CARLO MICHELSTAEDTER
A cura di Diego Fusaro
INDICE
VITA E OPERE
IL PENSIERO
PERSUASIONE E RETTORICA
IL DIO DEL PIACERE E IL DOLORE
MORTE RETTORICA E MORTE PERSUASA
VOLO PER ALTRI CIELI È LA MIA VITA (testo integrale)
VITA E OPERE
Carlo Michelstaedter nasce a Gorizia il 3 giugno 1887 e muore suicida per un colpo di rivoltella, sempre a Gorizia, il 17 ottobre 1910. In quei brevi ventitré anni di vita, o meglio nell'arco dei suoi ultimi cinque anni, elabora la tesi di laurea La persuasione e la rettorica e affianca agli studi universitari la composizione di saggi, racconti e poesie. Inoltre, disegna e dipinge. Sembra l'attività di un giovane d'ingegno che non ha ancora scelto il campo a cui dedicarsi completamente; e invece diventa il dare tutto se stesso, il mettere negli scritti il proprio "sangue incontaminato", quando la fiamma a cui aveva attinto tutta la sua energia diventa tanto ardente da bruciarlo.
È l'ultimo dei quattro figli di Alberto Michelstaedter ed Emma Luzzatto Coen: Gino (1877-1909, Elda (1879-1944), Paula (1885-1972) e Carlo. Carlo Raimondo (Ghedalià Ram) è il nome che gli viene imposto. Della sua infanzia sappiamo poco: la sorella Paula lo ricorda come un bambino pauroso del buio e dell'altezza, ostinato e per nulla disposto a chiedere scusa per qualche mancanza. Frequenta lo Staatsgymnasium senza eccellere particolarmente: non figura mai tra gli studenti che ricevono a fine anno la menzione d'onore, e nel certificato di maturità la sua condotta viene giudicata "poco confacente ("minder entsprechend") per aver disturbato frequentemente e intenzionalmente lo svolgimento delle lezioni nel corso dell'anno. All'esame di maturità dichiara di voler seguire gli studi di diritto, ma si iscrive alla facoltà di matematica dell'Università di Vienna: non frequenta però le lezioni e nell'autunno del 1905 si stabilisce a Firenze, iscrivendosi all'Istituto di Studi Superiori. Sono anni di studio e di soddisfazioni, ma anche di dispiaceri. Cerca di entrare nella redazione di qualche giornale, ma pubblica solo tre articoli sul "Corriere friulano" diretto dalla zia Carolina Luzzatto (e uno di questi a sua insaputa, tratto da una lettera scritta ai familiari) e uno sul "Gazzettino popolare". Si offre anche come traduttore dal tedesco e dal francese, ma senza molto successo.
Il rapporto intellettuale e con ogni probabilità anche sentimentale con una signora russa residente a Firenze, Nadia Baraden, si conclude bruscamente con il suicidio di questa; il successivo progetto di fidanzamento con una compagna di studi, Iolanda De Blasi, viene troncato sul nascere per l'opposizione della famiglia Michelstaedter; il fratello Gino muore a New York in circostanze non chiarite che fanno parlare di suicidio. Ha problemi di salute non seri ma che lo irritano, attivo com'è. Alla visita di leva, nonostante tutti i suoi sforzi per farsi riformare provocando una momentanea tachicardia, viene dichiarato "tauglich" (abile), ma ancora molti anni dopo la sua morte in ambienti goriziani si attribuisce il suo suicidio alla consapevolezza di una grave malattia. Sono voci senza conferma, ma che si tramandano negli anni.
Nel giugno 1909 ritorna definitivamente al Gorizia. Lavora alla tesi di laurea: è legato sentimentalmente a un'amica di Paula, Argia Cassini, pianista di talento, dalla forte personalità, a cui dedica le poesie "A Senia" e "I figli del mare" e che resterà poi fedele alla memoria di lui, senza indulgere a sentimentalismi, ma facendo parte della resistenza e finendo deportata ad Auschwitz.
Carlo lavora accanitamente alla tesi nell'estate del 1910 e nel caldo inizio d'autunno, teorizzando una filosofia della persuasione, del superamento delle illusioni offerte dalla non-filosofia, la rettorica. L'uomo schiavo della rettorica è infatti vittima di una persuasione illusoria, attraverso la quale viene indotto a soddisfare i suoi bisogni e i suoi desideri e adattarsi alla vita. La "philopsichia" (amore della vita), che Michelstaedter chiama anche dio del piacere, inganna l'uomo, facendogli credere di poter ottenere quello che desidera - il conseguimento del piacere, il soddisfacimento dei propri bisogni, lo stesso perseguimento di un ideale - fuori si sé. L'istinto che è alla base della "philopsichia" è la sopravvivenza dell'uomo, non la sua realizzazione: fa sì che egli si adatti, che sfugga al rischio e al dolore, amando irrazionalmente la vita e provando paura della morte. La persuasione invece porta al superamento delle illusioni, alla constatazione che né dagli altri uomini né dalle cose ci si deve aspettare nulla - e allo stesso modo non si deve temere nulla. Chi raggiunge il possesso di se stesso possiede la libertà assoluta: libertà dai bisogni quotidiani, dai desideri e dai timori. Il dolore allora non è subìto, ma accettato con coraggio; la morte non è temuta né desiderata, ma è disarmata, come disarmata è la vita, davanti a chi non chiede la vita e non teme la morte, a chi dà tutto e non chiede niente, a chi non si accontenta, non si adatta, non si adegua; a chi sceglie con coraggio la strada difficile della filosofia, della solitudine, del possesso di sé mai definitivo ma da conquistarsi ogni giorno; a chi si salva da solo. E Carlo è proprio solo negli ultimi giorni: la famiglia è in villeggiatura in collina, al Rafut, mentre lui lavora alla tesi, mette la sua anima nei fogli, li ricopia aiutato dall'amico Nino Paternolli e dal cugino Emilio Michelstaedter. Il 17 ottobre la tesi è finita. Proprio in quel giorno la madre Emma compie cinquantasei anni.
Pare che i Michelstaedter usassero scambiarsi i doni e festeggiare le ricorrenze la sera della vigilia. Carlo la sera del 16 ottobre resta nella casa di città, tutto preso dal lavoro. Il regalo per la madre è pronto: un piccolo quadro a olio dipinto da lui, un raggio di sole che si fa strada attraverso un cielo coperto di nubi: sul retro ha scritto la significativa frase "E sotto avverso ciel - luce più chiara".
Poche settimane prima madre e figlio si erano scambiati delle lettere toccanti. La madre vedeva il figlio migliore degli altri giovani, ma solo e scontento; lui le prometteva un futuro migliore, la realizzazione della vita dopo tanto studio, sempre nello stretto rapporto con lei, cui niente del figlio era estraneo. Invece Emma si sente dimenticata nel giorno della sua festa. Scende la collina del castello, rimprovera aspramente Carlo. "Fammi il regalo di non arrabbiarti", gli aveva scritto ai primi di settembre. Ma questa volta non trova le parole giuste, e il figlio reagisce con uno scatto di collera.
Dopo, se ne pente. Viene Emilio per proseguire il lavoro di trascrizione, ma Carlo gli chiede di tornare più tardi. Ha appuntamento per una passeggiata con Argia nel pomeriggio, ma non aspetta che venga pomeriggio. Rimasto solo, non affida alla carta nessun messaggio. Non chiude neanche la porta a chiave. Ha una rivoltella, tolta a un amico per evitare che potesse compiere un gesto inconsulto. Si spara.
Sono le due del pomeriggio. È una giornata molto calda, quasi estiva. I vicini sentono il colpo, ma non ci badano. Sarà Emilio a trovare il cugino due ore dopo.
Carlo spira prima di notte, senza riprendere conoscenza. Da quel momento vive il ricordo, vive la carta scritta al suo posto. Era il 1910.
IL PENSIERO
Michelstaedter ha scritto molto, sperimentando diversi generi letterari, ma, nonostante questo, ha sempre mantenuto un punto fermo: il nucleo attorno al quale, seppure con delle evoluzioni, si sviluppa il suo pensiero. Questo nucleo è costituito dalla riflessione sul rapporto tra individuo, vita e morte.
Michelstaedter sceglie alcune figure come ideali interlocutori e ispiratori di tutta la sua opera: essi sono Parmenide, Socrate, Eraclito, Empedocle, Simonide, Eschilo, Sofocle, Cristo, Buddha, Petrarca, Leopardi e infine Ibsen. Ad essi si oppongono, come campioni della rettorica , Platone, Aristotele e Hegel.
La rettorica è antitetica alla persuasione e corrisponde al non essere; mentre la persuasione è l'essere.
La vita (o rettorica), così come noi la viviamo e ci appare, è come il desiderio che il peso ha del più basso: esso non si esaurisce mai ed è infinita tensione verso l'illusione del possesso del punto più basso. Il peso è in uno stato di continua insufficienza e sofferenza. " La vita è questa mancanza della sua vita ". Come il peso non riesce mai a possedersi, finché è peso (cioè volontà inesausta di soddisfazione della sua eterna mancanza), così tutto ciò che vive, vive nella mancanza totale della propria vita. Fanno parte del mondo della rettorica il sapere accademico, che duplica l'uomo in ciò che è e in ciò che sa (in questo modo si viene meno al detto di Parmenide per cui pensiero ed essere sono lo stesso); e la società, che duplica l'uomo in ciò che è ed in ciò che fa ( e qui Michelstaedter fa suo, attraverso un'interpretazione personale, il concetto di alienazione).
La persuasione è, invece, quell'ideale, che le parole non riescono a descrivere totalmente, per cui ciò che vive cessa di vivere nel dolore, e, decidendo di dipendere solo da se stesso, diventa uno, non più duplice nell'animo.
Il più grande nemico all'attuazione della persuasione è il tempo: in esso le cose attuano la loro volontà infinita di dipendere da altro. Il tempo è la conseguenza della volontà che si esplicita come volontà di cose determinate, per una coscienza che è correlazione. La correlazione, ossia relazione fra determinatezze, è l'origine della vita inautentica. Nella continua e reciproca correlazione, gli uomini sentono l'eco del tu sei, che però è illusorio, perché fondato sul limite. La determinatezza, che si relaziona, è segnata, infatti, per sempre dal limite che, nella relazione, è posto dall'altro da sé, ed equivale al proprio nulla, al proprio non-essere. Il limite viene ripetuto infinitamente nelle differenti relazioni, nel vano tentativo di udire quell'autentico tu sei, che restituisca al singolo il potere su se stesso. Per questo il tempo, che è il luogo dove l'esistenza del limite si rende palese, è ciò che la persuasione deve distruggere. Solo nell'attualità del possesso assoluto il singolo è in grado di distruggere la sua relazione con il non essere (cioè l'altro), che lo getta nella deficienza e nella instabilità. La relazione con l'altro è violenza, perché è tentativo di appropriarsi della propria realtà e stabilità, annientando ciò che dichiara, invece, la propria determinatezza e morte.
La paura della morte che spinge l'uomo a rifugiarsi nelle false certezze della rettorica (cioè nella vita inautentica) è in realtà la paura della vita, che nasce quando l'uomo nasce come colui che, inesorabilmente, è costretto alla morte; ma il pensiero, che il presente deve essere in ogni attimo come l'ultimo, distoglie dalla paura della morte. Il tempo è paura della morte, distrutto il tempo si distrugge anche la paura, perché la morte toglie solo ciò che è "per il continuare". La persuasione si raggiunge con un atto della volontà, che affermi il valore individuale. Esso consiste nel prendere su di sé la responsabilità della propria vita: l'uomo risvegliato è il giusto. Nella persuasione, il dare è avere, continua e instancabile attività di identificazione e appropriazione del mondo, di modo che non è più la dipendenza a formare l'uomo, ma l'uomo a formare il suo mondo, ed esso sarà uno e identico con il tutto.
Nella visione filosofica di Michelstaedter l'uomo di adatta alla vita perché è indotto a soddisfare i suoi bisogni e i suoi desideri dalla "philopsichìa", dall'amore della vita, che Michelstaedter chiama anche " il dio del piacere ". L'irrazionale brama di vivere e per raggiungere il suo scopo inganna l'uomo tramite le illusioni. Illusione è conseguimento del piacere, illusione il soddisfacimento dei propri bisogni, illusione lo stesso perseguimento di un ideale. La philopsichìa provoca attraverso la rettorica una persuasione illusoria, per cui l'uomo crede di poter ottenere quello che cerca fuori di sé: piacere, amore, felicità, in una parola un rapporto soddisfacente con il mondo esterno e con gli altri. E sempre l'amore della vita provoca l'adattamento del debole, e la rinuncia quando le circostanze non permettano un facile adempimento del suo ideale.
Dice Michelstaedter: " e a questo lo guida il dio della philopsichìa: tu vuoi questo, ti sei impegnato a ottenerlo - che importa - cedi, quando non lo puoi, quando ci va della vita; quello che volevi qui, in fondo lo puoi aver in altra parte, in altro modo, con lo stesso piacere, senza pericolo ".
L'amore della vita ha dunque come scopo la sopravvivenza, non la realizzazione dell'uomo.
La persuasione consiste invece nel superamento delle illusioni, nella convinzione che nulla conta, che " non c'è niente da aspettare, niente da temere - né dagli altri uomini né dalle cose ". La realizzazione dell'uomo non dipende dal mondo esterno, in cui egli è " solo e diverso ", ma consiste nel " possesso di se stesso ", attraverso il quale " possiede tutto in sé ", superando con ciò la solitudine e l'alterità del mondo. L'uomo che si sente mancare nella solitudine chiede " di essere per qualcuno ", ma l'altro gli viene meno e lo delude; l'uomo persuaso invece basta a se stesso, " vive solo di se stesso ", e nella sua autorealizzazione non teme la morte, perché " la morte nulla [gli] toglie; poiché niente in lui chiede più di continuare ", dal momento che niente chiede a un tempo futuro, niente gli manca e può ancora desiderare, quando la sua anima " vive libera nell'assoluto ".
La realizzazione, la libertà non possono venire che dall'uomo stesso. Scrive Michelstaedter: " ognuno è solo e non può sperar aiuto che da sé: la via della persuasione non ha che questa indicazione: non adattarti alla sufficienza di ciò che t'è dato ". L'uomo " è solo nel deserto, e deve crear tutto da sé: dio e patria e famiglia e l'acqua e il pane ". Ognuno deve essere salvatore di se stesso, non può attendere la salvezza da altri: neanche da Dio. " Cristo ha salvato se stesso poiché della sua vita mortale ha saputo creare il dio: l'individuo ", ma " nessuno è salvato da lui ", se non si ottiene la salvezza da se stesso.
Fin qui abbiamo citato passi da La persuasione e la rettorica : ma a questo proposito il discorso filosofico della tesi di laurea si collega a quello della poesia a cui Arangio Ruiz ha dato titolo " I figli del mare ". È una della ultime composizioni poetiche di Michelstaedter, scritta nel settembre 1910. Nella poesia si rappresenta la vita dei due figli del mare Itti e Senia costretti a vivere la morte dei mortali. La morte, non la vita, perché l'atteggiamento dell'uomo che si adagia nella rassegnazione, nella paura della morte, nell'accontentarsi della propria condizione, questo è morte. La philopsichìa diventa qui il richiamo del focolare domestico:
Ritornate alle case tranquille
alla pace del tetto sicuro,
che cercate un cammino più duro?
che volete dal perfido mare?
Passa la gioia, passa il dolore,
accettate la vostra sorte,
ogni cosa che vive muore
e nessuna cosa vince la morte.
Ritornate alla via consueta
e godete di ciò che v'è dato:
non v'è un fine, non v'è una meta
per chi è preda del passato.
Ritornate al noto giaciglio
alle dolci e care cose
ritornate alle mani amorose
allo sguardo che trema per voi
a coloro che il primo passo
vi mossero e il primo accento,
che vi diedero il nutrimento
che vi crebbe le membra e il cor.
Adattatevi, ritornate,
siate utili a chi vi ama
e spegnete l'infausta brama
che vi trae dal retto sentier.
Ma a questo invito alla rassegnazione Itti, il persuaso, il salvatore di se stesso, ribatte che la morte temuta dai figli della terra non è l'abbandono, ma il coraggio: " il coraggio di sopportare / tutto il peso del dolore ", di navigare verso il mare libero, di non adeguarsi solo per non perdere comodità e affetti. Il porto, il rifugio dei figli del mare è la furia dello stesso mare in tempesta " quando libera ride la morte / a chi libero la sfidò ".
Perché " chi vuole fortemente la sua vita, non s'accontenta ", nel timore della sofferenza, dell'apparente piacere che non elimina, ma solo nasconde il dolore, bensì affronta e sopporta il dolore stesso, accettandone interamente il fardello. " Egli deve avere il coraggio di sentirsi ancora solo, di guardar ancora in faccia il proprio dolore, di sopportarne tutto il peso ".
Una filosofia pessimista, senza mondo e senza Dio, anche se Michelstaedter è attratto dalle esperienze religiose, specie da quelle estranee alla sua cultura di ebreo non osservante: cita infatti, oltre all'Ecclesiaste, massime di ascetismo buddista e il Nuovo Testamento. La sua filosofia trova significato nella volontà di potenza, nella sete di assoluto, nella realizzazione di sé non nonostante ma attraverso il peso del dolore, della solitudine, della consapevolezza della morte. Il filosofo non teme la morte e non la sceglie: la supera, vive con la stessa intensità ogni attimo e quindi è andato oltre la morte stessa. Quando tutto gli appartiene, anche la morte non gli è estranea, e una volta accettata questa esperienza, niente resta che possa incutere timore, e il persuaso può dire nietzscheanamente, a spiegare la sua noncuranza delle cose contingenti: " cosa potrebbe capitarmi ancora che non fosse già cosa mia? ". Ma il filosofo, il saggio, l'uomo superiore, il persuaso, alla fine resta, per dirla con le parole di Michelstaedter, solo, lontano, diverso. Il suo non accontentarsi, non risparmiarsi, se lo innalza rispetto agli altri uomini lo allontana anche irrimediabilmente da loro.
E il punto debole della pratica della persuasione consiste proprio nella difficoltà di accettare questa assoluta solitudine morale e mentale. È possibile farlo, anche se alcuni si rifugiano nella pazzia: ma è molto duro farlo a 23 anni.
Si è parlato per lui di " suicidio filosofico ", è parso avvincente ipotizzare un concetto filosofico che si traduceva in realtà: ma Michelstaedter teorizza non il suicidio, non la scelta della morte quanto la sua indifferenza. Per il saggio vita e morte si equivalgono, sono uguali, e se la morte niente toglie, niente può anche dare. La morte, quando viene, è un fatto per così dire accidentale: indifferente. L'essenziale è che non sia temuta o subita, ma affrontata.
Sia nella Persuasione che nel Dialogo della salute Michelstaedter compie chiaramente una scelta di vita e non di morte; e anche in precedenza, nel 1906, in una recensione a L'età critica di Max Dreyer criticava il suicidio di un giovane infelice come l'azione di un debole che si era ucciso per non poter sopportare il dolore, commiserandolo ma concludendo: " che c'importa? ". Eppure, nel privato, qualche inclinazione alla morte si trova: nel cosiddetto "questionario fiorentino", una sorta di test del marzo 1906, alla domanda "a quale età vorreste morire" rispondeva "Subito!!"; e prima di trovare nella furia del mare il coraggio che libera dall'illusoria philopsichìa aveva annotato nel suo taccuino, nell'autunno del 1905, con ben più pessimistico atteggiamento: " l'Arno violento dalle onde gialle, come ci simboleggia bene la vita, la vita eternamente fangosa. Invano le onde s'alzano, si ribellano, lottano con disperata energia rabbiosamente, la corrente le trascina inesorabile ".
Già allora, a 18 anni, la vita gli appariva come lotta, anche se la persuasione non era ancora delineata, anche se il risultato gli appariva una sconfitta.
Essenziale resta dunque affrontare la vita, non accontentarsi, non risparmiarsi mai, non adagiarsi. Il possesso di sé non può mai essere definitivo, ma si conquista momento per momento, attimo per attimo.
PERSUASIONE E RETTORICA
I due termini "persuasione" e "rettorica" rappresentano non solo un'alternativa filosofica ma soprattutto etico-esistenziale: vivere in modo rettorico significa infatti optare per un'esistenza inautentica, caratterizzata dal fatidico sintagma bisogno e soddisfazione del medesimo, soddisfazione che a sua volta innesca la necessità di un altro bisogno ugualmente da soddisfare. E così all'infinito, in una sorta di spirale che non ha fine e che soprattutto non porta da nessuna parte. L'individuo rettorico infatti non riconosce o, meglio, non vuole riconoscere che la sua natura è ontologicamente deficiente e quindi sempre bisognosa di trovare la propria essenza in qualcosa fuori da sé, che erroneamente egli tenta di ottenere realizzando ciò che al momento non possiede, sempre proteso verso un tempo al di là da venire, mai ben definito. Per converso, l'uomo persuaso è colui che non soggiace alle lusinghe della vita mondana, contraddistinta appunto dall'illusione di poter rendere felice l'individuo semplicemente soddisfacendo via via tutto ciò che egli ritiene indispensabile per il suo quieto vivere. Il persuaso vive totalmente nel presente, non preoccupandosi affatto né di ciò che è stato né tantomeno di ciò che sarà. Per Michelstaedter è necessario che l'uomo abbandoni la falsa strada della rettorica, che certo è più sicura e tranquillizzante ma che è anche più fallace e illusoria perché con i suoi "kallwpismata orjnhs" (gli abbellimenti dell'oscurità), che tutto oscurano, impedisce di vedere l'esistenza per quello che veramente è, ossia intrisa di insoddisfazione e quindi di dolore. Certo optare per la via della persuasione non è corsa anche perché Michelstaedter non dà molti chiarimenti in merito. Essa infatti non è definibile se non per negazioni, ossia viene determinandosi come tutto ciò che non è la rettorica. Arduo è dunque il cammino che l'uomo deve intraprendere se veramente aspira ad una dimensione autentica: è un percorso che si sa dove ha inizio ma che non si può assolutamente prevedere né come né dove andrà a finire.
IL DIO DEL PIACERE E IL DOLORE
La paura della morte è correlata in modo inseparabile con la "jiloyucia" , ossia l'attaccamento alla vita, il dio del piacere, il principio organizzatore dell'universo in virtù del quale le realtà manchevoli si sorreggono l'un l'altra, dandosi reciprocamente ragione sufficiente di sé. Grazie ad esso ogni ente attribuisce realtà e valore a se stesso in quanto bisognoso perché manchevole, riuscendo così ad occultare ogni volta l'unica vera richiesta, ossia l'esigenza dell'Assoluto, in una miriade di bisogni di volta in volta determinati e correlati tra loro. L'uomo è incessantemente proteso alla ricerca del piacere ed è convinto che soddisfacendo tutti i bisogni che via via il dio del piacere gli procura egli riuscirà a raggiungere una dimensione edenica. In realtà non si rende conto che impossibile è soddisfare tutti i bisogni poiché essi sono infiniti: l'uomo infatti avrà sempre necessità da soddisfare poiché la sua essenza è manchevole ed è proprio questa deficienza che lo fa soffrire. Di ciò essi non sono consapevoli, non capiscono la vera ragione del loro dolore e perciò non hanno mezzo alcuno per rimuoverlo ma sono costretti a tenerlo come cieco e muto compagno di ogni istante della vita e credendo di salvar questa non fanno altro, in realtà, che sancirne tutta l'insufficienza: la loro vita non è che paura della morte . Per uscire da questo circolo vizioso è necessario per Michelstaedter rendersi consapevoli della causa del dolore: a questa consapevolezza giunge chi volendo fortemente la propria vita non sa accontentarsi della sufficienza di ciò che gli è dato né può rassegnarsi all'idea di protrarre nel tempo la sua insoddisfazione senza cercare di porvi rimedio. Tale riconoscimento è la porta d'accesso alla via della persuasione e dunque il diverso atteggiamento di fronte al dolore è ciò che segna il discrimine tra la rettorica e la persuasione. Persuaso è, pertanto, colui che osa squarciare la fitta trama delle illusioni lasciando trasparire l'oscuro abisso dell'insufficienza e riconoscendo sul fondo il termine reale della volontà, il motore primo del meccanismo perverso bisogno-soddisfazione. Nello stesso tempo però comprenderà anche che fino a che egli chiederà il possesso della sua vita, la sua vita non sarà mai sua ma suo sarà solo il non essere, il vuoto, la morte appunto. Per possedere realmente la propria vita dunque il persuaso non dovrà far riferimento né a Dio né a qualsivoglia essere trascendente ma sarà egli stesso a crearla e, parafrasando le parole stesse di Cristo, così afferma: " io sono l'alfa e l'omega ", ognuno è il primo e l'ultimo e non trova niente che sia fatto né prima né dopo di lui. L'uomo dunque deve prendere su di sé la responsabilità della sua vita, deve creare sé e il mondo che prima di lui non esiste. In verità però arduo è scegliere questa strada perché troppo rischioso e troppo raramente tentata da altri: l'individuo comune preferisce quindi perdere l'occasione di possedere realmente se stesso e si accontenta di ripercorrere le vie già segnate, fallaci ed illusorie ma quantomeno tranquillizzanti e sicure. Del resto la dimensione della persuasione è talmente oltre ciò che l'umano linguaggio può definire che persino Michelstaedter non riesce ad aggettivare la persuasione; anzi paradossalmente egli afferma che il silenzio è l'unico mezzo di espressione e di comunicazione di questa dimensione.
MORTE RETTORICA E MORTE PERSUASA
Ma allora se anche la dimensione della persuasione, che doveva rappresentare un'alternativa etico-esistenziale alla rettorica, non riesce a consistere, che cosa rimane all'uomo?
A parole ed anche nei fatti Michelstaedter risponde: la morte.
Mentre tutti gli uomini la considerano lontana, non prevedibile, sempre rimandata in un tempo futuro al di là da venire e con ogni mezzo tentano di occultare il suo spettro, il filosofo goriziano ha il coraggio di guardarla in faccia, di sopportare con gli occhi aperti l'oscurità. Solo la morte, infatti, può realizzare l'Assoluto poiché essa rappresenta la negazione del finito, dei bisogni e delle determinazioni. Del resto per Michelstaedter inseparabile è il legame tra vita e morte come splendidamente scrive nella poesia Il canto delle crisalidi :
Vita, morte
la vita nella morte
morte vita
la morte nella vita.
Noi col filo
col filo della vita
nostra sorte filammo a questa morte.
Per vivere intensamente insomma bisogna essere in contatto costante con la morte, è necessario stare sempre sull'orlo del precipizio per provare le emozioni più forti. Anche di fronte a questo evento, diverso è l'atteggiamento del persuaso e del rettorico: al persuaso la morte non può togliere nulla poiché egli vive solo del e nel presente, per cui quando la morte sopraggiunge è come un ladro che spoglia un uomo ignudo. Tutto per il persuaso è presente proprio perché tutto accade nell'istante stesso dell'annientamento. Anzi per l'individuo persuaso la morte come esperienza del limite incita a pensare ad essa come radice ontologica dell'Esserci, dalla quale partono le autentiche intuizioni dell'esistenza: bisogna dunque avere il coraggio di guardare in faccia la morte e " fare di se stesso fiamma " per riuscire a percepire e finalmente a far proprie quella verità e quell'autenticità che in vita sono ineffabili. Per l'individuo rettorico, al contrario, la morte è ciò che massimamente desta in lui timore, a tal punto che egli vive per morire, nel senso che imposta tutta la sua esistenza in prospettiva dell'evento ultimo e sua massima preoccupazione non è quindi vivere la vita per quella che essa offre ma creare tutta una serie di artifici, di strutture psicologiche, di illusioni che in qualche modo allontanino dalla morte, peraltro inevitabile. All'uomo rettorico la morte toglie tutto perché egli consegna il proprio essere integralmente al futuro, tempo nel quale ha riposto tutte le sue speranze di realizzare se stesso e di raggiungere la felicità. La paura della morte diventa così l'unico motivo per cui si vive e Michelstaedter afferma che una vita dominata da questo timore non è nemmeno degna di essere vissuta poiché sempre la costringerà entro la cerchia delle necessità, in un sordo e continuo dolore. Michelstaedter nella sua opera filosofica, poetica e pittorica ma soprattutto nella sua vita dà, in questo senso, una lezione di serietà, d'impegno morale, di coerenza fino al sacrificio ultimo. Estraneo al mondo della fede, indifferente ai successi mondani, scettico riguardo agli ideali tradizionali tutti basati sul compromesso, egli vuole costruire il suo mondo con sincerità estrema e ad esso mantenersi fedele. Questo suo mondo è quello del vero pensare, che scarnifica i lati più attraenti della vita, mostrandoli per quello che veramente sono, senza più orpelli e maschere che conducono a travisare.
Il suo è un messaggio di grande coraggio e forza: bisogna guardare il mondo con occhio distaccato, estraneo, non imprigionarlo nelle necessità; bisogna riuscire a viverci con il carico dell'amarezza che la sua inutilità comporta, viverci con tutto il dolore che l'esistenza offre: insomma è necessario essere consapevoli che " non c'è premio, non c'è posa, la vita è tutta una dura cosa ". La filosofia di Michelstaedter che vorrebbe porsi come una filosofia della vita autentica è sin dall'inizio una filosofia della morte. L'esistenza di Michelstaedter è votata al nulla come al proprio destino più essenziale e ineludibile ed il suo pensiero è votato al silenzio. L'istanza vitale si rovescia in un vero e proprio anelito verso la morte che pone fine ad ogni possibile senso dell'essere, perché la morte è il silenzio del senso, la pura essenza di significato. Tuttavia questo ribaltamento dell'autenticità nella morte nasce dalla preoccupazione di Michelstaedter per l'essere dell'uomo che egli vede pericolosamente alienato ed espropriato della propria autenticità essenziale, gettato in un mondo all'interno del quale la relazione con le cose, in quanto impegna totalmente l'attenzione e la cura dell'individualità, svia quest'ultima dall'autentica comprensione della propria essenza esistenziale.
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