METZ
A cura di P. Renner
Johann Baptist Metz nasce il 28 luglio 1928 a Velluck, nella Baviera settentrionale. Assolve studi di filosofia e teologia dapprima a Innsbruck e poi a Monaco di Baviera. Si laurea in filosofia su Heidegger e poi in teologia, sotto la guida di Karl Rahner, su S. Tommaso d’Aquino. La maggior parte della sua carriera universitaria lo vede docente di teologia fondamentale a Münster, carica che ha lasciato negli ultimi mesi, per assumere la cattedra di Christliche Weltanschauung all’università di Vienna. Numerose le sue pubblicazioni, tra cui ricordo vari articoli nel Lexicon für Theologie und Kirche, nell’Handbuch Theologischer Grundbegriffe, in Sacramentum Mundi e in Mysterium Salutis, nonché libri quali Sulla teologia del mondo (1968; Brescia 1969), Antropocentrismo cristiano (Torino 1969), con J. Moltmann-W. Ölmüller, Una nuova teologia politica (Assisi 1971), Tempo di religiosi? Mistica e politica della sequela (1977; Brescia 1978), La fede nella storia e nella società (1977; Brescia 1978), Jenseits bürgerlicher Religion (München/Mainz 1980), Unterwegs zu einer nachidealistischen Theologie, in J.B. Bauer (Hrsg.), Entwürfe der Theologie (Graz-Wien-Köln 1985, 209-233). La sua maturazione teologica conosce varie tappe, segnate dalle tre grandi "crisi" del nostro secolo con cui egli si sente confrontato: la sfida marxista alla teologia, Auschwitz e la negatività della storia, la provocazione del Terzo Mondo. Egli stesso descrive i punti salienti del suo percorso intellettuale:
L’esperienza di queste crisi
mi ha fatto cogliere un ... mutamento dello sfondo filosofico-teologico: mi
sono rivolto dal Kant trascendentale e da Heidegger al Kant del primato della
ragione pratica (ritornando così ad un tema dell’Illuminismo, in quanto avevo
il sospetto che le filosofie tedesche cui si riferiva il paradigma
trascendentale (idealismo ed esistenzialismo) avessero solo ricoperto in
maniera speculativa l’Illuminismo, senza averlo riflettuto fino in fondo. La
mia attenzione critica si rivolse dall’idealismo alla critica della religione postidealista,
come pure al tentativo di Karl Marx di comprendere il mondo come un progetto
storico; si rivolse a Bloch e Benjamin ed a questioni della scuola di
Francoforte. […] Infine cercai un primo approccio al pensiero ebraico ed alla
saggezza religiosa del giudaismo, così a lungo preclusa. L’accentuazione della
tradizione ebraica entro il cristianesimo, a differenza delle tradizioni greco-ellenistiche
(con la loro tendenza pre-storica al dualismo) è stata una mia preoccupazione
primaria. Con altri cultori della nuova teologia politica, ho avuto modo di
apprezzare pensatori teologici quali Kierkegaard e Bonhoeffer, senza volermi
allontanare dallo spirito e dall’ispirazione del mio maestro. E ancora una
volta: forse proprio il progetto della teologia della liberazione esprime in
pienezza ciò che con questo paradigma si intende, specie nell’ambito della vita
ecclesiale.
Si legge in questo excursus autobiografico come Metz sia andato gradualmente distanziandosi da un’impostazione teologica legata a categorie metafisiche ed essenzialiste, come pure dal personalismo che a suo parere "non sembra voler considerare la complessità dei processi di socializzazione e di istituzionalizzazione che ha investito ogni relazione tra gli uomini". Il limite della teologia moderna consiste nel non aver saputo fronteggiare la secolarizzazione, causando una "strana e pericolosa schizofrenia tra teoria teologica e prassi religiosa", come conseguenza della mancata valutazione del contesto storico-politico, scadendo così in un privatismo teologico, che prescinde dal carattere sociale della rivelazione e della salvezza e vita ecclesiale. La teologia oggi "dovrebbe passare da una generica accettazione degli impulsi moderni e da una posizione di secolarizzazione astratta, a una ‘teologia politica’, come ermeneutica della tradizione di fede, orientata all’azione nei confronti della storia moderna della libertà". Il suo contributo Metz lo situa dunque nell’ambito di un’impostazione postidealista, che succede sia al paradigma neoscolastico della teologia, che a quello trascendental-idealistico (in cui rientra pure Rahner, che pure Metz continua ad annoverare tra i maestri e classici della teologia), paradigmi ritenuti inadatti per affrontare le tre grandi crisi cui sopra si accennava. La teologia politica che Metz elabora richiede necessariamente l’attributo di "nuova"; in quanto intende distanziarsi nettamente da quella "civilis theologia" o "theologia politica" intesa ai tempi di Roma o ancora nelle teorie di uno Schmitt in senso reazionario e legittimista, ovvero come giustificazione diretta o indiretta del potere civile tramite quello religioso. Rimando per questo aspetto ad altre fonti. La nuova teologia politica intende riproporre la pregnanza escatologica del messaggio cristiano, per divenire figura di quella ragione critico-pratica che l’Illuminismo aveva auspicato ma non posto in essere. La fede viene descritta come "una prassi della storia e della società, una prassi che intenda se stessa come speranza solidaristica nel Dio come Dio dei vivi e dei morti, che tutti chiama ad essere soggetti al suo cospetto". Ne scaturisce l’esigenza di un’universale solidarietà che supera la logica dello scambio, smascherata come forma di reciproco egoismo. Il comando dell’amore cristiano postula invece una solidarietà generosa, che si prende cura degli oppressi e non tollera che l’individuo venga sacrificato al progresso. La storia di cui tale fede parla è allora una storia di libertà ma anche una memoria di passione. Proprio all’interno della comunità cristiana l’autorità è allora chiamata ad essere espressione della libertà portata dalla morte e resurrezione del Cristo. La Chiesa, anzi, si istituzionalizza quale araldo della libertà, in quanto annuncia la propria provvisorietà in riferimento all’eschaton della parusia. La prassi della fede infatti si compie in una sequela mistico-politica, irriducibile sia alla pura interiorità, sia ad una concezione esclusivamente umanistico-politica. Questo perché "le promesse escatologiche della tradizione biblica - libertà, pace, giustizia, riconciliazione - non possono essere privatizzate. Esse spingono sempre più alla responsabilità sociale ... Questa riserva escatologica ci porta non già ad un rapporto negatore, bensì ad un rapporto critico e dialettico nei confronti del presente storico". In un’ulteriore riflessione, Metz precisa che proprio in quanto teologia escatologica la teologia politica "può raggiungere e determinare il suo orientamento all’azione solo in maniera mediata, per la strada di un’etica politica". E quest’etica politica sarà necessariamente un’etica del mutamento, che proietterà la Chiesa dalla parte dei movimenti di riforma piuttosto che di quanti vogliono mantenere lo status quo. Riguardo alla forma di tale teologia politica, Metz specifica che essa non sarà argomentativa ma piuttosto narrativa, tendente a scatenare effetti sovversivi ed innovativi. Partendo da tali presupposti, "la prassi cristiana non appare più solo come ambito di applicazione di verità già chiare in anticipo, bensì... anche come istanza della loro verificazione e luogo della loro concreta attuale determinazione... la prassi viene a sua volta ad assumere il valore di un principio euristico". Questa circolarità tra teoria e prassi si innerva per Metz soprattutto intorno a quei tre grandi fenomeni o "crisi" del nostro secolo che già nominavo.
1. La sfida marxista alla teologia: grazie al marxismo la teologia ha perso la sua innocenza cognitiva, in quanto risalta che ogni sapere (e dunque ogni "verità") è condizionato da un interesse. La verità che la teologia cerca, per essere "vera", dev’essere universalizzabile, in riferimento alla "fame e sete di giustizia" che tutti hanno, dato che verum et bonum convertuntur! L’altra grande scoperta del marxismo è quella del mondo come storia e progetto (visione tipica giudeo-cristiana a fronte delle altre religioni). La teologia ha allora una funzione critica della e nella storia, costruendovi un regno di solidarietà e giustizia universali.
2. Auschwitz, ovvero la teologia di fronte alla fine di tutti i sistemi idealistici che negano il soggetto. "Nella misura - scrive Metz - in cui la teologia assumeva o non assumeva la tragedia di Auschwitz, mi si chiariva il suo grado di apatia e di impermeabilità alle esperienze storiche. La storia è immanente al logos e così anche Auschwitz che racchiude tutte le storie di sofferenza dell’umanità". La teologia, che conosce un senso eterno per la storia, osa guardare in fondo all’abisso di Auschwitz: non solo, dunque, alle cose riuscite ma anche a quelle fallite, per tener viva questa scandalosa memoria. "La memoria passionis, categoria quantomai biblica, diviene categoria universale, categoria di salvezza". La teologia non può tanto risolvere questo dramma, quanto ricordare la questione e annunciare che esiste un dramma inspiegabile, di cui Dio dovrà dare conto.
3. La sfida del Terzo Mondo, ovvero di una teologia che non può più essere eurocentrica. In cammino verso una Chiesa culturalmente policentrica, che non più "ha" una componente terzomondiale ma sempre più "é" chiesa terzomondiale "che ben conosce il patire" e che fa l’esperienza della pericolosità del Cristo e della sua memoria sovversiva. La teologia europea deve con onestà sviluppare una propria "storia di colpevolezza" e permettere una fioritura di queste nuove Chiese povere, che meglio sanno proporre una radicale sequela di Cristo povero ed oppresso. In questa linea sono da apprezzare le comunità di base, che in comunione con i loro vescovi già hanno scritto un lungo martirologio di fedeltà e coerenza. "Il tempo che abbiamo di fronte non sarà il tempo dei grandi leaders carismatici, dei grandi teologi o dei grandi profeti. Sarà piuttosto l’epoca del divenir soggetto di molti piccoli, un’epoca dei piccoli profeti, ovvero della ‘base’".
Solo aiutando le Chiese e i popoli dei Paesi sottosviluppati a divenire soggetti della propria storia, e di una storia planetaria sempre più segnata dalla legge dell’interdipendenza, l’Europa ritroverà quell’identità e quel senso che pare spesso aver smarrito.