così l’alterità rispetto al finito, che nei greci è la divinità, che misura l’esistere mondano dell’uomo. E’ sancita dunque l’inseparabilità del pensiero del finito dal pensiero dell’alterità, questione poi occultata dalla cristianità, per cui Dio non ha ontologicamente bisogno del mondo. Alterità e finito sono necessariamente in relazione, perché l’alterità è ragione del finito, e a sua volta il finito è la rivelazione dell’alterità che lo fa essere. L’alterità non è identificabile con l’assoluto o con l’infinito, è vicina all’essere di Platone, e seppur facendoci essere non è. Infatti essa avviene all’esistenza che si apre al suo avvento, le è del tutto prossima, ma paradossalmente non si lascia raggiungere.
  4. Cartesio è il padre del nichilismo moderno con il suo dualismo senso-non senso, è da lui che inizia la crisi a cui Nietzsche tenterà di rispondere decidendo a favore del senso, e finalmente la questione della filosofia moderna si fa la questione del senso. Dietro questa scelta si nasconde la pretesa della soggettività di misurare il senso di tutte le cose. Esso è infatti la conferma che l’Io trova per il suo essere, la verità che autocertifica il soggetto, e la remunerazione in virtù di una nuova capacità di volere. Si ha qui l’uscita dalla Verzweiflung, dalla disperazione indotta dal dubbio iperbolico, dall’oscillazione continua tra senso e non senso, cioè dall’insicurezza che accompagna l’Io del cogito (1° PARADOSSO). L’esigenza fondamentale soggettivistica è giustificare la realtà di fronte al tribunale del senso. Ma la soggettività non cerca altro che se stessa attraverso la richiesta del senso, quindi non l’essere come tale, seppur questo garantisca la soggettività stessa, essendo l’in-sé di fronte al quale la Coscienza si riconosce come niente. Questo essere in-sé però non ha più senso, il senso l’ha solo l’essere che si apre al soggetto e grazie al quale il soggetto si può accertare. Nella modernità la soggettività si esprime come potere di adesione alla realtà, cui dà forma in funzione del proprio dominio, che si instaura grazie alla scissione stessa. Una seconda linea individua una superiorità morale dell’uomo sulla natura, che diventa estranea e priva di senso, sulla base dei presupposti della teologia cristiana.
  5. L’incontro tra gli uomini e le cose avviene nel mondo, in virtù della messa in comune dei significati. Ma quindi il mondo come tale non ha senso, perché non è una cosa più grande, è ingiustificabile. Il mondo è semplicemente l’aperto in cui siamo tutti. Noi parliamo nel mondo, dal mondo, ma non del mondo, se non degli eventi di cui facciamo esperienza. Il mondo è in quanto si apre, è l’evento; le cose hanno senso solo in relazione all’interpretazione che suscita nelle esistenze. Dal mondo non è possibile risalire ad alcun principio, perché il mondo stesso è principio, ma non un ente supremo, bensì l’apertura in cui ci troviamo in eterno. Il mondo inteso dunque come differenza non dà ragione di sé, è semplicemente, si produce come mondo, si dà.
  6. Il mondo come differenza sospende ogni pretesa di giustificazione o valutazione del suo essere, il mondo è eterno, e va pensato al di là delle contrapposizioni tra essere e nulla, in un senso parmenideo che si limita a dire e pensare soltanto che è. L’essere parmenideo non implica separatezza, è ingenerato e imperituro, in quanto sottratto all’avvicendarsi delle cose, che possono avvenire tuttavia soltanto in esso e da esso. Nasce così l’idea paradossale di un essere al di là della contrapposizione metafisica al nulla: il mondo non è né una cosa né la totalità delle cose, in questo senso non è, o è ni-ente, da cui però tutto proviene. Da qui il differire della differenza, cioè il farsi da parte del mondo che non può mai farsi avanti come cosa. Il mondo più che bastare a se stesso, si sottrae a qualsiasi calcolo o ragionamento. Come in Eraclito l’essere è senza principio e senza fine, ingiustificabile e non creato.
  7. L’apertura del mondo è la molteplicità dei rapporti tra esistenza e cose, ciò che per l’esistenza è possibile le viene dal mondo a cui appartiene. L’alterità del mondo è dunque la misura dell’esistenza finita, che è essa stessa evento del mondo, che a sua volta è in quanto avviene all’esistenza. In questo legame si nasconde la finitezza del mondo stesso. L’eterno è ora inteso come cioè che è al di fuori dello spazio e del tempo. Discorrendo gli uni con gli altri gli uomini parlano sempre di altro, poiché da altro hanno ricevuto la loro destinazione a parlare, e quindi i parlanti sono segno della differenza, la custodiscono.
  8. L’esistenza finita, posta per destino di fronte alla morte, non ha più nulla da dire, perché questa non è interpretabile, è l’alterità come tale, insostenibile. Morire significa esaurire lo spazio dell’assenza che l’alterità ci ha offerto per vivere. Ma la morte di ciascuno continua a parlare, attraverso le esistenze che sopravvivono, perché chi muore non muore mai solo a se stesso, per il carattere interesistenziale dell’esistenza. Il mistero allora l’uomo lo può incontrare solo al limite del suo essere al mondo, ma anch’esso risulta finito, perché inseparabile dalla finitezza a cui si rivela, sebbene sottratto da ogni analogia con il fenomenico quindi anche a ogni spiegazione che necessariamente fa uso di termini mondani.

  9. Ciò che pesa sulla finitezza è il limite che ovunque essa incontra, e che l’attende nella morte. La metafisica dunque sogna la leggerezza, voltandosi di fronte alla desolazione della vita terrena, anelando alla restituzione di un’integrità. Ma Nietzsche, riproponendo una fedeltà alla terra, riporta l’esistenza sulla terra e la rende così grave, messa alla prova dall’aspra esperienza della mondanità, inquietante della meraviglia di fronte all’enigma. Tutto ora si presenta come ambivalente, facendo segno verso l’alterità invalutabile, al di là del bene e del male. La filosofia della finitezza allora si caratterizza come l’ironia che pensa la libertà del finito, avvertendo che essa prima di tutto assume i propri limiti come fondamenta dell’apertura dell’esistenza al mondo. Comporta dunque la sospensione ironica del bisogno di liberarsene per raggiungere l’assoluto pieno di verità. La terra a cui aderisce l’esistenza finita è anche abitata dall’alterità, che non trova sede altrove, e rivela così la natura ambivalente del pharmakon: rivela all’esistenza la terra che abita, per incontrare l’alterità che la costituisce, la quale a sua volta la rigetta nel suo destino terreno.

 

 

CAPITOLO III

  1. Per Heidegger il pensiero filosofico è l’autentico pensare, perché pretende costituzionalmente il pensiero dell’essenza, o pensiero essenziale, autolegittimandosi, ma anche pretendendo una garanzia da ciò che non è filosofico, e in un certo senso le è subalterno. La finitezza dell’esistenza alla base dell’interrogazione filosofica non toglie che il carattere di questo domandare sia ancora rivolto all’assoluto. La funzione del filosofo è così profetica, giustificando la sua presenza nel mondo della tecnica, annunciando la condizione di bisogno di chi non avverte più alcun bisogno.
  2. La filosofia così intesa da Heidegger non è stata liberata dal pensiero ironico che nasce dall’esperienza della finitezza (riconoscimento dei propri limiti), capace di sospettare l’ambivalenza che accompagna il pensiero più radicale. L’esperienza della finitezza legittima ogni interrogazione dell’essere, ed è ciò che muove ma a cui ritorna il radicalismo costitutivo della filosofia. Diversamente da Heidegger la filosofia assume l’insuperabilità del suo limite come condizione del proprio domandare, essa è sì un ostacolo da scavalcare, ma anche una misura a cui tornare incessantemente.
  3. Ciò che contraddistingue il fondamentalismo metafisico dal radicalismo filosofico è il pensiero infinito, contro il pensiero finito del finito. L’ironia dimostra il rapporto necessario con l’alterità, e non l’impossibilità di un rapporto con l’assoluto. L’assoluto annullerebbe il finito, e questo è tale in quanto è limitato da altro, che gli si rivela restando altro. Questo altro non è infinito o assoluto, ma è solo altro in virtù della relazione con il finito: l’alterità è l’evento di tale relazione.

    L’ironia del pensiero della finitezza dimostra come la verità non possa più essere concepita come assoluta, ma come verità dell’esistenza, che si svela nel linguaggio-apertura del mondo.

    Quando l’idealismo classico voleva rispondere alla perdita di un essere in sé e di una verità separata poneva la certezza e il possesso dell’assoluto, trovando nell’infinito la verità del finito. La verità dell’esistenza è in realtà insuperabile e fissa l’orizzonte di ogni speculazione. L’assoluto è la condanna del finito alla caducità, considerato errore e male.

    Pensare oltre l’assoluto non significa aver di fronte l’immediatezza della finitezza quotidiana, ma pensare la relazione dell’alterità.

  4. La verità della finitezza, il rapporto tra l’esistenza e l’alterità, è paradossale. L’esperienza dell’alterità nasconde lo svuotamento metafisico della finitezza, e la verità è ciò che misura il limite dell’esistenza, disegnando confini sempre incerti e configurandosi come la verità del pensiero.
  5. Questa circolarità si può scavalcare delineando una filosofia come rivelazione dell’essere, essere da pensare prima che da dire, che vede il pensiero come rivelazione originaria, pensiero essenziale, incompatibile con il pensiero della finitezza (metafisica classica). D’altra parte essa si può anche assumere ironicamente, senza inseguire un principio assoluto, con la consapevolezza di potersi muovere solo tra le parole, tra l’altro ambigue e contaminate dalle parole di altre esperienze (poesia, religione, quotidianità); la verità così si configura come verità della filosofia, che non può concepirsi come unica e autentica, perché non proviene dall’esperienza metafisica dell’assoluto, ma dall’evento dell’alterità. La filosofia è solo una risposta, che deriva dalla frequentazione delle differenze, dall’incontro con gli altri che ugualmente esperiscono la differenza, pur convenendo di essere finiti. La verità della filosofia è la relazione della finitezza.

    L’unità come differenza si moltiplica nelle esistenze che suscita, nelle loro pratiche di vita e linguaggio, tenendole assieme; l’alterità rispetto al finito è il tenersi insieme delle differenze nell’aperto del mondo: la differenza è l’aperto del mondo. Questa forza che raccoglie le cose non è l’ente supremo, è piuttosto il ni-ente, che fa differire le cose collegandole, rendendole possibili di esperienza. Ciascuno diventa se stesso parlando con altri per trovare la propria differenza; è l’unità del colloquio che rivela la differenza dagli altri, destino di ogni uomo.

  6. La filosofia della finitezza vive la tensione tra la propria verità e quella altrui, non potendo ripristinare la propria superiorità metafisica, e nemmeno abbandonarsi al relativismo di chi non trova più verità. L’esperienza della verità viene così trasformata per la fedeltà del pensiero alla sua finitezza. Il sapere-domandare della filosofia è anche il costante difetto di conclusioni assolute, è un sapere inconclusivo che domanda dell’essenziale, ovvero dell’altro di cui si può solo conoscere la definizione, ma che nasconde un indeterminato irraggiungibile. Socrate si affaccia su tale indeterminato domandando intorno al limite costitutivo di ogni esperienza, delineando così l’esperienza dell’incontornabile, che ogni esperienza rivela, mentre ne viene limitata. La filosofia è dunque desiderio dell’alterità, essa interroga l’impensato, per rivelare l’essenziale di ogni essenza determinata.
  7. La verità si rivela in molti modi all’esistenza finita, e la filosofia è soltanto una certa esperienza dell’alterità. Il rapporto con l’impensato è per essa costitutivo, ma ciò non deve costituire motivo di eccellenza sulle altre esperienze, in quanto la verità svelata sarà ancora verità per se stessa. L’autenticità che la filosofia ha sempre voluto rivendicare, perde la sua importanza di fronte all’inautenticità di ogni esperienza, perché nessuna dispone di sé in perfetta appropriatezza.

  8. L’altro attende la dominazione del poeta, del profeta, del filosofo, dunque ha bisogno di parole differenti che dicano lo stesso. La filosofia rinvia la finitezza all’alterità indicibile, essa inventa l’alterità, la trova anche grazie alle parole di altre esperienze portate a colloquio, da cui scaturisce l’impossibilità di una traduzione adeguata da un discorso all’altro, così vale il paradosso radicale per cui diverse esperienze della finitezza dell’esistenza possono parlare insieme solo a patto di non intendersi mai compiutamente: lo ‘stesso’ convoca gli interlocutori in discorso per farli differire.
  9. La verità resta verità dell’esperienza prima che della filosofia, a cui questa offre soltanto l’accoglienza e la tutela delle proprie fomande. Le parole della filosofia sono parole del dialogos attraverso cui ogni esistenza si confronta col proprio destino, dando vita al colloquio delle esistenze, da cui il filosofo prende spunto per porre le sue domande.

 

 

CAPITOLO VI

  1. L’esistenza è l’evento dell’altro, dove per esistenza intendiamo il trovarsi nel mondo dell’essere il cui destino è fare questione intorno al proprio essere. Secondo Heidegger solo l’uomo esiste, ma ciò non significa che solo l’uomo è realmente un ente, ma esso è quell’ente il cui essere è caratterizzato dallo stare-dentro aperto nella sveltezza dell’essere. In questo modo egli assegna l’uomo alla finitezza che costituisce il suo essere, piuttosto che elevarlo al di sopra degli altri enti. Le differenze tra gli enti così individuate non sono di ordine gerarchico, ma sono da intendere nella prospettiva della differenza che le evoca. L’esistenza è finitezza in quanto rapporto ad altro che si sottrae al suo potere, alla volontà di inappellabilità. L’alterità invade l’esistenza e non si lascia comprendere, l’esistenza è evento dell’altro. per pensare l’essere dell’uomo occorre pensare l’essere come tale.
  2. La finitezza è da intendere non come isolamento, ma come relazione tra esistenza e altro da essa. L’uomo è per altro, poiché è da altro, la sua finitezza è apertura, desiderio dell’altro di cui manca, per cui solo egli esiste nello spazio di un’assenza incalcolabile.

    Il bisogno della filosofia è quello di trovare la ragione del finito in altro, cosa che tenta di fare presumendo di poter pensare il finito a partire dall’infinito, per una necessità di certezza, minacciata dall’incessante fluire della vita, che fissa in Dio il principio e la fine.

    In epoca moderna la ragione umana potenzia così al massimo il controllo sulla realtà, anche nei confronti di Dio, che deve essere dimostrato dalla pura ragione.

  3. Solo al di là della metafisica l’altro può rivelarsi come l’irrefutabile, e così non può essere raggiunto da nessuna questione posta dalla ragione naturale. Solo nel rapporto irrefutabile con l’alterità l’uomo avverte che il suo essere esiste, nonostante l’alterità non dia ragione a questa esistenza, d’altra parte l’uomo in quanto esistenza è il luogo in cui l’essere del mondo si produce come mistero.
  4. Il destino tragico della finitezza è l’enigma della sua libertà, perché l’uomo esiste al cospetto della morte, sicuro di non avere possibilità di riscatto, ma anche senza giustificazione per questo. Ossia la finitezza mortale dell’esistenza non è condanna, ma libertà, come mistero che apre l’uomo alla libertà. Resta da capire se questa relazione necessita dimostrazione o l’uomo sa di sé da sempre. Di sicuro il rapporto con l’altro è innegabile e fonte di ogni pensiero.

  5. Dall’alterità proviene un vero e proprio appello a esistere, attraverso le parole che provengono dagli altri. Chi si ferma a riflettere sull’appartenenza dell’esistenza al linguaggio si renderà conto della dipendenza irrefutabile da altro. Il colloquio si fa così evento dell’alterità, perché è l’evento del linguaggio a cui i parlanti appartengono, ma di cui nessuno dispone (se si tratta di colloqui sulle ragioni dell’esistenza). Si ha un’eteronomia degli interlocutori, tra cui nessuno detiene in modo esclusivo la parola. Per ogni uomo esistere è, in qualsiasi modo essere in colloquio con altri in virtù dell’evento del linguaggio, ed è questo il colloquio a cui ci stiamo riferendo. Anche un solitario vivrà di parole che hanno risuonato nel mondo, e queste saranno in rapporto con altre parole, quindi di fronte ad interlocutori noti o ignoti.
  6. Il linguaggio a cui ci riferiamo non è un a priori linguistico universale, non è lo strumento in dotazione specifica all’uomo, ma è secondo la definizione greca del vivente che ha il logos, ciò che getta luce sulla natura enigmatica dell’uomo, ciò da cui si parte per concepire l’essere umano. L’uomo si può trovare nel linguaggio e non viceversa, e questo è un fenomeno inapparente, cioè altro dai fenomeni determinati, in quanto unico evento che si produce in una molteplicità di linguaggi. Il linguaggio si piega alle intenzioni dei parlanti, ma non vi è télos, perfezione ideale che possa dirsi immutabile e sebbene il linguaggio ci renda familiari le cose, questo nasconde la possibilità di percorsi ancora intentati.

  7. L’appartenenza dell’esistenza al linguaggio è dunque la sua esposizione a un destino. L’uomo è gettato nel mondo, in quanto si trova da sempre tra parole già dette che gli indicano le vie per le sue esperienze. Esistere significa trovarsi in una certa situazione di linguaggio, legata alle parole intese, e in rapporto con altri linguaggi, che rivelano il proprio che ha da essere.
  8. Nessuno è io semplicemente, né per se stesso, né per gli altri. Non vi è auto-presenza che non implichi la rivelazione dell’apertura ali altri e che questi sono altri io. Le certezze (dolore, sentimenti) mi separano dagli altri, e il loro stesso senso è una forma di relazione che risulta da un esse io-con-altri-io originaria. Ciò che ha tolto l’originale rapporto con gli altri è la perdita del mondo come luogo concreto di confronto con gli altri; la relazione delle esistenze è il loro essere insieme a partire dalla differenza del mondo, evento allora che rivela la molteplicità delle differenze. Questa relazione mondano è il linguaggio, infatti ogni uomo esiste come tale in quanto parla e da parlante va incontro alla morte come mistero del suo essere finito.

  9. Nel colloquio delle esistenze l’io non è più cosa (come secondo la concezione di res cogitans), perché non è, ma risponde. L’io non è a partire da se stesso, ma viene alla responsabilità a cui l’altro lo chiama in colloquio; cioè il principio dell’io è l’alterità a cui l’uomo deve di esistere. In quest’ottica dell’eteroposizione dell’esistenza viene oltrepassato l’antropocentrismo.

L’esistenza è in quanto in essa si produce l’evento dell’altro che al contempo se ne sta nascosto, pertanto non si può pensare l’assolutezza dell’altro. Il segreto dell’io è nella responsabilità di fronte all’altro, a cui non si può sottrarre, sebbene l’alterità sia l’origine di cui l’io non può mancare.

Se si prescinde l’esistenza dal colloquio, l’io diventa feticcio della certezza di sé, di una verità che tende a inglobare tutto ciò che si annuncia come altro; si tratta quindi dell’Io assoluto, che non ha più bisogno di parlare con gli altri. L’io invece non è né sostanza né sapere di sé. La misura del proprio essere si trova nella verità del colloquio, che non appartiene a nessuno, e quindi nessuno ha diritto di dichiararsi ‘io’. La sostanza etica del colloquio è allora questo rispondersi reciproco degli interlocutori, che permette di dichiararsi un ‘io’, riconoscendo gli altri come tali.

LEIBNIZ – MONADOLOGIA

 

La Monadologia si presenta come discorso sulla Monade, o sui Principi della filosofia (di chiaro impianto cartesiano). Essa è un’indagine sulla struttura ontologica di tutto ciò che esiste, e prende la Monade come base concettuale conoscibile (prima era individuata nella Sostanza cartesiana, a cui essa si rifà). Le monadi sono di vari tipi: entelechie, anime e spiriti, e nascono e muoiono solo per decreto divino. Esse sono caratterizzate da incorporeità, indivisibilità e spiritualità. Esse sono sostanze semplici, perché sappiamo che esistono sostanze composte, che sono aggregati di semplici. La monade è sempre un’entità incorporea unita a qualcosa di corporeo, nel tentativo di risolvere il dualismo cartesiano di anima e corpo: questo è però fallito da Leibniz, perché da un lato vi è il corpo come aggregato di mondai, dall’altro sussiste la monade dominante, ossia lo spirito, che ha preminenza sul corpo. La monade non ha porte né finestre, ciò significa che la causalità diretta tra le monadi è impossibile, e ciò porta la problematicità dello statuto dell’accidente: essa potrebbe essere priva di accidenti (ma ciò non è possibile dato il principio degli indiscernibili, altrimenti si giungerebbe alla sostanza unica di Spinoza), oppure potrebbe contenere dalla creazione tutti i suoi accidenti (ed è vero perché il rapporto tra sostanza e accidente è interno alla monade). Ogni monade è in continuo mutamento spontaneo (di pensiero), dunque essa trova in se stessa le ragioni per passare da una percezione all’altra, senza dover ricorrere a Dio. Leibniz è come Cartesio un sostenitore radicale dell’ipotesi del dubbio, e della necessità che il discorso metafisico parata dal principio del soggetto, dunque la sostanza come chiave della filosofia, sempre in rapporto con i suoi accidenti. Come Cartesio Leibniz è costretto però a ricorrere a Dio, per scongiurare l’ipotesi del solipsismo e del sogno perpetuo, che contravverrebbero la saggezza divina; questa inoltre è la causa di quell’armonia prestabilita tra corpo e spirito, sebbene tutto il reale, di cui noi non possiamo percepire la struttura e il limite, sia risolto alla fine in res cogitans, e Dio stesso è assolutamente senza corpo. Inoltre Cartesio si rifaceva a Dio per superare la cesura tra i continui atti di pensiero, dunque la possibile incontinuità della certezza di me; Leibniz risolve tale cesura facendo a meno dell’intervento di Dio (che pur rimane creatore della monade), e rifacendosi al principio interno di movimento delle monadi. È così introdotta la distinzione tra percezioni inconsce e appercezioni sempre coscienti (a cui seguono gli atti riflessivi, perché essa ci permette di concettualizzare); le prime erano state ignorate dai cartesiani, per cui i momenti in cui non si ha coscienza divenivano momenti di morte o inesistenza. Si configura così uno schema di continuo passaggio tra percezioni incoscienti (motori della monade) e coscienti, in sequenze varie. Tale passaggio è infine risolto tutto all’interno della monade, ponendo come oggetto della percezione tutti gli accidenti di una sostanza, che non sono altro che una mia rappresentazione, dunque sempre contenuti all’interno della monade, senza dover ricorrere all’intervento divino. Dunque tutto ciò che rientra nella mia percezione mi costituisce in quanto sostanza; vi saranno rappresentazioni più distinte e altre meno (in base alla vicinanza alla monade), ma ogni monade si rappresenta l’intero universo da un particolare punto di vista, mentre Dio se lo rappresenta da tutti i punti di vista possibili.

Il mondo è tutto ciò che l’Io sostanza è in grado di percepire spazialmente e temporalmente. Esso non può esistere indipendentemente dalle diverse percezioni di ogni singola monade. Dio solo però può avere la nozione completa di mondo, cioè quel concetto che racchiude tutti i predicati possibili di una sostanza; la monade invece potrà rappresentarsi nello spazio ciò che può ricordare e ciò che può anticipare a patto che siano percezioni distinte.

Dio è principio della determinazione della monade. La monade spirito ha la capacità di essere in società con Dio, ma sebbene le sue percezioni progrediscano dal confuso al più distinto, cioè dalla percezione delle cose alla percezione della loro ragione, essa non può mai raggiungere la monade delle monadi. Dio è ragion sufficiente di tutte le cose, perché tra una quantità infinita di mondi possibili egli ha scelto il più conveniente, ossia il migliore (cioè quello con il minor numero di monadi e il maggior numero di fenomeni possibili), sempre in base al principio di non contraddizione. Leibniz risulta dunque ottimista, pur di fronte alle catastrofi del mondo, che fanno anch’esse parte del migliore dei mondi possibili.

Il libero arbitrio viene a mancare affermando l’assolutezza di Dio: tutte le proprietà e l’essere dell’essenza fanno già parte della monade, che non è libera di scegliere altrimenti, pur non sapendolo. La scelta tra i possibili è però presente in Dio, per questo Leibniz parla della presenza del libero arbitrio: solo dopo la creazione tutto è necessario.

La monadologia si presenta come una metafisica del solipsismo, perché il soggetto finisce per essere certo solo della verità si se stesso, e ciascuno è impenetrabile ad altri, il rapporto è sempre mediato da Dio. Ma le diverse rappresentazioni dell’universo significano molte verità sull’uno, che non servono a nulla se non sono comunicate ad altri. Tommaso risolve la questione ponendo la verità come intelletto delle cose, e dunque senza dover ricorrere alla comunicazione; Leibniz risolve invece ponendo la monade delle monadi, e ugualmente ponendo la verità all’interno della monade. Tale diffidenza verso la comunicazione trova le sue origini già in Platone, per cui il linguaggio è relativo e sempre subordinato all’idea. Ma senza linguaggio possiamo ancora affermarci come necessari in questo mondo? (nichilismo).

Definizione della Monade à è una sostanza semplice, che sussiste indipendentemente da qualsiasi altra Monade, tranne che da Dio. Se aggregata crea i Composti. Essendo indivisibile non ha estensione e figura, e costituisce insieme alle altre gli atomi metafisici della Natura. Tutte le Monadi create sono entelechie, avendo in sé una certa perfezione e autosufficienza che le rende automi incorporei.

Il rapporto fra la Monade e Dio à essendo senza parti la Monade può nascere o annullarsi solo per scelta di Dio. Infatti l’anima cambia corpo un po’ per volta e si può parlare di metamorfosi, ma mai di metempsicosi, dato che ogni Monade deve rapportarsi necessariamente a un corpo, se non nel caso di Dio.

Isolamento della Monade à non avendo parti non vi può essere alcun movimento interno, e altresì non esiste rapporto tra le Monadi (non hanno finestre), né in termini di sostanza né di accidente (antifenomenologia). Rimane la necessità che le Monadi abbiano qualità, dato che non differiscono per quantità, dato che non esistono in Natura due esseri uguali (principio degli indiscernibili). Tali qualità e azioni interne sono le percezioni e le appetizioni.

Il rapporto sostanza-accidente à in forza del postulato per cui ogni essere è soggetto a mutamento e dall’isolamento delle Monadi, deriva che il loro movimento dipende da un principio interno, ma tale movimento presuppone una molteplicità nel Semplice, che essendo sprovvisto di parti può presentare pluralità solo di affezioni e relazioni.

Percezione e appercezione à la percezione è lo stato interiore che deriva dalla rappresentazione di ciò che è esterno, e l’appercezione è la coscienza di quello stato (la tendenza a passare da una percezione all’altra), che distingue le anime dalle altre Monadi (nonostante non sia data a tutte le anime), ed è prodotto degli atti riflessivi che consentono di pensare se stessi, pensando nello steso momento Essere, Sostanza, Semplice e Composto, Immateriale e Dio e quindi rende suscettibili di scienza (conoscenza dimostrativa). Il passaggio da una percezione a un’altra è definito appetizione (percezione di cui non si ha coscienza), e costituisce il principio interno alla Monade.

Le piccole percezioni à le entelechie sono le Monadi che hanno solo percezioni, nelle quali però non c’è nulla di distinto, che derivano necessariamente da altre percezioni secondo una catena di causa-effetto, per cui il presente contiene passato e futuro.

Il rapporto fra spiriti e anime à le anime si distinguono dagli spiriti in quanto basano la loro vita sulla memoria, concatenazione che imita la ragione. Per tre quarti delle nostre azioni noi uomini siamo anime, ma ciò che ci fa spiriti è la conoscenza delle verità necessarie ed eterne, la ragione e le scienze. Solo grazie a queste possiamo attuare gli atti riflessivi.

I due principi conoscitivi fondamentali à i ragionamenti si fondano sul principio di non contraddizione e sul principio di ragion sufficiente, individuante una causa, anche se ignota.

Verità razionali e verità di fatto à le verità razionali sono necessarie, innate, piccole percezioni rese chiare dall’esperienza, fondate sul principio di non contraddizione e sul principio di identità (per questo sono principi originari); le verità di fatto sono contingenti (possono non essere), basate sul principio di ragion sufficiente, anche se individuabile dopo molteplici scomposizioni.

Dio come ragione sufficiente à è necessario che la ragion sufficiente sia al di fuori della serie di dettagli delle contingenze, deve dunque essere una Sostanza necessaria, causa eminente (che contiene già l’effetto), chiamata Dio. Esiste dunque un solo Dio, conseguenza dell’Essere possibile, universale e necessario, non suscettibile di limitazioni e contenente tutta la realtà Possibile (non c’è più chora) nella sua massima perfezione (è cioè onnipotente, onnisciente e contiene le Bontà sovrane tra cui anche la Giustizia)= dimostrazione di Dio a posteriori.

Il concetto di perfezione à Dio deve essere allora perfetto, non essendo limitato, e le perfezioni delle creature sono conferite loro da Dio, mentre le loro imperfezioni dipendono solo dall’inerzia naturale dei corpi.

L’argomento ontologico à Dio è fonte delle Esistenze e delle Essenze, nel suo intelletto risiedono le verità eterne sottoforma di idee. Le essenze dunque risiedono in Dio, dal quale dipendono le Esistenze, mentre in lui l’essenza implica l’esistenza (prova ontologica), dunque posta la possibilità del suo Essere, Egli non può non esistere = dimostrazione di Dio a priori. La scelta delle verità contingenti tra le varie possibilità segue il principio del meglio, mentre le verità necessarie costituiscono direttamente l’oggetto interno dell’Intelletto divino, quindi non possono non essere.

Il concetto di azione à la perfezione della Monade è misura delle sue azioni, mentre la sua imperfezione nelle percezioni è causa delle passioni. Una monade agisce su un’altra nel senso che la prima essendo più perfetta è ragione sufficiente a priori di ciò che accade nella più imperfetta. Ma l’influsso tra le monadi è solo ideale, esso ha efficacia infatti solo tramite l’intervento di Dio.

Il migliore dei mondi possibili à ciascun Possibile ha diritto a pretendere l’Esistenza nella misura della sua perfezione, quindi la ragion sufficiente che porta Dio alla creazione è la convenienza, cioè la scelta del migliore dei mondi possibili (in cui c’è la massima varietà con il massimo ordine, e la massima quantità di effetti è prodotta nei modi più semplici).

La Monade specchio dell’universo à ogni sostanza semplice ha dei rapporti che esprimono tutte le altre, facendone uno specchio vivente perpetuo dell’universo. Ogni Monade si prospetta l’universo da un punto di vista diverso.

Natura rappresentativa della Monade à la rappresentazione della Monade tende all’infinito, ma di questo può solo avere percezioni confuse, mentre è possibile distinguere soltanto le cose più vicine o più grandi rispetto a ogni Monade. Per cui ogni entelechia rappresenta più distintamente il corpo che le è assegnato e siccome questo esprime tutto l’universo, anche l’anima lo rappresenta. In questo modo si dimostra che Dio, Monade di tutte le Monadi, può percepire l’intero universo, leggendolo nelle diverse prospettive delle Monadi, perché egli ne è la fonte (tutto gli è presente immediatamente).

Struttura gerarchica delle Monadi à anche nella più piccola porzione di materia vi sono entelechie e anime, che donano vita all’universo, e il caos è solo apparente.

L’armonia prestabilita à anima e corpo seguono ognuno le proprie leggi (la prima secondo le cause finali, il secondo le cause efficienti), ma sono accordati in virtù dell’armonia prestabilita stabilita in precedenza, e non interagiscono tra loro.

Le Monadi che esprimono Dio à gli spiriti oltre ad avere le caratteristiche delle anime, sono anche immagini della Divinità stessa, per cui ogni spirito è una piccola divinità nel suo ambito, capace di produrre e capace di comunione con Dio (dunque attraverso la ragione), creando la sua Città, e proprio grazie a questo avvicinamento gli spiriti sono felici, mai di una suprema felicità (perché Dio non è conoscibile del tutto), ma di una progressione continua di nuovi piaceri e perfezioni.

Ciò che distacca Leibniz da Cartesio è l’unità tra percezioni diverse che rappresenta la Monade. Tale unità è garantita dalla appetizione, ovvero il movimento da uno stato percettivo a un altro, che costituisce una sorta di slancio della rappresentazione, secondo questa struttura:



 

 

 

 

Il rapporto di percezione che Cartesio chiamava Cogito, presupponeva l’azione di Dio come garante della costanza del Soggetto. Leibniz vuole evitare tale intromissione, unificando le diverse percezioni nella Monade. La sua struttura implica che l’Oggetto della conoscenza faccia parte dell’essenza della Monade, per cui il processo conoscitivo è una sorta di autoriflessività, autocertificazione dell’IO. Nasce l’interrogativo se l’Oggetto può essere lo stesso del Soggetto conoscente.

Vi è un principio oggettivo, che vede la Monade come presupposto dell’esistenza, e un principio soggettivo di tipo cartesiano, che spiega la realtà partendo dallo spirito. La Sostanza è ancora una volta il fondamento della filosofia, essa ha bisogno delle altre Sostanze e dei suoi accidenti per essere definita. La necessità di conferire Senso al tutto trova risposta nella linea unificatrice che Leibniz individua nella presenza costante delle Monadi, e nell’armonia prestabilita tra quelle spirituali e quelle materiali. Qui il movimento diviene un postulato e l’eterogeneità della realtà è risolta nella pluralità e nella gerarchia delle Monadi. Con questa visione non è però battuto il solipsismo del Soggetto, e nemmeno la possibilità di vivere in un sogno perpetuo.

Mondo è tutto ciò che l’IO come Sostanza è in grado di percepire, fa parte della mia Essenza. Secondo la logica leibniziana di ogni Sostanza è possibile un concetto che racchiuda tutti i predicati, ed è Dio che può percepire l’estensione massima del mondo. L’Essenza è determinata, ma non si può parlare secondo Leibniz di determinismo, data l’assenza di necessità logica, e la libera azione di Dio nel creare il migliore dei mondi possibili, sulla base della pretesa dei Possibili dell’Esistenza, in proporzione al loro grado di perfezione.

II MODULO

 

MONADOLOGIA

§40: La dimostrazione di Leibniz è circolare, presupponendo in partenza quello che poi deve essere il risultato. La ragione risulta così una potenziale nemica della fede: gli sforzi dimostrativi sanno già che dio c’è.

§41: Ma quando parliamo di un qualcosa che non ha limite, riusciamo ancora a pensarlo? Non è forse vero che qualcosa rimane pensabile fintantoché ha un limite guida?

§42: Quando si dice che le imperfezioni delle creature derivano dalla loro propria natura, non si può fare a meno di domandarsi da dove venga il male; a tale quesito Sant’Agostino rispondeva definendo il male non essere, mentre esso costituirà la più grande prova di Nietzsche contro l’esistenza di dio.

§43-44: Leibniz sottopone dio alla teodicea, termine non nuovo per la filosofia, ovvero processo intentato a dio, cosa poi rifiutata da Kant che non permetterà che dio venga sottoposto al giudizio della ragione. La distinzione tra essenza ed esistenza è tipicamente teologico-cristiana, non c’è nel mondo greco, ed è usata a dire che in dio possibilità ed esistenza coincidono, e l’esistentificazione delle essenze è fatta da dio. L’essenza è totalmente alle dipendenze di dio, nella misura in cui non è altro che la mente di dio, e l’atto creatore è un atto di volontà, che per Leibniz prende il cammino verso una sovranità arbitraria.

§45: Dio non può non esistere una volta che sia possibile, esiste di necessità, senza ombra di nulla. La totale positività significa l’inesistenza di alcuna limitazione. Ma l’idea di qualcosa che non ha limite è forse la più povera delle idee: esiste una realtà che ha tutte le perfezioni? Chi ha detto che il mondo è caduco? Già Eraclito rispondeva a tali questioni affermando che "questo mondo non l’ha fatto nessun dio e nessun uomo, ma era e sarà fuoco di eterna vita. Il mondo non è un artefatto, e l’accostamento di dio all’uomo non sarà conosciuto dalla metafisica moderna, che approfondirà la scissione. Anche Kant ritiene indecidibile che ci debba essere una causa prima. La scissione tra necessario e contingente non è già più greca: per i greci l’essere è, non c’è ombra di non essere nella realtà, se non di quel non essere che è la potenzialità rispetto all’attualità. Quando si cerca di pensare a qualcosa privo di ogni limite si è forse più vicini al nulla buddista, al vuoto della mente, è più un oltrepassamento delle determinazioni, che la completezza di queste: è l’apeiron di Anassimandro. Parlando di finitezza dell’uomo non si può parlare di infinito, poiché è proprio del finito non avere fine, non esserne padrone. Leibniz, togliendo ogni limite arriva al significato pieno, ma questo è un irrealizzare di significato, il quale è svuotato di senso e di determinazione. Per lui siccome non c’è determinazione, non ci può essere contraddizione, ma non c’è contraddizione perché non c’è più significato: non si pensa più a nulla, la ragione non esce dal dissidio.

§46: Le verità eterne seguono il principio di non contraddizione, di identità e i principi dell’ontologia tradizionale. Il principio di non contraddizione è inteso solo secondo un valore logico, esso è in qualche modo l’essere in se stesso di dio, l’incontradditorietà lo definisce. Le verità eterne risultano dunque la mente stessa di dio, mentre le verità contingenti rientrano sotto il principio di ragion sufficiente. Le idee platoniche diventano pensieri di dio, e i possibili di Leibniz.

§47: Leibniz introduce il termine "fulgurazione" per indicare il decidere istantaneo da parte dell’assoluto di ciò che deve essere: creatura vuol dire limitazione, dio è sinonimo di assoluta indeterminazione.

 

PRINCIPI RAZIONALI DELLA NATURA E DELLA GRAZIA

L’angoscia del nulla presenta il dogma cristiano creazionistico per cui il nostro essere di per sé è nulla. Per Leibniz dio da solo decide di creare il mondo ed è limitato soltanto dall’obbligo verso il proprio essere di fare le cose al meglio. Questa idea non ha mai sfiorato il pensiero greco, perché per esso pensare l’essere significa pensare oltre al mutabile anche il mutamento.

§7: Leibniz riporta tutto alla ragione. C’è qualcosa piuttosto che niente perché c’è dio: occorre che ci sia qualcosa di necessario, sottratto al principio della possibilità di non essere.

§8: dio deve portare con sè la ragione della sua esistenza. Si arriva a dio a partire dal guadagno di un essere neutrale chiamato necessario, cosa suprema.

§9: questa semplice sostanza primitiva deve racchiudere in modo immanente le perfezioni contenute nelle sostanze derivate. Ma così dio stesso viene dopo l’uomo, perché i predicati che gli attribuiamo non sono altro che predicati umani, da qui l’antropomorfismo.

§10: il bisogno supremo della ragione è quello di darsi una ragione. Ma questo dio è dio perché è dio, o è dio èerchè sembra darci una ragione di come le cose vanno nel mondo? Si crede in un mistero che non è alla nostra portata, e la pretesa di natura ontologica è semplicemente una proiezione antropologica, un’antropologia mascherata, che svela un bisogno dell’esistenza. Con Nietzsche il superuomo non avrà più bisogno di cercare mondi dietro ai mondi, e ancora con Bonhoeffer non si potrà credere a un dio tappabuchi.

Il dio di Leibniz è limitato rispetto ai compossibili, c’è sicuramente più possibilità che realtà. Esso sembra dire che le cose vanno male, e non c’è nulla da fare. Invece le cose vanno in un modo enigmatico, non comprendiamo la ragione del bene né del male. Forse invece ci vorrebbe un dio al di là del bene e del male, come per Nietzsche, per cui il divino abita l’enigma e non la certezza di rivelazioni presunte.

Dio non può fare un mondo perfetto perché altrimenti riproporrebbe se stesso; l’ha fatto nella sua suprema libertà, nel migliore dei modi possibili. Quando Leibniz dice che tutto ciò che è imperfetto deriva dalla creatura presenta una disonestà intellettuale fondamentale. Forse è proprio la necessità che non si lascia soddisfare la traccia del divino: si è sempre alla ricerca di qualcosa che non si trova mai, e tutto ciò che si lascia dimostrare vuol dire che vale poco.

 

SULL’ORIGINE RADICALE DI TUTTE LE COSE

Ovvero sul pensiero del dio creatore: siamo, ma potevamo non essere. Vi è un progressivo sterminio delle determinazioni, si parla con concetti vuoti, non si arriva da nessuna parte perché essere è una parola che ridotta all’assolutezza non dice proprio nulla. È la contestualizzazione del significato che dà senso alle parole.

KANT

 

Il criticismo che si oppone al dogmatismo, fa della critica lo strumento principale della filosofia, attraverso la quale si giudica, valuta, ci si interroga circa il fondamento delle esperienze umane (Erscheinungen), le loro possibilità, validità e limiti. E questa è propriamente detta una filosofia del limite, o un'ermeneutica della finitudine, che segna il carattere finito o condizionato delle possibilità esistenziali, ma vuole anche garantire entro tale limite la validità. La rinuncia all'evasione del limite non equivale alla rinuncia a fondare la validità delle attività umane, per cui la morale diventa autonoma dalle speculazioni ontologiche ed è affiancata dalla riflessione sull'arte e sul gusto.

La Critica è un'analisi dei fondamenti della scienza e della metafisica, che approda al rifiuto dello scetticismo scientifico, dato che il valore della scienza è un fatto ormai stabilito, ma condivide lo scetticismo metafisico di Hume. Nel caso delle scienze dunque basta domandarsi come siano possibili, nel caso della metafisica bisogna domandarsi se sia possibile come scienza.

Kant si muove da un'ipotesi gnoseologica di fondo: la conoscenza empirica potrebbe essere un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola. Tale ipotesi è dimostrata dai principi immutabili pilastri della scienza quali sono i giudizi sintetici a priori. Questi sono giudizi perché aggiungono un predicato a un soggetto, sintetici perché tale predicato dice qualcosa di nuovo, a priori perché universali e necessari non derivanti dall'esperienza. Ad essi si contrappongono i giudizi analitici a priori (sono universali e necessari, ma non sono fecondi) e i giudizi sintetici a posteriori (sono fecondi grazie all'esperienza quindi non universali e necessari). La scienza è dunque doppiamente feconda perché è somma di esperienza e giudizi sintetici a priori, senza i quali sarebbe un sapere incerto e relativo. Tali giudizi sono anche alla base della metafisica.

La conoscenza è intesa come sintesi di materia e forma, dove per materia si intendono le impressioni sensibili (elemento empirico o a posteriori) e per forma le modalità fisse attraverso cui la mente ordina i dati sensoriali (elemento razionale o a priori). Le forme sono innate, comune a tutti e applicate allo stesso modo, quindi a priori universali e necessarie (sono spazio tempo e le 12 categorie). In questo sta la rivoluzione copernicana operata da Kant: la realtà si modella sulle forme a priori attraverso cui la percepiamo, e vi è una distinzione tra fenomeno (apparenza reale soltanto nel rapporto con il soggetto conoscente) e cosa in sé (inintelligibile, ma necessario correlato del fenomeno).

Ogni nostra conoscenza scaturisce dai sensi, va all'intelletto e finisce nella ragione. La sensibilità è la facoltà con cui gli oggetti ci sono dati intuitivamente attraverso i sensi e tramite le forme a priori di spazio e tempo; l'intelletto è la facoltà attraverso cui pensiamo i dati sensibili tramite concetti puri o categorie; la ragione è la facoltà attraverso cui cerchiamo di spiegare la realtà mediante le idee di anima, mondo, Dio. La Critica della Ragion Pura risulta suddivisa in Dottrina degli elementi (analizza gli elementi formali della conoscenza) a sua volta divisa in estetica trascendentale (studia la sensibilità e le forme di spazio e tempo dimostrando che da essa nasce la matematica), logica trascendentale (analitica studia l'intelletto e le forme a priori su cui si fonda la fisica; dialettica studia la ragione e le tre idee su cui si basa la metafisica); e Dottrina del metodo che analizza l'uso possibile dei dati conoscitivi.

Il termine trascendentale usato da Kant deriva dalla tradizione medievale, e lo connette alle forme a priori. Esso significa qualcosa di universale che precede la conoscenza per esperienza ma la rende anche possibile. Questo qualcosa sarebbero le forme, ma Kant preferisce intendere trascendentali le discipline filosofiche che studiano le forme a priori.

La sensibilità è ricettiva nel senso che accoglie per intuizione i dati della realtà esterna o dell'esperienza interna, ed è anche attiva perché organizza le intuizioni empiriche tramite spazio e tempo (intuizioni pure). Lo spazio è la forma del senso esterno, il tempo è la forma del senso interno, ma indirettamente anche del senso esterno perché ogni cosa è nel tempo, anche se non è nello spazio. Per fare un'esperienza dobbiamo presupporre tali forme (contro l'empirismo), che non possono essere enti a se stanti, perché non potrebbero continuare ad esistere se non vi fossero oggetti (contro l'oggettivismo), ed hanno natura intuitiva e non discorsiva (contro il concettualismo). Esse sono quadri mentali ideali rispetto alle cose in sé, reali rispetto all'esperienza.

Geometria e aritmetica risultano le scienze sintetiche a priori per eccellenza. Esse ampliano le nostre conoscenze mediante costruzioni mentali, e sulla base di teoremi che valgono indipendentemente dall'esperienza. Il loro punto di appoggio sta nelle intuizioni a priori di spazio (geometria) e tempo come successione (aritmetica). Sono applicabili agli oggetti d'esperienza fenomenica perché questa essendo già intuita mediante spazio e tempo presenta una configurazione geometrica e aritmetica.

Nella logica trascendentale l'oggetto d'indagine sono le conoscenze a priori proprie dell'intelletto e della ragione. Nell'analitica trascendentale sono distinte le affezioni (intuizioni) dai concetti (funzioni che ordinano o unificano diverse rappresentazioni). Questi possono essere empirici o puri (contenuti a priori nell'intelletto) ovvero le categorie, cioè i concetti basilari della mente, le supreme funzioni unificatrici dell'intelletto, i predicati primi. Kant formula una tavola completa delle categorie secondo un principio sistematico per cui ci saranno tante categorie quanto sono le modalità di giudizio.

Nella deduzione trascendentale si cerca una giustificazione della legittimità e validità delle categorie. L'unificazione del molteplice deriva dall'attività sintetica dell'intelletto, in base alla suprema unità fondatrice della conoscenza che coincide con il centro mentale unificatore valido per tutti e impersonale che è l'io penso, appercezione o autocoscienza trascendentale. Esso deve poter accompagnare tute le mie rappresentazioni e la sua attività si attua tramite i giudizi che si basano sulle categorie (12 funzioni unificatrici). In questo senso le categorie risultano condizioni della possibilità dell'esperienza e valgono a priori. L'io penso deve sottostare a ogni realtà per divenire oggetto per noi e quindi rende anche possibile le asserzioni universali. Esso non è un io creatore, ed è finito perché si limita ad ordinare la realtà che gli preesiste e senza cui la sua attività conoscitiva non avrebbe senso.

Se poniamo l'influenza dell'intelletto sulla realtà fenomenica tramite le categorie dobbiamo anche individuare un elemento mediatore tra i due termini. L'intelletto dunque agisce sugli oggetti di sensibilità tramite il tempo, che di per sé condiziona gli oggetti. Una categoria tradotta in termini di tempo è uno schema trascendentale (rappresentazione intuitiva di un concetto), ovvero una regola attraverso cui l'intelletto ordina a priori il tempo in conformità ai propri concetti a priori (es. categoria sostanza / schema permanenza nel tempo). Ciò si basa sul presupposto che il tempo agisce sugli oggetti.

Tali regole si identificano quindi con le leggi supreme dell'esperienza e le proposizioni fondamentali scientifiche. Ne esistono 4 corrispondenti ai 4 gruppi di categorie: assiomi di intuizione-categorie di quantità; anticipazioni della percezione-categorie di qualità; analogie dell'esperienza-categorie di relazione; postulati del pensiero empirico in generale-categorie di modalità. Da qui l'io come legislatore della natura, dove distinguiamo natura formale come ordine necessario e universale alla base della natura materiale, insieme di tutti i fenomeni. L'ordine deriva dunque dall'io penso e dalle sue forme a priori, mentre le leggi particolari sono conoscibili solo attraverso l'esperienza. A questo punto è smentito lo scetticismo humiano, essendo l'esperienza condizionata dalle categorie, e dai principi che ne derivano.

La rivoluzione copernicana di Kant pone dunque la mente dell'uomo come garanzia ultima della conoscenza, fondando l'oggettività nella soggettività, ma individuandone anche i limiti tipici di quell'ente finito che è l'uomo. Le categorie possono operare solo in relazione al fenomeno, sintesi di un elemento formale e di uno materiale, quindi non possono trascendere l'esperienza determinata. Il fatto che poniamo un essere che si dà a noi però, costituisce il presupposto di una cosa in sé inconoscibile, il noumeno (realtà pensabile, intelligibile puro), conoscenza extrafenomenica a noi preclusa, al massimo propria di un ipotetica divinità. Il noumeno più che realtà è per noi un concetto limite, che ci tiene sempre presente la non assolutezza della realtà fenomenica.

Il tema della dialettica trascendentale è l'indagine sulla scientificità della metafisica. Già il termine dialettica (logica della parvenza) ci porta alla risposta negativa, dato che la metafisica pecca di ragionamenti fallaci. Essa è un'esigenza naturale dell'uomo, è un parto della ragione, ovvero dell'intelletto portato a voler pensare anche senza dati sensibili. L'innata tendenza all'incondizionato e alla totalità fa leva sulle tre idee trascendentali di anima (idea della totalità dei fenomeni interni), mondo (idea della totalità dei fenomeni esterni), e Dio (totalità di tutte le totalità). Queste per Kant non sono altro che esigenze mentali, che la ragione trasforma in realtà per il suo costitutivo bisogno di oggettivare la conoscenza, non accorgendosi dell'illusione strutturale (Schein). Le scienze che si muovono su queste basi sono la psicologia, la cosmologia e la teologia razionale.

La psicologia razionale è fondata su paralogismi, cioè su ragionamenti errati, che applicano la categoria di sostanza all'io penso, facendolo divenire anima e dimenticando che esso è solo un'unità formale e sconosciuta in quanto io noumenico, contrapposto all'io fenomenico.

La cosmologia razionale fa uso della nozione di mondo come totalità dei fenomeni cosmici, dimenticando che la totalità dell'esperienza non è mai un'esperienza (sensibile); il discorso che ne scaturisce è ricco di antinomie (conflitti della ragione con se stessa) da cui consegue l'aporia.

La teologia razionale presenta Dio come l'ideale della ragion pura, come quel supremo modello personificato di ogni realtà o perfezione, l'ens realissimum, da cui derivano e dipendono tutti gli esseri. Data l'ignoranza riguardo alla sua realtà è necessario dare delle prove della sua esistenza: la prova ontologica formulata da Anselmo afferma la perfezione di Dio, per cui questo non può mancare dell'esistenza, questa prova risulta impossibile e contraddittoria, perché non è possibile saltare dalla logica all'ontologia e l'esistenza non è un predicato; la prova cosmologica da uso del principio di causa per affermare che se qualcosa esiste (e io esisto) deve anche esistere un essere assolutamente necessario, ma per Kant non è possibile connettere fenomeni con enti trans-fenomenici, essa tra l'altro ricade nella prova ontologica facendo coincidere il Necessario con l'idea del perfettissimo; la prova fisico-teologica (o teleologica) individua l'esistenza di una Mente ordinatrice dati l'ordine, la finalità e la bellezza del mondo, questa mente è inoltre creatrice, ricadendo così nella prova cosmologica e infine ontologica, in ogni caso gli attributi riferiti al mondo sono indeterminati e relativi ai nostri parametri mentali per cui anche questa prova è confutata. Kant risulta così agnostico, perché ciò che mette in discussione non è l'esistenza di Dio, ma la sua dimostrabilità razionale.

Le idee della ragion pura, pur non valendo dogmaticamente, varranno problematicamente, cioè avranno un uso regolativo, indirizzando la ricerca intellettuale secondo un'unità sistematica.

La metafisica risulta dunque impossibile come scienza, essendo solo una vana arte dialettica. Kant però propone una nuova metafisica scientifica o critica, come scienza dei principi a priori del conoscere e dell'agire (quindi relativa alla conoscenza della natura e all'azione morale).

 

Il Soggetto è per Kant fondamentale, e il concetto che eredita viene ampliato, rendendolo il centro dell’universo filosofico.

Ciò che Kant intende fare è sospendere il giudizio di scientificità sulla metafisica, chiedendosi appunto se questa possa essere una scienza (cioè un sapere stabile, apodittico e necessario), attraverso domande sulla consistenza del sapere, che risulta essere un’organizzazione di giudizi, operazioni mentali con cui relazioniamo due concetti. Tali giudizi sono poi distinti in base alle relazioni tra i concetti e in base alle prove che li convalidano; sono dunque: giudizi analitici (in cui si chiarisce la terminologia), e giudizi sintetici (derivano dall’unione di più concetti); inoltre essi possono essere a posteriori (derivano dalla sensibilità, esperienza), e a priori (indipendenti dall’esperienza). La scienza deve avere le caratteristiche dei giudizi sintetici a priori (quindi universale, apodittica, necessaria). In questo è presupposto che tutti i giudizi sintetici a priori siano reali perché possibili. Il nostro modo di conoscere dipende da due canali conoscitivi: la sensibilità o recettività (capacità della mente di essere alterata dall’oggetto) e l’intelletto o spontaneità (capacità di interpretare e organizzare le percezioni ma anche gli intelligibili). Entrambi i canali hanno come radice il Soggetto, sono capacità che colgono i fenomeni. Grazie alla recettività abbiamo aritmetica e geometria, applicabili ad ogni oggetto dell’esperienza e possibili come scienze tramite i concetti di spazio e tempo. Questi sono intuizioni a priori (lo spazio è uno solo ed è la forma dei fenomeni esterni; il tempo è una successione – capacità di percepire una serie di elementi – ed è la forma dei fenomeni interni e indirettamente degli esterni). Dunque la scientificità delle scienze più certe è puro soggettivismo. La spontaneità ci permette di formulare ipotesi, sulla base dell’esperienza sensibile, imponendo in questo modo alla natura di rispondere alla Ragione, in vista della crisi della causalità e sostanza introdotta da Hume e dal suo empirismo radicale, che risveglierà Kant dal suo sonno dogmatico.

Le cose dunque hanno Senso solo nella misura in cui lo conferisce il Soggetto, attraverso le categorie, recettività attiva dei fenomeni, che prima colgono intuizioni singole poi le unificano in concetti universali. Con ciò non si delinea una conoscenza puramente soggettiva, infatti l’oggettività è data dall’unificazione in concetti universali, necessari e apoditticamente certi, in base alle categorie comuni a tutti gli uomini.

 

 

 

PROLEGOMENI AD OGNI FUTURA METAFISICA

Parte I e II del problema trascendentale

 

Nessuna parola è in grado di produrre discorso o pensiero da sola, di autodefinirsi: essa è relativa all’ambito del discorso, e proprio quando parliamo delle parole fondamentali intendiamo quelle più semanticamente instabili e inafferrabili. La parola soggetto è una di queste; di essa abbiamo sottolineato la trasformazione che subisce all’interno della modernità, durante la quale si rende capace di sostituirsi alle parole della tradizione, presentandosi come via maestra ai problemi che queste portano con sé. Ma dietro alla stessa parola soggetto si celano termini-dilemmi come libertà, autonomia, uguaglianza, consapevolezza, progresso, razionalità; essa può significare il cogito, io penso, assoluto, volontà, coscienza trascendentale. Il pensiero kantiano rappresenta un tentativo di tenere insieme le istanze fondamentali della modernità facendole orbitare proprio attorno alla sua parola centrale: soggetto.

Kant si muove nel contesto della contesa tra razionalismo ed empirismo. La metaphysica generalis (ontologia) e la metaphysica specialis (questioni metafisiche) di Leibniz e Wolff sono bollate da Kant come dogmatismo; Hume è invece bollato di scetticismo per cui la scienza non è altro che abitudine. Di fronte a questi Kant invita a sospendere il lavoro e domandarsi come sia possibile in generale la metafisica come scienza. Da questa domanda però nasce anche il quesito come sia possibile la scienza in generale e cosa essa sia. Per Kant scientifico è sinonimo di universale e necessario, dall’evidenza apodittica.

I giudizi sono le operazioni elementari di ogni forma di pensiero, sono operazioni mentali in cui si attribuisce un predicato ad un soggetto, cioè relazioni tra rappresentazioni. Essi sono distinti in base alla relazione tra i due concetti in analitici (distinguono gli elementi che compongono un solo concetto) e sintetici (compongono due diversi concetti); i primi chiariscono, i secondi sono alla base del vero sapere. Rispetto all’origine della loro legittimità sono a priori (indipendenti dall’esperienza) e a posteriori (validi in virtù dell’osservazione). Un giudizio per essere scientifico deve essere sintetico e a priori, ossia valido in generale (universale e necessario). La possibilità di tali giudizi è un dato acquisito, si tratta di ricostruire le condizioni di tale possibilità. Prima di tutto essi riguardano le cose nella misura in cui ci sono date, dunque i fenomeni. In secondo luogo per sapere riguardo a una cosa devo esperirla, ma per avere le certezza apodittica che tutte le cose simili hanno le stesse caratteristiche devo sapere a prescindere da ogni particolare esperienza che tali caratteristiche spettano davvero a tutte le cose che posso incontrare, necessariamente. Tali condizioni sono soddisfatte da alcune forme della mente umana che non richiedono dimostrazione, ma solo interpretazione.

La nostra esperienza non abbraccia tutti gli oggetti possibili, e la necessità non è un dato dell’esperienza, eppure possediamo conoscenze universali e apodittiche, dunque queste non riguardano gli oggetti in sé, ma le condizioni entro le quali ci sono dati. L’esperienza sensibile è il prodotto dell’influsso degli oggetti esterni su di noi, e del nostro modo di codificarli (è una codeterminazione); dunque è la nostra costituzione che determina le leggi universali e necessarie (il codice rappresentativo) del presentarsi degli oggetti nell’esperienza. Da qui il postulato della distinzione tra noumeno e fenomeno: possiamo conoscere a priori (e sinteticamente) ciò che non dipende dai particolari oggetti che ci sono dati, ma solo dal nostro modo di rappresentarli, ossia la nostra esperienza non coglie gli oggetti in sé, ma i fenomeni, le cose codificate dalla nostra capacità di ricevere informazioni dall’esterno. La sola alternativa alla conoscenza dell’oggetto mediata è la conoscenza spontanea e immediata della cosa, possibile solo alla mente divina, che conosce le cose producendole. La possibilità della scienza riposa dunque sulla finitezza dell’uomo, come per Platone la filosofia è caratteristica dell’uomo e non del dio (che ha il sapere).

A questo punto Kant considera il codice rappresentativo, ossia le coordinate spazio-temporali. Prima di tutto bisogna distinguere la recettività dei sensi, il cui compito è intuire, dall’intelletto, il cui compito è pensare i concetti, il che non significa produrli (nel caso dell’ente finito). La nostra esperienza sensibile ha due domini, uno esterno e uno interno, lo spazio (forma specifica di tutti i fenomeni esterni) e il tempo (forma specifica dei fenomeni interni e mediatamente di tutti i fenomeni in generale). Questi non sono concetti, ma intuizioni pure, mezzi tramite cui appaiono gli oggetti naturali. Su questi si basano l’aritmetica (fondata sul tempo come successione ordinata d’istanti omogenei) e la geometria (fondata sullo spazio come ambito determinato da leggi a priori).

Di fronte al mistero della precisione della matematica e della geometria Platone e la tradizione rispondono con un atteggiamento realistico nei confronti degli enti matematici (platonismo matematico, che deriva dal concetto greco di verità come determinatezza stabile e autosufficiente), a prescindere dal soggetto conoscente; Kant invece rovescia il concetto di verità e proclama la dipendenza dell’universalità e necessità della conoscenza dal soggetto conoscente. Per cui bisogna interrogarsi sulla struttura e condizioni di possibilità della conoscenza soggettive. Ciò che io so a priori di ogni possibile oggetto d’esperienza, e per cui non mi attendo sorprese da essa, è che il mio apparato ricettivo produrrà sempre una certa raffigurazione fenomenica, sulla base del linguaggio descrittivo di spazio e tempo. La limitazione che questi comportano è che ogni forma di verità a priori riguarderà sempre gli oggetti come fenomeni, e mai come cose in sé. Ma la legittimità della matematica deriva proprio dalla recettività, intesa come capacità della nostra mente di produrre rappresentazioni degli oggetti esterni, a partire dal loro influsso su di noi, attraverso il linguaggio di spazio e tempo.

Kant inoltre vuole provare la possibilità della fisica pura, e per farlo si muove dalla sua concezione di scienziato moderno, come colui che formula ipotesi e le mette alla prova producendo egli stesso le condizioni necessarie, dunque affermando la potenza del soggetto sulla natura, che diventa oggetto, passività. Inoltre egli prende spunto dalle tesi empiriste per cui il concetto metafisico di causalità è privo di legittimità, in quanto l’esperienza non presenta mai legami necessari, ma connessioni di fatto, e la necessità creduta è solo causa dell’abitudine; e la negazione della possibilità di provare l’esistenza della sostanza tradizionalmente intesa (ciò che sostiene i vari predicati), e della sua utilità a livello conoscitivo, al pari dell’inconoscibilità e inutilità delle categorie della metafisica. Kant allora carica sul soggetto il peso delle categorie metafisiche. Esse sono prodotte dall’intelletto, dalla sua capacità di produrre regole (spontaneità), liberamente cioè a partire da se stessi (sebbene le categorie siano valide per tutti e necessariamente). Kant accetta che le categorie non si presentino nell’esperienza come semplicemente commiste ai fenomeni, ma non vuole nemmeno definirle cosa in sé, inconoscibile e irrilevante per la scienza (che ora si occupa dei fenomeni). A differenza di spazio e tempo (intuizioni pure), le categorie sono concetti, ossia rappresentazioni universali pure, ossia rappresentazioni di determinazioni che compaiono nella rappresentazioni di diversi fenomeni, senza tuttavia derivare dall’esperienza. Si aggiunge dunque la distinzione tra giudizi di percezione, operazioni mentali in cui due rappresentazioni sono collegate in una coscienza empirica, per i quali non si può fare scienza, dato che mi limito a riferire ciò che presenta la mia esperienza; e i giudizi d’esperienza, in cui si rileva un nesso universale e necessario tra le rappresentazioni, per cui prescindo dalla mia percezione particolare, dal momento, dal luogo e dall’esemplare esaminato, e posso fare scienza. L’esperienza dunque non è limitata all’ambito del contingente, ogni giudizio è soggettivo, perché fa riferimento alla costituzione del soggetto come condizione trascendentale dell’esperienza (che si differisce da trascendente perché questo connota le determinazioni che non rientrano nell’esperienza, mentre trascendentale connota le condizioni di possibilità di una certa prestazione, il ruolo di certe determinazioni). I modi in cui un giudizio di percezione è trasformato in un giudizio d’esperienza sono proprio le categorie, che sono frutto dell’operare dell’intelletto, il quale sottopone le intuizioni a forme di giudizio universali. A questo punto si è in possesso di una coscienza in generale, che non è altro che la coscienza empirica relativa all’esperienza in generale, cioè considerata possibile per tutti i soggetti. I giudizi sono così oggettivi, perché illustrano determinazioni fenomeniche relative all’esperienza di ogni soggetto, e si differenziano dai giudizi soggettivi che presentano aspetti relativi alla sola percezione di chi li formula.

Dunque ci si chiede come sia possibile la mediazione tra intelletto e sensibilità. Per quanto riguarda i concetti empirici la mediazione è operata dall’immaginazione, che produce un modello quasisensibile dei fenomeni a cui applicare il concetto. Per quanto riguarda invece i concetti puri bisogna ricorrere alla funzione mediatrice del tempo, che obbedisce a regole a priori come le categorie, ma ha anche un lato sensibile essendo forma di tutti i fenomeni; dunque le categorie sono modi di descrivere come si presentano i fenomeni rispetto al tempo (schematismo).

Così si conclude l’analitica trascendentale, rispondendo alla prima domanda con le forme a priori della sensibilità, e alla seconda con le condizioni di possibilità dell’esperienza nelle strutture a priori della sensibilità. Ad essa segue la dialettica trascendentale, in cui si cerca di rispondere al quesito se la metafisica è possibile come scienza.

 

 

 

Parte III del problema trascendentale, conclusione, soluzione, appendice

Il soggetto moderno, proprio in forza della certezza del proprio pensare, chiede i conti all’essere di dio attraverso le varie strategie dimostrative che vengono elaborate. Con Kant però il pensiero chiede i conti a sé stesso riguardo ai propri titoli per poter guadagnare un’affermazione di tanta ambizione semantica. Non è che i metafisici precedenti negassero la possibilità d’errore, ma per Kant la ragione è costitutivamente in errore nel momento in cui si propone i concetti assoluti di anima, mondo e dio (l’assoluto del mondo interiore, del mondo esteriore, di tutti gli assoluti).

Kant si ferma ad una posizione apiretica, alla contraddizione, e non postula che questa possa essere risolta in un piano teoretico (ma in un piano pratico). L’idea di dio che noi abbiamo in mente, non implica la necessità di un qualche ente primo. Dunque Kant se la cava per via postulatoria, assumendo che non ci può non essere dio, altrimenti al vita morale dell’uomo non avrebbe alcun senso. Ma già oltre Hegel egli non ammette l’esito assoluto della ricerca dell’assoluto della ragione umana. Quale oggetto di pensiero è mai dio, dio può essere oggetto di pensiero? Per questo Kant è considerato il primo nichilista.

§40, 41, 42: la ragione tende costitutivamente ad eccedere sensibilità e intelletto. Questa parte della metafisica ne costituisce il fine essenziale, perché la ragione ha bisogno di per se stessa di una tale deduzione. Ogni singola esperienza è solo una parte dell’intera sfera del suo dominio, ma la totalità assoluta di ogni esperienza possibile non è in se stessa un’esperienza e tuttavia è un problema necessario per la ragione. I concetti della ragione si volgono alla completezza, così oltrepassano ogni esperienza data e divengono trascendenti. La ragione ha in sé il fondamento delle Idee, quei concetti necessari il cui oggetto non può tuttavia esser dato in alcuna esperienza sensibile. Queste da un lato sono fonte di illusione dialettica (Schein, prendere per oggettivo il fondamento soggettivo del giudizo), dall’altro svolgono una preziosa azione regolativa nei confronti dell’intelletto; il rimedio è così un’autoconoscenza della ragione pura nel suo uso trascendente (scienza critica), in particolare delle stesse Idee. Così Kant introduce una prospettiva olistica, perché il pensiero metafisico si presenta sempre come il pensiero dell’intero nella tradizione, ma l’intero come tale non è dato. L’apertura alla realtà è sempre, da subito, un’apertura integrata. Le Idee sono quei concetti necessari il cui oggetto non può tuttavia essere dato da alcuna esperienza, esse creano un effetto illusorio.

§43: Kant ricerca l’origine naturale delle idee nelle tre funzioni del ragionamento sillogistico: categorico-idea psicologica; ipotetico-idea cosmologica; disgiuntivo-idea teologica.

§44: parlando di sensibilità e intelletto parliamo della nostra apertura al naturale ridotto al sensibile. Stabilire la fondatezza dell’Idea di anima, mondo e dio non è possibile. Si sfocia così nelle aporie, perché sono compossibili due tesi contrarie. L’uso trascendente della ragione può essere da una parte ostacolo, ma dall’altra, essendo naturale, ci deve essere un significato positivo del fatto che tendiamo a svolgere tale elaborazione: infatti le Idee sono istanze di completamento, che ci sollecitano e ricordano che ogni fenomeno presuppone un noumeno di cui non possiamo avere conoscenza. La ragion pura chiede soltanto la completezza dell’uso dell’intelletto per quanto concerne l’esperienza. Il grande inganno della ragione è che trasforma le Idee in cose. La completezza può essere solo di principi, e non di intuizioni di oggetti.

§45: i noumeni sono puri pensieri (da nous: ciò che si pensa, ma di cui non si ha esperienza), senza oggetto e senza significato, sono oggetti iperbolici, che eccedono ogni limite e misura (es. una sostanza pensata senza persistenza nel tempo). Per la sua riduzione del mondo sensibile a fenomeno, il che comporta la scomparsa delle cose Kant è definito nichilista. Ma c’è dell’altro, che è conoscibile nella sua interezza solamente dall’intellectus archtypus, ovvero dio. Esso è sostanza pensata senza persistenza nel tempo, è un dio meramente funzionale, pensando il quale eccediamo il limiti del senso. Le categorie funzionano illegittimamente allorché vengono pensate al di fuori dell’esperienza come ricche di contenuto. È la ragione a fuorviare l’intelletto, ma a svolgere anche la funzione positiva di sollecitare un’esigenza di completezza. Tutta la metafisica tradizionale si muove in un mondo di significati apparenti. La ragione non è destinata però a concetti trascendenti, ma all’ampliamento illimitato dell’esperienza, addirittura per cercare del tutto fuori dall’esperienza degli oggetti noumenico, idee trascendentali ingannevoli.

Kant insegna che la verità non è assoluta, ma caratterizzata dalla stessa finitezza della ragione umana che la pensa, tuttavia egli resta ancora ancorato alla convinzione che la verità, se è tale, è una e una sola. Dunque non è per incapacità o arbitrio che i filosofi si avventurano nel campo noumenico, ma perché è la ragione stessa a spingerli a travalicare questo limite, perché per propria natura portata all’errore: la contraddizione abita naturalmente la ragione.

§46, 47, 48, 49: l’intelletto umano non può da sé determinare l’elemento sostanziale delle cose, tuttavia pretende di conoscerlo in modo determinato, pur essendo questo una semplice idea. Nessuno dei soggetti ai quali possiamo arrivare può essere considerato come un soggetto ultimo; la natura del nostro intelletto consiste nel pensare tutto per semplici predicati, ai quali mancherà sempre il soggetto assoluto. Sembra quindi che la completezza nel riferimento dei predicati dati a un soggetto non sia solo un’idea, ma che l’oggetto corrispondente, cioè il soggetto assoluto, ci sia dato nell’esperienza: l’io invece non è un concetto cui può corrispondere l’intuizione di un qualche oggetto determinato, ma è solo un’idea pensata. Se l’anima fosse veramente una sostanza, dovremmo poterne provare la persistenza (specialmente dopo la morte, perché il concetto di sostanza connesso a quello di persistenza è provabile solo dall’esperienza), ma questo non è possibile se non quando la sostanza è provata ai fini dell’esperienza. L’anima è conosciuta da me solo come un oggetto del senso interno per mezzo dei fenomeni che costituiscono uno stato interno, mentre il suo essere in sé, che sta a fondamento di questi fenomeni, mi è ignoto. L’esistenza dei fenomeni esterni è altrettanto certa e incerta che quella dei fenomeni interni; in entrambi i casi infatti l’unico vero criterio è la regolarità di connessione, ovvero l’universale concordanza intersoggettiva. Io ha un duplice significato: considerato come fondamento del pensiero, si tratta del soggetto trascendentale, condizione formale, ossia unità logica di ogni pensiero: l’io penso. La semplice coscienza di sé in quanto è sempre fondamento presupposto della conoscenza, non può trovarsi nel contempo anche dalla parte dell’oggetto conosciuto, è dunque altro dalla conoscenza del sé in quanto io determinato, per cui valgono le stesse limitazioni che per qualsiasi altro fenomeno. Anche la conoscenza che ho di me stesso è una conoscenza fenomenica, cioè poggiante su intuizioni nel tempo e mai completa, dove totalità e sostanza assoluta restano semplici idee della ragione. Qualsiasi conoscenza è fenomenica, e in essa le rappresentazioni hanno valore oggettivo non in forza del rapporto con le cose in se stesse, ma del modo razionale e universale di connettersi.

§50, 51: l’idea cosmologica è detta così perché prende il suo oggetto sempre solo nel mondo sensibile, ed estende così lontano la connessione del condizionato con la sua condizione, che l’esperienza non può mai tenervi dietro, e il suo oggetto non può mai essere adeguatamente dato in nessuna esperienza. Di idee cosmologiche ve ne sono quattro, tante quante le classi delle categorie; in ciascuna di esse la rispettiva idea non fa che risalire all’assoluta completezza delle condizioni di un dato condizionato. Si formano così quattro coppie di tesi e antitesi, entrambe possibili di dimostrazione, chiari, evidenti e inconfutabili, ognuna tratta con perfetta coerenza logica da principi universalmente ammessi. Per Kant il mondo non è uno dei fenomeni, ma neanche una cosa in sé, esso è un’idea della ragione. Qui si intravede la consapevolezza kantiana di dover dare un significato alle parole, dover argomentare il significato di esse, non isolandole, ma facendole reagire con altre, a dispetto del dogmatismo che ragiona per puri concetti, immaginando che ci siano puri concetti. Tuttavia Kant non ha ancora la consapevolezza in un pensare a partire dal parlare.

§52: è ribadito il distacco dalla metafisica tradizionale: Leibniz non si contraddice perché toglie la possibilità della contraddizione, ma Kant dice che il pensiero dogmatico è quello che funziona per puri concetti, è un sapere che è solo sapere di parole. Il sapere dogmatico è quello che ha trasformato le istanze unificatrici della ragione in entità, ed attraverso l’analisi delle antinomie della cosmologia possiamo svelare la nascosta dialettica della ragione.

Kant deduce le antinomie a partire dalle idee cosmologiche. Le Idee sono connaturate all’uomo, poiché sorgono dalla sua attività razionale, che consiste in sillogismi, e in questo caso (antinomie cosmologiche) in sillogismi ipotetici. Per ogni fenomeno dobbiamo poter risalire a tutte le sue condizioni, e in questo modo arriviamo alla totalità assoluta di ogni esperienza possibile, che tuttavia non è in se stessa un esperienza.

Le idee trascendentali non sono propriamente se non categorie spinte fino all’incondizionato, quindi potranno essere ordinate secondo i titoli delle categorie.

Categorie di quantità, 1 antinomia: le quantità originarie sono spazio e tempo. Il tempo è una serie di condizioni subordinate, da cui possiamo ricavare un’idea cosmologica; lo spazio è un aggregato, ma i limiti di un certo spazio sono dati dagli spazi che gli stanno accanto (per un’operazione della ragione). La ragione esige la totalità assoluta della composizione del tutto fenomenico.

Categorie di qualità, 2 antinomia: la realtà dello spazio è la materia, per cui la ragione esige al totalità assoluta della divisione di un tutto fenomenico.

Categorie di relazione, 3 antinomia: da sostanza e accidente e azione reciproca non si ricavano condizioni subordinate, per cui solo da causa ed effetto la ragione può esigere la totalità assoluta dell’origine del fenomeno.

Categorie di modalità, 4 antinomia: dalla necessità si può intendere che vi sia o meno un rapporto di necessità tra un dato condizionato e la sua condizione, ossia che vi sia o meno un essere necessario (carattere teologico). La tesi soddisfa un interesse morale religioso, la seconda soddisfa la conoscenza che non ha bisogno di postulare un essere necessario. Entrambe possono sussistere per Kant, purché si basino su due distinte nozioni di causa: infatti la scienza riconosce la barriera del fenomenico (Schranke) e non può oltrepassarlo, mentre la filosofia pensa il limite (Grenze), come qualcosa che mette in rapporto al noumenico. Dio allora è un postulato della ragione pratica. In questo senso Grenze è il limite che apre su ciò che resta al di là del limite, mentre Schranke chiude rispetto a ciò che è al di là del limite (la ragione non può comunque oltrepassarlo).

Le prime due antinomie sono dette matematiche, e sono caratterizzate dal fatto che sia il fenomeno condizionato, che le sue condizioni, sono omogenee, dunque la ragione produce una sintesi dell’omogeneo, ed errano pensando come compatibile ciò che è contraddittorio. Esse si fondano però su un presupposto errato, cioè presuppongono che il mondo sia misurabile nel tempo e nello spazio, invece esso è un’idea della ragione, che non ha grandezza è spaziale né temporale. Il concetto di un mondo sensibile esistente per sé è contraddittorio in se stesso, dunque anche la seconda antinomia, che concerne la divisione dei fenomeni, è falsa, dato che i fenomeni sono mere rappresentazioni, e le parti esistono solo in queste: la divisione arriva solo fin dove giunge l’esperienza. La nostra conoscenza procede dal condizionato alle condizioni senza mai giungere ad un termine: la conoscenza può procedere indefinitamente, e ciò spinge l’intelletto.

Le seconde due antinomie sono dette dinamiche, riguardano il tipo di rapporto che sussiste tra un fenomeno condizionato e le sue condizioni: queste possono anche essere eterogenee. Anche queste si basano su un presupposto errato, pensando come contraddittorio ciò che invece è compatibile.

La terza antinomia introduce il concetto di libertà: essa è un postulato della ragione pratica. Si tratta della questione se l’uomo possa agire liberamente o sia semplicemente determinato. Libertà è intesa come il potere di dare inizio a una catena di fenomeni. La compatibilità tra necessità naturale e causa libera è data dai concetti di causa (oggetto empirico tra gli altri) e causalità (facoltà di determinare un effetto, caratteristica intelligibile). È possibile pensare sia che un effetto possa dipendere da una causalità sensibile (dove la causa è fenomeno), che possa dipendere da una causalità intelligibile (dove la causa è un intelligibile). L’azione umana è libera se intesa frutto di una causalità semplicemente intelligibile, che ha come effetto un fenomeno; la libertà non è ostacolo alla legge di natura dei fenomeni, perché agisce separatamente dalla natura, e la ragione non viene determinata dalla sensibilità. Poter pensare l’uomo come causa agente libera non lo fa uscire però dal mondo dei fenomeni. Tutte le azioni degli esseri razionali, in quanto sono fenomeni, sottostanno alla necessità naturale; ma le stesse azioni considerate unicamente rispetto al soggetto razionale e alla sua facoltà di agire secondo la sola ragione, sono libere. Dunque l’uomo non è semplicemente un essere dei sensi, ma è anche responsabile delle sue azioni, perché incalzato dal dovere morale. Diversamente non si può dire che dio sia libero, perché la libertà ha luogo solo nel rapporto dell’intelligibile e fenomeno come causa ed effetto. Dio è qualcosa di semplicemente intelligibile il cui agire è determinato dalla sua stessa natura, e risponde ad un’altra logica rispetto a quella dell’uomo, che può pensarsi libero usando la facoltà della ragione. L’uomo come fenomeno e come noumeno si esprime nel dovere (sollen, perché non è un dovere dovuto a necessità naturale), necessità che sprona l’azione o la inibisce, a cui risponde la moralità. L’uomo ha la possibilità di obbedire al dovere morale che sente in sé, pensandosi come noumeno, quindi come fuori dal tempo, come causalità dell’azione (ciò che determina l’attività della causa non precede nel tempo l’azione).

Il discorso sulla libertà è un discorso sull’aspetto noumenico dell’essere umano. Noi non abbiamo alcun riscontro empirico della libertà. Kant riduce il reale al fenomenico, che ha bisogno di questo completamento noumenico. L’uomo non è uomo se non ha quell’esperienza della realtà che non si riduce alla spiegazione scientifica della realtà. La libertà è il mistero dell’esserci dell’uomo, dal momento che la libertà è portata nella dimensione del noumeno. Nella prospettiva del soggettivismo moderno dio è funzionale perché dà spiegazione di qualcosa che comunque c’è. Già Kant non accetta l’incontrovertibilità del cogito cartesiano. Si tratta di vedere che né è dell’io nella misura in cui lo si relaziona ad altro, senza il quale l’io non può essere io. ma bisognerà aspettare la contemporaneità per dire che il mondo è quel prima senza del quale io non posso dire io: il nostro esserci è in un mondo sempre già parlato. La quarta antinomia cade ugualmente in errore, perché fraintende ciò che vale solo per i fenomeni estendendolo alle cose in sé: non esiste una causa assolutamente necessaria (secondo le leggi della causalità empirica); esiste un essere necessario causa del mondo (causa di altro tipo).

§55: la terza idea trascendentale riguarda l’ideale della ragion pura: dio in quanto modello di un ente originario e supremo che rappresenta in sé l’idea razionale della totalità dei predicati possibili, quel pieno d’essere da cui ogni cosa, per parte sua, deriva la propria finita possibilità. La ragione qui rompe del tutto con l’esperienza e parte da soli concetti di ciò che costituirebbe l’assoluta completezza di una cosa in generale. Quando eccediamo ogni esperienza possibile, non possiamo dire che l’oggetto – le idee – ci è incomprensibile e che la natura delle cose ci presenta dei problemi insolubili, infatti qui abbiamo a che fare solo con concetti che hanno la loro origine unicamente nella nostra ragione e con semplici esseri di pensiero.

§57, 58: è altrettanto dogmatico non ammettere affatto cose in sé, o far passare i principi della possibilità d’esperienza per condizioni universali delle cose in sé, sebbene siano ancora essi che conducono anche oltre quanto sia raggiungibile dall’esperienza. A questo punto però si delinea la differenza tra l’indagine scientifica e quella metafisica: la prima si fermerà sempre ad una barriera (Schranke, che contiene solo negazioni), oltre cui non si curerà di avanzare; la seconda leggerà tale limite (Grenze, in cui v’è qualcosa di positivo) come un luogo oltre il quale si apre il noumeni, dunque mette in rapporto con altro dal fenomenico. La metafisica ci conduce ai limiti nei tentativi dialettici della ragion pura, indotti dalla natura della ragione stessa, e le idee trascendentali servono non solo a mostrarci realmente i limiti dell’uso della ragion pura, ma anche il modo di determinarli.

È razionale per la ragione teoretica ammettere l’inconoscibile: essa ha bisogno di un essere senza cui sarebbe eternamente insoddisfatta; se pensiamo però l’essere intelligibile per mezzo dei concetti puri non pensiamo in realtà niente di determinato, e il nostro concetto è senza significato, e se lo pensiamo per mezzo di proprietà tratte dal mondo sensibile esso rimane fenomeno. Di dio resta la possibilità: Pascal ha già l’onestà di dire che a questo punto la fede è una scommessa; Kant invece autorizza a proseguire per la via teoretica, seppure l’essere supremo rimanga vacillante, per poi risolverlo sul piano della ragione pratica. Ma non può essere dio il dio della possibilità che non sia possibile! La dimostrazione inoltre non può sussistere se sa già in partenza che dio è.

Noi possiamo pensare ad un essere a livello di ragion pura senza avere di questo concetto alcun contenuto (antropomorfismo simbolico, che si attua attraverso l’analogia, somiglianza perfetta di due rapporti tra cose del tutto dissimili – dio e mondo), cioè attribuiamo delle proprietà al rapporto di questo essere col mondo, in base all’esperienza del limite tra fenomenico e noumenico. Kant sta affermando che non è impossibile che sia possibile per la ragione dare senso a quella esistenza di dio che è rimasta puramente problematica nel campo della ragione teoretica, e ciò avviene nella ragion pratica (dunque per Kant c’è ancora la necessità di dio). La filosofia idealistica definirà il noumeno presupposto, ma esso è un esigenza per sottrarre alla decapitazione scientifica tutto un ambito problematico.

È inoltre presentata la distinzione tra deismo e teismo (entrambi parte della teologia razionale): il deista è colui che ammette soltanto una teologia trascendentale, che ritiene si possa conoscere con la ragione pure un essere che ha ogni realtà ma di cui non si può determinare di più. Questo rimane un concetto vuoto, ma incondizionato, dato il condizionato. Il deismo può derivare l’esistenza dell’ente originario da un’esperienza in generale (cosmoteologia), o mediante semplici concetti (ontoteologia). Esso si configura così un causa del mondo (crede in un dio).

Il teista, ammettendo una teologia naturale, afferma invece che la ragione è in grado dire qualcosa di più sull’oggetto, attribuendo a dio predicati che deriva dalla natura (seppur resi superlativi), in particolare dalla natura dell’anima umana, da cui deriva intelletto e libertà. Esso si configura così un creatore del mondo, in particolare se intende l’intelligenza suprema come principio naturale è teologia fisica, se lo intende come principio morale è teologia morale (crede in un dio vivente).

Secondo Hume il deismo, affermando che esiste qualcosa che la ragione può soltanto pensare, e non arrivando ad affermarne categoricamente l’esistenza, è inutile, perché il concetto di dio rimane imprescindibile nella misura in cui serve. La questione teologica viene sempre a riproporsi nei termini di una relazione uomo-dio, dove dio fatica ad affermarsi come dio perché la presenza dell’uomo è sovrabbondante: Holderlin afferma che da troppo tempo dio è soltanto al servizio dell’uomo. La critica humiana all’antropomorfismo teistico è rifiutata da Kant che distingue tra antropomorfismo dogmatico (per cui vi è analogia classica della natura con l’essere in sé) e antropomorfismo simbolico (per cui l’analogia è valida solo con l’essere per noi, cioè nel rapporto del mondo con dio in analogia con il rapporto che lega due fenomeni): in realtà di dio non potremmo dire niente, perché è altro, mistero da cui l’uomo non ha saputo rispettare le distanze. Le leggi morali presuppongono una qualche esistenza come condizione della possibilità della loro forza vincolante, dunque occorre postulare tale esistenza, per far valere tali leggi. Né la conoscenza teoretica né quella naturale possono portare ad una teologia: è necessario che si pongano come guida le leggi morali.

§59: siccome un limite è positivo, appartenendo sia a ciò che sta dentro esso sia allo spazio al di fuori, v’è allora una conoscenza positiva che la ragione raggiunge con l’estendersi a tale limite: essa tuttavia non tenta di oltrepassarlo, perché oltre a sé trova uno spazio vuoto nel quale può solo pensare le forme delle cose e non le cose stesse. La teologia naturale si muove in questo senso: guarda fuori fino all’idea di un essere supremo, non per determinare qualcosa al riguardo, ma per guidare l’unificazione al di qua del limite.

§60: tutto ciò che sta nella natura deve essere originariamente disposto per un qualche scopo utile, al di fuori del sistema della metafisica, nell’antropologia. I principi pratici non potrebbero acquisire quella universalità di cui la ragione ha assolutamente bisogno sotto l’aspetto morale, se non grazie alle idee trascendentali. Esse servono allora, anche se non a istruirci positivamente, a eliminare le affermazioni restrittive del campo della ragione, del materialismo, naturalismo e fatalismo, e a procurare uno spazio alle idee morali fuori dal campo della speculazione. La dialettica della ragion pura non è una parvenza illusoria che deve essere eliminata, ma è un dispositivo naturale (il che non è scopo della metafisica vera e propria). È solo sul piano pratico, morale e religioso, che la ragione può avvicinarsi alla soddisfazione delle proprie esigenze.

Soluzione: in quanto disposizione naturale della ragione la metafisica è reale, ma se considerata per sé sola, è anche dialettica e illusoria. Occorre dunque una critica della ragione, per realizzare la metafisica come scienza: essa è possibile solo come autoconoscenza della ragion pura, conoscenza perfettamente esaustiva e trasparente di una ragione unica. Tale richiesta sarà soddisfatta dalla tendenza naturale di ogni uomo ad una metafisica, personale o condivisa. La metafisica finora non ha potuta validamente dimostrare alcun principio sintesi, dunque finora non è mai esistita come scienza, dato che ha spesso fatto appello a verosimiglianza e buon senso, riferimenti che non costituiscono certezze apodittiche, e sono validi solo a posteriori.

Vi sono due tipi di giudizi: uno che precede l’indagine, e uno che la segue. Non accade che la metafisica abbia una riserva di proposizioni sintetiche indiscutibilmente certe, non può allora essere ammessa la prima specie di giudizio. Contro l’accusa di idealismo trascendentale, Kant specifica innanzitutto cosa intende per trascendentale (ciò che rende possibile l’esperienza essendo a priori, diverso dal trascendente, ciò che oltrepassa l’esperienza), e affermando che ogni conoscenza delle cose derivante solamente dall’intelletto puro o dalla ragion pura non è che mera illusione, e solo nell’esperienza vi è verità. Con ciò inaugura l’idealismo formale o critico, che ha come scopo unicamente comprendere la possibilità della conoscenza a priori di oggetti dell’esperienza, fornendo così il criterio per distinguere la verità dalla parvenza.

Profilo critico: con Kant si apre il nichilismo, e fino a Nietzsche il percorso della filosofia si fa tragico. È espressa la grande novità della modernità, il rovesciamento del rapporto uomo-natura; l’elemento a priori del conoscere è quello che fa di un giudizio empirico un giudizio d’esperienza, conferendogli validità oggettiva e quindi universale. Da un lato vi è lo scacco della ragione (non conosciamo l’oggetto in sé, la nostra conoscenza deve abdicare a ogni pretesa di assolutezza), dall’altro potere incontestabilmente efficace della ragione che ha riconosciuto i suoi limiti; questo intervento attivo della sog