L'ANALISI DELLA MERCE (I)
Marx apre la Ia sez. de Il Capitale costatando che “la ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, appare come un'immensa raccolta di merci'”(p.25), cioè è una ricchezza il cui valore si misura in termini quantitativi: quante più merci circolano, tanto più la società è ricca. La “qualità” dipende dalla “quantità”; la “qualità” decisa dalla “quantità” è sempre inerente ai “beni materiali”, e viene decisa sulla base di questi beni, in modo particolare sul loro possesso.
La merce infatti -prosegue Marx- ha la pretesa di soddisfare “bisogni umani di qualunque specie”, materiali e spirituali. Lo fa a prescindere dal “come”. La pretesa della merce non dipende dalla sua effettiva riuscita: è, per così dire, di tipo “genetico”.
Nella società capitalistica la merce è composta di due fattori: il valore d'uso e il valore di scambio. Il primo è deciso sulla base del consumo: ha un valore ciò che serve per l'individuo. Il secondo invece rappresenta un modo d'esprimere, di due merci, il valore equivalente. Marx vuole qui evidenziare che nel capitalismo lo scambio prescinde, in un certo senso, dall'uso e quindi dalla qualità delle merci, limitandosi più che altro alla loro quantità, sebbene una comprensione adeguata della natura del valore di scambio -Marx lo dirà più avanti- debba necessariamente prescindere dalle questioni quantitative relative alle proporzioni delle merci, per rivolgersi alla qualità del lavoro astratto, socialmente necessario, in esse racchiuso.
Viceversa, in una società pre-capitalistica lo scambio non potrebbe mai prescindere dall'uso. Marx infatti afferma che se si prescinde dal valore d'uso, si prescinde da tutto ciò che dà significato alle cose e al loro stesso uso. Nel capitalismo il valore di scambio è determinato da una sorta di “lavoro umano astratto” (p.29), cioè da un lavoro che non può essere concretamente osservato, essendo una “fantastica oggettività”(ib.). Nel capitalismo lo scambio è indipendente dall'uso. Questo naturalmente non significa che nelle società pre-capitalistiche non poteva esistere un valore di scambio mutevole, soggetto a varie circostanze, come non significa che nel capitalismo le merci non abbiano un valore d'uso.
Come si può notare, Marx è partito con un'analisi fenomenologica, ma ha già chiarito che è impossibile spiegare il mistero della merce capitalistica (che si sdoppia in due valori contrapposti) con gli strumenti di quest'analisi. Ne occorre una che vada aldilà delle “forme” e che entri nella loro “sostanza”, con la “forza dell'astrazione”. Marx dirà nella Prefazione alla Ia edizione che per comprendere i misteri della merce (le sue “sottigliezze”) è stata necessaria un'analisi simile a quella dell'”anatomia microscopica”. In pratica, egli è dovuto passare, per superare i limiti metafisici degli economisti inglesi del suo tempo, dalla fenomenologia all'ontologia dell'economia politica, cercando di spiegare, sulla base dell'analisi storica, la contraddizione fondamentale, antagonistica, del sistema capitalistico.
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Il valore di scambio, nel capitalismo, non solo si forma a prescindere dal valore d'uso, ma, in definitiva, determina questo stesso valore. Cioè un aspetto esterno o estrinseco determina un aspetto interno o intrinseco, sebbene nella “merce” -dice Marx- il valore di scambio sia più “intrinseco” di quanto non lo sia il valore d'uso in un oggetto qualsiasi.
Il “valore” di una merce consiste nella sua più o meno grande scambiabilità. Il valore di scambio è la forma fenomenica del valore di una merce. Marx si riferisce sempre alle “merci”, cioè a prodotti finalizzati anzitutto allo scambio.
Un bene ha tanto più valore d'uso quanto più è grande la quantità di lavoro umano in esso oggettivato. La sostanza che crea valore è il lavoro. Naturalmente qui Marx dà per scontato che il bene debba avere un valore d'uso per la sussistenza dell'uomo o per la produzione di qualcosa. Egli non prende in considerazione il fatto (irrilevante da un punto di vista strettamente economico) che un bene può avere un altissimo valore (per la coscienza del soggetto) senza per questo avere un vero uso pratico, concreto, funzionale.
Nel Capitale il valore viene considerato solo in due modi: d'uso e di scambio. Tertium non datur. Quando Marx parla del valore in sé, senza aggettivi, lo intende sempre strettamente connesso al valore di scambio. “Una cosa può essere valore d'uso -dice- pur non essendo valore”(p.32). C'è “valore” solo quando c'è “scambio”. Il valore di scambio, nel Capitale, o viene esaminato in sé e per sé, oppure nel suo rimando al valore d'uso, mentre questo generalmente si riferisce ai fattori materiali della sussistenza umana e della produzione di beni.
La cosa, a ben guardare, è limitativa rispetto alle capacità umane di gestire le proprie risorse, che non sono solo “materiali”. Ecco, in questo senso, il valore d'uso, nel Capitale, non rimanda mai alla cultura con cui l'essere umano dà valore, storicamente, alle cose. E' forse “antimarxista” aggiungere, in maniera paritetica, ai due valori “classici” quello culturale e includere tra i valori culturali quelli normativi, affettivi, estetici ecc.?
Esistono cose che “non hanno valore” proprio in quanto il loro valore è incommensurabile, cioè non quantificabile, non monetizzabile. Una collana di conchiglie, per l'indio lucayo incontrato da Colombo durante il primo viaggio, poteva avere più valore di un oggetto artigianale in oro massiccio, semplicemente perché quella collana era stata costruita dallo stesso indigeno. Ma se essa gli fosse stata regalata dalla persona amata, avrebbe sicuramente avuto un valore maggiore. E se quella persona gli avesse addirittura salvato la vita o fosse morta poco prima di donargli la collana, allora questa avrebbe avuto un valore assolutamente incommensurabile. L'indio l'avrebbe conservata gelosamente e non l'avrebbe barattata con nessun'altra cosa al mondo.
L'indio in questione conosce sia il valore d'uso che il valore di scambio, ma più di tutto sa apprezzare il valore in sé delle cose, che prescinde sia dall'uso materiale che dallo scambio. Il valore, in tal caso, è incommensurabile non tanto perché non esiste sul mercato un possibile acquirente, quanto perché la cultura che si riflette nella coscienza dell'indio e la coscienza che si rispecchia nella sua cultura non vogliono paragonarlo con nessun'altra cosa.
Dunque se la sostanza che crea un valore “materiale” delle cose è il lavoro, quella che crea un valore “spirituale” delle cose è la coscienza: beninteso, non la coscienza astratta, di tipo kantiano, universalmente valida, ma la coscienza di un soggetto appartenente a una determinata cultura storica, quella stessa cultura che dà valore al lavoro umano.
Marx non era interessato a questo discorso perché esaminava le cose dal punto di vista dell'economia politica. La sua principale preoccupazione era quella di dimostrare i limiti e le irrisolte contraddizioni dell'economia politica classica (borghese), restando il più possibile all'interno di quest'ambito d'indagine. Pur avendo compreso perfettamente l'esistenza di un nesso tra struttura economica e sovrastruttura ideologica, Marx non avrebbe mai accettato l'idea che l'origine delle contraddizioni dell'economia politica borghese e della stessa formazione sociale capitalistica (il cui antagonismo irriducibile è riflesso in quella scienza borghese), va ricercata nel contesto culturale (ideologico, in particolare religioso) precedente a quella formazione sociale.
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Per Marx il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro (misurabile con la sua durata nel tempo), ovvero è dato dal tempo di lavoro socialmente necessario, dal grado sociale medio di abilità e d'intensità di lavoro (il dispendio di energie). Naturalmente ciò dovrebbe essere deciso dall'intera società. Inutile qui aggiungere che nel capitalismo non è la società, nel suo insieme, che decide il carattere “medio” dell'abilità, dello sforzo fisico-intellettuale, del tempo necessario, ma è la classe capitalistica che, sulla base delle leggi dello sfruttamento e delle innovazioni tecniche, impone a tutta la società i propri criteri relativi alla “medietà”.
Marx non ha mai approfondito il motivo culturale per cui, ad un certo punto, è potuto accadere che una determinata classe sociale potesse decidere, per tutta la società, di assegnare il valore delle cose a partire anzitutto dal lavoro, cioè considerando il lavoro come “autosignificantesi”, a prescindere dal contesto socio-culturale che gli dà un senso. Marx si limitò a costatare che tale “cultura del lavoro” era nata nell'ambito del cristianesimo (specie nella sua variante borghese, che è il protestantesimo), ma non è mai riuscito a spiegare perché questa cultura non sarebbe potuta sorgere nell'ambito della confessione ortodossa o islamica, e neppure in quella cattolica, se questa non si fosse laicizzata, trasformandosi appunto in protestantesimo.
Marx afferma, nella Prefazione suddetta, che “al giorno d'oggi, a confronto della critica dei tradizionali rapporti di proprietà, lo stesso ateismo è diventato 'culpa levis'”. In effetti, questo era vero per la cultura protestante, ma non sarebbe stato vero, nella stessa misura, anche per quella cattolica, proprio perché l'ideologia cattolica conserva nei confronti dell'ideale di una società religiosa un interesse maggiore, che all'individualista protestante manca.
Da notare, en passant, che nel capitalismo, almeno nella sua fase concorrenziale, il lavoro presumeva di dare un valore alle cose, a prescindere dalla cultura sociale (di origine cattolica) in cui lo stesso lavoro trovava il suo significato, la sua relativizzazione. Il lavoro aveva questa pretesa perché la religione protestante si era emancipata dalla teologia cattolica.
In seguito, nella fase monopolistica, il lavoro non è stato più in grado di dare un valore alle cose. Il valore oggi viene sempre più determinato da fattori che precedono o che seguono il lavoro vero e proprio (come ad es. la ricerca scientifica finalizzata al lucro, la pubblicità ecc.). Il lavoro oggi è la cosa che conta di meno, poiché sempre più viene sostituito dalle macchine e da aspetti irrazionali del mercato (ad es. la moda).
Dopo essersi reso indipendente dal contesto socio-culturale che gli dava significato, il lavoro (borghese) ha preteso di sostituirsi a quel contesto, dando valore alle cose: ne è risultato che il valore delle cose oggi non ha più alcun senso.
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La grandezza di valore di una merce varia al variare della forza produttiva del lavoro, ma mentre nelle società pre-capitalistiche tale grandezza rimaneva abbastanza costante, nel capitalismo invece, a causa dello sviluppo intensivo dello sfruttamento del lavoratore e della scienza applicata alla produzione, tale grandezza varia di continuo. Le “condizioni naturali” sono le ultime che possono, sotto il capitalismo, contribuire al mutamento della grandezza di valore, mentre nelle società pre-capitalistiche esse erano generalmente al primo posto.
La mancanza di una grandezza di valore costante è caratteristica del capitalismo, che non vuole conservare nei confronti del passato alcun rapporto. “In generale -dice Marx- quanto più è grande la forza produttiva del lavoro, tanto più corto è il tempo di lavoro necessario alla produzione di un articolo, tanto più piccola la massa di lavoro in esso cristallizzata e più basso il suo valore”. E' stato appunto così che il capitalismo emergente ha potuto distruggere il primato dell'agricoltura e dell'artigianato. Con la concorrenza dei prezzi, il capitalismo ha imposto sulla qualità del lavoro concreto la forza della quantità del lavoro astratto. Esso ha distrutto la “piccola forza produttiva del lavoro” che, avendo bisogno di molto tempo per produrre i beni, crea un valore d'uso molto grande. Insieme al senso della qualità delle cose, esso ha distrutto anche il primato dell'uomo sulla macchina, la creatività sulla produzione in serie.
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Quando nasce il capitalismo: quando si comincia a produrre valore d'uso sociale o quando si produce solo per il mercato? Il paradosso, infatti, è questo, che mentre col capitalismo un oggetto viene destinato esclusivamente a un uso sociale, poiché non ci si limita più a soddisfare i bisogni dei produttori, con lo stesso capitalismo la prevalenza sociale dello scambio, che si realizza nel mercato, fa perdere alla merce il suo effettivo valore d'uso e le fa acquistare un altro valore, quello che le dà chi la produce (che è un proprietario privato). Di qui i bisogni indotti, il consumismo ecc.
In altre parole, mentre da un lato il carattere sociale della produzione per il mercato sembra superare qualitativamente la ristrettezza del carattere individuale della produzione per l'autoconsumo; dall'altro, invece, proprio quella pretesa socializzazione della merce toglie a questa il suo valore d'uso e assicura al singolo proprietario che produce valori di scambio un primato sulla collettività, rendendo meramente “quantitativo” quel superamento che pretendeva d'essere “qualitativo”.
Dove sta l'inganno di questo processo, in cui lo stesso Marx, in parte, è caduto? Sta nel far credere che la produzione per l'autoconsumo non abbia alcun carattere di “socialità”, che sia cioè una produzione individuale. In realtà, anche nella società feudale esisteva il valore d'uso sociale, esistevano delle merci che si vendevano sul mercato, ma la differenza, rispetto al capitalismo, era che non si produceva esclusivamente per il mercato, non si faceva del mercato il sostituto della comunità rurale o di villaggio. I commercianti di schiavi, di spezie o di articoli di lusso, gli stessi usurai non avevano certo la forza sociale per mutare questo stato di cose.
Se vogliamo, la nascita del capitalismo ha rappresentato l'illusione di credere che il mercato costituisse l'elemento più socializzante della vita pubblica. Ma se questa illusione ha potuto far breccia nella comunità agricola, distruggendola dalle fondamenta, significa che in quella comunità i rapporti sociali non erano vissuti dai lavoratori secondo giustizia. Il mondo contadino ha potuto essere ingannato dalla classe borghese, con relativa facilità, appunto perché nelle campagne vigeva il servaggio. Nell'esaminare i motivi per cui il cattolicesimo è stato superato dal protestantesimo non si deve dimenticare l'importanza fondamentale di questa contraddizione sociale. Per secoli il contadino ha lottato contro il servaggio, ma in Europa occidentale si è riusciti ad eliminarlo solo con una diversa forma di schiavitù, quella del lavoro salariato.
Se l'illusione non avesse intaccato la maggior parte dei contadini di ogni comunità, nessun abile e spregiudicato mercante di schiavi, di spezie o di articoli di lusso avrebbe potuto subordinare le esigenze della comunità agricola a quelle del mercato.
E' dunque sbagliato sostenere che nella società feudale non si produceva valore d'uso sociale. Tale valore esisteva nell'ambito della comunità di lavoro, e anche sul mercato, relativamente alle eccedenze che si volevano vendere. Ciò che non esisteva era la produzione finalizzata unicamente al mercato, alla vendita, se non in limitatissimi casi. Il “grano di tributo” o della “decima”, che il contadino produceva per il signore feudale o per il prete, aveva un valore d'uso sociale, anche se non come il surplus venduto sul mercato per acquistare sale, spezie e altre cose: la differenza stava che il primo valore d'uso sociale era estorto con la coercizione, per cui alla fine diventava di “proprietà privata”; il secondo invece era libero.
In altre parole, nell'ambito della comunità agricola poteva esserci valore d'uso sociale senza che per questo vi fosse uno scambio equivalente, diretto, immediato, fra un bene e l'altro (ciò che appunto si verificava sul mercato). Lo scambio poteva essere “simbolico”, indiretto, nel senso che il contadino poteva produrre un bene d'uso sociale per ottenere in cambio la possibilità della sopravvivenza della propria comunità.
Nel servaggio invece egli era costretto a produrre un bene d'uso sociale che a causa della coercizione extra-economica diventava privato: un bene che serviva appunto al feudatario per garantirsi la sopravvivenza della rendita. Questo per dire che la merce rappresenta un'alternativa vincente al valore d'uso sociale soltanto quando questo, in realtà, ha smesso d'essere sociale ed è diventato privato.
Il punto sta proprio in questo, che il contadino voleva essere sempre più libero di produrre per il proprio autoconsumo (ovvero per il consumo del proprio villaggio) e naturalmente di acquistare sul mercato, e sempre meno voleva essere costretto a produrre valori d'uso per altri. Il borghese deve aver fatto leva su questa contraddizione sociale e su questa esigenza emancipativa.
Bisogna quindi distinguere tra valore d'uso sociale e merce: il primo viene prodotto anche per il mercato, la seconda viene prodotta solo per il mercato. La precisazione di Engels, messa tra parentesi, a p.33, non ha chiarito questa differenza, pur avendone lo scopo, e non tanto perché Engels non sappia che sul mercato esistono solo “merci”, quanto perché egli con una certa difficoltà avrebbe ammesso la presenza d'un valore d'uso sociale nel Medioevo. Marx ed Engels nutrivano non pochi pregiudizi nei confronti delle società agricole e delle idee “comunistiche” degli ambienti contadini, almeno sino a quando non verranno a contatto col populismo russo.
Per loro la produzione agricola era di carattere prevalentemente individuale. Non a caso Marx, nella suddetta Prefazione, afferma che la Germania “feudale” è destinata, prima o poi, a diventare come l'Inghilterra “capitalistica”. Questo perché “il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare al meno sviluppato l'immagine del suo avvenire”. Al massimo -dice ancora Marx- si “possono abbreviare e attutire le doglie del parto, ma non saltare né togliere di mezzo con decreti le fasi naturali dello svolgimento”.
Secondo Marx (ed Engels) il passaggio dal feudalesimo al capitalismo andava considerato come parte di un “processo di storia naturale”, in cui il singolo non è assolutamente “responsabile di rapporti da cui egli socialmente proviene, pure se soggettivamente [leggi: con la sua coscienza personale] possa innalzarsi al di sopra di essi”.
In realtà, mentre nel capitalismo un bene diventa sociale solo sul mercato (e per questa ragione esso riflette solo l'interesse di individui privati), nella società feudale invece un bene è individuale solo nella misura in cui è sociale, nel senso che il valore di un bene non viene mai deciso dal singolo individuo, né da un elemento che, rispetto alla comunità di lavoro, rappresenta (come nel caso del mercato) un aspetto di secondaria importanza.
Ecco perché si deve affermare che se l'individuo può soggettivamente “innalzarsi” al di sopra dei rapporti sociali da cui proviene, allora non si deve considerare la transizione dal feudalesimo al capitalismo come un processo “naturale”, inevitabile, assolutamente necessario. L'inevitabilità è sempre una conseguenza del fallimento di alcune alternative concrete.
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Al § 2, dopo aver parlato della differenza tra valore d'uso e valore, intendendo per “valore” la sostanza prodotta dal lavoro e la grandezza prodotta dal tempo di lavoro socialmente necessario, dopo aver specificata la differenza tra valore d'uso e valore di scambio, Marx riprende la dimostrazione già fatta in Per la critica dell'economia politica sulla “doppia natura” del lavoro contenuto nella merce. Non dimentichiamo che Il Capitale vuole essere la continuazione del suddetto volume, apparso nel 1859, e, in particolare, il suo primo capitolo -come dice Marx nella Prefazione- vuole essere un riassunto delle parti significative di quella ricerca, con l'aggiunta di precisazioni e chiarimenti indispensabili.
Quando Marx inizia a parlare della divisione sociale del lavoro e afferma ch'essa “è il presupposto dell'esistenza della produzione delle merci”(p.34), non bisogna intendere tale affermazione nel senso che là dove esiste una divisione sociale del lavoro, la produzione è unicamente finalizzata al mercato. La divisione del lavoro non suppone di per sé il capitalismo.
Viceversa, quando Marx aggiunge, subito dopo la suddetta asserzione, che “la produzione delle merci non è presupposto dell'esistenza della divisione sociale del lavoro”, e sceglie, come esempio di questo, “l'antica comunità indiana”, dove “il lavoro è socialmente diviso, senza che i prodotti divengano merci”, qui si possono ipotizzare due spiegazioni: o Marx è caduto in una svista, poiché l'esempio riportato contraddice la sua seconda asserzione; oppure egli voleva sostenere che le merci possono essere prodotte da una comunità il cui lavoro non è socialmente diviso, ma allora ciò contraddice la prima asserzione.
Marx, in pratica, fa questo ragionamento: la divisione del lavoro può esserci anche nella proprietà collettiva (come ad es. nella comunità indiana), ma così non si è in grado di produrre merci, poiché queste sussistono solo in presenza di una proprietà individuale. Infatti, “solo prodotti di lavori privati autonomi e indipendenti l'uno dall'altro si possono confrontare reciprocamente come merci”(ib.). Cioè solo quando la “comunità” è finita e ad essa si è sostituita la libera proprietà privata, si può parlare di divisione sociale del lavoro finalizzata alla produzione di merci.
L'incoerenza logica che Marx ha manifestato nella seconda asserzione (e che Engels probabilmente non è riuscito a spiegarsi) non è semplicemente il frutto di una svista, ma piuttosto di un pregiudizio nei confronti delle formazioni sociali pre-capitalistiche, specie di quelle non-schiavistiche. Marx cioè vuole qui attribuire la facoltà di produrre merci unicamente all'indipendenza dei produttori singoli semplicemente perché non riesce a contemplare la possibilità che una comunità, basata sull'autoconsumo, possa produrre, con la propria divisione del lavoro, merci per un'altra comunità, e che faccia questo senza escludere l'esistenza, al proprio interno, delle proprietà individuali, ovvero degli “affari privati di autonomi produttori”. In altre parole, Marx non credeva possibile conciliare proprietà individuale e proprietà sociale all'interno della comunità agricola pre-capitalistica. Le merci potevano essere prodotte solo da individui privati la cui proprietà si contrapponesse a quella sociale.
Questo modo di vedere le cose oggi, se si vuole costruire il socialismo democratico, va superato. Senza dubbio è vero che la libera proprietà privata non presuppone, di per sé, una finalizzazione esclusiva della produzione per il mercato. Però la storia ha dimostrato che nel capitalismo ciò avviene in maniera generalizzata, irreversibile, senza soluzione di continuità. Il motivo di questo Marx lo spiegherà più avanti, quando parlerà del fatto che la presenza di una proprietà privata per pochi e di una libertà per tutti, obbliga la divisione del lavoro a produrre soltanto merci e lo stesso lavoratore a trasformarsi in una “merce”.
In tal senso si può qui affermare che né la produzione di merci, né la divisione del lavoro presuppongono, di per sé, la separazione del lavoratore dalla proprietà dei suoi mezzi produttivi: solo in forza di questa alienazione materiale un prodotto diventa esclusivamente “merce”. Dunque, per converso, la libera proprietà privata non produrrà unicamente per il mercato soltanto quando essa sarà patrimonio di tutta la società, cioè soltanto quando la libera proprietà privata non verrà gestita in contrapposizione alla libera proprietà altrui. Ma la proprietà privata non sarà mai libera finché resterà patrimonio di pochi monopolisti.
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Meritevole d'attenzione è l'affermazione di Marx secondo cui il valore d'uso è il prodotto di un “lavoro utile” e non della “natura” in sé. Il lavoro è l'unica “attività speciale, produttiva e conforme a uno scopo”(p.35), in grado di adattare “particolari materiali naturali a particolari bisogni umani”(ib.).
Nell'economia politica di Marx l'uomo produce valori d'uso in quanto appartiene alla natura. Nel senso che, in ultima istanza, è la stessa natura che, attraverso l'uomo, produce valori d'uso per sé. La produzione di valori d'uso -osserva Marx- è “una perenne necessità della natura”(ib.). In nota egli cita una frase di Pietro Verri, secondo cui l'uomo non “crea” ma si limita a “trasformare” la materia (“accostando e separando”).
Con questo ragionamento Marx non ha dato una vera spiegazione di ciò che dà valore al lavoro. Da economista qual era, egli riteneva che il valore del lavoro (concreto) stesse nello stesso valore d'uso dei prodotti creati: il valore di una “causa” veniva qui dai suoi “effetti”. In tal modo però è impossibile uscire dalla tautologia, dal determinismo economico. Cosa che invece si può fare affrontando il problema della cultura che dà senso all'attività lavorativa e che, in definitiva, permette di distinguere un criterio di lavoro da un altro. L'indagine su questa cultura, partendo da un'analisi di tipo marxista, deve ancora essere fatta.
Non avendo considerato l'elemento della cultura, essendosi cioè limitato a quelli della materia naturale e del lavoro (relativamente alla formazione del valore d'uso), Marx è caduto in una contraddizione che, se si resta nell'ambito dell'economia politica, è irrisolvibile. Da un lato, infatti, Marx sostiene che il valore d'uso è prodotto dal lavoro utile, lasciando così credere che il lavoro sia un'attività specifica dell'uomo; dall'altro però sostiene che, nel produrre tale valore, l'uomo “può agire solo come la stessa natura, cioè solo modificando le forme dei materiali”(ib.).
Il che, in sostanza, non permette di spiegare in che modo il lavoro dell'uomo va considerato qualitativamente diverso da quello dell'animale. Se l'uomo fosse semplicemente un ente naturale, i suoi valori d'uso non potrebbero avere, tra loro, differenze di sostanza, grandezza e forma così rilevanti. Per quanto grandi possano essere le differenze tra una tela di ragno e un'altra, mai nessun ragno potrà mai uscire dall'ordine degli araneidi. Nel costruire oggetti di valore d'uso da parte del mondo animale, le differenze sono visibili e anche rilevanti, ma mai paragonabili alle capacità operative dell'essere umano, il quale è sì un prodotto della natura, ma un prodotto che supera la natura stessa.
Certo, finché si considera il rapporto dell'uomo con la materia, l'attività lavorativa non potrà essere che quella della trasformazione, essendo la materia (o la natura) antecedente alla comparsa dell'uomo sulla terra. Tuttavia, se si considera il rapporto dell'essere umano con se stesso e con il suo simile, non si può non costatare che l'elemento della coscienza, sociale e personale (ovvero dell'autocoscienza) rappresenta il superamento della stessa natura (che è determinata da leggi meccaniche), poiché, al di fuori dell'essere umano, non esiste in alcun altro ente di natura la coscienza che sa di essere tale.
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La principale difficoltà della teoria del valore-lavoro di Marx non si riscontra tanto nell'esame del valore d'uso, quanto in quello del valore di scambio, e non perché si tratti del valore di scambio in sé, quanto perché, sotto il capitalismo, tale valore è quanto di più complesso, di più contraddittorio, si possa pensare, avendo esso un primato ingiustificato, arbitrario, sul valore d'uso.
Nella IIa parte del § 2, Marx parla del valore della merce, ovvero del passaggio dal lavoro utile, concreto (per il valore d'uso) al lavoro astratto (per il valore di scambio). Egli afferma che ogni società ha sempre cercato di sostituire a una “quantità maggiore di lavoro semplice” una “quantità minore di lavoro complesso”(p.37), cioè ha sempre cercato di produrre di più in minor tempo.
Tale “economicità” non sta di per sé ad indicare la transizione dal feudalesimo al capitalismo. Perché ciò avvenga occorre che il lavoro astratto abbia un primato decisivo su quello concreto, al punto che quest'ultimo sia rovesciato dalle fondamenta e al valore della qualità si sostituisca, tout-court, quello della quantità.
Tuttavia, Marx non è riuscito a spiegare, né mai vi riuscirà, il motivo per cui, ad un certo punto, la società, nel suo insieme, sulla base di una determinata cultura (la quale naturalmente avrà subìto un'evoluzione nel corso dei secoli), preferisce anzitutto e soprattutto produrre sempre di più in un tempo sempre minore, sconvolgendo così “le proporzioni fornite dalla tradizione”(ib.). Né egli ha qui considerato l'eventualità che la “riduzione” del tempo o il “potenziamento” del lavoro semplice possano essere dettati da motivi occasionali, contingenti (come ad es. le calamità naturali) e che la società, dopo aver risolto i problemi straordinari, torni spontaneamente ai metodi ordinari di sussistenza e produzione.
Pur senza dirlo esplicitamente, Marx intende far notare che la transizione dal feudalesimo al capitalismo (cioè dal valore d'uso prevalente al valore di scambio prevalente) è stata necessaria, inevitabile, così come è necessario, da sempre, il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto. Anche se non per mezzo di questo passaggio -sarà lui stesso a riconoscerlo- si deve considerare la transizione al capitalismo come un fatto scontato, essendo necessarie, a tale scopo, condizioni particolari suppletive, che non si riscontrano in ogni luogo e tempo. Quelle condizioni appunto che vanno ricercate nella cultura, nell'ideologia, nei valori, in una parola nella sovrastruttura, e che Marx non ha mai pensato d'individuare e approfondire più di tanto.
Egli considerava più importante il lavoro astratto semplicemente perché con esso è possibile soddisfare molteplici esigenze, e certo non solo del singolo individuo. Semmai è il lavoro concreto che -secondo Marx- risulta utile solo al singolo produttore. Insomma, ad una società che privilegia l'autoconsumo sul mercato, Marx tendeva a preferire, con la sua visione deterministico-evolutiva, una società che privilegia il mercato sull'autoconsumo. La “qualità” del singolo prodotto non può andare a scapito del “benessere diffuso”.
Con molta difficoltà Marx avrebbe accettato l'idea che una corretta valutazione del valore di scambio (ovviamente di due merci diverse) è possibile solo se nella società domina il valore d'uso di entrambe le merci. Egli avrebbe obiettato che, in questo caso, non ci sarebbe neppure stato lo scambio di quelle merci sul mercato. Tuttavia il nodo da sciogliere sta proprio in questo, che lo scambio può trovare la sua vera ragion d'essere non solo nel bisogno d'una merce che non si possiede, ma anche e soprattutto nella capacità che una determinata comunità deve avere di stabilire, con una certa approssimazione, l'esatto valore d'uso di quella merce oggetto di scambio. Uno scambio è virtualmente democratico, reciprocamente vantaggioso, quando entrambi i contraenti sanno in anticipo quanto tempo e fatica occorrono per produrre una determinata merce. Se lo scambio avviene a prescindere da questa consapevolezza, facilmente chi detiene il monopolio della produzione o della proprietà sarà in grado di sottomettere il mero consumatore o il produttore più debole.
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Marx non ha iniziato Il Capitale con un'analisi storica dell'accumulazione originaria ma con un'analisi fenomenologica della merce, perché non voleva dare al lettore l'impressione che tutto quanto è stato prodotto dal capitalismo va superato.
Partendo dalla merce, egli ha voluto mostrare, indirettamente, che la transizione dal feudalesimo al capitalismo era indispensabile e che nel capitalismo l'unica cosa che il socialismo non può assolutamente accettare è lo sfruttamento del lavoratore, reso possibile dal fatto che la proprietà dei mezzi produttivi è in mano a pochi capitalisti.
Ecco perché nell'analisi della merce non si riescono a scorgere i motivi di fondo per cui il capitalismo va rovesciato. Marx ha posto le cose come se il capitalismo, sul piano fenomenologico, cioè dell'apparenza fenomenica, non abbia veramente nulla di così “ripulsivo” da necessitare il suo superamento da parte del proletariato.
Il capitolo dove forse più risulta il lato “irrazionale” della merce capitalistica, è quello dedicato al “feticismo”. Ma qui l'analisi, che pur viene a toccare aspetti di ordine etico e socio-esistenziale, si limita a una sorta di “filosofia dell'economia” (non molto diversa da quella dei Manoscritti del 1844, in quanto Marx non riesce a spiegare quale sia la cultura che origina il fenomeno del feticismo.
Se egli avesse lavorato di più sul nesso struttura/sovrastruttura, sarebbe probabilmente arrivato alla conclusione che il superamento del capitalismo dovrà comportare non solo la fine dello sfruttamento, ma anche l'inizio di una rivoluzione culturale che modifichi tutti gli aspetti del sistema capitalistico, strutturali e sovrastrutturali.
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Nel § 3 Marx prende in esame la “forma di valore, cioè il valore di scambio”. Mentre nel § 1 egli aveva mostrato che la “sostanza” e la “grandezza” ottenute attraverso il lavoro e il tempo impiegato per produrre una merce, possono aiutarci a capire il valore d'uso, ovvero “l'oggettività rozzamente sensibile dei corpi delle merci”(p.41), ora egli non ha dubbi nell'affermare che “l'oggettività del valore delle merci differisce in ciò dalla vedova Quickly, che non si sa dove trovarla”(pp.40-1).
Anche qui Marx imposta in modo sbagliato la ricerca per trovare la soluzione dell'enigma del valore. Egli infatti afferma che “l'oggettività di valore [delle merci] è semplicemente sociale, e quindi sarà evidente che quest'ultima può apparire solo nel rapporto sociale tra merce e merce”(p.41).
L'errore sta appunto nel fatto di ritenere “sociale” solo il valore di scambio, cioè solo il mercato, e di ritenere “individuale” il valore d'uso, la cui oggettività sarebbe “rozzamente sensibile”. Per Marx la comunità agricola basata sull'autoconsumo è più individualistica dei soggetti indipendenti che s'incontrano sul mercato per contrattare, sulla base dell'offerta e della domanda, i prezzi delle merci. Posto il problema in questi termini, era ovviamente inconcepibile, per Marx, andare a ricercare l'oggettività del valore di scambio in una comunità del genere. Egli fa un discorso logico partendo da una premessa sbagliata.
Il suo ragionamento potrebbe funzionare a una sola condizione, che i contraenti, sul mercato capitalistico, avessero piena fiducia reciproca. Ma perché questo accada, occorre che nella società domini il valore d'uso, cioè il principio secondo cui un oggetto viene prodotto anzitutto per il consumo individuale e sociale, e solo in secondo luogo per essere venduto. Ora, tale eventualità non è nemmeno ipotizzabile sotto il capitalismo.
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Secondo Marx il primo motivo per cui è alquanto difficile stabilire l'oggettività del valore di scambio, consiste nel fatto che due merci di genere diverso, ad es. una tela e un abito, sono, nel contempo, “l'uno la condizione dell'altro” ed “estremi che si escludono a vicenda”(p.42). Infatti l'espressione della “forma di valore semplice” o singola o accidentale, e cioè: venti braccia di tela = un abito, può essere rovesciata nel suo contrario: un abito = venti braccia di tela. In tal modo è impossibile stabilire, in maniera assoluta, quale delle due merci funzioni come forma relativa di valore (rispetto ad altra merce) o come forma equivalente (generalmente intesa).
L'enigma poteva essere risolto facendo capo al valore d'uso, ma non è stata questa la strada scelta da Marx. Facciamo un esempio. Supponiamo che un intellettuale viva in ristrettezze. Siccome è un appassionato di studi storici, mira ad abbonarsi a diverse riviste che trattano tale argomento. La passione per le riviste è superiore a quella per i libri, poiché esse possono tenerlo aggiornato per un anno intero, mentre un libro, quando vede la luce, è già vecchio di almeno un anno, se tutto va bene. Certo, potrà essere profondo, analitico, originale, ma non avrà mai il pregio dell'attualità, del legame diretto col presente, che fa sentire l'intellettuale, in contatto con altri intellettuali, protagonista del suo tempo.
Ad un certo punto egli s'accorge che l'abbonamento medio annuale di tutte le sue riviste è di circa £ 50.000. Questa cifra, automaticamente, gli diventa un metro di misura oggettivo per tutti i suoi successivi acquisti di libri. Nel senso che ogniqualvolta gli capita di voler acquistare un libro che costa sulle 50.000 £, prima fa mente locale e poi decide se il suo valore possa corrispondere a quello di un abbonamento annuale a una rivista storica. Di colpo, il valore d'uso del libro, nella coscienza dell'intellettuale, crolla a £ 40.000 e poi a £ 30.000, finché egli decide di non comprarlo (almeno per il momento). “Il libro mi serve, ma costa troppo; costando così troppo, forse non mi serve tanto”.
In pratica che ragionamento ha fatto questo intellettuale? Egli non ha fatto altro che abbassare, in coscienza, il prezzo del libro mettendolo a confronto con ciò che più gli interessava. In pratica, egli ha fatto trionfare il valore d'uso della rivista sul suo stesso valore di scambio, nel senso cioè che il suo valore d'uso ha fatto abbassare sotto le 50.000 £ il valore d'uso del libro, per avendone fatto aumentare il valore di scambio.
Naturalmente se la cosa finisse qui non ci sarebbero né vinti né vincitori, poiché da un lato il libro ha bisogno d'essere venduto, dall'altro ha bisogno d'essere letto. Se tutti gli acquirenti ragionassero come il nostro intellettuale, l'editore fallirebbe, ma deve forse cedere l'intellettuale sul primato del valore d'uso della sua rivista? Deve essere forse lui a fare un sacrificio e ad accettare l'alto valore di scambio del libro che gli occorre? Se lo facesse, domani si troverebbe ad avere gli stessi problemi con un libro che costa £ 60.000, il quale, a sua volta, contribuirà a far aumentare di prezzo la rivista. D'altro canto l'intellettuale ha bisogno, per la sua professione, di acquistare anche determinati libri, altrimenti il valore del suo lavoro tenderà a diminuire. Dunque cosa fare?
Da questo match non si può uscire in termini di “lotta economica” nell'ambito del capitalismo. L'intellettuale può anche scioperare e smettere di leggere libri, ma se si limita a questo, sarà poi lui a dover scendere per primo a compromessi, essendo la parte sociale più debole. Può anche scegliere soluzioni più “empiriche”, come ad es. fotocopiare solo le pagine che gli interessano, ma prima o poi gli editori gli porranno un divieto.
L'unica cosa che gli resta dare fare, se vuole salvaguardare il primato del valore d'uso, è quella di affrontare il problema politicamente. Dal circolo vizioso che il mercato impone alle categorie più deboli, l'intellettuale non può uscire finché non avrà il potere di strappare all'editore il monopolio sulla carta stampata. Quando la rivoluzione politica sarà compiuta, non solo l'editore e l'intellettuale potranno finalmente impostare i loro nuovi rapporti sul primato del valore d'uso, ma anche tutta la società.
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Marx, trattando l'argomento della “forma di valore”, è partito da quella più “semplice”, allo scopo di dimostrarne il limite non rispetto al principio del valore d'uso (ché, anzi, se messa a confronto col valore d'uso, tale forma di valore è -secondo Marx- molto meno “rozza”), ma rispetto all'esigenza del valore di scambio di perfezionare al massimo le sue “forme”, che, nell'analisi della merce, arrivano sino a quattro (l'ultima è quella del denaro).
Da un lato quindi Marx ha ritenuto che, di un qualunque prodotto del lavoro che non si confronta sul mercato con altri prodotti, il valore sia insignificante, arbitrario, in quanto del tutto individuale; dall'altro ha cercato di trovare l'oggettività di tale valore nello scambio, ma ha finito col dimostrarne l'inesistenza, poiché nel capitalismo il valore di una merce è possibile stabilirlo solo in rapporto a un'altra merce, ed entrambe, avendo come punto di riferimento non il lavoro ma il mercato, mutano di continuo i loro valori.
Certamente, Marx ha avuto tutte le ragioni di affermare che una merce non può stabilire da sé il proprio valore. Tuttavia, invece di dedurre da ciò che il valore di una merce può essere deciso solo da una comunità che non dipenda dal mercato, ne ha dedotto che la comunità deve cercare nel mercato il valore di quella merce ponendola a confronto con un'altra di scambio equivalente. Cioè invece di porre le premesse per una lotta politica contro l'egemonia del mercato, Marx si è limitato a sostenere che “indietro” non si può tornare, che l'autoconsumo è definitivamente tramontato e che il mercato può essere tenuto sotto controllo semplicemente se si razionalizza la produzione attraverso la socializzazione dei mezzi produttivi.
Naturalmente se Marx avesse privilegiato il valore d'uso su quello di scambio, sarebbe poi stato costretto a rivedere i suoi pregiudizi sulle comunità agricole pre-capitalistiche (cosa che farà, almeno in parte, negli ultimi anni della sua vita). Ecco perché, affermando che solo nel valore di scambio si ottiene “una forma di valore diversa dalla sua forma naturale”(p.46), egli ritiene che ciò sia un vantaggio rispetto al valore d'uso, dove il “lavoro umano produce valore ma non è valore”(p.45). Questo perché “soltanto l'espressione di equivalenza tra merci di diverso genere dà rilievo al carattere specifico del lavoro come creazione di valore, giacché riconduce in effetti i lavori di genere diverso contenuti nelle merci di genere diverso a quello che è loro comune, a lavoro umano in genere”(ib.).
Questo modo di vedere le cose oggi va completamente superato: semplicemente perché se ciò che dà valore alle merci non può essere il lavoro in sé, ma il lavoro espressione di una realtà sociale che dà valore allo stesso lavoro, allora il valore del lavoro non può essere dato dalle possibilità che offre il mercato di considerare equivalenti determinati merci: l'equivalenza dei lavori non può essere dedotta dall'equivalenza delle merci.
Se in una determinata società domina il principio del valore d'uso, possono essere considerati equivalenti due lavori che producono merci non equivalenti. Se ad es. nel raccogliere le pesche il soggetto A impiega un'ora per riempire cinque casse e il soggetto B con lo stesso tempo ne riempie tre, i due lavori non saranno equivalenti se finalizzati al mercato, ma lo sono se finalizzati all'interesse generale della collettività basata anzitutto sull'autoconsumo, nel senso che B ha dato quanto era in suo potere e il confronto con A sarebbe l'ultima cosa cui la comunità potrebbe pensare.
In sostanza, l'uguaglianza dei lavori è possibile solo se all'interno della comunità vige l'uguaglianza degli uomini tra loro. Se manca questa uguaglianza, è impossibile ristabilirla partendo da quella delle merci.
E l'uguaglianza degli uomini è possibile realizzarla solo se la proprietà privata è accessibile a tutti, o in forma individuale o in forma cooperativistica (all'interno della quale tutti i produttori sono soci a pari titolo). Non ci può essere uguaglianza sociale là dove un cittadino è costretto ad accettare il lavoro salariato per poter vivere.
In tal senso, non è singolare il fatto che proprio mentre, attraverso il valore di scambio, il capitalismo abbia la pretesa di dare “rilievo al carattere specifico del lavoro come creazione di valore”, questo stesso lavoro, in ultima istanza, non è in grado di stabilire alcun vero valore oggettivo delle merci?
E non è forse singolare che proprio mentre il capitalismo si preoccupa di stabilire che il valore di una merce non è dato anzitutto dal suo “valore in generale”, bensì dal suo “valore quantitativamente determinato”, questo stesso specifico valore non sia in grado di farci capire l'effettivo valore di una merce se non dopo averla messa a confronto con un'altra?
Non è insomma singolare che dopo aver condannato il lavoro concreto a un ruolo storico del tutto marginale, il capitalismo -che pur privilegia il lato quantitativo del valore delle merci- sia stato costretto ad affermare il primato del “lavoro astratto”, cioè dell'astratto “valore in generale” delle merci?
Stupisce, in questo senso, che Marx, pur avendo compreso perfettamente i limiti ontologici del capitalismo, non sia riuscito a cogliere la positività del modo di produzione pre-capitalistico fondato sull'autoconsumo.
Una spiegazione di questo limite di Marx la si può trovare nella parte dedicata alle tre particolarità della “forma di equivalente”. Marx indovina le prime due: primato del valore di scambio sul valore d'uso e primato del lavoro astratto su quello concreto, ma sbaglia la terza, allorché sostiene un primato del lavoro sociale (capitalistico) su quello individuale o privato (pre-capitalistico).
Che Marx non abbia compreso la terza caratteristica lo si può notare anche dal fatto che l'ha messa per ultima, come fosse una conseguenza delle altre due, mentre in realtà essa andava messa per prima, essendo la causa principale del sorgere delle altre.
Se Marx non avesse conservato un pregiudizio sulle comunità agricole di autosussistenza non avrebbe contrapposto lavoro individuale a lavoro sociale nei termini in cui l'ha fatto. Egli infatti non ha saputo scorgere nel lavoro individuale agricolo la dimensione sociale, che è prevalente, e non ha sottolineato a sufficienza che l'origine del lavoro “sociale”, nel capitalismo, è tutta individuale. La “socializzazione” del lavoro, nell'ambito del mercato capitalistico, è una mera astrazione, così come è quanto meno improprio parlare di lavoro “socializzato” nell'ambito dell'impresa capitalistica, ove la proprietà è di uno o più imprenditori privati. Meglio sarebbe parlare, in questo caso, di lavoro “organizzato” con l'uso delle macchine.
Viceversa, nell'economia contadina il lavoro era da subito sociale, anche se il contadino lavorava la terra con poche persone. Infatti, era anzitutto “sociale” la comunità che dava senso al lavoro. Ed era “sociale” anche nel senso che la realizzazione dell'autarchia non veniva affidata ai singoli produttori, ma alla comunità nel suo complesso. Nelle comunità di autosussistenza non è mai esistita l'indipendenza assoluta del singolo produttore dagli altri produttori.
La crisi di questa comunità, ciò che determinò, in ultima istanza, la transizione al capitalismo, traeva la sua ragion d'essere nell'antisocialità costituita dal servaggio, ovvero dalla rendita feudale. Questa antisocialità pratica, mascherata ideologicamente dalla religione, troverà un contrappeso non solo nelle lotte politiche dei contadini, ma anche nell'affermazione di una nuova antisocialità: quella del lavoro individuale borghese.
La società borghese è nata con la pretesa di anteporre al lavoro collettivo il lavoro individuale, facendo credere che quest'ultimo fosse più “libero” dell'altro, in quanto i produttori privati presumevano d'essere totalmente indipendenti. In pratica la società borghese non ha fatto altro che sostituire la dipendenza del singolo produttore da una comunità di produttori come lui, con la sua dipendenza da un proprietario privato che non produce. Questo passaggio è potuto avvenire appunto perché nella comunità di autosussistenza vigeva un principio ad essa estraneo o contrario, quello della rendita feudale.
Marx avrebbe insomma dovuto puntare di più l'attenzione sul fatto che la caratteristica della merce d'essere “immediatamente scambiabile” con altra merce, sul mercato, era un fatto altamente drammatico, in quanto presupponeva l'agonia della comunità di autosussitenza. Senza tale comunità, infatti, il bisogno di merci si fa sempre più pressante, sicché la loro scambiabilità deve farsi più veloce. Il consumatore ha bisogno di “tutto” proprio perché è in grado di produrre soltanto “qualcosa” o addirittura “niente”. Dirà Marx nel § sul feticismo: “Nei modi di produzione dell'antica Asia e dell'antichità classica ecc., la trasformazione del prodotto in merce...diviene tanto più importante, quanto più le comunità s'avvicinavano all'epoca del loro tramonto”(p.80).
In fondo, la grande diversità esistente tra Marx e l'economia politica classica, consiste semplicemente in questo, che Marx non s'illudeva di poter conservare il valore d'uso in una società ove domina quello di scambio. Marx mise a nudo il formalismo dell'economia classica non rinunciando definitivamente al valore d'uso, ma cercando di sintetizzarlo con quello di scambio, proponendo la socializzazione dei mezzi produttivi, ovvero la fine della proprietà privata. Tuttavia, egli non si accorse che, così facendo, si doveva per forza tornare a valorizzare l'economia pre-capitalistica fondata sull'autoconsumo.
In tal senso il limite del Capitale si pone a un duplice livello: da un lato esso non offre la modalità operativa con cui realizzare la suddetta sintesi (e qui il leninismo, col suo primato della politica sull'economia, costituirà, del marxismo, l'insostituibile complemento); dall'altro esso non parte dal presupposto che la sintesi suddetta può essere efficacemente realizzata solo a condizione che il valore d'uso abbia un primato su quello di scambio (e su questo neppure il leninismo riesce ad offrire indicazioni di merito). Praticamente il problema di recuperare il primato del valore d'uso si sta ponendo solo ora nei paesi dell'ex-“socialismo reale”.
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Marx ha potuto facilmente criticare Aristotele perché la società schiavista che questi rappresentava aveva delle contraddizioni evidenti, ma non per questo è riuscito a porsi con la dovuta obiettività di fronte all'etica economica medievale.
E' vero, Aristotele aveva capito che “non può esistere lo scambio senza l'uguaglianza”(cit. a p.55), ovvero che esiste “un rapporto di uguaglianza nella espressione di valore delle merci”(p.56). Ed è anche vero ch'egli non poteva dedurre il concetto di valore, ovvero l'equivalenza delle merci, dall'uguaglianza dei lavori umani, essendo la società greca di tipo schiavista. In questo senso, la seconda parte della frase di Aristotele, riportata da Marx: “non può esistere l'uguaglianza senza la commensurabilità”, è, rispetto alla prima definizione, di carattere tautologico, poiché “scambio” e “commensurabilità” sono, in definitiva, equivalenti.
Stando al ragionamento, perfettamente corretto, di Marx, Aristotele, se non fosse vissuto in una società schiavista, avrebbe dovuto concludere dicendo: “non c'è l'uguaglianza delle merci se non c'è l'uguaglianza sociale di chi le produce”.
Tuttavia, Marx, ancora vittima dei suoi pregiudizi antimedievali, non s'accorge che la prima vera alternativa allo schiavismo non è stata costituita dalla società borghese, col suo “concetto dell'uguaglianza umana”, ma è stata costituita dalla società feudale, col suo concetto di uguaglianza umana “davanti a dio”. Marx cioè non si è reso conto che l'uguaglianza formale affermata dalla borghesia non era altro che una laicizzazione dell'uguaglianza non meno formale affermata dalla chiesa.
Dove stava la differenza tra le due forme di uguaglianza? Nel fatto che quella contadina viveva un conflitto antagonistico fra la socializzazione della comunità agricola e la dipendenza personale dal feudatario; mentre quella borghese rappresenta una lacerante contraddizione fra la socializzazione del mercato e la libertà individuale strettamente legata alla proprietà privata.
Marx è arrivato a un passo dal comprendere che se il concetto di uguaglianza umana ha assunto nella società borghese “la saldezza di un pregiudizio del popolo”(ib.), ciò è dipeso dal fatto che prima della cultura borghese c'era quella cristiana che alimentava nelle masse l'illusione di una libertà sostanziale. Marx non è arrivato a fare il passo successivo -che sarebbe stato quello di esaminare i pro e i contro dell'etica economica medievale, orientale e occidentale, nonché i fondamenti dell'ideologia borghese nell'ideologia religiosa del cristianesimo occidentale- semplicemente perché ha sempre considerato il servaggio una variante dello schiavismo e non un tentativo di superamento.
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Che il valore di una merce debba essere soggetto alle mutazioni delle circostanze di luogo, di tempo e di altri fattori (non ultimo dei quali il lavoro), è cosa che si può accettare senza dover ogni volta ribadire la necessità, per una sana economia, che il valore d'uso abbia un primato su quello di scambio.
E' fuor di dubbio, tuttavia, che non esisterà mai alcuna possibilità di stabilire “per decreto” tale primato, senza arrecare un danno rilevante all'intera economia. La dialettica tra i due valori sarà eterna, ma fintantoché la comunità in cui essi si esprimono conserverà il proprio valore umano, quello di scambio resterà complementare a quello d'uso. Viceversa, ogniqualvolta la comunità, come tale, perderà di credibilità, il valore di scambio tenderà a prevalere su quello d'uso.
Sotto il capitalismo questa tendenza si è così radicalizzata che è impossibile ripristinare il rapporto originario senza una rivoluzione politica. Le classi sociali legate al primato del valore di scambio hanno interessi così grandi che, anche se costituiscono un'infima minoranza, non riescono a rinunciare spontaneamente ai loro privilegi.
D'altra parte la tendenza si è radicalizzata proprio perché sono falliti nell'ambito del capitalismo tutti i tentativi di salvaguardare il valore d'uso senza mettere anzitutto in discussione il monopolio di pochi privati sulla proprietà: mercantilismo, fisiocrazia ecc.
E' fallita persino quella forma di socialismo (detta dal marxismo “utopica”) che mirava ad allargare la proprietà a tutti i membri di una particolare collettività socializzata. Non c'è infatti alcuna possibilità di costruire “isole felici” in cui tutelare il valore d'uso, se prima non si elimina politicamente il sistema capitalistico. In tal senso, se un merito al marxismo va riconosciuto è stato proprio quello di aver svolto una profonda opera di disillusione.
Il socialismo utopistico avrebbe avuto ragione se prima si fosse fatta la rivoluzione politica per abbattere il sistema capitalistico. Esso invece pensava che proprio attraverso riforme progressive, attraverso particolari esperimenti collettivi, non ci sarebbe stata bisogno di alcuna rivoluzione politica. Senza volerlo, esso non faceva che puntellare l'edificio traballante del sistema.
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Lo sforzo maggiore che Marx ha compiuto nel § 3 è stato quello di cercare d'individuare la possibilità di una definizione oggettiva di valore a partire dalla scambio. Non è stato quello di sostenere che tale definizione è impossibile in un'economia così “anarchica” o che, prima di dare una definizione del genere, bisogna rivoluzionare il sistema.
In tal senso egli ha cercato di dimostrare che la possibilità di trovare una qualche forma di oggettività è strettamente correlata alla nascita di una contrapposizione tra “forma relativa di valore” e “forma di equivalente” (cosa che deve concludersi con il prevalere della seconda sulla prima).
Nella forma di valore semplice, singola o accidentale (ad es. venti braccia di tela = un abito) ognuna delle due merci può svolgere il ruolo opposto, per cui è “difficile fissare la contrapposizione polare”(p.66). Ogni merce ritiene di poter essere equivalente a una qualunque altra merce (poste naturalmente determinate proporzioni quantitative).
Nella forma di valore totale o sviluppata “il rapporto casuale di due individuali proprietari di merci viene meno”(p.61), poiché ora infinite merci possono fungere da equivalenti particolari per un'unica merce (ad es. la tela).
Il rovescio di questa molteplice serie di rapporti dà la forma generale di valore, quella per cui “un genere particolare di merce [ad es. la tela] riceve la forma generale di equivalente”(p.65), mentre tutte le altre ne sono escluse. Solo una merce “si trova nella forma di diretta scambiabilità con tutte le altre merci”(p.66). Questo dipende dal fatto che in essa si riconosce il riferimento sociale generale di ogni lavoro umano.
Come si può notare, Marx si è limitato a un esame logico della successione delle forme, senza entrare nei dettagli storici. Cosa che avrebbe potuto, anzi dovuto fare se avesse accettato l'idea che tali passaggi sono il frutto di una concezione culturale determinata dei rapporti sociali, e non tanto una necessità di tipo economico, e meno che mai un'esigenza di tipo psicologico.
Marx ha elaborato con grande fatica i vari passaggi della forma di valore per giungere alla conclusione, tautologica, che il valore di una merce sta nel suo prezzo, che trova la sua espressione più compiuta nell'equivalente universale del denaro e che viene deciso di volta in volta.
Tale deludente (ma d'altra parte inevitabile) conclusione -cui Marx cercherà di porre rimedio col § sul feticismo della merce- si sarebbe potuta evitare se si fosse partiti da un'altra premessa, quella secondo cui è possibile trovare un valore oggettivo alla merce solo nell'ambito della comunità di autoconsumo, che di per sé non esclude affatto il mercato.
La premessa da cui parte Marx (vedi la forma “A” del valore), e cioè quella dei due individui privati che s'incontrano casualmente, liberamente, sul mercato, potrà avere un valore come ipotesi astratta ma non ne ha alcuno come riscontro storico. Sin dall'inizio, infatti, tentando di far valere il lavoro astratto su quello concreto, la borghesia ha fatto in modo che sul mercato prevalessero i “manufatti finiti” rispetto alla “materia prima” (l'abito rispetto alla tela).
Il contadino è sempre stato produttore di materia prima (beni alimentari, cotone ecc.). Ora, l'interesse principale che ha l'imprenditore privato borghese, che vuole trasformare la materia prima, è anzitutto quello che il contadino non abbia la possibilità di trasformare la propria materia prima in modo industriale e che quindi egli stesso si trasformi in consumatore a vita.
In tal senso la tendenza della borghesia è stata quella di considerare subito il denaro come equivalente universale, onde impedire che sulla base di una qualche materia prima a disposizione della comunità agricola si potesse imporre sul mercato un'altra merce riconosciuta equivalente. La borghesia ha imposto come equivalente ciò di cui già disponeva in abbondanza.
Le forme elencate da Marx, quindi, riflettono non l'evoluzione della società borghese (a partire dalla sua fase mercantile), ma l'innesto di due società che privilegiano il mercato sull'autoconsumo: quella schiavistica e quella borghese e, a partire da questo, la superiorità della seconda sulla prima.
In tal senso si potrebbe affermare che nella prima forma di valore solo in astratto tela e abito si equivalgono: nel concreto è la tela che deve adeguarsi all'abito. L'imprenditore privato che trasforma la materia prima vuole dominare non solo sul consumatore (impedendogli qualunque aspirazione all'autonomia), ma anche il produttore di materie prime, al quale non si concede la possibilità di trasformarsi in un imprenditore per il vasto pubblico.
Facciamo un esempio. Una stoffa di lino può costare £ 50.000 al mq; con 2 mq si può fare una giacca che sul mercato può essere venduta a £ 300.000. Ma la giacca “segue” la moda. L'anno dopo essa costerà £ 150.000, mentre il costo del lino sarà intanto aumentato, per cause diverse, di altre 10.000 £ al mq. Dunque, è stata la stoffa ad adeguarsi al trend della giacca o è stato il contrario?
Facciamo un altro esempio. Un agricoltore raccoglie 1 kg di albicocche che gli vengono pagate £ 300 dall'imprenditore che con la sua industria di trasformazione ci farà 3 confetture di marmellata al prezzo di £ 1500 l'una. L'anno dopo, se il raccolto sarà ancora più abbondante, le albicocche, al kg, scenderanno a £ 200, mentre l'imprenditore potrà, con relativa tranquillità, incrementare il prezzo della marmellata di altre 2-300 £: cosa che, a maggior ragione, farà anche se il raccolto sarà stato scarso o molto scarso.
Dunque, chi o che cosa esprime di più la “forma di equivalente”: il frutto naturale o quello lavorato? Per quale ragione tra la “forma naturale” della merce e quella “fenomenica” deve esistere un divario così grande e sempre così svantaggioso alla prima?
Enrico Galavotti galarico@inwind.it http://www.homolaicus.com/