Dialettica dell’illuminismo.

La Scuola di Francoforte

 

di Alessandro Monchietto

 

 

 

1. L’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, primo ente scientifico di esplicito indirizzo marxista, nacque nel 1923 grazie all’appoggio – essenzialmente finanziario – di Hermann Weil e di suo figlio Felix, due ricchi mercanti tedeschi simpatizzanti socialisti.

 

Il primo direttore che venne designato fu Carl Grünberg, insigne studioso di storia economica; durante il suo discorso di insediamento, costui manifestò la propria convinzione di “trovarsi al centro di una transizione dal capitalismo al socialismo”, e continuò affermando:

 

Magnum ab integro saeculorum nascitur ordo, un nuovo ordine nasce dalla pienezza dei tempi.  […] Sono sempre più numerosi, e acquistano un peso crescente, coloro i quali non solo credono, desiderano e sperano, ma sono scientificamente e fermamente convinti che il nuovo ordine che va nascendo sarà socialista […] e che a questa meta noi tendiamo con rapidità crescente. Come ben sapete, anch'io condivido questa concezione. Sono anch'io un avversario dell'ordine sociale, economico e giuridico che ci è stato storicamente tramandato, e un seguace del marxismo. Circa vent'anni fa ho creduto ancora di dover muovere obiezioni contro il pilastro centrale del socialismo scientifico, la concezione materialistica della storia. Ma, ammaestrato dallo sviluppo che c'è stato da allora, le ho abbandonate[1].

 

Nel 1930, visti i continui problemi di salute di Grünberg, la direzione passò a Max Horkheimer, in tutt’altro clima storico e politico. La certezza di trovarsi a un passo dal rivolgimento decisivo per le sorti degli sfruttati lasciava infatti il campo “ai dubbi relativi a una rivoluzione differita sine die, unita al sospetto che l’artefice di quella trasformazione – il proletariato – si fosse ormai integrato nei ranghi del corpo sociale che avrebbe dovuto sovvertire”[2].

A seguito di questo avvicendamento l’accento delle indagini venne spostato dalla storia del movimento operaio[3] a una teoria interdisciplinare della società “in cui la costruzione filosofica non fosse più dissociata dalla ricerca empirica”, e a questa dottrina si diede il nome di “filosofia sociale”, “ricerca sociale” o “teoria critica della società” [4].

Nato per dimostrare la necessità del socialismo, il materialismo storico doveva ora spiegarne il mancato avvento[5]: dalla critica alla struttura si passò così alla critica della sovrastruttura, dalla critica del modo di produzione capitalistico a quella delle categorie trascendentali che lo rendono possibile[6].

 

L’obiettivo era quello di fare nel Novecento ciò che Marx aveva fatto da solo nel Capitale, nella convinzione che un uomo e una teoria sola non bastassero più per analizzare la complessità del reale del tempo storico in cui essi vivevano[7].

 

L’istituto – o perlomeno quello che possiamo definire come il “circolo ristretto” della prima generazione di francofortesi – era composto da circa sei studiosi, ognuno specialista di uno specifico campo disciplinare: Theodor W. Adorno (musica), Erich Fromm (psicoanalisi), Leo Löwenthal (letteratura), Herbert Marcuse (filosofia), Friedrich Pollock (economia), oltre il già citato Max Horkheimer.

 

I nuclei tematici attorno a cui ruotava questo progetto erano sostanzialmente tre: un tentativo di connubio tra marxismo e psicoanalisi; un’importante diagnosi del totalitarismo; ed un’altrettanto importante critica della cultura di massa.

Il primo tentativo aspirava a stabilire i possibili rapporti tra psicoanalisi e teoria critica della società, con l’obiettivo di indagare i  meccanismi psicosociali dell’obbedienza e le origini della violenza. Il presupposto su cui si fondava tale proposta era la convinzione che il materialismo storico avesse al suo interno dei buchi, delle carenze, che i francofortesi  intendevano colmare attraverso la psicoanalisi.

Si verificò così una sorta di sostituzione dell’analisi di classe con l’analisi del profondo.

Venne per esempio elaborato il concetto di carattere sociale, secondo cui gli individui erano molto più che semplici personificazioni di categorie economiche,meri recipienti vuoti (come erano stati sino ad allora interpretati dalla vulgata marxista) attraverso cui le istanze economiche signoreggiano[8]. A fianco di ciò si concepì l’idea di una struttura libidica da accostare alla struttura economica di tipo marxiano[9], progetto che – intersecandosi col precedente – sfociò nei famosi Studi sul pregiudizio ed in particolare nel saggio sulla Personalità autoritaria.

Il tentativo portato avanti in questi lavori fu quello di dimostrare che il materiale umano di cui sono formate le società democratiche e gli stati totalitari è sostanzialmente lo stesso: attraverso l’utilizzo di strumenti empirici (test, questionari, ecc.)[10], si calcolò il tasso di potenziale fascismo che alberga all’interno di ogni individuo, giungendo alla messa a punto di una SCALA F capace di quantificare[11] l’intensità del fascismo potenziale presente in ognuno di noi. In Usa si riscontrò un tasso altissimo; Adorno affermò che questo fatto dimostrava quanto i convincimenti democratici fossero radicati in uno strato molto superficiale della personalità[12], ed esistesse un pericoloso potenziale di totalitarismo presente in ogni società liberale avanzata.

 

1.2 Tale discorso consente di collegarsi ad un altro tema centrale nell’analisi della Scuola di Francoforte, ossia quella che possiamo chiamare diagnosi del totalitarismo[13].

Negli anni ’30 i francofortesi si trovarono al cospetto di un evento per loro assolutamente sconcertante, ovvero la nascita e lo sviluppo dei fascismi in Europa; e dinanzi alla domanda che sorse spontaneamente, ossia se il nazismo fosse una naturale continuazione del capitalismo o se al contrario fosse un fenomeno totalmente nuovo, l’Istituto si spaccò in due.

La prima ipotesi, avanzata dall’insigne studioso Franz Neumann, trovò il sostegno di Otto Kirchheimer, Arkadij Gurland ed inizialmente anche dell’ex allievo di Heidegger Herbert Marcuse[14].

La seconda, sostenuta da Friedrich Pollock, ricevette l’appoggio di Max Horkheimer, Theodor Wiesengrund-Adorno e Leo Löwenthal, e si rivelò la vincente – perlomeno all’interno dell’Istituto.

A differenza di Neumann, che sosteneva che il nazismo non fosse un nuovo sistema politico ma soltanto il capitale monopolistico spinto al suo eccesso, Pollock elaborò il concetto di capitalismo di stato.

Al contrario dei suoi precedenti stadi, il capitalismo di stato aveva sospeso il mercato libero in favore del controllo dei prezzi e dei salari; inoltre esso seguiva una deliberata politica di razionalizzazione dell’economia, assumendo il controllo degli investimenti per scopi politici e risolvendo i problemi di distribuzione con l’imposizione dei prezzi e la predisposizione dei bisogni.

 

Questo fatto creò un enorme smarrimento all’interno dell’Istituto e della teoria critica stessa.

 

Pollock dava infatti estremo rilievo all’uso sempre crescente della pianificazione economica da parte del governo, usata a suo vedere come mezzo per contenere a tempo indefinito le contraddizioni del capitalismo.

Il dominio stava infatti per lui progressivamente assumendo una forma non-economica: ciò che distingueva il nazismo più marcatamente dalle prime fasi del capitalismo – sosteneva Pollock – era la subordinazione del profitto individuale o di gruppo alle esigenze di pianificazione generale; per quanto non si fosse completamente perduta la “motivazione del profitto”, quest’ultima a suo dire “era stata sostituita dalla motivazione del potere”. In un testo rimasto inedito intitolato Reflexionen zur Klassentheorie, Adorno dichiarò:

 

Non sono state le leggi dello scambio a condurre all'attuale dominio come forma storicamente adeguata della riproduzione dell'intera società al livello attuale, bensì è stato il vecchio dominio a penetrare in certi momenti nell'apparato economico, e, una volta assoggettatolo pienamente, a frantumarlo, rendendosi così più facile il compito. Con tale abolizione delle classi il dominio di classe afferma veramente se stesso. La storia, stando al quadro dell'ultima fase economica, è storia di monopoli. Se si guarda alle manifeste usurpazioni oggi esercitate concordemente da coloro che sono a capo del capitale e del lavoro, essa è storia di lotte per bande, storia di gangs e di rackets[15].

Il sopraggiungere di tale fenomeno rappresentò così la pietra tombale del progetto originario della teoria critica[16]: con esso infatti si esaurì la speranza marxiana (condivisa dai francofortesi[17]) che contrapponeva all’anarchia del sistema capitalista la prospettiva di un’istanza razionale capace di accordare produzione materiale e bisogni degli individui.

 

Non solo la ragione non si imponeva nella forma da loro auspicata, ma giungeva ad imporsi in maniera perversa: esisteva infatti un mondo interamente ordinato dalla ragione in cui l’economia fosse pianificata in modo razionale, ma questo (come in un sogno che si realizza in forma di incubo) era il fascismo.

 

L’istanza di razionalità che essi auspicavano fu quindi realizzata, ma nella forma peggiore possibile[18].

2. Dopo questo indispensabile preambolo introduttivo, è ora possibile iniziare l’analisi di Dialettica dell’illuminismo, oggetto di questa nostra breve relazione.

 

 Il libro fu scritto, com’è noto, durante il periodo dell’emigrazione americana di Horkheimer e Adorno; al ’34 risale infatti il trasferimento dei principali membri dello Institut für Sozialforschung negli Stati Uniti, e la sua riorganizzazione a New York presso la Columbia University.

 

Di Horkheimer fu con ogni probabilità l’originario progetto della Dialettica dell’illuminismo[19]; Adorno e Horkheimer tuttavia si conoscevano dal ’22, e nonostante la diversità dei rispettivi itinerari teorici le loro posizioni si erano venute, nel corso degli anni, progressivamente avvicinando.

Questo libro nasce infatti dagli stimoli e dalle riflessioni che si erano sviluppate in quegli anni nell’Institut, e vanno poste in stretta correlazione con i temi poco sopra affrontati[20].

 

Il senso di smarrimento provocato dal fenomeno del totalitarismo rendeva di fatto necessaria una nuova teoria, che tenesse conto dei mutamenti avvenuti e cercasse di analizzarne le cause; come scrive Martin Jay nel suo libro dedicato alla storia dell’Istituto per la ricerca sociale,

 

Delusa dall’Unione Sovietica, non più ottimista nei confronti delle classi lavoratrici occidentali, inorridita di fronte alla capacità di integrazione della cultura di massa, la Scuola di Francoforte si allontana sempre più dal marxismo ortodosso.

L’espressione più chiara di tale cambiamento […] fu la sostituzione della lotta di classe, che rappresentava il fondamento di qualsiasi teoria veramente marxista, con un nuovo motore della storia.

L’attenzione si spostava ora sul più ampio conflitto tra l’uomo e la natura sia interna che esterna, un conflitto le cui origini risalivano a epoche precedenti quella capitalistica e di cui era prevedibile la continuazione, se non l’intensificazione, anche dopo la fine del capitalismo[21].

 

 

 

La domanda che spinse i due filosofi a tali analisi, fu l’interrogativo sul perché l’umanità invece di progredire sprofondasse sempre più nella barbarie[22]; perché e come la razionalità “illuministica” giungesse a trasformarsi in logica del “dominio” in cui l’uomo viene schiacciato, conducendo così alla “delirante razionalità dei Lager nazisti”[23]. E come fosse possibile che la sempre più perfezionata razionalità dei mezzi si accompagnasse alla più assurda irrazionalità dei fini, risolvendosi in una raffinata ed inaudita barbarie.

Questi furono gli interrogativi drammatici che l’esperienza storica del XX secolo pose ai Francofortesi[24].

 

Il libro, terminato nel ’44. apparve per la prima volta in quell’anno presso le edizioni dello Institute of Social Research; ma – come viene sottolineato da Jay e Petrucciani – dovette trattarsi di un’edizione quasi per uso interno. Al testo furono apportate nel ’45 le ultime integrazioni, e in conseguenza di ciò l’edizione del ’47 presso Querido (Amsterdam) porta la dicitura di “edizione riveduta”[25].

 

3. Il testo si organizza in una tesi[26] e in due excursus storico-intellettuali, vi sono poi due capitoli, esemplificativi della tesi principale, sull’industria culturale e sull’antisemitismo, e infine una serie di appendici. Come scrive Carlo Galli nella sua brillante introduzione, “l’intento del libro è di illuminare l’illuminismo su se stesso”, nel tentativo di controinterpretarne l’autointerpretazione, “di comprendere e criticare la sua autonarrazione all’interno di un’altra, più radicale”[27].

 

Per capire però come questo venga attuato, è necessario preliminarmente analizzare che cosa significhino i due termini che compongono il titolo dell’opera, ossia ‘illuminismo’ e dialettica’.

 

In Horkheimer e Adorno, il concetto di Aufklärung non si riferisce, neppure in prima istanza, alla filosofia che storicamente si è soliti designare come illuminista; ha invece, come spiega Adorno nelle lezioni sulla Terminologia filosofica, un “senso straordinariamente ampio”[28].

A una prima approssimazione, ‘illuminismo’ per i nostri due autori vale non tanto nella sua accezione storica determinata  (nel senso kantiano del “sapere aude”, dell’uscita dell’uomo dalla colpevole minorità della sua ignoranza), quanto, più in generale, come  logos, ratio, ovvero come pensiero razionalistico[29].

 

Negli anni ’40 il concetto di illuminismo subisce quindi nella teoria critica uno slittamento terminologico fondamentale: invece di essere il corrispettivo culturale della borghesia in ascesa, fu esteso fino a includere l’intera gamma del pensiero occidentale[30]. L’illuminismo giunge così a rappresentare – all’interno della riflessione dei nostri due autori – l’intera storia della civiltà, che parte dai primi miti e finisce con Auschwitz; o detto con parole più vicine ai francofortesi,  l’intera storia dell’umanità come processo di razionalizzazione[31].

 

Passando al secondo termine della nostra analisi, per ‘dialettica’ si intende invece la contraddizione che a tale pensiero inerisce, senza che esso – in generale – se ne avveda[32]. Il rapporto tra mito e ragione, che nell’autocomprensione dell’illuminismo è di esclusione, è infatti per i due francofortesi di perversa co-implicazione: il mito è già illuminismo e l’illuminismo torna a rovesciarsi continuamente in mito[33]. L’uno e l’altro sono da sempre legati in un rapporto dialettico[34].

 

Sostiene Galli a proposito:

 

Alla narrazione che la ragione illuministica fa di se stessa come di una lotta contro il mito, al compimento della quale c’è il soggetto emancipato e finalmente in possesso della propria libera identità razionale, Horkheimer e Adorno oppongono che l’antitesi fra mito e illuminismo è in realtà una complicità segreta. Il mito è infatti, per loro, una forma di superamento della magia; questa, certo, era “falsità sanguinosa”, ed esprimeva anch’essa il desiderio dell’uomo di dominare la natura, e tuttavia operava in mimesi con l’oggetto, del quale rispettava, in qualche modo, le qualità e la singolarità, realizzando quindi, sulla natura, un dominio episodico e asistematico. L’impulso all’autoconservazione e al soddisfacimento che inerisce a ogni singolo individuo concreto […] assume già nel mito un tratto che, rispetto alla magia, è illuministico, perché il mito è impegnato a eliminare radicalmente la paura davanti alla natura, attraverso la spiegazione, l’Erklären[35].

 

Il mito viene quindi alla luce nel tentativo di affrontare l’incapacità umana di controllare un ambiente ostile, condizione che genera nell’uomo un’immensa angoscia; perseguendo perciò “da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni”[36], esso rivela la sua primordiale vena illuministica.

A loro modo di vedere anche la scienza partecipa, con la superstizione, di tale comune origine: quando si pone come scopo quello di ricondurre l’ignoto, insolito e inquietante, al noto, non fa in realtà che esorcizzare la paura, l’angoscia[37].

 

Ma proprio l’illuminismo, che era nato nel tentativo di liberare l’uomo, secondo i due filosofi serve ora a schiavizzare quest’ultimo con mezzi ancora più efficaci di prima[38].

Il totalitarismo viene infatti interpretato come una sorta di arcaismo ricorrente: vi si mostra con chiarezza che la barbarie co-appartiene originariamente alla ragione, che la negazione della soggettività non è la preistoria “ma l’altra faccia dell’individuazione razionale”[39].

La civiltà contemporanea coi suoi orrori non è perciò il tradimento, ma la verità della ragione[40].

 

Esiste una sorta di malattia della ragione che la inquina sin dalle origini[41], perché sin dalle origini l’umanità ha concepito la ragione non come un modo per giungere alla verità ma come uno strumento di dominio[42]. La natura “totalitaria” dell’illuminismo[43] consisterebbe allora nella “volontà di potenza” che lo guida, cioè nella sua sistematica propensione a cancellare qualsiasi dimensione che esuli da quella del “razionale”[44].

 

La logica del dominio – originata dall'angoscia mitica – inquina perciò alla radice la conoscenza, che non riconosce l'altro per quello che è ma lo considera solo in funzione del proprio intento manipolativo: “l'illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli”[45]. Il dominio costituisce dunque la tendenza immanente alla ragione; ed è in conseguenza di ciò che essa si caratterizza come pensiero identificante. Scrive Umberto Galeazzi:

 

L'illuminismo, dunque, nato dall'impulso egoistico, si manifesta come logica del dominio. L'idea di qualcosa di estraneo, di altro da sé è la fonte dell'angoscia, per cui “l'uomo s'illude di essersi liberato dalla paura quando non c'è più nulla di ignoto”[46], cioè di non ridotto in suo potere. Infatti riconoscere l'altro per quello che è, cioè lasciarlo essere e manifestare come altro, come diverso, implica non solo la rinuncia alla pretesa di vedervi solo un riflesso, un prolungamento del proprio io, ma anche l'impossibilità di inquadrarlo compiutamente nei propri schemi categoriali, di adattarlo alle proprie precomprensioni. Se l'altro viene totalmente compreso e incasellato nei miei schemi mentali, non è più veramente tale, ma solo un feticcio che mi sono costruito per i miei comodi.  Se viceversa l'altro è visto nella sua autenticità e, cioè, nella sua alterità, avrà da dirmi qualcosa di proprio, e quindi, per me, nuovo e diverso; non sarà mai afferrabile pienamente e quindi resterà sempre in un certo senso misterioso. Per conoscerlo “devo lasciare che in me si affermi qualcosa come contrapposto a me”[47], che, rimanendo pur sempre almeno parzialmente misterioso e quindi imprevedibile, può essere visto come fonte di pericolo. L'incontro con l'altro si rivela rischioso; da ciò la paura, il rifiuto dell'altro, la volontà di potenza, l'accecamento. Si crea così quell'atteggiamento esistenziale, per il quale, magari inconfessatamente, “lo scandalo è la mera esistenza dell'altro. Ogni altro "occupa troppo posto" e va ricacciato nei suoi limiti, che sono quelli del terrore illimitato”[48]. [...] In quest'abbaglio, per il quale l’io è il centro di tutto e “il mondo è solo un'occasione per il suo delirio”, il potere, da mezzo qual è, diventa il fine supremo da imporre a tutti e l'“apparato intellettuale” dell'uomo torna a funzionare contro gli altri, “come il cieco strumento di lotta della preistoria animale”[49].

 

È l'ira contro il non-identico, contro il diverso, contro l'irriducibile, che spinge la ragione a dominarlo, facendone un identico a sé, un concetto.

 

La dialettica della ragione è dunque un processo con cui il pensiero identificante “arriva alle sue estreme conseguenze, alla rivolta contro se stesso, all'autodistruzione. Esso cioè rivolge il dominio e la violenza in cui esso consiste non più solo contro la natura ma contro l'uomo e la civiltà”[50].

 

Il termine dialettica dell’illuminismo indica pertanto anche il movimento autodistruttivo della ragione, in cui un epoca che in nome della ragione abbatte idoli, culmina con l’instaurazione della ragione come idolo più spietato[51]. Inizialmente processo di emancipazione, col passare del tempo esso si autonomizza e diventa un dominio per il dominio; si rimane così intrappolati in una mera dimensione strumentale, chiusa all’interno del semplice orizzonte dell’autoconservazione. La strumentalità della ragione è pertanto l’ovvio esito del suo essere generata da una ricerca soggettiva di sicurezza[52].

 

Questo tema venne analizzato da Horkheimer in una serie di lezioni tenute alla Columbia University di New York nel febbraio-marzo 1944[53], e raccolte poi nel 1947 sotto il titolo di Eclipse of Reason.

Secondo il direttore dell’Istituto per le ricerche sociali, negli antichi sussisteva ancora un’ambiguità nel concetto di ragione, cosa che invece – a partire da Cartesio – venne mano a mano a sparire. Mentre la ragione classica o oggettiva (come la chiama Horkheimer), si proponeva di portare alla luce del pensiero l’ordinamento razionale da sempre immanente alla realtà, e di dedurre da questo anche il giusto comportamento degli uomini[54], quella soggettiva, affermatasi prepotentemente nell’epoca moderna, non considera il logos come “un principio immanente alla realtà”, ma solo più come “una facoltà soggettiva della mente”[55].

 

Nella modernità la ragione si soggettivizza, e diventa uno strumento dell’efficacia, dell’economia, del’ottimizzazione[56]; a partire dall’autore del Discorso sul metodo, il pensiero limita il suo operare all’interno di questo campo, e rinuncia quindi ad indicare fini che trascendano la mera autoconservazione e siano dunque capaci di orientare l’uomo[57].

Riducendosi ad apparato formale la ragione illuministica rinuncia alla possibilità di enunciare le regole di una giusta prassi e – come Horkheimer sottolinea con intensità e frequenza – ciò dà luogo ad un completo neutralismo dei fini. Nella prospettiva strumentalistica la razionalità è infatti limitata alla “capacità di calcolare le probabilità e di coordinare i mezzi adatti con un dato fine”; ma, come Horkheimer non manca di segnalare, “nessun fine è ragionevole in sé”[58].

 

Nella modernità “sapere è potere” (come voleva Bacone), cioè ha come fine il dominio e diventa un suo strumento. Esso è tecnica di manipolazione, che si rivolge in primo luogo alla natura e dice di conoscerla solo quando è in grado di dominarla e di sfruttarla.

Il pensiero diventa pensiero calcolante e “ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell'utilità, è, agli occhi dell'illuminismo, sospetto”[59]; nella matematizzazione della natura, che serve per la previsione e per il dominio, le differenze di qualità vengono semplicemente trascurate o addirittura dichiarate inesistenti e mortificate, perché quantificare e calcolare vuol dire rendere (o almeno considerare) equivalente ciò che in realtà è diverso. Tutto viene livellato e la produzione di equivalenze prelude alla legge dello scambio e della fungibilità universale[60].

 

Questo processo, a detta dei nostri due autori, culmina con Kant e con il suo idealismo trascendentale[61]:

 

L’illuminismo è la filosofia che identifica la verità al sistema scientifico. Il tentativo di fondare questa identità, intrapreso da Kant ancora con intenti filosofici, condusse a concetti che non hanno scientificamente alcun senso, poiché non sono (che) mere direttive in vista di manipolazioni conformi a determinate regole. […] Con la sanzione – ottenuta come risultato da Kant – del sistema scientifico a forma della verità, il pensiero suggella la propria inutilità, poiché la scienza è esercitazione tecnica, non meno aliena da riflettere sui propri fini che altri tipi di lavoro sotto la pressione del sistema[62].

 

A loro dire nella modernità la ragione finisce quindi per venir relegata a un ruolo strumentale. Essa cioè diviene vuota razionalità formale, capace di verificare la coerenza interna di un certo procedimento e la funzionalità di certi mezzi rispetto a scopi prefissati, ma viene neutralizzata di fronte ai fini, sui quali si pretende che non possa dire nulla. Perciò diventa uno strumento utilizzabile per qualsiasi fine, che – evidentemente – viene scelto ed  imposto in base a fattori e motivazioni extrarazionali[63].

 

Secondo i nostri due autori quindi, portata alle sue estreme conseguenze la razionalità calcolatrice, strumentale e formale conduce agli orrori e alla barbarie del XX secolo.

 

 

4. Passiamo ora ad una breve analisi del primo dei due excursus della Dialettica dell’illuminismo, quello dedicato alla figura di Odisseo, interpretato da Adorno e Horkheimer come il primo borghese della storia[64].

Nella loro lettura l’Odissea è il cammino della formazione del soggetto, è il suo Bildungsprozeß a partire dall'indeterminatezza naturale fino alla costituzione di un Io consolidato capace di differenziarsi e imporsi.

Ma il prezzo di questo distacco dalla natura – come vedremo presto – è secondo i nostri due autori la repressione della propria natura interna, ossia l'oppressione di se stessi[65]. Scrive a proposito Lucio Cortella:

 

Le tentazioni che Ulisse subisce di continuo durante i suoi viaggi e a cui riesce sempre a sfuggire sono i veri momenti in cui si forma la natura repressiva del soggetto e della sua ratio. Le sirene rappresentano una di queste minacce all'autoconservazione del Sé, esse offrono felicità e morte. Per salvarsi come soggetto razionale Ulisse deve reprimere quella parte di se stesso che lo intreccia al canto delle sirene e che lo ricondurrebbe alla dissoluzione nell'innocenza della natura[66].

 

Secondo Horkheimer e Adorno l’episodio in cui Odisseo si fa legare all’albero della sua nave per evitare la seduzione del canto delle sirene, presenta quindi in maniera allegorica la questione della repressione della propria natura come conditio sine qua non del dominio sulla natura.

Odisseo – il ‘grande borghese’ che si individua proprio impedendosi di seguire il canto delle Sirene[67], che pure vuole ascoltare per non privarsi dell’esperienza (negata invece ai lavoratori-reamtori) di immaginare[68] il piacere, la libertà e la conciliazione del Sé con la natura –, coglie l’aspetto di autoalienazione che inerisce a ogni individualizzazione, a ogni autoconservazione[69].

 

I due francofortesi giungono pertanto a sostenere che “Misure come quelle prese sulla nave da Odisseo al passaggio davanti alle Sirene sono l’allegoria presaga della dialettica dell’illuminismo”; e poco più avanti continuano dichiarando che

 

Nelle condizioni date, l’esclusione dal lavoro significa anche mutilazione, e non solo tra i disoccupati, ma anche al polo sociale opposto. I superiori sperimentano la realtà, con cui non hanno più direttamente a che fare, solo come substrato, e si irrigidiscono interamente nel Sé che comanda. […] Odisseo è sostituito nel lavoro. Come non può cedere alla tentazione della rinuncia di sé, così – in quanto proprietario – manca anche della partecipazione al lavoro, e – da ultimo – anche alla sua direzione; mentre i compagni, per quanto vicini alle cose, non possono godere il lavoro, perché si compie sotto la costrizione, senza speranza, coi sensi violentemente tappati.

Lo schiavo resta soggiogato nel corpo e nell’anima, il signore regredisce[70].

 

Ci si trova quindi di fronte a una sorta di implosione della dialettica servo-padrone. Tanto l’uno quanto l’altro cadono in ruoli regressivi:  il padrone regredisce, l’altro si reprime.

Entrambi quindi sono, in qualche modo, perdenti.

 

 

5. Ci soffermeremo ora brevemente sul capitolo dedicato all’analisi dell’industria culturale, per poi dedicare il paragrafo conclusivo ad un esame critico delle tesi sin qui esaminate.

 

Questa sezione della  Dialettica dell’illuminismo si sviluppa attorno al tentativo – portato avanti dai due francofortesi – di dimostrare che la distanza che separa Auschwitz da Hollywood non è di anni luce, ma è una differenza solo di grado. Secondo Adorno e Horkheimer ci si trova semplicemente davanti ad un totalitarismo di tipo hard ed uno di tipo soft; secondo vie diverse, con strumenti diversi, si mira ad ottenere il medesimo effetto: far dei sudditi, dei cittadini, una massa docile e indifesa[71]. La cultura di massa per gli autori può quindi essere considerata il volto soft del totalitarismo.

 

L’industria culturale è per loro la degradazione della cultura. I canoni ideali di verità e di bellezza della grande cultura e della grande arte del passato erano di fatto critici della società, con la quale – promettendo la felicità nell’avvenire – non si conciliavano e che anzi trasfiguravano proprio per non adeguarvisi; oggi la cultura di massa non è democratizzazione di quanto c’era di elitario nelle forme artistico-culturali del passato[72], ma al contrario l’arte e la cultura integrate nel sistema di dominio come fonti di svago e di intrattenimento si sono arrese davanti all’esistente così come esso è.

Insomma, ci si trova davanti a una cultura ‘funzionale al sistema’, una cultura ‘affermativa’ e non critica che distrugge l’autonomia del singolo ridotto a fruitore passivo.

 

Sempre di più l’Istituto ebbe la sensazione che l’industria culturale rendesse schiavo l’uomo in modo molto più sottile ed efficace dei brutali metodi di dominio praticati nelle epoche precedenti. Per loro quindi “cultura di massa” non è cultura del popolo, ma le masse ne sono la vittima, il bersaglio.

 

Un tema presente sin nei primi lavori dell’Istituto per le ricerche sociali è infatti la convinzione che l’industria culturale produca merci che hanno un effetto di regressione[73].

 

Considerando uno dei prodotti più tipici dell'industria culturale dell’epoca, e cioè il film sonoro, i francofortesi constatano che – nella maggior parte dei casi – esso è “confezionato” in modo da condurre (richiedendo un'attenzione che diventa automatica) alla paralisi di facoltà come l'immaginazione, la spontaneità e l'attitudine alla riflessione critica del “consumatore”. I films “sono fatti in modo che la loro apprensione adeguata esige bensì prontezza d'intuito, capacità di osservazione e competenza specifica, ma anche da vietare letteralmente l'attività mentale o intellettuale dello spettatore, se questi non vuol perdere i fatti che gli sgusciano rapidamente davanti”[74].

 

Secondo i francofortesi la peculiarità dell’Industria culturale è inoltre che – a differenza delle epoche passate –  all’interno di questo meccanismo la cultura viene prodotta come una qualsiasi altra merce[75]. Nel passato l’aspetto di mercificazione era accessorio – un semplice espediente tramite cui l’autore si manteneva, ma non era affatto la logica che guidava il progetto; l’obiettivo dell’artista era trasmettere uno specifico valore di verità, mentre oggi ci si interessa solo del mercato, del profitto[76]. Secondo Martin Jay i francofortesi

 

avevano sempre considerato l’arte come dotata di una funzione politica: quella di rappresentare un’anticipazione della società “diversa” negata dalla situazione attuale. Ciò che temevano era che l’arte di massa avesse una nuova funzione politica diametralmente opposta a quella tradizionalmente “negativa”; l’arte nell’era della riproducibilità tecnica serviva a riconciliare il pubblico di massa allo status quo[77].

 

Dato che l’arte, e persino la musica è stata totalmente influenzata dall’ethos capitalistico, la sua feticizzazione è pressoché totale[78]. La musica leggera, che un tempo era solita dileggiare l’aristocrazia serve ora a riconciliare l’uomo col suo destino; la vera dicotomia per Adorno diviene in questo modo non quella fra musica “leggera” e musica “seria”, ma piuttosto fra musica che è orientata verso il mercato e musica che non lo è.

 

Secondo Adorno inoltre come i bambini chiedono solo il cibo che hanno gustato in passato, così l’ascoltatore il cui udito fosse regredito poteva essere sensibile solo ad una ripetizione di ciò che aveva sentito in precedenza. Come i bambini reagiscono ai colori vivaci, così questo ascoltatore rimane affascinato dall’uso di artifici coloristici che danno un’impressione di eccitamento e di individualità.

Il risultato è che la musica viene in tal modo trasformata in una specie di cemento sociale che agisce distruggendo e deviando la soddisfazione dei desideri e intensificando la passività.

 

L’industria, inoltre, è la prima colonizzatrice di un terreno fino a quel momento rimasto incontaminato: il tempo libero.

 

Ciò che facciamo lavorando e ciò che facciamo divertendoci rispondono infatti secondo i francofortesi alla stessa logica: la logica della mercificazione.

 

Il feticismo si inculca così in ogni ambito dell’esperienza:

 

I meccanismi che guidano l’uomo nel suo tempo libero sono assolutamente identici a quelli che lo guidano quando lavora. Arrivo fino al punto di dire che ancora oggi la chiave per una comprensione dei modelli di comportamento nella sfera del consumo è la situazione dell’uomo nell’industria, il suo orario nella fabbrica, l’organizzazione dell’ufficio e del posto di lavoro[79].

 

Il “tempo libero” moderno si dimostra così la continuazione del lavoro con mezzi diversi.

 

A loro parere è come se si fosse creato un gigantesco apparato che crea bisogni indotti, soffocando in questo modo la spontaneità. Si diviene così tutti “settori di mercato”: non esiste nessun bisogno che non sia preformato, e di cui non ci sia già un prodotto atto a soddisfarlo.

Attraverso questo meccanismo si perpetua così una tendenza alla mercificazione generale, di ogni tipo di esperienza.

 

La cultura di massa si dimostra quindi per Horkheimer e Adorno come l’humus del totalitarismo politico[80]. È la realizzazione del sogno illuministico di una cultura che esce da una dimensione elitaria, ma non per accrescere la formazione critica delle masse ma per asservirle in una forma ancora più sottile.

 

 

Al termine del libro gli autori avanzano poi tutta una serie di ipotesi sulla natura dell’antisemitismo, in cui s’intrecciano due modelli di interpretazione: da un lato spiegano che “gli ebrei sono oggi il gruppo che attira su di sé – teoricamente e di fatto – la volontà di distruzione che il falso ordine sociale genera spontaneamente”[81]. Da questo punto di vista  - come chiarisce Pianciola –   “l’antisemitismo è la deviazione del risentimento dei soggetti dominati verso una minoranza naturale, invece che su quella sociale che detiene le leve di potere dell’apparato repressivo”[82].

Dall’altro lato, Adorno e Horkheimer tentano di abbozzare una “preistoria filosofica dell’antisemitismo”; il suo irrazionalismo viene dedotto “dall’essenza stessa della ragione dominante, e del mondo conforme alla sua immagine”[83].

In questo contesto si inserisce l’appena analizzato capitolo sulla cultura di massa, che mirava a chiarire i procedimenti mediante cui dal capitalismo avanzato “vengano occlusi tutti i pori della coscienza, in modo che le masse sono indotte in quello stato di apatia assoluta che le mette in grado di compiere l’incredibile”[84]. Accanto a questo esame va poi aggiunto il tentativo di riportare il fascismo e l’antisemitismo all’interno del quadro teorico generale del volume, di interpretarli cioè come epifenomeni necessari della sostanza “illuminismo”; in questa direzione, essi appaiono lo sbocco inevitabile della ragione illuminata, ovvero del progresso tecnico-scientifico e della “civiltà, così come l’abbiamo conosciuta fin qui”[85].

 

L’antisemitismo appare a Horkheimer e Adorno quindi come odio e lotta contro la natura repressa in noi e negli altri: il carnefice vuole allontanare da sé chi – l’ebreo, il disadattato – gli ricorda le sofferenze del dominio, quelle medesime sofferenze con le quali i carnefici hanno pagato il loro stesso adattamento al dominio[86].

 

 

6. Il testo analizzato in questa breve relazione, sin dalla sua prima uscita provocò numerose polemiche.

Furono molti gli autori che videro nelle analisi di Horkheimer e Adorno un ritorno ad un irrazionalismo romantico[87], e non mancarono coloro i quali li dipinsero come  nostalgici assertori dei valori “sempre proclamati dalla Kultur borghese e mai attuati dalla sua Zivilisation capitalistica”[88].

 

Come mette brillantemente in luce Cortella, le strategie adottate dai loro critici possono essere sostanzialmente condensate in due gruppi:

 

Secondo alcuni i nostri autori ricadrebbero dentro l'ottica della ragione classica della filosofia tradizionale e ne riproporrebbero le già logorate categorie. La loro battaglia contro la razionalità tecnico-formale sarebbe cioè tutta di retroguardia, di mero recupero verso quelle categorie (totalità, dialettica, fondazione, sostanzialità) spazzate via dalla crisi della razionalità classica. La loro critica della società lungi dal portare ad un superamento del capitalismo si risolverebbe in una riappacificante “presa di coscienza” della negatività del tutto. In particolare, al fondo della loro analisi, si rivelerebbe la nostalgia per la totalità hegeliana nella forma della conciliazione tra civiltà e natura, tra spirito e materia, tra identico e non-identico.

Secondo altri, invece, centrale nel pensiero di Adorno sarebbe la rottura con la ratio occidentale. Ben più importante del contributo hegeliano si rivelerebbe allora l'incidenza della tradizione del pensiero negativo ottocentesco e degli episodi più rilevanti della critica della civiltà emersi nel Novecento. L'apporto della Scuola di Francoforte consisterebbero non già in una critica della società capitalistica contemporanea ma in una critica dell'intera civiltà occidentale. Agli occhi dei critici di Adorno la sostanza della sua opera sarebbe dunque un irrazionalismo estetico-negativo, confermato poi esplicitamente dalle sue ultime opere, in particolare la Dialettica Negativa e la Teoria estetica. Esse sarebbero la testimonianza del suo rinchiudersi o in un orizzonte del tutto negativo o all'interno della forma artistica, considerate come uniche possibilità di sottrarsi al moloch della razionalità dominante. A differenza di Nietzsche e Heidegger, Adorno non riuscirebbe a superare il momento critico-negativo e a prospettare una via d'uscita dall'Occidente. Egli rimarrebbe così totalmente prigioniero della sua decadenza al pari di molte avanguardie artistiche del Novecento cui egli si sentì tanto legato[89].

 

Come però mette giustamente in luce Petrucciani, sarebbe totalmente scorretto interpretare Dialettica dell’illuminismo come la protesta della Kultur contro la Zivilisation, come una forma dell’ostilità del passato contro il presente.

Secondo quest’autore al contrario quella dei francofortesi è una prospettiva di pensiero che – senza nulla concedere all’irrazionalismo – può essere definita come “autocritica della razionalità occidentale”[90]; a suo parere nella Dialektik si è tentato di delineare una critica della razionalità ridotta a mezzo di controllo tecnico su uomini e cose, nel tentativo di un suo superamento in una ragione capace di autoriflessione e, perciò, orientata all’emancipazione della società dal dominio.

Come dichiara ancora Cortella

 

Pensare ad una Aufklärung non più sottoposta alla dialettica che la rovescia in barbarie significa porsi di fronte al problema di una razionalità slegata dalle sue determinazioni costitutive ed immanenti, il dominio e la naturalità. La scarsità dei passi in cui Horkheimer e Adorno hanno parlato espressamente di una tale ragione alternativa ma soprattutto la loro consapevolezza delle reali difficoltà teoretiche che comportava la sua formulazione ha prodotto l'opinione comune che vede nella Scuola di Francoforte un episodio della vicenda dell'irrazionalismo contemporaneo. In realtà quell'esperienza non può venir ristretta nei limiti della critica alla razionalità occidentale: l'illustrazione della dialettica della civiltà intende proprio rendere possibile una civiltà in cui tale dialettica scompaia[91].

 

Proprio nella Dialektik der Aufklärung viene infatti esplicitamente contestato il carattere totalizzante ed eterno di tale processo: “Questa necessità logica non è definitiva. Essa rimane legata al dominio, come suo riflesso e strumento insieme”[92].

 

Il parlare di una “malattia” della ragione, per quanto radicata e strutturale, lascia implicitamente aperta la possibilità di una ragione “sana”; se infatti è possibile compiere certe diagnosi, vuol dire che il pensiero umano non è completamente reificato e asservito, ma che è “il servo a cui il signore non può imporre a piacere di fermarsi”[93]. Il nesso esistente tra razionalità e dominio non è perciò un nesso di identità, ma di identità e differenza: “Nel dominio il momento della razionalità si afferma come insieme diverso da esso”[94]. La ragione ha cioè in sé la possibilità di svilupparsi differenziandosi dalla volontà di sopraffazione e manipolazione[95].

 

La Dialektik der Aufklärung dà a questo proposito alcune indicazioni. In essa viene affermato che la razionalità legata al dominio è quella reificata, è cioè il pensiero inconsapevole di sé, della sua naturalità e del suo legame con il dominio. Questo accecamento caratterizza quello spirito che, inconsapevole di essere natura, si oppone ad essa per dominarla, senza accorgersi di esserne a sua volta dominato; “nell'umiltà con cui esso [lo spirito] si riconosce dominio e si ritratta in natura, si scioglie la sua pretesa di dominio che è proprio quella che lo asserve alla natura”[96].

La ragione può quindi superare la naturalità solo riconoscendo la sua unità con la natura[97].

 

Come scrive Petrucciani “non si tratta più di cercare un impossibile liberazione dal condizionamento del dominio sulla natura, ma, anzi, di comprenderlo come condizione trascendentale di ogni possibile sapere scientifico”; la teoria critica mira infatti a ricordare “alla ragione costituitasi proprio mediante il dominio sulla natura interna ed esterna che è tempo che gli uomini pongano sotto il loro controllo razionale questo dominio stesso, anziché lasciarsi dominare da esso”[98].

 

Adorno e Horkheimer criticano l’uomo nei termini di dominatore della natura dentro e fuori da sé (dialettica che si traduce, in ultima istanza, in dominio dell’uomo sull’uomo), come prodotto di una società governata da una logica di dominio ormai resasi autonoma rispetto alla possibilità di essere razionalmente orientata.

Ma poiché “non si dà vera vita nella falsa” è proprio nella spietatezza di tale critica che i filosofi ripongono la speranza che l’uomo possa, un giorno, divenire davvero uomo; tale emancipazione è però possibile, per i nostri autori, solo se ad emanciparsi è l’intera società.

 

A loro parere infatti ciò su cui è essenziale tener fisso lo sguardo, è il meccanismo di riproduzione dell’ingiustizia e delle diseguaglianze sociali nel loro complesso. Qualsiasi pensiero che, nonostante le migliori intenzioni, si muova all’interno della dialettica liberale (a prescindere dal suo grado di riformismo e di apertura) a loro dire non fa che confermare nuovamente l’esistente.

 

Nella modernità – come abbiamo visto – la ragione diventa strumento di calcolo e di dominio; in tal modo viene però “frustrata nell'intenzione di scoprire la verità”[99], perché la realtà non interessa per quella che è (né come tale la si vuole riconoscere), ma solo per quegli aspetti di essa che si prestano all'intento manipolativo[100]

Ma se il pensiero tradisce la sua peculiare vocazione a conoscere la verità, cioè a “chiamare le cose con il loro vero nome”[101], allora in nome di che cosa si potrà criticare la realtà storico-sociale esistente?

“Se la teoria è ridotta a semplice strumento, tutti i mezzi teoretici di trascendere la realtà diventano assurdità metafisiche”[102].

 

D’altra parte però bisogna prender atto che, stando a quanto Horkheimer e Adorno ribadiscono più volte nei loro scritti, la ragione oggettiva, metafisica, è distrutta irrimediabilmente dalla critica illuminata demitizzante. La demolizione della metafisica e dell’ontologia appare ai nostri autori un risultato talmente consolidato da tutto il movimento della Aufklärung che la pretesa di revocarla mediante una restaurazione filosofica è da loro giudicata priva di senso[103].

La situazione si presenta aporetica, come Horkheimer non può fare a meno di rilevare: “La ragione soggettiva difficilmente può salvarsi dal cadere in un cinico nichilismo; quanto alle tradizionali dottrine affermative della ragione oggettiva, hanno molte affinità con l’ideologia e le bugie”[104]

 

È naturale perciò che tornino alla memoria le parole hegeliane della Fenomenologia, che entrambi i nostri autori tennero sempre presente:

 

“La lotta vien troppo tardi, e ogni cura riesce soltanto a peggiorare la malattia; questa ha infatti attaccato il midollo della vita spirituale, cioè la coscienza, nel suo concetto, ossia la stessa sua pura essenza; perciò nella coscienza non c’è forza alcuna che valga a vincere la malattia”[105].



[1] Citato in R. Wiggershaus, La scuola di Francoforte. Storia, Sviluppo teorico, Significato politico, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 36

[2] E. Donaggio, Introduzione a La scuola di Francoforte. La storia e i testi, Einaudi, Torino 2005, p. XXII. Ceppa scrive a proposito che “Il marxismo sembrava aver perso i suoi destinatari, e un abisso si apriva tra il corso del mondo e l'idea della salvezza” [L. Ceppa, Adorno divieto d’immagine, in Belfagor, vol. 38, n° 4, 1983,  p. 458].

[3] Come avveniva durante l’era Grünberg [su questo punto si veda R.Wiggershaus, La scuola di Francoforte, cit., pp. 32-47].

[4] Cfr. M. Horkheimer Teoria tradizionale e teoria critica, in Teoria critica vol. II, Einaudi, Torino 1974, pp.135-186.

[5] In un aforisma intitolato Scetticismo e morale Horkheimer scrive: “Dalle leggi economiche scoperte da Marx non ‘consegue’ il socialismo. Certo esistono molte previsioni scientifiche che hanno il carattere della massima probabilità, ad esempio quella che domani sorgerà il sole. Esse sono il risultato di una straordinaria massa di materiale empirico. Ma chi mai può credere che lo stesso valga per la previsione del socialismo? Il socialismo è una forma sociale migliore, più conforme allo scopo, i cui elementi sono in certo qual senso presenti nel capitalismo. Nel capitalismo vi sono ‘tendenze’ che vanno nel senso di un rovesciamento del sistema. Il materiale empirico in base al quale noi supponiamo che le tendenze si affermeranno realmente, è assai scarso. Nessuno può affidarsi senza gravissimo pericolo al ponte teso sull’abisso, se i suoi principi di costruzione non si fondano su esperienze più esatte di quelle dell’avvento del socialismo. […] L’ordinamento socialista della società non è impedito dalla storia mondiale, esso è storicamente possibile; ma esso non viene realizzato da una logica immanente alla storia bensì da uomini teoricamente attrezzati e decisi a battersi per un mondo migliore – da essi o da nessuno” [M. Horkheimer, Crepuscolo. Appunti presi in Germania 1926-1931, Einaudi, Torino 1977, pp. 32-34].

[6] Come scrive Donaggio, “la convinzione era infatti che lì venisse prodotto e instillato negli individui il collante che teneva insieme un edificio sociale che meritava di crollare per via della sua intrinseca irrazionalità” [E. Donaggio, Introduzione a La scuola di Francoforte, cit, p. XXIII]. Si attuò così una peculiare strategia della gestione del ritardo: la speranza che guidava i componenti dell’Istituto era che ciò che al momento si presentava come cemento, potesse poi trasformarsi in dinamite.

[7] La teoria critica venne infatti esplicitamente definita da Horkheimer una “revisione del marxismo” attuata poiché l’oggetto da criticare, la società, si era modificato.

[8] Si ideò perciò una serie di tipi: il masochista autoritario (un individuo che gode ad ubbidire, e che comprova come esista un piacere – appunto masochistico – ad inchinarsi ad un’autorità che ordini il mondo in modo contrario ai propri interessi), il ribelle, il rivoluzionario, ecc.

[9] Secondo i francofortesi infatti ogni società non possiede solo una struttura economica che modifica la sovrastruttura, ma anche una struttura libidica che determina nei suoi membri condotte improntate a un fondamentale masochismo verso il potere che opprime. Per fare un esempio, la risposta di Fromm sul perché le persone invece di ribellarsi ad un sistema intrinsecamente ingiusto ed irrazionale lavorassero ogni giorno al proprio assoggettamento, fu appunto che questa società veniva tenuta assieme dalle sue vittime in quanto esse soddisfacevano un piacere di tipo masochistico: il piacere di obbedire, una sorta di gusto alla sottomissione. Scrive Fromm nel saggio del ’34 Masochismo e autorità: “Le tendenze masochistiche mirano a far sì che l’individuo, rinunciando alla componente individuale della propria personalità e rifiutando la propria felicità, si abbandoni completamente al potere. […] È questo piacere che, solo, consente agli uomini di sopportare volentieri e volontariamente una simile vita: il masochismo si dimostra così una delle condizioni psichiche più importanti per il funzionamento della società, un ingrediente fondamentale del cemento che seguita a tenerla insieme” [in La scuola di Francoforte. La storia e i testi, cit, pp. 94-102].

[10] Questo riferiva Adorno in una lettera a Horkheimer dell’ottobre 1944: “Come forse ricorderà, Le parlai di una nuova idea sulla quale rimuginavo da tempo. Si tratta di individuare gli antisemiti potenziali e attuali mediante l'uso esclusivo di indizi indiretti, quindi senza ricorrere a domande su ebrei o su temi in diretta e palese connessione con l'antisemitismo, quali l'ostilità verso i negri, il fascismo politico ecc. Un approccio in questa direzione erano già i projective items del vecchio questionario di Berkeley; io però vorrei spingermi notevolmente oltre, e cioè elaborare un questionario "privo di riferimenti ebraici" per una attendibile individuazione statistica dell'antisemitismo. Non c'è bisogno che Le esponga i vantaggi. Il problema, ovviamente, è di trovare indizi indiretti che siano condizioni non solo necessarie, ma anche sufficienti dell'antisemitismo; indizi, cioè, nei quali sussista una correlazione così elevata con l’antisemitismo attuale da poter trascurare eventuali differenze. Il metodo potrebbe essere il seguente: nel corso di una sola seduta si distribuiscono uno di seguito all'altro due questionari, dapprima quello privo di riferimenti ebraici, poi uno contenente domande che si riferiscono agli ebrei, all'etnocentrismo ecc., ma anche altre, in modo che neanche qui emerga direttamente il vero interesse della ricerca. Poi si confrontano le risposte di ogni singolo partecipante ai due questionari e quindi si selezionano via via quelle domande indirette dalle quali risulta la massima correlazione con l'antisemitismo o con l'assenza di antisemitismo, al fine di ottenere così uno strumento indiretto estremamente attendibile (Adorno a Horkheimer, 26 ottobre 1944)” [riportato in R. Wiggershaus, La scuola di Francoforte, cit., p. 382].

[11] Attraverso l’analisi per es. dell’atteggiamento di sudditanza nei confronti del potere, del disprezzo nei confronti dei deboli, delle donne, ecc.

[12] E in realtà si fosse democratici, tolleranti per conformismo.

[13] Su questo si veda R. Wiggershaus, La scuola di Francoforte, cit., pp. 290-302; A.R.L. Gurland, O. Kirchheimer, H. Marcuse, F. Pollock, Tecnologia e potere nelle società post-liberali, Introduzione a cura di G. Marramao, Liguori editore, Napoli 1981.

[14] Marcuse sostenne infatti in un primo momento che la lotta totalitaria contro il liberalismo è la lotta del dominio nella propria fase terminale contro la propria fase intermedia.

[15] Reflexionen zur Klassentheorie, in Adorno, Gesammelte Schriften, vol. 8, p. 381 [riportato in R. Wiggershaus, La scuola di Francoforte, cit., p. 330]. Nelle loro analisi il nazismo veniva infatti descritto come un mondo totalmente amministrato controllato da una piccola cricca di persone, da un racket; lo Stato che aveva assunto il controllo dell’economia era esso stesso – a loro dire – diretto da un gruppo amministrativo misto di burocrati, capi militari, funzionari di partito e grossi uomini d’affari. Scrive Wiggershaus: “Si intendeva […] una specie di capitalismo monopolistico totalitario, una società nella quale l'individuo, privo di ogni suo significato, poteva sopravvivere solo come parte di una organizzazione, di un gruppo, di un team; nella quale per reggersi "bisognava darsi da fare dappertutto, prendere parte a ogni team, essere capace di tutto", "stare pronti e allerta", "badare sempre dappertutto immediatamente alle cose pratiche" (m. Horkheimer, Vernunft und Selbsterhaltung, in Walter Benjamin zum Gedächtnis, p. 40)” [R. Wiggershaus, La scuola di Francoforte, cit., p. 324].

[16] Secondo Habermas ciò è dovuto al fatto che “le esperienze legate alla fine del movimento operaio, al nazismo, e allo stalinismo”, soffocarono progressivamente le speranze, sino a spingere la “cerchia interna dell’Istituto” a sposare quel concetto “autodistruttivo” di ragione (nella versione dialettico-negativa) “che li porterà ad autonegarsi”; ed egli così continua: “nel penultimo fascicolo [della rivista dell’Institut] Horkheimer pubblica il saggio Das Ende der Vernunft [La fine della ragione] che sostanzialmente anticipa la Kritik der instrumentellen Vernunft [Critica della ragione strumentale]. Ciò che ora è venuta meno è la fiducia nella forza della tradizione filosofica, della  sostanza utopica degli ideali borghesi, vale a dire in quei ‘potenziali di ragione’ della cultura borghese che – spinti dallo sviluppo delle forze produttive – avrebbe dovuto tradursi in movimenti sociali. Il nucleo razionale della teoria critica si era svuotato […]. Le forze produttive si erano capovolte nelle forze distruttive della ‘machinerie’ bellica. E dov’era finito il movimento sociale, il ‘soggetto’ che doveva sostenere la teoria, quella ‘coscienza d’individui e gruppi determinati che lottano per una organizzazione ragionevole della società’? Dopo il 1941 resta soltanto la diagnosi di un processo autodistruttivo della ragione” [J Habermas, Profili politico-filosofici, Guerini e Associati, Milano 2000, p. 264].

[17] Come esempio di questo atteggiamento possiamo servirci del celebre testo di Horkheimer Traditionelle und kritische Theorie, in cui egli scrive che il telos fondamentale della ragione – in forza della sua stessa costituzione – “mira all’autonomia, al dominio degli uomini sulla propria vita oltre che sulla natura” [M. Horkheimer, Teoria critica vol. II, cit., p.168]; e poco più avanti nell’Appendice posposta a questo saggio, Horkheimer sosterrà che – al di la della apparenze – “l’obiettivo di una società razionale […] è realmente radicato in ogni uomo” [ivi, p. 194]. Come scrive Petrucciani, “pretendendo […] di fondare l’interesse all’emancipazione, la teoria critica non si richiama solo ai vecchi valori della cultura borghese, ma a tutto il processo della razionalizzazione occidentale, cui è immanente il fine di liberare gli uomini dalla superstizione e dalla miseria” [S. Petrucciani, Ragione e Dominio. L’autocritica della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Salerno Editrice, Roma 1984, p. 28]. Come vedremo, questa prospettiva verrà radicalmente rovesciata nello scritto sulla dialettica dell’illuminismo.

[18]  Nel suo saggio successivo, dal titolo Is National Socialism a New Order? Pollock rincarò addirittura la dose. In opposizione a Gurland e a Neumann sostenne infatti che quasi tutte le caratteristiche essenziali della proprietà privata erano state distrutte dai nazisti, ed essi avevano raggiunto il “primato della politica sull’economia” [su questo punto si veda M. Jay, L’immaginazione dialettica. Storia della Scuola di Francoforte e dell’Istituto per le ricerche sociali 1923-1950, Einaudi, Torino 1979, pp. 236-241].

[19] Come riferisce infatti M. Jay, fin dal 1938 Horkheimer aveva manifestato il desiderio di cominciare a lavorare a un libro sulla dialettica dell’illuminismo (questo Adorno riferiva in una lettera a Benjamin del 10 novembre 1939) [M. Jay, L’immaginazione dialettica, cit, p. 403]. Su questo punto si veda anche S. Petrucciani, Ragione e Dominio, cit., pp. 13-21.

[20] Significativo è per esempio il fatto che nelle analisi di Pollock il totalitarismo non venisse mai fatto consistere nel ripudio del liberalismo e dei valori dell’illuminismo, quanto nella elaborazione della loro dinamica implicita.

[21] M. Jay, L’immaginazione dialettica, cit, p. 405.

[22] M.Horkheimer-T.W.Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 3.

[23] T. Perlini, Che cosa ha veramente detto Adorno, Ubaldini Editore, Roma 1971, p. 99.

[24] Di fronte all’orrore del nazismo, “nessun essere vivente può liquidarlo come fenomeno superficiale, come aberrazione del corso normale della storia, di cui non si dovrebbe tener conto di fronte alla tendenza principale al progresso, di fronte al rischiaramento, al sentimento di umanità presumibilmente crescente” [T.W.Adorno, L’educazione dopo Auschwitz, in Parole chiave, Sugarco Edizioni, Milano 1974, p. 122]. “Se nel principio di civilizzazione trova le sue fondamenta anche la barbarie, allora esso possiede qualcosa di disperato, contro cui dobbiamo insorgere” [ivi].

[25] Questo il resoconto fornito da J. Habermas in un articolo del 1982 dedicato al saggio di Horkheimer e Adorno: “La ‘Dialettica dell’Illuminismo’ è un libro singolare. Nelle sue parti essenziali è nato da appunti presi da Gretel Adorno nel corso di discussioni fra Horkheimer e Teddie a Santa Monica. Il testo è stato terminato nel 1944 ed è stato pubblicato tre anni dopo presso il Querido-Verlag ad Amsterdam. Per quasi vent'anni non è stato possibile trovare esemplari di questa prima edizione. La storia dell'influsso che Horkheimer e Adorno hanno esercitato con questo libro sullo sviluppo intellettuale della Repubblica Federale principalmente nelle prime due decadi, sta in un curioso rapporto con il numero dei suoi compratori. Singolare è anche la composizione del libro. Essa è costituita da un saggio di poco più di 50 pagine, due digressioni e tre appendici. La forma piuttosto poco chiara dell'esposizione non consente di distinguere a prima vista la struttura netta della linea di pensiero” [J. Habermas, L’intrico di mito e illuminismo: osservazione sulla “Dialettica dell’illuminismo” dopo una rilettura, Fenomenologia e società, 21, 1983, p. 52; poi raccolto in Dialettica della razionalizzazione, a cura di Emilio Agazzi, Edizioni Unicopli, Milano 1983 (in questo caso la citazione in questione è a p. 265)].

[26] Enunciata nel primo saggio sul Concetto di illuminismo. In una lettera a Löwenthal del maggio 1942 Horkheimer scrive: “Il primo capitolo (ma questo, naturalmente, è strettamente confidenziale) tratterà del concetto filosofico di Illuminismo. Qui l’Illuminismo viene identificato con il pensiero borghese, o meglio con il pensiero in generale, giacché a rigore non esiste altro pensiero se non nelle città. I principali argomenti sono: Illuminismo e mitologia, Illuminismo e dominio, Illuminismo e prassi, le radici sociali dell’Illuminismo, Illuminismo e teologia, fatti e sistemi, l'Illuminismo in rapporto all'umanismo e alla barbarie.” [Horkheimer a Löwenthal, Pacific Palisades, 23 maggio 1942; riportato in R. Wiggershaus, La scuola di Francoforte, cit., p. 325].

[27] C. Galli, Introduzione a Dialettica dell’illuminismo, cit., p. IX.

[28] T. W.Adorno, Terminologia filosofica, Einaudi, Torino 1975, p. 60.

[29] “Si intende per illuminismo l’intero pensiero filosofico che in opposizione alla mitologia a partire dai greci ha condotto la sua battaglia per conseguire chiarezza nelle proprie rappresentazioni in modo che i concetti e i giudizi possano essere evidenti per tutti” [M. Horkheimer, “Aufklarung”, in Gesammelte Schriften, Bd. 13: “Nachgelassene Schriften 1949-1972”, Frankfurt a.M. 1989, p. 571; citato in A. Bolaffi, La Dialettica dell’illuminismo tra Auschwitz e Hollywood, Micromega, 5, 2003, p. 190].

[30] Scrive Cortella: “L'Aufklärung è più propriamente la ragione occidentale nel suo complesso, indica la logica che ha costruito e dominato la civiltà umana, il modo specifico in cui tale civiltà si è organizzata praticamente e teoricamente. […] Quella logica si è mossa lungo due direzioni affini: da un lato, riducendo il molteplice all'unità, l'extra-soggettivo al soggetto, la qualità a quantità, dall'altro sistematizzando secondo un complesso di regole questa totalità ricomposta. Unità e sistema, cioè riconduzione ad un fondamento e dominio logico del tutto, sono le due caratteristiche della ragione illuminista. Nella Dialettica negativa Adorno condenserà nel concetto di identifizierendes Denken (pensiero identificante) il senso della logica occidentale e della storia stessa della metafisica” [L.Cortella, Critica e superamento della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Fenomenologia e società, IV, n° 16, 1981, p. 479].

[31] In Eclisse della ragione Horkheimer giunse al punto di affermare che “questa mentalità che concepisce l’uomo come unico e assoluto padrone del mondo si può far risalire fino ai primi capitoli della Genesi” [M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino 1969, p. 93]. Come scrive Petrucciani, la Aufklärung diviene quindi “la traduzione sul piano intellettuale del progrediente dominio sulla natura da un lato, della crescente demitizzazione e razionalizzazione delle credenze e dei comportamenti dall’altro. È la coerente apologia di questo processo, culminante nella tesi per cui la ragione scientifica, dominante la natura, è l’unico mezzo capace di emancipare gli uomini dall’errore e dalla servitù” [S. Petrucciani, Ragione e Dominio, cit., p. 38].

[32] Scrive Pianciola in una recensione del 1967 a Dialettica dell’illuminismo: “Il termine "dialettica" che appare nel titolo sta ad indicare che l’illuminismo ha una storia intimamente contraddittoria: sorto come tentativo di emancipare gli uomini dall’asservimento a potenze estranee – mentali e reali – l’illuminismo, procedendo, si trasforma nel suo contrario; diventa superstizione e strumento di dominio”. [C. Pianciola, “Dialettica dell’illuminismo” di Horkheimer e Adorno, Quaderni piacentini, VI, n° 29, 1967, p. 68].

[33] M.Horkheimer-T.W.Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 8.

[34] “Come i miti fanno già opera illuministica, così l'Illuminismo, ad ogni passo, si impiglia più profondamente nella mitologia. Riceve ogni materia dei miti per distruggerli, e, come giudice, incorre nell'incantesimo mitico” [M.Horkheimer-T.W.Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 19].

[35] C. Galli, Introduzione a Dialettica dell’illuminismo, cit., p. X.

[36] M.Horkheimer-T.W.Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 11.

[37] “Ciò determina il corso della demitizzazione, dell’illuminismo che identifica il vivente col non-vivente come il mito il non-vivente col vivente. L’illuminismo è l’angoscia mitica radicalizzata. La pura immanenza positivistica, che è il suo ultimo prodotto, non è che un tabù per così dire universale. Non ha da esserci più nulla fuori, poiché la semplice idea di un fuori è la fonte genuina dell’angoscia” [M.Horkheimer-T.W.Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 23]. Come viene fatto notare da Petrucciani, questo è un tema che i francofortesi ereditano da Nietzsche: egli “lo scrive nella Gaia scienza e lo ribadisce in una delle sue opere più tarde, tenuta ben presente da Adorno, il Crepuscolo degli idoli. ‘Con l’ignoto è dato il pericolo, l’inquietudine, la preoccupazione, – l’istinto primo mira a sopprimere questi penosi stati d’animo […]. L’istinto delle cause è dunque condizionato e stimolato dal sentimento della paura’ ” [S. Petrucciani, Ragione e Dominio, cit., pp. 52-53; la citazione nietzschiana è tratta da F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, in Opere, vol VI, t. III, p. 89].

[38] L'Illuminismo, fattore apparente di emancipazione, è in realtà fattore di repressione: “La maledizione del progresso incessante è l'incessante regressione” [Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 44]. Questo motivo affiorava già molto chiaramente nell’Habilitationsschrift di Horkheimer, Gli inizi della filosofia borghese della storia [in particolare nel cap. I intitolato Machiavelli e la visione psicologica della storia]; in essa Horkheimer metteva direttamente in rapporto la visione rinascimentale della scienza e della tecnologia con il dominio politico: la nuova concezione del mondo naturale come oggetto della manipolazione e del controllo umano, osservava, corrisponde a un analogo concetto dell’uomo stesso come oggetto di dominio.

[39] Secondo questa diagnosi il nazionalsocialismo andrebbe interpretato come “l’occasione storica che fa emergere la struttura profonda di quella cultura che dimostra di essere coinvolta, sin dal suo inizio, nella storia del dominio” [ S. Forti, Il totalitarismo, Roma-Bari 2001, p. 84; citato in A. Bolaffi, La Dialettica dell’illuminismo tra Auschwitz e Hollywood, cit., p. 195].

[40] Come scrisse Adorno, “il momento oppressivo del dominio sulla natura si rivolge con un effetto sovvertitore contro l’autonomia soggettiva e la libertà, nel cui nome si era conseguito il dominio sulla natura” [T. W.Adorno, Filosofia della musica moderna, Einaudi, Torino 1968, p. 70].

[41] Cfr. M. Horkheimer, Eclisse della ragione, cit., p. 151.

[42] “L'origine di una tale dialettica è radicata da Horkheimer e Adorno in uno dei fondamenti antropologici della storia del genere umano e precisamente nel rapporto uomo-natura. La razionalità, da un lato, viene determinata dal modo specifico in cui tale rapporto si costituisce, dall'altro, è il  suo stesso nascere che comporta l'istituzione di tale rapporto nella modalità in cui noi lo conosciamo ancor oggi. E tale modalità è quella del conflitto, è cioè il tentativo da parte dell'uomo di sottomettere a sé la natura, di emanciparsi dalla sua coazione, di controllarla. La ragione è lo strumento di questo tentativo, è questo tentativo stesso. Prima di esso non esiste razionalità, prima della razionalità non sussiste cioè differenza tra uomo e natura, tra soggetto e oggetto, tra spirito e materia, non sussiste cioè quella differenza che la civiltà umana ha istituito nella forma del