Montaigne eurhthV del moderno
Tutti concordiamo, almeno in linea di principio, sul fatto che l’età moderna cominci laddove finisce il Medioevo: ma, non appena ci domandiamo quali siano gli autori che incarnano col loro pensiero l’avvio della modernità, le prospettive cominciano a divergere. Una lunga tradizione che trova la sua prima formulazione nella celebre opera di Jacob Burkhardt La civiltà del Rinascimento in Italia e che giunge, passando per diverse e – spesso - contrastanti tappe, fino a Giovanni Gentile, tende a leggere nei trattati celebrativi del genere umano fioriti soprattutto nel Quattrocento la prima e compiuta teorizzazione del moderno: scritti platonici come l’Orazione sulla dignità dell’uomo di Pico e la Teologia platonica di Ficino, o trattati sensu lato aristotelici come il De avaricia di Bracciolini, il De familia di Leon Battista Alberti o il De dignitate et excellentia hominis di Manetti, segnerebbero pertanto la nascita della modernità, di una modernità che tuttavia prenderà piena coscienza di sé soprattutto con il Discorso sul metodo di Cartesio, che del mondo moderno costituisce il manifesto. Ma questa prospettiva, che così a lungo è parsa inattaccabile, scricchiola non appena ci domandiamo quali siano i tratti distintivi del moderno: a tal proposito, la definizione fornita da Hegel pare illuminante; egli asserisce che il moderno consiste in una conversione dal cielo alla terra, mettendo in luce come la differenza più evidente – almeno in prima analisi – tra l’età medievale e quella moderna sia da rintracciarsi in una diversa concezione del mondano e del terreno: mero teatro in cui si vedono all’opera le qualità dei singoli individui che così possono guadagnarsi l’accesso alla vita eterna, il mondo terreno, infestato dai mali e dalla presenza di un diavolo che ci tenta in ogni istante, è per i Medioevali una semplice anticamera al vero mondo celeste, di fronte al quale il nostro perde ogni valore. Al contrario, nell’età moderna – un po’ come era accaduto con i Sofisti e con Socrate dopo le indagini cosmiche e fantasmagoriche dei fusiologoi - gli uomini tornano coi piedi per terra, abbandonando i nebbiosi cieli della vita eterna e prendendo coscienza di come quello in cui quotidianamente si trovano a vivere sia il mondo reale, con l’inevitabile conseguenza che la prospettiva teocentrica cede il passo a quella antropocentrica, le certezze rivelate dai Testi sacri vengono sostituite da una ragione che – ridestatasi dopo il lungo letargo medievale, in cui era relegata al ruolo di ancilla theologiae – torna ad essere socraticamente curiosa di tutto. Ma la conversione di cui parla Hegel non consiste esclusivamente in un abbandono dei cieli della religione, ma anche di quelli – altrettanto nebulosi distanti dalla vita reale – della metafisica e delle sue certezze inattaccabili: le categorie platonico-aristoteliche del vero e del falso, del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto assolutamente intesi si fanno in disparte e il loro posto è ora occupato da nuovi parametri saldamente legati alla vita nella quale siamo immersi: subentrano le mondane categorie dell’utile, del conveniente, del vantaggioso, tutte accomunate da una rinuncia alla pretesa di cogliere il mondo quale effettivamente è, e dall’accettazione di una più modesta e risicata prospettiva che renda conto di che cosa è al singolo utile di volta in volta. In una tale ottica, le categorie totalizzanti adottate dalla metafisica risultano a dir poco chimeriche ed illusorie, fantastiche e inapplicabili alla realtà, quasi come se nella ricerca platonica e aristotelica delle essenze universali si fossero perse di vista le entità individuali che popolano il mondo reale: il metafisico – tanto quello platonico-aristotelico quanto quello cristiano – può allora essere a ragion veduta accostato a Talete, che – scrutando il cielo – smarriva il contatto con la terra, precipitando nei pozzi e facendosi perciò deridere dalle serve. Ma se la modernità consiste in un ritorno coi piedi a terra dopo il lungo quanto improduttivo volo della metafisica, possiamo davvero dire – in sintonia con la tradizione avviata da Burkhardt – che gli archegeti di questa nuova età siano Pico, Leon Battista Alberti, Ficino, Bracciolini, e tutti gli altri autori di trattati del primo Quattrocento? Se soffermiamo per un attimo la nostra attenzione sulla già citata Orazione sulla dignità del genere umano di Pico ci accorgiamo facilmente di come la conversione dal cielo alla terra sia più apparente che reale: l’uomo è sì per Pico il supremo tra gli esseri del creato, in quanto capace – grazie al libero arbitrio – di innalzarsi a Dio o di abbassarsi ai bruti, ma in definitiva mantiene il cielo come mèta ultima (platonica e insieme cristiana) dell’uomo, restando in tal maniera lontanissimo dall’affermazione hegeliana secondo cui il moderno sarebbe un passaggio dal cielo alla terra. La stessa immagine dell’uomo che affiora dal pensiero di Ficino pare non riuscire a smarcarsi del tutto dal cielo: pur insistendo egli – in termini spiccatamente antropocentrici - sull’assoluto primato di cui l’uomo (inteso come copula mundi) può vantare all’interno del cosmo, ciononostante non rinuncia a porre Dio come punto supremo a cui l’uomo tende. Sul versante in senso lato “aristotelico” ci imbattiamo in un reale svincolamento dai cieli cristiani, ma non per questo possiamo affermare di trovarci dinanzi al moderno: tutti questi autori (Alberti, Manetti, Bracciolini) restano saldamente legati alla prospettiva aristotelica dell’uomo come campione di virtù, capace di coprirsi di una nobiltà acquisita per merito e non per via ereditaria. Sicuramente questa variante è più “moderna” rispetto a quella di Pico e di Ficino, ancora così legati al “cielo” e distanti dalla “terra”, ma non è ancora corretto dire che in questi autori si trovi la modernità, altrimenti ci troveremmo costretti ad ammettere ch’essa consista in una ripresa anacronistica dell’etica aristotelica della virtù e dell’ottimismo che da essa trasuda. Nella tesi che intendo sostenere, è con Montaigne che si spalancano le porte del moderno, concepito – seguendo la definizione hegeliana – come ritorno sulla terra, ma anche come rifiuto di quel principio di autorità a cui costantemente ricorrevano i Medioevali e come trionfo del dubbio sulla certezza metafisica, aspetto, questo, da cui scaturisce un necessario privilegiamento per le piccole conoscenze che quotidianamente facciamo nella nostra personale esperienza di contro alle grandi quanto illusorie certezze metafisiche di comprendere in toto la struttura del mondo. Sarà pertanto utile fare costante riferimento al pensiero di Cartesio, che abbiamo detto essere l’autore con cui il moderno prende piena coscienza di sé e giunge alla consapevolezza che le modalità di ricerca seguite dai predecessori, se non hanno saputo darci alcuna certezza, vanno abbandonate; si tratterà allora – dopo essersi congedati dalla filosofia precedente – di partire da zero con una nuova indagine, fissando però preliminarmente il nuovo metodo da seguire: ed è a tal proposito che Cartesio stende il Discorso sul metodo. Dunque, dopo esserci sbarazzati degli umanistici quattrocenteschi in quanto o ancora troppo legati a Dio come mèta ultima o dipendenti da un sistema aristotelico di virtù oramai sorpassato, ci troviamo a dover sostenere che il moderno prenda le mosse e da Montaigne e da Cartesio, cadendo così in una (almeno) apparente aporia, dettata dalla così netta diversità tra questi due pensatori: se il moderno nasce sulle ceneri del Medioevo e dà un’immagine del mondo e dell’uomo simile a quella tratteggiata da Cartesio e da Montaigne, se ne evincerà – come minimo -, data la straordinaria differenza tra il pensiero dei due filosofi, che il moderno è segnato da un bifrontismo tale per cui l’uomo montaigneiano, dubitante in un mondo che non dà certezze, convive in perfetta armonia con quello cartesiano, certo delle sue conoscenze assolute che gli permettono di avere conoscenze (laddove esse siano “chiare e distinte”) non meno precise di quelle che ha Dio. E in effetti l’intera modernità è percorsa da due diverse scuole di pensiero, spesso in conflitto tra loro, miranti l’una a cogliere metafisicamente il reale e l’umano (Hobbes, Spinoza, Hegel, Marx) e l’altra (Pascal, Hume, Nietzsche) a mettere in evidenza l’impossibilità di compiere tale operazione, limitando perciò il conoscere umano al dubbio e all’incertezza. Ma, nonostante la convivenza (spesso conflittuale) tra queste due scuole di pensiero che abbiamo visto prendere le mosse l’una da Cartesio e l’altra da Montaigne, pare evidente che quella che pretende di cogliere la realtà e l’uomo nel suo insieme, con sottili stratagemmi metafisici, non sia genuinamente moderna, ma piuttosto segni il protrarsi nella nuova età delle posizioni metafisicheggianti emerse con Platone e Aristotele e passate per il mondo medioevale; Cartesio, che di tale posizione è il padre, sarebbe perciò, più che un nemico di Platone e Aristotele, un loro degno prosecutore, ad essi accomunato dalla volontà di raggiungere certezze salde e inoppugnabili. Sul versante opposto, Montaigne segna realmente il passaggio dai cieli (sia del divino sia della metafisica) alla terra su cui ci troviamo gettati a condurre la nostra esistenza, un passaggio che si palesa come trapasso dalle forme chiuse del sapere metafisico ad un pensiero che si forgia nel contatto con la vita, e che mai oblia le riflessioni dei predecessori. Sia Cartesio sia Montaigne inaugurano l’epoca moderna, ma solo Montaigne è veramente moderno fino in fondo, ed è nelle sue pagine che si riconoscono i lineamenti dell’uomo moderno, fluttuante nel dubbio e lontano dalle chimeriche certezze garantite da una metafisica capace di gettar nebbia sul dubbio stesso, ma non di dissiparlo con l’antidoto della reale certezza. Ci troviamo enigmaticamente dinanzi a due inauguratori dell’età moderna che ne danno due immagini diametralmente opposte, a tal punto che si potrebbe legittimamente dubitare che avessero di fronte la medesima realtà: per Cartesio il moderno è conquista di quella certezza che l’antico non è stato in grado di procurare, per Montaigne è invece rinuncia di cercare una certezza che gli antichi – così pieni d’ingegno e di sagacia – non sono riusciti a conquistare. Tutti e due volgono lo sguardo dal cielo alla terra, ma è solo Montaigne che compie quest’operazione in modo radicale, fino all’estrema conseguenza di un dubbio che arriva ad erodere anche le certezze che maggiormente paiono tali: egli infatti libera l’uomo tanto dalle catene del divino quanto da quelle della metafisica, proponendoci l’immagine di un mondo caotico in cui le certezze vengono a mancare e anche quelle che unanimemente vengono considerate tali non sfuggono ai martellanti colpi del dubbio. Cartesio, dal canto suo, libera la prospettiva dai vincoli dei cieli religiosi, ma non riesce a portare l’istanza di riappropriazione della terra fino in fondo, restando saldamente legato al cielo per quel che concerne la rigorosa veduta metafisica di cui il suo pensiero si nutre. Il suo è – per così dire - un ritorno sulla terra solo a metà. Se gli antichi e illustri filosofi non han saputo raggiungere la certezza, ciò è avvenuto solo in forza dello scorretto metodo da essi dispiegato: sicchè basta mutar metodo per poter comprendere il mondo nella sua interezza, poiché la ragione umana è onnipotente, illimitata e perfetta, a patto che venga correttamente impiegata. E l’onnipotenza della ragione, sulla quale Cartesio imposta l’intera sua filosofia, è quanto di meno moderno possa esserci, giacchè era stata l’età antica che, giungendo in ciò all’apice con Platone e – soprattutto – con Aristotele, aveva nutrito una fiducia illimitata nelle sue potenzialità, senza riuscire ad accorgersi – nella foga – dei limiti intrinseci ed ineliminabili che essa presenta e sui quali non potrà mai trionfare. La ragione così come la intende Cartesio, onnipossente e incontrastata, capace di produrre conoscenze assolutamente certe, verrà non a caso messa alla berlina dai più grandi pensatori dell’età illuministica, che resteranno sì fedeli alle potenzialità gnoseologiche dell’uomo, ma nella consapevolezza che esse siano pur sempre limitate e impossibilitate a conoscer tutto: così Kant instaurerà un immaginario tribunale della ragione, in cui essa svolge la duplice mansione di giudice e di imputato, poiché è essa stessa ad indagare sui propri limiti costitutivi. Ancora Voltaire non esita minimamente ad attaccare Cartesio e la sua concezione della ragione illimitata e inattaccabile, che pretende di conoscere ogni cosa ma che in realtà non arriva a nulla e, più che risolvere i problemi, ne genera di nuovi: così Micromega – nell’omonimo scritto -, gigante proveniente da un altro pianeta, si fa beffe della dottrina del pensatore francese, rivelando invece una certa simpatia per il pensiero di Locke, con il quale Voltaire stesso è in sintonia: di contro alla ragione sconfinata e acritica, dogmaticamente certa di sé, Locke aveva invece ridimensionato tale fede, prospettando l’immagine di una ragione accostabile ad una candela capace illuminarci il cammino, ma di una luce fioca e insufficiente per cogliere la realtà nella sua interezza. Tuttavia, anche per Locke e per gli Illuministi, la ragione resta essenzialmente l’unico mezzo di cui l'uomo dispone nella sua indagine e deve quindi servirsene a trecentosessanta gradi, pur nella consapevolezza che non potrà mai conoscere ogni cosa, ma che potrà almeno portarci a smontare e a dichiarare l’inattingibilità di alcuni concetti tipicamente metafisici tramandatici dalla tradizione. La differenza tra Locke e Cartesio si configura allora come differenza tra il moderno in senso pieno e il moderno in senso parziale, che si è sì svincolato dai cieli della religione, ma resta ancora vincolato a quelli della metafisica: Locke sa bene che ogni nostra conoscenza, per quanto profonda possa essere e sempre e di nuovo integrata da altre, non potrà mai esaurire la realtà; per Cartesio, invece, la ragione può tutto, cosicchè, se ben condotta, può portarci alla comprensione dell’intera realtà. Una ragione siffatta, però, finisce paradossalmente per configurarsi come irrazionale, poiché rinuncia impulsivamente a porsi questioni critiche sulla legittimità del proprio operato: il razionalismo cartesiano tende così a naufragare in un irrazionalismo di fondo. Dicendo che la prospettiva critica, rinunciataria e volutamente distante dalle certezze metafisiche, è quella che sta alla base del moderno, non intendiamo sostenere che invece la veduta cartesiana sia antiquata e sorpassata: chè altrimenti non si spiegherebbe come autori che rientrano a pieno titolo nella modernità – quali Hegel o Marx – restino ancora in certo modo fedeli ad un modello metafisicamente onnicomprensivo del reale; semplicemente, intendiamo sostenere che il loro è il trascinarsi in età moderna di un pensiero che è tutto fuorchè moderno. Dal canto suo, Montaigne – che è e resta un umanista tout court, sebbene sia espressione di un umanesimo ormai in crisi – si muove con una certa circospezione quando tratteggia il campo di applicabilità della ragione, anticipando in tal maniera le riflessioni di Locke e degli Illuministi: lontanissimo dalla prospettiva cartesiana, egli ravvisa nella ragione un proficuo strumento in grado di fornire, più che certezze assolute, utili accorgimenti per la vita comune, validi consigli per muoversi nella caoticità di un’esistenza di per sé priva di certezze; dai cieli della metafisica a cui ancora volgeva lo sguardo Cartesio, Montaigne è tornato coi piedi per terra, soffermando l’attenzione non sulle nebbiose conoscenze metaempiriche e onnicomprensive – che ci inducono a creder di abbracciare tutto, quando in realtà non stringiamo che vento -, ma su quelle orientate all’utile per l’uomo, virando in tal modo verso il moderno (e in ciò la differenza con Cartesio è inconfutabile). Ben si attaglia allora al pensiero di Montaigne l’immagine della ragione come candela in grado di gettare una tenue luce sul nostro cammino: proprio perché si tratta di una candela, resteranno necessariamente oscure molte zone (anzi: quasi tutte) del reale, cosicchè sarà opportuno vagliare con attenzione le opinioni che in merito han formulato gli antichi, poiché la verità non è stata da noi colta più di quanto non lo sia stata da loro. Ecco spiegato il titolo dell’opera montaigneana: “Saggi” innanzitutto nel senso del saggiare con circospezione critica il terreno per appurarsi che esso sia abbastanza consistente per essere percorso, il che mette in luce quell’istanza critica e sempre diffidente verso le presunte certezze che invece manca a Cartesio. Montaigne, più modestamente rispetto al suo collega, non pretende di conoscere il mondo nella sua interezza, ma si accontenta di frugare fra le pieghe dell’animo umano, fluttuando costantemente nel dubbio, dal quale non riuscirà mai ad uscire completamente, rivelando in ciò una matrice scettica. Nel capitolo XXVI dei “Saggi”, egli scrive significativamente: “soltanto i pazzi sono sicuri e risoluti”, aggiungendo a conferma della funzione conoscitiva del dubbio il verso dantesco: “che non men che saper dubbiar m'aggrada”. Il fatto stesso che nessuno degli antichi – con cui nel suo scritto Montaigne dialoga costantemente in una conversazione al di là del tempo – abbia raggiunto certezze assolute dovrebbe indurci a ridimensionare la nostra convinzione di poter riuscire laddove tutti han fallito, di fronte ad una realtà configurantesi come un groviglio inestricabile, che è a dir poco illusorio credere di poter sciogliere; la posizione del saggio sarà allora quella di chi – liquidando la chimerica pretesa di conoscere il reale nel suo complesso – si accontenterà di piccole conoscenze utili per la vita quotidiana, conoscenze che, in forza di tale aspetto ridimensionato, non possono che essere strutturalmente deboli. Anche Cartesio fa del dubbio il suo cavallo di battaglia, ma in modo del tutto diverso: Montaigne parte dal dubbio e vi rimane, prendendo atto dell’impossibilità di conoscenze “forti” che rendano conto della struttura del reale; in Cartesio il dubbio è un gradino per raggiungere la certezza, si serve di esso per eliminarlo: revocata in dubbio ogni cosa, non appena rinviene nel cogito, ergo sum l’incontestabile punto archimedico su cui far poggiare una conoscenza illimitata e certa, che non possa essere in alcun modo corrosa da dubbi. Anzi, se egli abbatte l’edificio del sapere tramandato dagli antichi è proprio perché esso poteva troppo facilmente essere attaccato (e di fatto lo era) da dubbi in grado di farlo vacillare: il suo obiettivo è di ricostruirlo da zero su nuove basi incontestabilmente certe, che non lascino più alcuno spazio ai dubbi. Tanto più che quello di Cartesio non è un dubbio genuino, di cui egli sia stato effettivamente in balia: il suo è invece un dubitare meramente metodico e artificiale, un voler dubitare su cose di cui in realtà si è certi per considerare quali conseguenze ne derivino.
Merita, a tal proposito, per meglio comprendere questa divergenza di vedute, affidarci ai testi stessi dei due pensatori. Scrive Cartesio nel Discorso sul metodo:
“non imitavo, gli scettici, che dubitano solo per dubitare e ostentano una perenne incertezza: al contrario, ogni mio proposito tendeva soltanto a raggiungere qualcosa di certo, e a scartare il terreno mobile e la sabbia, per trovare la roccia e l'argilla”. E più avanti egli prosegue: “presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si erano introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava necessariamente che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia che cercavo” (Discorso sul metodo, parte IV). Dai due passi testé riportati, affiora chiaramente il proposito e l’esito del pensiero cartesiano: egli muove da certezze che però la tradizione non è riuscita a dimostrare tali, e, per riuscire laddove i suoi predecessori han fallito, Cartesio gioca la carta del dubbio, mettendo strumentalmente in forse ogni cosa per poter trovare un punto assolutamente fermo (il cogito, ergo sum) sul quale edificare una filosofia della certezza. Scrive invece Montaigne: “io non sono pienamente signore di me stesso e dei miei impulsi. Il caso ha più potere di me in ciò. L’occasione, la compagnia, lo stesso tono della mia voce traggono dal mio spirito più di quanto vi trovo quando lo esploro e lo uso per mio conto. […] Mi capita anche questo: non mi trovo dove mi cerco; e trovo me stesso più per caso che per l’investigazione del mio giudizio. Posso aver gettato là qualche arguzia nello scrivere. (Voglio dire: spuntata per qualcuno, acuta per me. Ognuno dice ciò secondo le proprie capacità). L’ho smarrita al punto di non sapere che cosa ho voluto dire; e un estraneo talvolta l’ha scoperta prima di me. Se usassi il raschietto ogni volta che ciò mi accade, mi cancellerei del tutto. L’occasione mi offrirà qualche altra volta luce più chiara di quella del mezzogiorno; e mi farà stupire del mio esitare” (I, 10). La prospettiva cartesiana è ribaltata: il dubbio di Montaigne non è artificiosamente impiegato, ma genuino ed in esso egli resta impigliato a tal punto da non trovar via d’uscita: perfino la sfera dell’interiorità ne è contagiata, sicchè l’io non costituisce il punto cardinale su cui far leva per sfuggire al dubbio, ma è anzi un’incerta zona d’ombra alla pari della realtà esterna, una zona in cui non si ha potere e in cui, addentrandosi, si finisce per smarrire la via. Sicché Cartesio si adopera per individuare un metodo in grado di guidare la ragione umana ad una certezza così salda da non poter più essere scalfita da alcun dubbio, e sebbene presenti – nel Discorso sul metodo –, con una forma di modesta autodiminuzione, il proprio procedere come un’acquisizione meramente soggettiva, senza alcuna pretesa di universalità, non si fatica a comprendere come in realtà egli sia assolutamente certo che il suo metodo sia inattaccabile e applicabile universalmente. Dal canto suo, Montaigne mette preventivamente in guardia il lettore, nella prefazione ai Saggi, dal ritenere che il suo scritto sia animato dalla pretesa di dispensare verità o precetti universalmente validi e utili, giacchè “mes forces ne sont pas capables d'un tel dessein”: al contrario, il fine dell’opera appare notevolmente ridimensionato se raffrontato con l’intento universalistico che, seppur taciuto, Cartesio rivendicava, e può essere in certo senso ridotto (ed è ciò che Montaigne stesso fa) all’utilità personale dello scrittore stesso, il quale, nel comporre l’opera, ha l’opportunità di meglio addentrarsi nella conoscenza di se stesso, di quell’io che – come abbiam già rilevato – sfugge alla certezza riconosciuta da Cartesio. Al preteso universalismo di stampo metafisico che soggiace alle opere cartesiane si oppone l’utilitarismo personalistico di Montaigne, che scrive non già per imbandire verità o nozioni valide e utili per tutti gli uomini, bensì per conoscersi meglio (e per farsi meglio conoscere dai suoi amici più intimi), secondo l’antico motto delfico gnwqi sauton. Ma tale solenne imperativo è, nel caso di Montaigne, destinato a rimanere incompiuto, giacchè il dubbio che travaglia il filosofo francese non risparmia neppure la sua interiorità, cosicché può essere a ragion veduta ripreso l’antico aforisma di Eraclito secondo cui “per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell'anima: così profondo è il suo lógos” (Eraclito, fr. 45 Diels-Kranz). Ma – domandiamoci – non è forse il dubbio, questo inseparabile compagno del filosofare montaigneano, una delle più tipiche e abituali componenti dell’uomo moderno? Più che raccoglier certezze, non deve egli seminare dubbi? Ne segue che l’immagine dell’autentico uomo moderno si rispecchia molto più nel pensiero sempre e di nuovo dubitante di Montaigne che non in quello di Cartesio, dogmaticamente riposante su verità già accertate. Pare quanto meno enigmatico che due uomini così diversi e inaccostabili fra loro siano entrambi i fondatori dell’età moderna. Lo scetticismo a cui Montaigne costantemente si richiama è il più fulgido shmeion della sua insofferenza per le certezze di ogni sorta: nello scontro tra il dogmatismo cartesiano e il criticismo montaigneano possiamo leggere in filigrana l’affacciarsi sullo scenario filosofico di quella distinzione – magistralmente colta da Vattimo – tra il “pensiero forte”, certo delle sue verità (in nome delle quali è anche pronto a brandire la spada) e il “pensiero debole”, rifiutante le categorie forti e le legittimazioni onnicomprensive, consapevole dei propri limiti intrinseci e, perciò, pronto ad aprirsi agli altri, poiché – non potendo essere mai data la verità nella sua interezza – è solo dal confronto e dal dialogo che la conoscenza può andare via via arricchendosi, senza tuttavia mai giungere a traguardi ultimi. L’apertura verso gli altri – da Vattimo intesa come un progressivo aprirsi verso le culture “altre”, da sempre tacitate e represse in nome di una presunta verità di cui esse non partecipavano – è presente in Montaigne nella misura in cui egli dialoga con gli antichi e con i contemporanei, introducendo e discutendo - all’interno dei suoi scritti - numerose loro opinioni; Cartesio, dal canto suo, nella fortezza del suo pensare metafisico, non sente questa esigenza, e il suo si configura, più che come un dialogo, come un monologo, tipico di chi è convinto di possedere la verità: nel “Discorso sul metodo”, egli scrive che “a conversare con gli uomini del passato accade quasi lo stesso che col viaggiare. E' bene conoscere qualcosa dei costumi di altri popoli, per poter giudicare dei nostri più saggiamente […].Ma quando si spende molto tempo nei viaggi, si diventa alla fine stranieri in casa propria”. Da ciò emerge benissimo come il rapporto intrattenuto da Cartesio con gli antichi e, in generale, con gli altri non sia mirante ad un autentico arricchimento del proprio sapere, ma, piuttosto, per prendere coscienza che esistono pensieri diversi dal nostro, a cui però non è bene appressarsi troppo, per non correre il rischio di diventare “stranieri in casa propria”. Per Montaigne, imperando il dubbio, non si può mai aver certezza che quanto asserito dagli altri sia meno vero rispetto alle nostre credenze, poiché manca un termine di paragone a cui riferirsi: da qui scaturisce il costante riferimento al pensiero altrui, ciceronianamente esposto in maniera dossografica, senza mai accordare la palma d’oro a nessuna corrente filosofica, salvo poi nutrire una certa simpatia per le posizioni scettiche. Ma non è per questo motivo lecito nemmeno fare – sulle orme di Socrate - una stabile e dogmatica professione di non sapere, cosicchè la formula perfetta non é quella degli antichi “io non so” (a sua volta ricadente nel dogmatismo) , ma “che so io?”; ciò è forse dovuto al fatto che la realtà stessa sia soggetta ad un fluire incessante che la rende cangiante in ogni momento, cosicchè – riprendendo Eraclito ed Epicarmo – Montaigne può dire che non possiamo immergerci due volte nelle stesse acque o che l’invito a cena non vale più il giorno dopo poiché non siamo più gli stessi. A coronamento di questa situazione abbandonata da ogni certezza, Montaigne si chiede aporeticamente “che cosa veramente è?”, domanda destinata a restare in lui irrisolta. Infatti, a dispetto di quanto crede Cartesio, non siamo in alcun contatto col vero essere delle cose e chi si ostina a voler attingere l'essere, fa come chi volesse, stringere nel pugno l’acqua, che più la stringi e più schizza via dappertutto. Sotto questo profilo, la posizione scettica è da Montaigne riconosciuta come quella che meglio si adegua ad una realtà inattingibile quale è quella circostante, nella quale abitualmente ci muoviamo con troppa certezza, senza interrogarci sul significato delle nostre azioni più comuni. Così Cartesio, partito dal dubbio, lo seppellisce ben presto, ripristinando una certezza ancora più metafisicamente indubitabile di quella tramandata dagli antichi; sull’altro versante, Montaigne – in ciò pirroniano fino in fondo - non trova vie d’uscita e, perciò, resta nel perpetuamente rinnovantesi circolo del dubbio, finendo paradossalmente – al fine di evitare di cadere in contraddizione – per dubitare perfino di dubitare. Sicchè l’uomo della modernità quale viene presentato da Cartesio è l’uomo erede della tradizione umanistica, la pedina fondamentale che si muove sulla scacchiera del mondo terreno, di cui può conoscere anche gli anfratti più nascosti attraverso una ragione metafisicamente “forte”, a cui nulla resta celato; al contrario, l’uomo che emerge dagli scritti di Montaigne è un uomo più attaccato alla mondanità, giacchè si è liberato dei ceppi sia del dogmatismo religioso sia di quello metafisico, ma ciononostante è di inferiore statura rispetto all’onnisciente uomo cartesiano che, equipaggiato di una ragione “forte”, può conoscere tutto; infatti, pur coi piedi per terra, egli non può conoscere fino in fondo la realtà in cui si trova immerso, non è il centro del creato, ma uno degli infiniti granelli che lo costituiscono e – poiché, per dirla con Orazio, parvum parva decent – la conoscenza di cui può disporre - conseguibile con sforzi immani – sarà sempre e comunque debole e incerta, poiché la ragione stessa è affetta da una certa miopia connaturata.
Sarebbe però fuorviante e, al contempo, riduttivo credere che Montaigne approdi al dubbio esclusivamente perché suggestionato dalla lettura del pensiero scettico, giacchè quest’ultimo – a ben vedere – si configura più come conferma che non motore del dubbio montaigneano, acceso primariamente dal particolare momento storico in cui il pensatore francese si è trovato a vivere e di cui il suo pensiero è, in certo senso, uno specchio; non a caso, si tratta di un periodo storico profondamente segnato dall’improvviso crollo di buona parte di quelle certezze che avevano fino ad allora accompagnato l’uomo occidentale lungo il suo cammino. Il primo caposaldo a franare in questa strage di certezze è l’assoluta certezza della propria fede che ogni cristiano in cuor suo nutriva: infatti, con i dissidi religiosi divampati in seguito alla vibrata protesta luterana, che aveva a sua volta acceso la miccia per l’esplodere di altri movimenti di opposizione al cattolicesimo (primo fra tutti il calvinismo), era entrata in crisi la certezza – fino ad allora incrollabile – del cristiano, il quale ora si trova dilaniato dal dubbio nel dover scegliere la vera religione da professare, disorientato dinanzi ad un proliferare di diversi credo religiosi che, per forza di cose, si trovavano a coesistere. La stessa scoperta dell’America aveva travolto la certezza, da sempre nutrita dall’uomo europeo – salvo le eccezioni, che, seppur sporadiche, non mancarono), di essere al centro della terra, certezza ulteriormente demolita dalle teorie di Copernico che, sebbene fossero state presentate dal pensatore polacco solo come ipotesi, prospettavano insidiosamente l’idea che l’uomo europeo non solo non fosse al centro della terra, ma neanche dell’universo, facendo così tramontare definitivamente la prospettiva ficiniana dell’homo copula mundi, trapassante ora nella più mesta constatazione di Giordano Bruno secondo cui umbra profunda sumus (De umbris idearum). Questa congerie di dubbi assillanti confluisce interamente nella riflessione di Montaigne e trova il suo più adeguato adattamento nel pensiero scettico, che per primo aveva messo in luce in maniera così netta i limiti intrinseci un uomo isolato nella fluidità dell’universo e movente verso una verità a cui mai potrà approdare; ed è proprio il pensiero scettico che sventola come vessillo dell’antidogmatismo contrapposto ai “cieli” della metafisica e della religione, che non a caso avevano ravvisato in esso il loro acerrimo nemico, capace di gettar scompiglio nelle presunte certezze metafisicamente propugnate.
Ma, nonostante lo scetticismo che informa il pensiero montaigneano e ne fa un baluardo dell’età postmetafisica, sembra che nel rifiuto cartesiano della tradizione antica, volto a fondare su basi certe e stabili l’età moderna, ci sia molto più di moderno che non in Montaigne e nel suo costante dialogare con i pensatori del passato: si tratta però solo di un’apparenza, destinata a crollare non appena ci domandiamo se l’età moderna, nella sua profondità, si sia davvero svincolata da ogni legame con la tradizione antica o, piuttosto, se non sia ancora strettamente legata ad essa. A tal proposito, Heidegger dice significativamente che noi moderni non facciamo altro che chiosare Platone e Aristotele, mettendo in questa maniera in luce la stretta dipendenza – che Cartesio aveva tentato di recidere - che ci lega agli antichi; ancora Hegel – che pure nell’intendere la filosofia è molto più prossimo a Cartesio che non a Montaigne – propone il proprio sistema come risposta alle domande poste dai Greci, e similmente il pensiero di Nietzsche e di Freud nasce sulle venerabili rovine del mondo antico, di cui la nostra età è figlia. Se ci soffermiamo anche solo brevemente sugli altri pensatori che costellano l’età moderna, non possiamo non ravvisare tale dipendenza col mondo antico e con le sue realizzazioni, soprattutto con quella stagione felicissima della storia umana che coincide con il mondo dei Greci.
C’è un passo – nell’apologia di Raymon Sebond – che costituisce un punto nodale del pensiero di Montaigne, un passo in cui vengono ad incontrarsi pressochè tutte le diverse prospettive del suo pensiero: “quand je me joue à ma chatte, qui sait si elle passe son temps de moi plus que je ne fais d'elle?” Da questa divertente domanda traspare quel dubbio che alimenta l’intera filosofia montaigneana e che arriva a travolgere perfino gli aspetti più scontati della nostra vita quotidiana, quale può appunto essere il nostro rapporto con gli animali domestici: che cosa può infatti garantirmi che, nel momento in cui gioco con la mia gatta, essa non si stia divertendo più di me? Non c’è nulla, evidentemente, che possa dissipare tale dubbio, cosicché peccano di un ottuso dogmatismo coloro i quali vivono nella certezza pregiudiziale di essere al centro del mondo, come voleva la tradizione umanistica da Pico ad Alberti, da Ficino a Valla. Ciascuno di noi finisce per essere in maniera protagorea la misura della realtà che lo circonda, il che non solo è legittimo, ma è anzi del tutto inevitabile, poiché ognuno vede sempre e comunque il mondo coi propri occhi; l’errore nasce quando non ci si accorge della limitatezza della propria debole posizione e si avanza l’assurda pretesa di universalizzarla e assolutizzarla metafisicamente, facendo del nostro debole punto di vista una prospettiva forte e totalizzante, alla quale uniformare la realtà. Montaigne stesso sa bene che, prima facie, la realtà appaia a tutti tale per cui i protagonisti, tanto nel giocare col gatto quanto nel muoverci nel mondo, siamo noi, ma è altresì convinto che tale certezza debba essere scavata, saggiata e, in certo modo, incrinata, poiché riposante su una convinzione dogmatica che può in qualsiasi momento essere messa in dubbio: l’età umanistica dell’uomo in bilico tra il terrestre e il divino (homo copula mundi) è ormai irrimediabilmente sorpassata, ma non certo in vista di quella che sarà la prospettiva altrettanto dogmatica e assolutizzante di Cartesio, ad avviso del quale – non diversamente da Aristotele – l’uomo è un animale pensante il cui ufficio precipuo è di conoscere la realtà, rispecchiandola oggettivamente. Al contrario – se proprio dobbiam dare una definizione che renda conto del pensiero di Montaigne – l’uomo è e resta perennemente un animale dubitante, sospeso nel nulla e sorretto solamente dalla fede, intesa però non in maniera dogmatica, bensì come esito necessario di una ragione troppo debole per farsi strada da sé: tale concezione è contenuta in nuce in questa riflessione montaigneana: “se chiamiamo prodigi o miracoli le cose a cui la nostra ragione non può arrivare, quanti se ne presentano continuamente al nostro sguardo? Consideriamo attraverso quali nebbie e come a tastoni siamo condotti alla conoscenza della maggior parte delle cose che abbiamo fra le mani: certo troveremo che è piuttosto l’abitudine che la scienza a non farcene vedere la stranezza” (I, XXVII) . La stessa sensibilità di Montaigne per il mondo animale – sensibilità che ben emerge nel passo della gatta - pare come non mai moderna ed è anch’essa il frutto di un pensiero che, fluttuando nel dubbio, non può ricadere nella dogmatica convinzione di un’indiscussa superiorità dell’uomo o – ancora peggio – nella credenza cartesiana che gli animali siano mere macchine che, a differenza dell’uomo - “macchina che, essendo stata fatta da Dio, é incomparabilmente meglio ordinata e ha in sè movimenti più meravigliosi di qualsiasi altra tra quelle che gli uomini possono inventare” (Discorso sul metodo) -, sono prive di ragione e di sensibilità e si muovono “solo per una disposizione dei loro organi” (Discorso sul metodo, parte V). L’uomo stesso, in una tale dogmatica prospettiva meccanicistica, altro non è se non una macchina pensante o, come ha suggestivamente sostenuto Ryle, una “macchina” abitata da uno “spettro” battezzato “spirito” o “anima”. Dal passo della gatta, poi, emerge chiaramente come Montaigne proietti sempre, con una certa modestia, la propria indagine su realtà quotidiane e, in forza di ciò, più vicine a noi, che le sentiamo a tutti gli effetti nostre perché può accadere che ci poniamo questioni analoghe: l’investigazione cartesiana che si propone di abbracciare tutto lo scibile umano, dall’universo fisico alle passioni dell’anima, appare allora un miraggio di una ragione che si crede più forte di quanto non sia e, nell’avvitarsi su questioni metafisiche sempre più alte, finisce per perdere contatto con la realtà terrena; con Montaigne si affaccia invece finalmente sullo scenario filosofico la ipermoderna categoria dell’utile - preconizzata da Machiavelli -, che detronizza quella – tipica dei tempi d’oro della metafisica – del sapere disinteressato, privo di risvolti pratici e, in virtù di ciò, di qualità superiore. La conoscenza viene in tal maniera subordinata all’utilità, cosicchè – se non produce effetti fruibili – è indegna di essere seguita: tesi, questa, che trova la sua piena formulazione in Bacone prima e nell’Illuminismo poi, che di Bacone è in certo senso figlio. Infine, merita di essere rilevato il gradevole umorismo che permea costantemente gli scritti montaigneani - fedele in ciò alla poetica oraziana del ridentem dicere verum quid vetat? – e che raggiunge uno stato di perfetta sobrietà nella gustosa scenetta di Montaigne che si diverte con la sua gatta; l’umorismo, tuttavia, non era una componente estranea neppure al pensiero di Cartesio, seppur non in maniera così radicata come in Montaigne, che trova il suo diretto precedente in tale gusto per lo scherzo e per l’umorismo raffinato in Luciano di Samosata, a cui è peraltro anche accomunato dal deciso ripudio di ogni dogmatismo - sia di tipo filosofico, sia di tipo religioso – e dalla convinzione che il pensiero umano sia connaturatamente debole. L’antidogmatismo di Luciano – questo antesignano del “pensiero debole” – si coniugava sapientemente con il gusto del comico e dello scherzo, quando egli, nei suoi scritti dissacranti e demolitori di ogni certezza, metteva in forse l’esistenza degli dèi e della loro integrità morale, assestando agli abitanti dell’Olimpo il colpo decisivo già azzardato – ma non inferto con sufficiente forza - dal Prometeo di Eschilo e dagli Uccelli di Aristofane. Del resto, nella Storia vera, l’avversione per ogni dogmatismo sfociava in un divertito e divertente tripudio della fantasia, con l’incredibile viaggio di Luciano – Astolfo ante litteram – sulla luna e su altri mondi infinitamente distanti e diversi dal nostro, fino ad essere ingerito da una balena, anticipando la sorte che toccherà a Pinocchio. Ora, soffermandosi – seppur giocosamente – su questi mondi “altri” rispetto al nostro, Luciano mette in luce come la nostra abitudine a pensarci al centro dell’universo riposi esclusivamente su una dogmatica convinzione, non altrimenti fondata che sull’ignoranza e su preconcetti accumulatisi l’uno sopra l’altro. Egli fa pertanto professione di quel relativismo culturale già predicato da Protagora e che Montaigne – in nome del suo dichiarato scetticismo – recupera, alla luce delle recenti scoperte geografiche che avevano portato a prendere coscienza dell’esistenza di popolazioni abitanti sull’altra faccia del pianeta e viventi secondo norme e costumi diversissimi dai nostri, ma non per questo inferiori e indegni di rispetto. Nella ripresa del relativismo culturale - che necessariamente scaturisce da un pensiero il cui cardine sia un dubbio mai appagato – possiamo leggere ancora una volta una componente assolutamente imprescindibile dell’età moderna, di cui Montaigne si riconferma scopritore, anticipando, in questo senso, le riflessioni relativistiche di Locke (miranti a scardinare la possibilità di idee innate), del Montesquieu delle Lettere persiane, del Voltaire di Micromega e, in generale, dell’intera narrativa di viaggi che fiorirà nel Settecento. Di fronte agli indigeni brasiliani, impietosamente etichettati come “barbari” e “selvaggi” dall’Europa in cui dilagavano le funeste guerre di religione, Montaigne assume un atteggiamento che non tradisce, ma anzi ravviva la sua posizione scetticheggiante e antidogmatica, da cui traspare un relativismo che riecheggia i versi pindarici “la consuetudine (nomoV) è padrona di tutte le cose”: “or je trouve, pour revenir à mon propos, qu'il n'y a rien de barbare et de sauvage en cette nation, à ce qu'on m'en a rapporté : sinon que chacun appelle barbarie, ce qui n'est pas de son usage. Comme de vray nous n'avons autre mire de la verité, et de la raison, que l'exemple et idée des opinions et usances du païs où nous sommes. Là est tousjours la parfaicte religion, la parfaicte police, parfaict et accomply usage de toutes choses. Ils sont sauvages de mesmes, que nous appellons sauvages les fruicts, que nature de soy et de son progrez ordinaire a produicts” (I, 31). Dal rilevato dogmatismo che ci spinge a concepire ottusamente come rozzo e indegno tutto ciò che esula dalle nostre usanze, Montaigne prende spunto per mettere in luce i numerosi aspetti che fanno della civiltà europea dilaniata dai conflitti religiosi un ben più indegno panorama rispetto al mondo dei cannibali: “je ne suis pas marry que nous remerquons l'horreur barbaresque qu'il y a en une telle action, mais ouy bien dequoy jugeans à point de leurs fautes, nous soyons si aveuglez aux nostres. Je pense qu'il y a plus de barbarie à manger un homme vivant, qu'à le manger mort, à deschirer par tourmens et par gehennes, un corps encore plein de sentiment, le faire rostir par le menu, le faire mordre et meurtrir aux chiens, et aux pourceaux (comme nous l'avons non seulement leu, mais veu de fresche memoire, non entre des ennemis anciens, mais entre des voisins et concitoyens, et qui pis est, sous pretexte de pieté et de religion) que de le rostir et manger apres qu'il est trespassé”. L’Europa non è per Montaigne il centro del mondo, né l’uomo è il cuore dell’universo: quelle che a noi paiono usanze ragionevoli, se osservate dal punto di vista di chi non ne partecipa (ad esempio i cannibali, o i Persiani di Montesquieu), si rivelano come morbosi gesti insensati, che poggiano più sull’abitudine che non sulle prescrizioni di una presunta ragione legiferante. Questi, che noi in via del tutto pregiudiziale bolliamo con l’etichetta di “selvaggi”, non possono esser detti barbari solo perché dotati di una cultura diversa, giacchè – se così fosse – noi stessi diverremmo barbari ai loro occhi, e ciascuno lo sarebbe dinanzi ad ogni altro: più che una dogmatica e violenta imposizione delle nostre “verità”, imposte con l’efferata arma della crociata, sarà opportuno aprirsi a queste culture “altre”, tentando il dialogo – ed è quel che Montaigne fa nel momento in cui cerca di comunicare con gli indigeni brasiliani condotti in Francia nel 1571 -, partendo dal presupposto che la ragione debole non ha svelato più a noi che a loro la verità e che, pertanto, la via meglio percorribile resta quella del confronto, attraverso il quale ricomporre quel mosaico dalle mille tessere che è la verità: anzi, a rigore, si potrebbe dire che non si può andar d’accordo perché si è raggiunta la verità – giacchè il raggiungimento di essa è e resta un concetto limite, un’idea nel senso kantiano -, ma, viceversa, che si è raggiunta la verità nel momento in cui si va d’accordo, quando cioè il sordo monologo di una cultura illudentesi di conoscere ogni cosa cede il passo al libero circolo di idee che trova nel dialogo la sua forma più appropriata. In questo senso, si può legittimamente affermare che lo scetticismo di cui Montaigne fa professione in sede etica e gnoseologica non si traduca, sul piano pratico, in un gretto vivere in conformità delle usanze vigenti dettato dall’impossibilità di cogliere la verità delle cose; al contrario, il dubitar di tutto induce Montaigne a dubitare anche della validità delle tradizioni, senza piegarsi – ché sarebbe un dogmatismo – ad esse, ma saggiandole una ad una con la ragione, debole sì, ma non a tal punto da non accorgersi dell’assurdità dei dogmatismi. In maniera piuttosto esplicita, il filosofo francese si richiama, oltreché a Luciano, anche a Plutarco, apprezzandolo per la sua profondità etica e, trasversalmente, per il “debolismo” che percorre, in maniera sotterranea, la sua opera e che trova forse l’apice in questa professione di antidogmatismo che apre spiragli in direzione dello scetticismo: “tutte queste cose, o Favorino, mettile a confronto con le cose dette dagli altri; e se esse avranno un grado né maggiore né minore di probabilità, manda a quel paese le opinioni, ritenendo più degno di un vero filosofo sospendere il giudizio sulle questioni poco chiare, piuttosto che darvi il proprio assenso” (Moralia, 955 c). Questo breve brano ben rende conto dello scetticismo di cui il pensiero montaigneano si sostanzia, e che approda non già a vacillanti certezze che poggiano su basi doxastiche, bensì all’epoch con cui gli antichi Scettici sospendevano il giudizio, arrivando aporeticamente a sostenere che “ che ogni cosa non è più questo che quello” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 61-62).
Con il suo fare spiccatamente antidogmatico e relativistico sul piano culturale, nonché attento al mondo animale, Montaigne – nell’Apologia di Raymond Sebond – si chiede, sulla scia di quanto aveva già fatto l’antico Senofane per smontare la concezione antropomorfica della divinità: “perché un papero non potrebbe dire così: «Tutte le parti dell'universo mi riguardano; la terra mi serve a camminare, il sole a darmi luce, le stelle a infondermi i loro influssi; ho questo beneficio dai venti, quest'altro dalle acque; non c'è niente che questa volta <celeste> consideri così favorevolmente quanto me; sono il cocco di natura; non è l'uomo che mi alleva, che mi alloggia e che mi serve?”. Pur nel dichiarare la sua simpatia per il dubitare di matrice pirroniana, l’afasia a cui approdava la scuola scettica appare inaccettabile quanto improduttiva agli occhi del filosofo francese, che ad essa oppone – mantenendo valido il presupposto che la verità resti sempre sconosciuta – un vivace dibattito che finisce per coinvolgere uomini del passato e del presente in un dialogo metastorico non su come le cose siano, ma su come sembrino ai vari uomini che di volta in volta si sono interrogati su di esse. Non è un caso che questa via fosse già stata seguita dallo stesso Cicerone, anch’egli simpatizzante per la scuola scettica, nella formulazione probabilistica datane da Carneade. Ancora una volta, tuttavia, non si tratta di una dogmatica e acritica difesa delle posizioni tramandateci dai nostri predecessori, recepite come depositarie della verità e da addurre come irremovibili certezze per inverare i propri discorsi: piuttosto, sono dei sentieri già battuti da personaggi dallo straordinario acume intellettuale e che perciò sono degni di essere presi criticamente come modelli su cui plasmare la propria indagine, facendo di essi delle guide e non dei padroni: è questo un tema direttamente mutuato dalla 33° delle Epistulae ad Lucilium di Seneca, a cui Montaigne espressamente si rifà. Infatti, di fronte ad una vita che, per la sua brevità, ci consente di esperire un esiguo numero di cose, non resta che affidarsi al pensiero di chi ci ha preceduto, per poter così estendere – seppur solo virtualmente - la propria esperienza a realtà che altrimenti non avremmo modo di conoscere, in quanto a noi precedenti: da qui nasce l’importanza che Montaigne riconosce alla filosofia e – sulla scia di Machiavelli – alla storia, intesa appunto come la conoscenza di accadimenti che di persona non avremmo mai potuto esperire. Non diversamente da come Aristotele concepiva la dialettica, Montaigne ritiene che la filosofia debba essere esercitata come un costante dialogo con i pensatori del passato, un dialogo in cui però essi possono anche essere criticati e smentiti in nome del dubbio e dell’antidogmatismo: in questo modo, Montaigne scardina un altro dei pilastri dell’età metafisico/religiosa e segna un punto nodale nella conversione al moderno: il principio di autorità (l’ipse dixit) con il quale, anziché argomentare a favore di una tesi, si adduce l’insindacabile giudizio di una personalità autorevole e, perciò, inattaccabile; con la caduta di tale dogmatica difesa degli asserti altrui, ritenuti validi più in forza della loro venerabile paternità che non della loro veridicità, la ragione torna liberamente a muoversi trecentosessanta gradi, estendo la sua presa ad ogni cosa e arrivando a mettere in discussione gli stessi dogmi metafisici e religiosi.
E così, di fronte ad un’Europa dogmaticamente addormentata nel pregiudizio che vuole i “selvaggi” come barbari e indegni di esser qualificati come uomini – e perciò da neutralizzare a tutti i costi, come attesta il caso di Francisco Pizarro e degli altri conquistadores -, Montaigne, pilotato da una siffatta ragione instancabile, ribalta la prospettiva, arrivando a tratteggiare un makarismoV in cui immagina questi uomini più felici di noi, perché immersi nella più assoluta tranquillità, in un regno in cui il rapporto con la natura si è conservato intatto, di contro ad un’Europa funestata dalle guerre, dalla brama del denaro e dalla corruzione che ne deriva: in questa contrapposizione tra un’Europa in balia della corruzione perché accecata dalla sete di potere e un mondo “selvaggio”, incontaminato e ancora in perfetto equilibrio con la natura, Montaigne anticipa ancora una volta l’Illuminismo – specie nella sua veste rousseauiana - e il suo mito del “buon selvaggio”, ingenuo e perciò intrinsecamente buono, pur con la differenza che se l’Illuminismo guarda alle culture “altre” solo per meglio comprendere la propria – restando così in una posizione saldamente eurocentrica -, il dubbio mai appagato che anima la filosofia di Montaigne spinge il filosofo francese ad accostarsi disinteressatamente agli indigeni brasiliani, nella convinzione che sul piano conoscitivo essi non fluttuino nel dubbio più di noi, ma che conducano un’esistenza più genuina perché non (ancora) contaminata dalla virgiliana auri sacra fames che ha appestato la “civile” Europa e dalle tremende macchinazioni ordite per soddisfarla, ignari di quanto “couttera un jour à leur repos, et à leur bon heur, la cognoissance des corruptions de deçà” e del fatto che “de ce commerce naistra leur ruine”. In una tale prospettiva l’Europa diventa, da centro culturale e di civiltà, covo di ogni perversione e fonte di tutte le corruzioni immaginabili, nascenti – in ultima istanza – da quel fatidico allontanamento dalla natura che ci ha portati a credere – metafisicamente - di essere onnipotenti.
L’utile egoistico e la filosofia come meditatio mortis
Uno dei portati principe dell’età moderna è l’indiscussa egemonia dell’utile tanto sulle virtù platoniche e aristoteliche quanto sulla santità cristiana, accomunate dall’essere frutto di una concezione del mondo universalizzata e, perciò, sfuggente alle particolari articolazioni del reale. Non appena volgiamo gli occhi dal cielo alla terra e ci sbarazziamo dell’ingombrante fardello dell’immagine dell’uomo come campione di virtù o come cultore della santità, ci accorgiamo improvvisamente di come ogni nostra azione ad altro non tenda se non alla nostra individuale utilità, prima fra tutte la sopravvivenza, di volta in volta garantita grazie all’accumulo di ricchezza, di potere, di amici e così via. Non c’è azione che si sottragga a questa terribile condanna. Tuttavia accade che la ragione, lungimirante e critica, prenda atto di come sia conveniente, ai fini del perseguimento dell’utile individuale, subordinarlo a quello comune, perché è solo attuando una pace con gli altri individui – miranti anch’essi alla propria autoconservazione e al proprio utile, collimante con quello altrui – che si può garantire una condizione di sopravvivenza di tutti e, quindi, anche di se stessi, uscendo in tal modo dal primitivo stato di natura, retto dalla feroce legge del bellum omnium contra omnes, ed entrando nella società civile. In qualche misura, Montaigne risente di questa lettura dell’età moderna, per la prima volta formulata in maniera esauriente e profonda da Machiavelli, per essere poi ripresa, a meno di un secolo di distanza, da Hobbes: l’uomo moderno, schiavo delle passioni piuttosto che loro signore, ma comunque in grado di indirizzarle grazie all’ausilio di una ragione calcolatrice, si trova costantemente all’inseguimento egoistico del proprio utile, in vista del quale arriva a concepire gli altri individui come meri strumenti funzionali al proprio interesse. Montaigne fa professione di egoismo fin dalla prefazione del suo scritto, allorché avverte il lettore che quanto si accinge a leggere è dedicato alla “commodité particuliere” dell’autore stesso e della ristretta cerchia dei suoi amici; ma è nel capitolo XXXIII, significativamente intitolato De la solitude, che il pensatore francese esprime le sue riflessioni più attente su tale tematica. Pur non respingendo la prospettiva aristotelica dell’uomo animale congenitamente socievole, Montaigne risente delle riflessioni di tipo utilitaristico maturate con Machiavelli e perciò muove dalla convinzione che la situazione ideale sia quella della solitudine, in cui ci si ritaglia uno spazio per se stessi, per meditare e riflettere indisturbati dagli altri e dagli eventi esterni: vi é qualcosa di ascetico in questa maniera di vivere, ma é un ascetismo mondano, che ben si distacca nel suo fine da quello medioevale del monaco isolato nel monastero e che più che al laqe biwsaV degli Epicurei (implicante un vivere lontani dalle vicende politiche, ma sempre e comunque attorniati da una cerchia di amici sinceri) può essere accostato alla massima stoica del saggio autosufficiente e vivente in uno stato di incrollabile autarkeia. Quella a cui mira egoisticamente il saggio, in vista del proprio utile, è “la vraye solitude, et qui se peut joüir au milieu des villes et des cours des Roys; mais elle se jouyt plus commodément à part. Or puis que nous entreprenons de vivre seuls, et de nous passer de compagnie, faisons que nostre contentement despende de nous : Desprenons nous de toutes les liaisons qui nous attachent à autruy : Gaignons sur nous, de pouvoir à bon escient vivre seuls, et y vivre à nostr'aise” (cap. XXXIX, La solitudine). In tal maniera, egli si conferma in bilico tra la vita solitaria ed eremitica e quella a contatto con gli altri, a cui la sua natura aristotelicamente intesa come socievole lo richiama. Aristotele aveva asserito – nella Politica – che solo Dio e le fiere possono condurre un’esistenza solitaria, l’uno perché, nella sua assoluta perfezione, basta a se stesso, le altre perché prive di ragione: ma Nietzsche correggerà la mira, aggiungendo il caso del filosofo, anfibio tra l’animale e il divino, capace di vivere appartato senza contatti con i suoi simili: in questo ripensamento nietzscheano del pensiero aristotelico possiamo in qualche modo dire che si rifletta il modus vivendi di Montaigne e del vero filosofo, quale egli lo intende, proiettato nell’introspezione e alla ricerca – costantemente aporetica – del proprio io, che Cartesio aveva colto in maniera immediata ed autoevidente. E’ l’esortazione agostiniana dell’in te ipsum redi che ritorna, ma completamente trasfigurata, poiché – come abbiamo già sottolineato – nel rivolgersi alla propria interiorità l’uomo moderno non trova quella certezza che, secondo Agostino, mancava nel mondo esterno (noli foras ire […] in interiore homine habitat verum, “De vera religione”, XXXIX, 72), ma si imbatte in un dubbio sempre e di nuovo rinascente e proliferante. Non è un caso che il cogito, ergo sum di Cartesio avesse un suo illustre precedente nel si fallor, sum di Agostino, il quale si serviva – ed in ciò è seguito a ruota da Cartesio stesso – del dubbio come gradino per innalzarsi alla Verità, giacchè è innanzitutto attraverso la certezza di dubitare che si entra in contatto – seppur solo embrionalmente – con la Verità stessa: ma Montaigne rigetta l’ipotesi agostiniano/cartesiana che si possa esser certi di dubitare, poiché riconoscere esplicitamente che si sta dubitando equivale, appunto, ad ammettere che si è in possesso della certezza di non aver certezze, facendo in tal maniera crollare il presupposto scettico.
Stoicheggiante è, in certa misura, la concezione che Montaigne ha del saggio come autosufficiente capace di condurre un’esistenza in egoistica solitudine: e di sapore accentuatamente stoico é anche il suo disprezzo per la morte, tematica, questa, che affonda le sue radici profonde in tempi remoti, ma che senz’ombra di dubbio resta al centro anche della riflessione dell’uomo moderno (da Pascal a Kierkegaard, da Leopardi a Michelstaedter), se ancora Heidegger si sofferma tanto diffusamente, in pieno Novecento, sull’essere-per-la-morte (Zum-Tode-sein). La filosofia stessa si configura agli occhi di Montaigne come meditatio mortis e, come recita il titolo del XX capitolo dei Saggi, “philosopher c'est apprendre a mourir”: richiamandosi a Cicerone, che nelle Tusculanae disputationes si era a ampiamente concentrato sull’argomento, Montaigne si ricollega direttamente al Fedone platonico, in cui Socrate, in procinto di essere giustiziato, così si rivolge ai suoi interlocutori: “tutti coloro che praticano la filosofia in modo retto rischiano che passi inosservato agli altri che la loro autentica occupazione non è altra se non quella di morire e di essere morti. E se questo è vero, sarebbe veramente assurdo per tutta la vita non curarsi d’altro che della morte, addolorarsi di ciò che da tanto tempo si desiderava e di cui ci si dava tanta cura” (Fedone, 64 A e seguenti). Contrapposta ad una storia che si qualifica come magistra vitae, in quanto capace di insegnare agli uomini a vivere mostrando loro lo svolgersi degli avvenimenti passati, troviamo dunque una filosofia a cui spetta il meno gratificante compito di indagare sulla morte, che – precisa Montaigne - costituisce “le but de nostre carriere” e “l'object necessaire de nostre visee”, in quanto è il certo traguardo – su cui non pende dubbio alcuno – del nostro esistere. Se è vero che la filosofia deve occuparsi di questioni ultime, allora non v’è alcun dubbio che essa non può che configurarsi come meditatio mortis volta a fugare il vano timore che gli uomini hanno – e che da sempre li attanaglia - di staccarsi dalla vita: in questa maniera, la riflessione filosofica torna a vestirsi delle funzioni terapeutiche assegnatele da Epicuro e, in generale, dal pensiero fiorito in età ellenistica, che dell’etica aveva fatto il baricentro della propria speculazione. Sicchè Montaigne, attingendo ora dallo stoicismo antidogmatico di Seneca, ora dall’epicureismo in versi di Lucrezio, dimostra come la morte, in quanto necessario punto d’arrivo della nostra esistenza, non vada temuta, ma anzi accolta dopo una lunga preparazione durata per tutta la vita: per questa via, sgombrato il campo da quello che da sempre si presenta come il maggior motivo di sgomento e di terrore per gli uomini, è possibile vivere serenamente e in quieta felicità, concependo il termine della propria vita più come un traguardo che non come un precipizio; ecco perché “qui apprendroit les hommes à mourir, leur apprendroit à vivre”. Seneca stesso aveva insistito su come siamo spinti verso la morte fin dalla nascita e su come appartenga inesorabilmente alla morte il passato che continuamente, giorno dopo giorno, ci lasciamo alle spalle, cosicchè la vita viene a configurarsi come un incessante “correre a la morte” (Dante, Purgatorio, XXXIII, 54), o per dirla con le parole – di sentenziosità senecana - impiegate dallo stesso Montaigne, “pendant la vie, vous estes mourant”. Di fronte ad una vita intesa come una corsa verso la morte, l’atteggiamento del saggio di fronte ad essa sarà allora venato da una dissacrante irrisorietà, raggiungibile solo in seguito all’avvenuta presa di coscienza che “il n'y a rien de mal en la vie, pour celuy qui a bien comprins, que la privation de la vie n'est pas mal” e che il termine di una vita umbratile (quale è appunto la nostra) e sempre sfuggente non va temuto, ma piuttosto atteso a piè fermo, con stoico coraggio di chi vi ha a lungo meditato: “il est incertain où la mort nous attende, attendons la par tout”; sarebbe del resto assurdo temere per tutta la durata della propria vita un evento di così breve durata ed è altresì poco conveniente lagnarsi della nostra condizione, in virtù della quale la nostra esistenza non è che un istante: basti confrontarla con quegli animaletti di cui parla Aristotele, che vivono un sol giorno, per poter capire come la nostra, a confronto della loro sia immensa; e, nel caso neanche questo argomento ci persuadesse in via definitiva, possiamo comunque dire – con Seneca (De brevitate vitae, I) – che vita, si uti scias, longa est e che è sufficientemente lunga per compiere le azioni più straordinarie e splendide, tanto più che al filosofo deve interessare la qualità e non la quantità. La tradizione omerica, che guardava con impotente angoscia al breve succedersi delle generazioni umane – solennemente accostate alle foglie – e che trovava in Mimnermo e in Teognide due strenui difensori, viene da Montaigne superata facendo riferimento all’opposta prospettiva di cui portavoce erano Epicuro e la scuola stoica impersonata dalla figura di Seneca, da cui Montaigne risulta influenzato soprattutto nel suo discorrere scintillante di immagini e carico di sentenze moraleggianti, che ricordano da vicino il periodare rapido e conciso senecano. Il giusto atteggiamento a cui conformarsi dinanzi all’incalzare della morte viene dunque – e ciò, da uno scettico quale è Montaigne, si configura come un autentico aprosdoketon - a coincidere con quello – di lucreziana memoria – del conviva plenus che, dopo il lauto banchetto, si alza da tavola felice e soddisfatto del pasto consumato, senza rimpianti e amarezze, poiché consapevole della perenne immutabilità degli eventi che si avvicendano nel mondo (“eadem sunt omnia semper”, De rerum natura, III), per cui può star certo che, morto, non si perderà nulla di cui non sia già stato spettatore in vita. Ma con queste considerazioni, che sembrerebbero - se lette superficialmente - fare di Montaigne un pensatore che ha in gran disprezzo la vita e brama con tutte le sue forze il rapido avvento della morte, il filosofo francese giunge a conclusioni inaspettate: meditar sulla morte è funzionale a vivere bene, poiché solo chi si è liberato dalla schiavitù del timore di morire può condurre un’esistenza tranquilla, in quanto “qui a apris à mourir, il a desapris à servir” e “le sçavoir mourir nous afranchit de toute subjection et contraincte”. La prospettiva iniziale è dunque stata ribaltata: non si deve apprendere a vivere per poter così imparare a morire, ma, viceversa, si tratta di apprendere a morire per poter imparare a vivere, poiché solamente se si afferra – o almeno si presagisce - il senso della morte, subito si disvela anche quello della vita, che – se esaminata in sé e per sé – tende a risultare assurda, inutile e senza una mèta: chi ha appreso a filosofare sa bene che tale mèta è la morte stessa. Possiamo dunque sostenere, con Seneca, che ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e, al contempo, ci vuole tutta la vita per imparare a morire.
La metafisica tradizionale, da Socrate a Plotino, passando per Platone e per Aristotele, fino a sfociare nell’età medioevale, aveva intrapreso una lunga e difficile lotta contro le passioni, cercando costantemente di ricondurle sotto la tutela di quella ragione che, sola, poteva guidare l’uomo lungo il suo tortuoso cammino: questa guerra spietata e senza esclusione di colpi si è spesso – ma non sempre: emblematico è a tal proposito il caso di Aristotele – accompagnata alla netta avversione per il corpo, concepito ora come prigione dell’anima, ora come sede idonea per il proliferare di quelle passioni che non possono mai definitivamente essere sgominate dalla ragione, tutt’al più possono esser da essa controllate, come fa l’abile auriga del Fedro (246 a-249d) platonico che si trova a dover guidare un cavallo recalcitrante. L’immagine del saggio stoico che, dall’alto della propria virtuosità, non è nemmeno lontanamente scalfito dalle passioni - immagine che si tramanda fino al Medioevo, per trovare nel monaco ascetico e separato dal mondo il suo nuovo campione - si contrappone a quella meno intransigente del saggio tratteggiato da Platone e Aristotele, che caldeggiano un temperamento delle passioni, pur restando fermamente consapevoli della loro insopprimibilità: ma sono, in fondo, le due facce della stessa medaglia dell’epoca metafisica, segnata dalla convinzione che le passioni possano sempre e comunque essere soggiogate – anche se magari non definitivamente sconfitte. La grande novità dell’età moderna consiste nell’essersi accorti che, non solo le passioni sono una componente ineliminabile dell’uomo, ma che addirittura la ragione ne è docile schiava remissiva, agente come loro ancella: così Hume (Trattato sulla natura umana, Libro secondo, Parte terza, Sez. terza) smaschera la tradizionale posizione metafisica mettendo in luce come la ragione agisca sempre e comunque in maniera funzionale alle prescrizioni passionali e Kant (Critica della ragion pratica, cap. I ) lo segue a ruota, pur ammettendo anche la possibilità di leggi promulgate autonomamente dalla ragione stessa sotto forma di “imperativo categorico”. La prospettiva metafisica e cristiana è spazzata via dalla nuova posizione dei moderni, la cui punta estrema è in qualche maniera ravvisabile nella filosofia di Schopenhauer - che nella ragione vede l’artifizio di cui si serve la volontà per volere nell’uomo –, e che trova una sua compiuta formulazione nella definizione che dà Deleuze dell’uomo come macchina desiderante, mero flusso di desideri. Di fronte ad una siffatta posizione, che nelle passioni scorge l’elemento più caratterizzante dell’uomo, la battaglia contro di esse condotta dai metafisici tradizionali appare non dissimile da quella di Don Chisciotte contro i mulini a vento, una battaglia ingloriosa e del tutto vana. In questo senso, si può dire che sia Montaigne sia Cartesio siano gli archegeti dell’età moderna, proponendo una concezione delle passioni distaccantesi radicalmente da quella tradizionale e fondante quella moderna: per Cartesio esse – di cui fa un’attenta classificazione - sono un qualcosa che sfugge alla presa della ragione, ma non sono perciò etichettate come dannose, in quanto risultano in certo modo utili nella misura in cui ci fan provare qualcosa di fisicamente giovevole; ciò non toglie, comunque, che i loro eccessi debbano essere adeguatamente disciplinati dalla ragione dominatrice, a cui spetta appunto l’ardua funzione di incanalarle verso fini utili al singolo. La prospettiva montaigneana è ancora più moderna: non concependo in maniera così forte la distinzione tra un mondo soggettivo, regno della certezza assoluta e della spiritualità, ed uno oggettivo, a noi esterno e caratterizzato dall’imperare della materia e dell’incertezza, Montaigne, aprendo ogni porta al dubbio e non lasciando spazio alle certezze dell’io, intende le passioni come portatrici di un vissuto, né più né meno vero di quello spirituale, permettendoci di cogliere aspetti del reale che altrimenti non vedremmo, e per di più ce li fa vedere secondo una modalità che altrimenti non seguiremmo. In altri termini, le passioni ci disvelano un mondo - collaterale alla ragione - in cui vige una “verità” – se così possiamo dire parlando di Montaigne - non meno importante di quelle -dubbie- inventate dall'indagine razionale. Il corpo cessa di essere inteso come mero impaccio al procedere della conoscenza intellettuale e si fa ora uno strumento capace di integrarla opportunamente, aprendo i cancelli a verità che, altrimenti, rimarrebbero dischiuse. Ciò è vero per Montaigne, meno per Cartesio, che col corpo intrattiene un rapporto alquanto ambiguo, perseverando – sulla scia della tradizione - nel considerarlo di minore importanza rispetto alla spiritualità: anzi, propriamente, se è immediatamente certo che siamo soggetti pensanti, e dunque esistenti spiritualmente (cogito, ergo sum), che invece siamo corpi materiali è questione da dimostrarsi: “esaminando esattamente quel che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse mondo né luogo alcuno in cui mi trovassi, ma che non potevo fingere, perciò, di non esserci; e che al contrario, dal fatto stesso che pensavo di dubitare della verità delle altre cose, seguiva con assoluta evidenza e certezza che esistevo; mentre, appena avessi cessato di pensare, ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo da sempre immaginato, non avrei avuto alcuna ragione di credere ch'io esistessi: da tutto ciò conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale” (Discorso sul metodo, IV). Le passioni sussistono, inestinguibili e sempre sorgenti, ma, sebbene utili nel caso in cui siano opportunamente indirizzate, ciononostante sono più un’interferenza che disturba l’attività intellettuale che non un apporto ad essa: la prospettiva degli antichi metafisici e religiosi è con Cartesio – qui in fondo piuttosto vicino a Platone - attenuata in senso moderno, ma è solo con Montaigne che il punto di vista cambia davvero, è con lui che le passioni e il corpo divengono strumenti gnoseologici al servizio dell’uomo: sarà, questa, un’istanza tipicamente moderna, sulla quale insisteranno con particolare attenzione Marx, Nietzsche e anche Feuerbach, per il quale – come è noto – “Der Mensch ist was er ißt”.
L’Apologie de Raimond de Sebonde
L’Apologie de Raimond de Sebonde costituisce la summa del pensiero di Montaigne e il punto in cui trovano una loro compiuta sistemazione tutti i capisaldi della sua asistematica riflessione. Tutti quegli scampoli del suo filosofare, che vengono esposti separatamente gli uni dagli altri all’interno dei vari capitoli e – almeno in apparenza – senza una reale connessione logica, sono qui concatenati secondo una puntuale sequenza in cui ciascuno di essi va ad occupare il suo debito posto; sicchè nell’Apologie il pensiero montaigneano viene in qualche modo ad assumere una sfumatura diversa e piacevolmente nuova agli occhi di chi era abituato a leggerlo alla luce dell’asistematicità e del procedere più per richiami casuali di idee che non seguendo un preciso filo logico.
Con questo scritto, che si estende più di ogni altro capitolo degli Essais, il nostro filosofo intende difendere apologeticamente l’istanza critica fatta valere – due secoli prima – dal poco noto medico spagnolo Raimond de Sebonde, il quale aveva difeso la validità della fede cristiana impugnando la tagliente spada della ragione e seguendo, in ciò, la strada già percorsa da Tommaso d’Aquino. Gli esiti ultimi a cui Raimond de Sebonde perveniva e, al contempo, i presupposti da cui muoveva possono essere sinteticamente compendiati nei detti medievali philosophia ancilla theologiae e fides quaerens intellectum, con i quali viene sottolineata da un lato la funzionalità – e dunque la subordinazione - della filosofia verso la teologia, di cui essa è e resta serva fedele, e, dall’altro, la necessità della fede di trovare intendimento. In questo senso, il pensiero di Raimond de Sebond resta saldamente proiettato nel passato e rivolto con lo sguardo agli antimoderni cieli della metafisica e della religione, giacché segue – come abbiam detto – la strada dell’accordo fra fede e ragione, tale per cui non solo le due non si elidono a vicenda, ma addirittura si rinsaldano reciprocamente, trovando l’una nell’altra un proprio sostegno.
Montaigne, che conosce il libro in quanto il padre – a cui era stato donato da ospiti - gli aveva chiesto di tradurglielo dallo spagnolo in francese, riconosce la dignità e la grandezza del progetto di Sebonde, ma non esita a sottolinearne i limiti intrinseci, primo fra tutti il fatto che “i cristiani si danneggiano volendo sostenere con ragioni umane la loro credenza, che si concepisce soltanto per fede e per una particolare ispirazione della grazia divina”. La ragione umana, quella fioca candela che ci rende meno buio il cammino, è congenitamente troppo debole per potersi arrischiare in argomentazioni tanto elevate, sicchè il volersi avvalere dell’umana ragione come strumento per rafforzare la fede è un’impresa del tutto vana in quanto i mezzi umani son del tutto inadatti; certo, il proposito di Sebonde è degno di lode, poiché denota, oltreché un acuto impiego della debole ragione umana, un’intenzione nobilissima: estendere ed ampliare la fede, renderla più ragionevole anche presso coloro che la aborrono ritenendola esulante dai dettami della ragione. Tuttavia, può tale ragione - lacerata da mille dubbi e vacillante nell’incerto, incapace di giungere a verità alcuna, così debole da non riuscir nemmeno a dissipare i dubbi più elementari – rinsaldare quella fede proveniente per via diretta da Dio e, perciò, onnipotente e saldamente certa? In perfetta sintonia con il suo impianto filosofico, che fa del dubbio le sue fondamenta, Montaigne intende percorrere tutt’altra via rispetto a quella battuta da Sebonde, rivelandosi ancora una volta l’eurhthV dell’età moderna: la ragione umana non è così forte da poter dar conferma o – almeno – da non opporsi a quanto attestato dalla fede – come crede Sebonde, sulla scorta di Tommaso -, ma, al contrario, essa è, come avevano insegnato Duns Scoto e – soprattutto – Guglielmo da Ockham, per sua stessa natura infinitamente troppo debole per poter sostenere la schiacciante potenza sconfinata di Dio e della fede, cosicchè essa non può far altro che tacere nella sua piccolezza e quand’anche compie passi portentosi, spingendosi a raggiungere grandi traguardi, ciò avviene sempre e comunque in virtù dell’illuminazione divina che l’accompagna. Il rapporto tra fede e ragione, ritenuto biunivoco da Anselmo, da Tommaso e da molti altri pensatori dell’età medievale, è da Montaigne ricondotto all’univocità: è la fede ad accompagnar la ragione e a farla procedere rettamente, e non viceversa, giacchè il dislivello tra le due è tale che la fede si configura di fronte alla ragione come un gigante dinanzi ad un nano, il cui intervento è completamente vano. Ciononostante, pare che Montaigne non resti coerentemente fedele a questi princìpi nel momento in cui (pag. 698), seppur in maniera istantanea e senza più tornarvi nel corso dell’opera, abbozza una prova razionale dell’esistenza di Dio, imperniata sull’esistenza di un mondo che non abbiamo prodotto noi, contravvenendo alla dichiarazione programmatica della debolezza della ragione umana.
Sembra però che quella professione di scetticismo che Montaigne dichiara a più riprese nel corso degli Essais e che lo porta a dubitar pirronianamente di ogni cosa ceda ora ad una deriva dogmatica, trovando nella fede in un Dio – nella fattispecie, il Dio cristiano – un porto sicuro, entro il quale il dubbio non può insidiarsi a gettar scompiglio: sembra, in altri termini, che Montaigne tradisca la sua matrice antidogmatica abbracciando il dogmatismo metafisico cristiano, che un dubitar condotto fino alle sue estreme conseguenze dovrebbe attentamente evitare (come del resto dovrebbe oculatamente tenersi lungi dal non meno dogmatico ateismo), giocando anche in questo caso la carta dell’epoch. In realtà la contraddizione è solo apparente e si spiega se prestiamo attenzione alla concezione che Montaigne ha della ragione: questa, per sua natura sempre curiosa di tutto e insaziabile dai dogmatismi, è sempre pronta a mettere in dubbio ogni cosa, a tal punto da non posseder certezza alcuna; il suo è un dubitare dettato dalla sua naturale debolezza e miopia, in forza delle quali non potrà mai con le sue sole forze veder la realtà nella sua nudità e svincolarsi dal dubbio che la attanaglia. In questa situazione senza via d’uscita, la fede in un Dio garante della verità è la sola strada che consenta di saltare al di là del muro del dubbio e di non rimanervi avviluppati, come invece accadeva a quel Pirrone – a cui pure Montaigne più volte si richiama negli Essais – che, dubitando di tutto, si lasciava investire dai carri e finiva nei precipizi, in balia ad un dubbio che gli impediva di stabilire perfino che cosa fosse utile e che cosa no: “poiché non sono capace di scegliere, mi appiglio alla scelta altrui e sto al posto in cui Dio mi ha messo. Altrimenti non saprei impedirmi di rotolare senza posa”. La fede come viene intesa da Montaigne si presenta allora non già come una dogmatica e metafisica presa di posizione su come stan le cose, ma, piuttosto, come il prospettarsi, in lontananza, di un possibile acquietarsi del dubbio, il quale resta comunque il fedele e inseparabile compagno dell’uomo sulla via della ricerca: prova ne è che Montaigne si professi ad un tempo cristiano e scettico, certo - per la fortezza della fede - dell’esistenza di Dio e della vita ultraterrena, insicuro – per via della debolezza della ragione – su tutti i restanti aspetti della realtà, ch’egli prova ad esplorare con piglio critico e stabilmente antidogmatico, seguendo le opinioni degli antichi, ma senza aggrapparsi ciecamente ad esse, alla luce di una ragione troppo debole per far chiarezza sul reale. L’istanza antidogmatica e scetticheggiante da cui trae alimento il suo pensiero permette dunque al cattolico Montaigne di criticare aspramente gli usi corrotti e sconcertanti invalsi nell’ambito della religione cristiana, che, nata per estirpare i vizi, “li protegge, li alimenta, li eccita” e che ha saputo dar prova di così grande zelo nel perseguitare i non credenti, tanto nell’età delle Crociate quanto in quella delle guerre di religione contro i Protestanti: dunque la sua impietosa critica non risparmia nemmeno l’uso strumentale e politico che del cristianesimo fanno gli uomini, i quali giustificano e legittimano le loro guerre efferate adducendo come pretesto di aver Dio dalla loro, dimentichi del fatto che “accogliamo la nostra religione solo a modo nostro e a nostra guisa” e che “siamo cristiani per la stessa ragione per cui siamo perigordini o tedeschi”. Sempre la matrice scettica del suo pensiero spinge Montaigne a scoccare i suoi velenosi dardi contro la turpe usanza, nata in seno alla religione, dei sacrifici: come si può pretendere di propiziarsi Dio distruggendo ciò che Egli stesso ha creato? Sarebbe come voler riuscire graditi ad un architetto demolendo la sua opera. In tal contesto, il filosofo francese può dunque rievocare amaramente il verso lucreziano (tantum religio potuit suadere malorum) con cui si fa cenno alle atrocità a cui ha condotto l’impia pietas della religione, in riferimento al sacrificio di Ifigenia, compiuto per garantire una fausta partenza alle navi achee. Questa e mille altre azioni efferate che si sono condotte in nome di Dio altro non sono se non il frutto di una ragione che fantastica di poter interpretare gli imperscrutabili – perché ad essa immensamente superiori – voleri di un Dio che la trascende del tutto, sovvertendo – quando meno ce lo si può aspettare – le regole da Lui stesso fissate. Oltre ad aborrire i sacrifici, occorre anche stare in guardia dalle elucubrazioni partorite dalle menti dei filosofi circa l’anima, la sua natura e la sua immortalità, giacché – nota Montaigne, anticipando alcune riflessioni di Kant – nessuno ha mai potuto farne esperienza né mai potrà finché alloggerà in questo mondo, cosicché, in quanto articoli di fede, sfuggono del tutto alla presa della ragione.
Sul versante opposto rispetto a coloro che – fanaticamente – impugnano la spada per mascherare dietro a motivazioni di ordine religioso interessi economici e politici vi sono quelli che fanno professione di quell’ateismo – intriso di dogmatismo - che è il frutto estremo di un’orgogliosa e superba ragione illudentesi di essere autosufficiente e illimitata; ma non è forse il mondo, nelle sue infinite sfaccettature, il sigillo di una mente divina? Le cose che ci circondano quotidianamente non sono forse vestigia Dei, impronte dell’attività divina che ha voluto il mondo? Per dirla con le parole impiegate dallo stesso Montaigne, “questo mondo è un tempio santissimo, nel quale l’uomo è introdotto per contemplarvi delle statue, non foggiate da mano mortale, ma quelle che il pensiero divino ha fatto sensibili”. Nei ranghi dell’ateismo – già messo alla berlina dal grande Platone, “grande però soltanto di umana grandezza” - finiscono tuttavia per rientrare anche tutti coloro i quali, pur convinti dell’onnipotenza della ragione e dell’inesistenza di Dio, abbracciano la fede per paura, compiendo una conversione meramente esteriore, che non incide minimamente sul loro cuore.
In bilico tra cristianesimo e scetticismo, sostenitore dell’imprescindibile debolezza del pensiero umano, Montaigne non può dunque difendere la fede cristiana facendo leva sulla ragione - ché altrimenti ci troveremmo nella situazione in cui è il nano a prendere in spalle il gigante – ed è per questo motivo ch’egli imbocca una via alternativa, che inciderà profondamente sui pensatori a venire, primo fra tutti Pascal: di contro a chi dispiega una ragione ammantata di una forza infinita, tale da dimostrare l’inesistenza di Dio o, viceversa, da argomentare in difesa della fede, Montaigne si propone di “schiacciare e calpestare l’orgoglio e l’umana baldanza; far sentir loro l’inanità, la vanità e la nullità dell’uomo; strappar loro di pugno le meschine armi della loro ragione; far loro abbassare la testa e mordere la polvere sotto l’autorità e la reverenza della maestà divina”. Egli intende cioè lumeggiare la miseria della condizione umana e far emergere come la fede sia il necessario esito a cui essa debba approdare; finchè l’uomo si riterrà orgogliosamente potente ed equipaggiato di una ragione dai poteri illimitati, non sentirà mai l’esigenza di abbracciar la fede, o, tutt’al più, si illuderà di poterla sostenere razionalmente – come fa Sebonde -, quasi come se essa giacesse su di un piano non superiore a quello della ragione. Ecco perché, agli occhi di Montaigne, gli uomini sono paragonabili alle spighe di grano: come esse si innalzano fieramente quando sono vuote, mentre quando sono piene di grano si fanno umili e si abbassano, così gli uomini sono pregiudizialmente certi della forza incontrastata della propria ragione e, tronfi d’orgoglio, ergono il capo disprezzando la fede, ma, dopo esser maturati e dopo aver saggiato la realtà, prendono atto della miseria in cui versa la loro condizione - tale per cui la loro ragione non può nulla se non dibattersi perpetuamente nel dubbio - abbassano il capo e si gettano fra le braccia di Dio. In questa maniera, è messa al contempo in luce la superbia dell’uomo, quest’animale che “non saprebbe fare un pidocchio, e fabbrica dèi a dozzine”, e la sua intrinseca debolezza, della quale prende coscienza man mano che procede a conoscere il mondo circostante: similmente, anche per Pascal – assiduo lettore di Montaigne - la fede e Dio resteranno assolutamente irraggiungibili dall’umana ragione e costituiranno la mèta di chi ha compreso la miseria della propria condizione di canna esposta alle indomabili forze della natura e non può far altro che affidarsi ad essi, rinunciando di far affidamento sul pensiero, troppo debole per chiarire ogni cosa. Il Dio a cui Montaigne e Pascal si richiamano è lo stesso, è il Dio/persona “di Abramo, di Isacco, di Giacobbe” quel Dio che, a differenza del Dio/motore di Aristotele e di Cartesio – che è il Dio “dei filosofi e degli scienziati” - , non può essere raggiunto dalla ragione umana, ma che anzi sfugge del tutto alla sua debole presa, e anzi è il solo a poter illuminare il nostro fragile pensiero e a conferire un senso alla nostra breve vita. L’uomo è un essere debole, ugualmente, nella prospettiva di Pascal e di Montaigne: il primo asserisce che “l'uomo non è che una canna, la più debole della natura. […]. Non c'è bisogno che tutto l'universo s'armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d'acqua basta a ucciderlo” (Pensieri, fr. 347); il secondo sostiene che “la più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo” e che “non c’è animale al mondo esposto a tante offese come l’uomo: non ci è necessaria una balena, un elefante e un coccodrillo, né altri animali simili, uno solo dei quali è capace di distruggere un gran numero di uomini; i pidocchi bastano a render vacante la dittatura di Silla; il cuore e la vita di un grande e trionfante imperatore sono la colazione di un piccolo verme”. Ed è proprio per via della sua scoraggiante debolezza ch’egli deve, con gesto di umiltà, affidarsi a Dio e al suo Verbo illuminante. L’intera opera montaigneana, intrisa di rimandi e citazioni ad autori del passato, è strutturata in modo tale da far sentire costantemente la voce degli antichi, quella voce che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, ma anche e soprattutto per mettere in mostra come nessuno di essi, per quanto grande e ingegnoso, abbia mai afferrato la verità armeggiando solamente con la sua ragione: ciò non fa altro che avvalorare l’ipotesi della debolezza della ragione umana, ipotesi universalmente valida e che, se investe i più eccelsi filosofi – quali Platone e Aristotele – non può non coinvolgere anche tutti gli altri uomini: un tale argomento impiegato per smontare le altezzose pretese di una ragione illudentesi di essere forte era già stato utilizzato niente poco di meno che da Dante stesso, il quale, dal fatto che né Platone né Aristotele, pur così acuti nel loro ragionare, avessero raggiunto la verità, ne deduceva l’impossibilità della ragione umana di conquistarla e così si esprimeva:
“State contenti, umana gente,
al quia;
ché, se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir
Maria;
e disïar vedeste sanza
frutto
tai che sarebbe lor disio quetato,
ch'etternalmente è dato lor per
lutto:
io dico d'Aristotile e di
Plato
e di molt'altri”.
(Purgatorio, III, 37/44)
Viene gradualmente a delinearsi, man mano che leggiamo il testo montaigneano, il vero intento dell’autore: dall’entusiasmo iniziale per l’opera di Sebonde, così acuta e raffinata nel dimostrare l’esistenza di Dio e nello smascherare l’ateismo quale frutto di una ragione applicata surrettiziamente, egli passa rapidamente ad una critica della vana pretesa dell’uomo di far della propria ragione un’arma invincibile, illimitata e capace di tutto, arrivando per tale via a sostenere apertamente la meschinità della condizione dell’uomo, della creatura che è insieme “la più calamitosa e fragile” e “la più orgogliosa”, tale da vedersi al centro dell’universo, svettante al di sopra del creato, quasi come un Dio in terra. E, con siffatto passaggio dalla critica alla pretesa di Sebonde di dimostrare Dio razionalmente alla debolezza della conoscenza umana, viene definitivamente fissata la tematica che informerà il resto dello scritto, ché infatti tutta l’Apologie non mira ad altro se non a demolire le chimeriche pretese di una ragione superbamente ritenuta onnisciente e tale da far dell’uomo il vertice del creato, proprio quell’uomo che non conosce nemmeno se stesso e che si arroga l’assurdo diritto di estendere il proprio barcollante sapere all’intero universo. Gli argomenti con i quali l’uomo crede di poter argomentare in difesa della propria presunta superiorità sono molti e Montaigne non esita a passarli in rassegna, per poi demolirli uno ad uno, sempre puntando sulla debolezza costitutiva del nostro genere: in primis, il grande pregiudizio su cui da sempre riposa la mente umana è di vivere in un mondo creato su misura per l’uomo, che di esso è signore; tale pregiudizio dovrebbe, se non essere sgominato, almeno fatto scricchiolare dall’infinita pochezza di questa “miserabile e meschina creatura” di fronte alla natura, sotto il cielo stellato o dinanzi alle sterminate distese marine. Se poi neanche questi argomenti ci persuadessero di quanto sia assurdo ritenersi al di sopra del resto del creato, potremmo confrontarci con gli animali, i nostri compagni di strada: di fronte ad essi possiamo con certezza affermare di essere superiori? Così si interroga Montaigne, seguendo coerentemente la propria linea scettica e relativistica: che cosa ci vieta di pensare che il difetto che impedisce la comunicazione fra esse e noi non sia più nostro che loro? Parimenti, perché esse non potrebbero considerarci bestie, come noi le consideriamo? Una lunga tradizione che ha trovato in Platone e in Aristotele i suoi più insigni esponenti ha letto la superiorità dell’uomo su tutti gli altri animali nel suo possesso della ragione e del linguaggio: ma possiamo davvero affermare con certezza che solo l’uomo ne sia provvisto? Solo le parole possono veicolare messaggi e servire per comunicare? O non vi è, piuttosto, una ricca e variegata gestualità – presente in parte nello stesso uomo – che permette di comunicare in maniera non meno efficiente delle parole? Quante cose possiamo comunicare con le mani, senza aprir bocca? Non sarà piuttosto che non siamo noi in grado di recepire i messaggi che ininterrottamente gli altri animali ci lanciano? Sarebbe un grave errore sostenere che gli animali non sono in grado di comunicare solo perché noi non siamo in grado di capire i loro messaggi. Essi, poi, sanno non solo comunicare, ma anche ragionare, come fa la volpe che, per attraversare un corso d’acqua ghiacciato, accosta l’orecchio sulla superficie per sincerarsi che sotto non vi sia rumore, quasi come se ragionasse sillogisticamente: quello che fa rumore si muove, quello che si muove non è gelato, quello ce non è gelato è liquido e, dunque, cede sotto il peso. Ugualmente, il cane dell’esempio di Crisippo che, inseguendo la preda, giunge ad un trivio e, per decidere quale strada imboccare, compie un vero e proprio ragionamento: non è andata né di qua né di là, dunque deve essere necessariamente andata per questa terza strada. Allo stesso modo, il cane di cui racconta Plutarco, che, non arrivando con la bocca a lambire l’acqua in una ciotola, immerge in essa un oggetto per farla salire, dà prova di essere perfettamente in grado di ragionare in maniera lucida e non inferiore agli uomini, cosicché non è fuori luogo domandarsi se sia lecito etichettare come scienza solo la nostra e non estendere tale titolo anche al mondo animale, che è addirittura in grado di operare autentiche astrazioni, come è provato dal fatto che, nel sonno, i gatti si agitino e fremano come se fossero nel bel mezzo dell’inseguimento di una preda, il che non può che avvenire per una certa astrazione operata dalla loro mente. Da questa casistica si potrebbe ricavare che non siamo superiori agli altri esseri animati - come ci induce invece a credere il fatto che essi sono da noi diversi -, ma che “non siamo né al di sopra né al di sotto del resto”: ma Montaigne fa un passo avanti, per meglio calpestare l’orgoglio umano: accanto al campo del linguaggio e della ragione, nei quali siamo alla pari con gli altri animali, esistono ambiti in cui risultiamo essere nettamente inferiori, come ad esempio è il caso dell’amicizia, del rapporto con la natura circostante e la fedeltà. Che gli animali sentano più fortemente il vincolo d’amicizia è provato dai molteplici casi in cui, morto il padrone a cui erano affettuosamente legati, essi sono rimasti fedeli alla sua figura; parimenti, come prova della loro superiore fedeltà possiamo ricordare, con Montaigne, il caso del leone che, ferito ad una zampa e sanato da un uomo, quando se lo ritrovò di fronte nel corso di un combattimento di gladiatori non solo non lo sbranò, ma addirittura gli fece le feste, memore dei benefici che ne aveva tratto. Sembra dunque che, dalla iniziale superiorità dell’uomo, garantitagli dal possesso della ragione e del linguaggio, si sia passati, per converso, alla diametralmente opposta condizione in cui a primeggiare sono gli animali, i quali, né più e né meno rispetto all’uomo, sanno ragionare e comunicare fra loro, e che in più sono tendenzialmente leali, amichevoli fedeli nei loro rapporti reciproci e non stravolgono le leggi della natura, cercando il più possibile di adeguarsi ad essa anziché farle violenza. E per quel che riguarda la guerra che cosa dovremo dire? Di tutto il creato, solamente l’uomo risolve le sue contese in vere e proprie carneficine in cui massacra i suoi consimili: è forse questo un elemento che depone a favore della sua presunta superiorità? O non è piuttosto un’ulteriore conferma della bassezza della sua condizione? Si potrà però ancora obiettare, come extrema ratio in difesa dell’egemonia umana, che l’uomo – concesso che non surclassi gli altri animali in quanto ad intelligenza e a linguaggio – supera di gran lunga ogni altro essere vivente in quanto a bellezza, ma Montaigne risponde con ferma decisione, in sintonia con lo scetticismo che anima il suo pensiero, che la bellezza è un parametro relativo, tale per cui agli uomini l’uomo pare essere l’animale più bello, ma per gli elefanti, al contrario, è l’elefante stesso a meritarsi il titolo di più bello. Se del resto l’uomo fosse in assoluto l’essere più bello, come si spiegherebbe che quegli animali che più gli assomigliano (le bertucce, gli oranghi, ecc) sono concordemente stimati essere i più brutti?
Da questo succinto raffronto (su cui Montaigne si sofferma diffusamente) tra mondo umano e mondo animale si evince facilmente come noi non siamo superiori perché equipaggiati della ragione, ma, piuttosto, tali ci riteniamo perché sempre e comunque vediamo il mondo coi nostri occhi, i quali inevitabilmente lo distorcono e lo deformano ponendo al centro noi come soggetti vedenti: similmente, anche un papero potrebbe essere indotto, con argomenti altrettanto probanti, a ritenersi il centro del creato e a considerare l’universo come a lui funzionale. Ancora una volta è lo scetticismo a indirizzare Montaigne in senso opposto rispetto alla convinzioni comuni, a indurlo a smuovere le verità pregiudizialmente accettate: come può la nostra debole ragione sancire in maniera perentoria chi sia superiore e chi inferiore? Essa che non riesce nemmeno ad uscir dal dubbio, che non è in grado di fornir risposta ai problemi che solleva e che man mano che si addentra in essi non fa altro che impantanarsi sempre più? In questa maniera, lo scetticismo montaigneano, calcando sulla debolezza di una ragione che non può far altro che sollevar dubbi destinati a rimanere perennemente irrisolti, non fa altro che mettere in luce la naturale miseria della nostra condizione, tale per cui ci illudiamo di esser colmi di certezze, ma, non appena le saggiamo criticamente, esse crollano tragicamente una dopo l’altra: è in siffatta situazione disastrosa e priva di certezze che si crea il terreno ideale per abbracciare con sincerità la fede.
L’arroganza umana è così forte da spingersi addirittura al di là della presuntuosa convinzione dell’inferiorità degli altri animali e da giungere ad uno spericolato raffronto con Dio stesso, di cui l’uomo – creato a sua immagine e somiglianza - altro non sarebbe se non un riflesso in terra. Imputati di questa superba divinizzazione dell’umano sono agli occhi di Montaigne, ancor prima dei suoi contemporanei, i pensatori dell’antichità, a cui il filosofo francese rinfaccia severamente una siffatta presunzione – frutto di una ragione miope ma illudentesi di vedere distintamente – in forza della quale non si sono avveduti della mutevolezza e dell’instabilità delle pericolanti sorti dell’uomo, “che non è nulla” e che “se pensa di essere qualcosa, illude stesso e s’inganna”. La tracotanza dell’uomo si rivela in tutta la sua portata quand’egli sbandiera le sue deboli e sempre incerte conoscenze millantandole come se assolute e di origine divina, dimentico della bassezza della propria condizione di ente ben più prossimo all’animale che al divino e troppo abile nell’ingannar se stesso. Il principale bersaglio di questa condanna comminata da Montaigne può essere ravvisato in autori quali Lucrezio, che di Epicuro ha fatto una sorta di Dio interra venuto a liberare l’umanità dai timori che la paralizzano, e, naturalmente, Aristotele, il quale ha risolto l’uomo – con un impeto di ottimismo – in un’entità pensante alla stregua di Dio, pur con la differenza che l’umana beatitudine – a differenza di quella divina, esercitata senza interruzione - derivante dal pensare si attua solo nelle intermittenze ritmate dallo scorrere della vita e dalle sue esigenze animalesche (il bere, il mangiare, il riprodursi, ecc). Perfino Seneca – che, insieme con Plutarco, è il beniamino di Montaigne, tant’è che lo definisce affettuosamente “il mio Seneca” – è incappato in quest’errore provocato dalla tracotanza umana, sebbene in maniera più sfumata e meno grossolana rispetto ad un Lucrezio o ad un Aristotele. Questa vena polemica contro gli antichi rivela chiaramente l’approccio antidogmatico che Montaigne intenta con essi, prendendoli come guide che, in quanto umane, sono suscettibili di cadere in errore e, dunque, di esser criticate dalla lungimiranza della ragione critica/scettica: dobbiamo seguire il loro percorso non in virtù della loro austera antichità e autorevolezza, quanto piuttosto perché anche loro si sono arrovellati su quegli stessi problemi che affliggono anche noi, cosicché la lettura dei loro scritti può soccorrerci fornendoci accorgimenti utili e preziosi; in questo senso, Aristotele, più che un Dio infallibile – così lo intendevano i pedanti aristotelici del Rinascimento, contro la cui ottusità Galileo ebbe modo di scontrarsi – a cui affidarsi dogmaticamente, è uno spirito vivace e ingegnoso, da cui prendere spunto criticamente per le brillanti risoluzioni da lui fornite a certi problemi ancora attuali. Ben si capisce, allora, l’aspra invettiva con cui Montaigne tuona contro chi ricorre al principio di autorità e isola il pensiero degli antichi in sfere di vetro – vere e proprie bolle assiomatiche – che non possono essere in alcun caso essere infrante, neanche qualora fossero in palese contrasto con quanto è testimoniato dall’esperienza. Costoro, che divinizzano il pensiero degli antichi - scordandosi che quelli, per quanto ingegnosi e sagaci, erano pur sempre uomini come noi -, quasi come se l’antichità conferisse ad essi in maniera automatica la veridicità, sono da Montaigne bollati con l’infamante marchio di massimi fautori del dogmatismo e di cause dell’assopirsi della ragion critica: il loro atteggiamento, verso cui Montaigne è profondamente insofferente, è il frutto di una ragione cristallizzata nei dogmi che essa stessa si è foggiata e con i quali si illude di aver raggiunto certezze irremovibili, dimentica del fatto che, pur progredendo a mano a mano nella scala del sapere, la nostra miserevole situazione resta pressoché invariata, tale per cui “di nostro non abbiamo che vento e fumo”. Contro il dogmatico ricorso all’ipse dixit – tanto in auge a quei tempi, ma da cui ancora oggi non ci siamo del tutto affrancati -, si leva ancora una volta la possente voce dello scetticismo montaigneano, assetato di una conoscenza approfondita di cui, proprio perché tale, non potrà mai abbeverarsi: “non bisogna che mi dicano ‘è vero perché lo vedete e sentite così’; bisogna che mi dicano se quello che penso di sentire, lo sento tuttavia in realtà; e, se lo sento, che mi dicano poi perché lo sento, e come, e che cosa; che mi dicano il nome, l’origine, e gli annessi e connessi del caldo, del freddo, le qualità di colui che agisce e di colui che subisce; oppure rinuncino alla loro professione, che è di non accogliere né approvare alcunchè se non per mezzo della ragione; è la loro pietra di paragone per ogni sorta di prove: in realtà, è una pietra piena di falsità, di errore, di debolezza e deficienze”.
Tale scetticismo esasperato – e a dir poco enigmatico in un pensatore che fa del cristianesimo e delle sue certezze di cose non viste la sua fede – induce Montaigne a rigettare tanto il principio di autorità quanto la piena adesione ad una scuola filosofica, ché le due cose sono le facce della stessa medaglia che ha nome “dogmatismo”: egli riversa, sì, le sue simpatie sullo scetticismo, ma proprio per questo motivo – ossia per l’interesse accordato ad una non-scuola quale fu quella scettica – non gli risparmia alcune severe critiche, attaccandolo – anche se velatamente – per l’afasia a cui portava e per la sua passiva accettazione dei costumi in uso (sebbene – merita d’esser ricordato – egli vada asserendo d’esser disgustato dalle novità, di qualunque genere esse siano). E così, in pieno accordo con l’eclettismo di Cicerone – di cui tesse a più riprese le lodi -, che, aperto a tutte le scuole – pur con una netta chiusura all’epicureismo -, non si aggrappava mai a nessuna di esse con un atto di fede, ma manteneva sempre critica la propria ragione, costantemente pronta ad accettare il meglio e a respingere il peggio da ogni corrente filosofica, Montaigne è guidato più dalla flebile luce proiettata dalla sua debole ragione che non dal soccorso delle altrui dottrine, a cui ininterrottamente si richiama, ma in maniera sempre critica, per sostenere le proprie idee con una ricca casistica di esempi e di riflessioni acute, più che non per indorarle con l’autorevole voce degli antichi, giacché “ogni presupposizione umana e ogni enunciazione ha tanta autorità quanto un’altra, se la ragione non vi pone differenza”. In questo senso, rifiutando ciceronianamente di sposare una specifica teoria filosofica la cui adesione escluda automaticamente ogni rapporto con le altre – gesto tipico di chi, in mare aperto mentre infuria la tempesta, si aggrappa al primo scoglio in cui si imbatte -, Montaigne può dirsi scettico e, al contempo, nutrire grande simpatia per l’edonismo epicureo e per il disprezzo della morte tipico degli stoici: “la confusione delle usanze del mondo ha causato questo in me, che i costumi e le idee diverse dalle mie non mi dispiacciono tanto quanto mi istruiscono, non mi inorgogliscono tanto quanto mi umiliano nel confronto”. In certo senso, la posizione assunta da Montaigne – aperta e moderna insieme – è in qualche modo vicina, pur con le debite differenze, a quella dell’antico Origene, che concepiva la filosofia come un composito insieme frammentario di sette che si escludono mutuamente e che perciò richiedono necessariamente un’adesione totale, catturando i loro adepti e imprigionandoli come in una palude o in una foresta senza vie d'uscita, cosicché, per evitare di rimanere imprigionati in un solo indirizzo, Origene invitava alla lettura asettica di tutti i filosofi alla luce della verità proveniente da Dio e rivelata nelle Scritture. Similmente Montaigne ci esorta ad aprirci a trecentosessanta gradi e a leggere i testi di questi insigni spiriti del passato, che hanno onorato l’umanità coi loro ragionamenti scintillanti di arguzie e di sapienza, cercando in qualche modo di recepire quanto di utile essi possono averci trasmesso per la vita. Molti di essi, però, proprio perché non infallibili e grandi di una grandezza meramente umana, hanno commesso numerosi errori, primo fra tutti quello – duramente rimproverato da Montaigne – di non aver sufficientemente colto la congenita debolezza dell’uomo e del suo pensare.
Perché mai – si domanda Montaigne – potremmo arrogarci il diritto di definirci simili a Dio, noi che, nella migliore delle ipotesi, a malapena stiamo alla pari con gli animali? Aveva ancora una volta ragione Senofane – il primo grande smascheratore dell’antropomorfismo e della superbia umana del conoscere illimitatamente – a sostenere che se i buoi e i cavalli fossero dotati di mani e, quindi, in grado di raffigurare Dio, lo tratteggerebbero a loro immagine e somiglianza, né più e né meno di come facciamo noi: la lampante prova di come questo superbo miraggio della vicinanza tra l’umano e il divino sia radicata e largamente diffusa risiede nel fatto che ciascuno di noi si senta gratificato se paragonato a Dio, offeso se accostato agli altri animali. Non v’è dubbio alcuno – ad avviso di Montaigne – che questa sprezzante arroganza che alberga nell’uomo gli derivi dalle chimeriche illusioni della ragione metafisica e dogmatica, sempre pronta a fare incetta di punti fermi e dogmaticamente recepiti che si rivelano poi difficili da scalfire perfino sotto i martellanti colpi della ragione nella sua veste critica, la quale, dopo averli accettati passivamente in sede metafisica, non riesce più a sbarazzarsene e si trova inevitabilmente costretta a convivere con queste specie di lenti che colorano la realtà con sfumature che non le appartengono, lenti che finiscono per portare ancor di più alla deriva una ragione già di per sé naufragante per la sua stessa intrinseca miopia.
In questa maniera, la distinzione operata da Platone nella Repubblica tra una matematica che prende le mosse da postulati indimostrati e una filosofia che – così come la intendeva Socrate – mette in discussione perfino gli assiomi apparentemente più saldi appare più teorica che reale e, in certo modo, pare, se non crollare, almeno barcollare fortemente: infatti, l’immagine della ragione che ricaviamo dalla lettura dei Saggi e, in particolare, dall’Apologie, è l’immagine di una ragione sconfitta e umiliata, che dovrebbe platonicamente dubitar di tutto, come fa Socrate coi suoi interlocutori, attraverso la prassi del dialogo e delle sue domande che sfaldano di continuo tutti i punti certi, ma che in realtà finisce per addormentarsi su pregiudizi e postulati che inibiscono la sua attività, non diversamente da quel che avviene alla matematica, se non per il fatto che quest’ultima è in grado di fornirci conoscenze assolutamente certe.
Che il pensiero filosofico dichiari guerra ai pregiudizi e ai postulati, ma che di fatto finisca per esserne imbevuto, si evince facilmente non appena ci soffermiamo sulle riflessioni dei vari pensatori che si sono succeduti fino ad oggi: il loro percorso, costellato di preconcetti e disseminato di capisaldi dogmaticamente accettati, non può che destare in noi un senso di inquietudine e di sfiducia nella filosofia, se davvero il suo compito è – come sostiene Dewey, Experience and Nature, [Esperienza e natura], Open Court Publishing Co., Chicago-London 1925; trad. it. di P. Bairati, Mursia, Milano, 1973, pagg. 43-47 – quello di sgombrare il capo dai pregiudizi che stanno alla base della nostra conoscenza per renderla meno impacciata e più oggettiva; tanto più che, come ha notato Gadamer, la stessa lotta contro i pregiudizi è in certo senso una forma di pregiudizio: è – più precisamente – il frutto del pregiudizio contro i pregiudizi, sicché pretendere di sconfiggerli è tentare un’azione non meno paradossale di quella del barone di Munchausen, il quale, per uscir dal fango, si tirava per i capelli. Montaigne, col suo dubitare inarrestabile, si propone in qualche modo di intraprendere una tal battaglia volta a sgominare i pregiudizi che infestano la nostra mente, o, quanto meno, - nel caso, anche se scoperti, non fossero eliminabili - a metterli in quarantena, nella convinzione che “un’anima libera da pregiudizi è già straordinariamente avanti sulla strada della tranquillità”. Nella sua battaglia contro di essi, il filosofo francese apre un fronte che è, al tempo stesso, moderno e antiquato, se consideriamo che già Socrate, nel suo dialogare, era nei riguardi dei suoi interlocutori, di cui metteva in crisi le certezze pregiudizialmente accettate, pungente e traumatizzante non meno della torpedine e della mosca che pungola il cavallo, e che ancora la tradizione illuministica si propone di abbattere tutti i pregiudizi che affollano e ottundono la mente umana. Ma, a proposito di tale lotta ai preconcetti, - chiediamoci – è più moderna la posizione di chi muove nella convinzione che essi possano essere repressi o quella di chi invece riconosce la loro naturale (e dunque ineliminabile) presenza nella mene umana? E’ più moderno l’atteggiamento di un Kant e di un Protagora, che reputano - come misura di tutte le cose per l’uomo – l’umanità nel suo insieme (Kant), con le sue categorie a priori tali per cui il concepire la realtà sotto forma di sostanze fra loro rapportate da nessi causali altro non è se non deformare la realtà stessa nella sua noumenicità, e l’uomo come singolo (Protagora), per cui ciò che a ciascuno pare vero, tale è per ciascuno? O è più moderno l’atteggiamento di chi pretende di far strage di pregiudizi, come Montaigne o Francis Bacon? Pur nella difficoltà che presenta questo interrogativo, possiamo in qualche misura affermare – anche alla luce delle considerazioni di Gadamer – che la posizione realmente moderna sia la prima, quella che si rassegna a vivere coi pregiudizi e cerca tuttavia di indirizzarli opportunamente, ma ciò non esclude tout court che, a tal proposito, l’atteggiamento di Montaigne sia moderno, se non altro per il fatto che è sicuramente vero che egli si propone di fugare i pregiudizi che albergano nelle menti umane – il disprezzo per le altre civiltà, la convinzione di essere al cuore del creato e di usufruire di una ragione immensamente forte, ecc – e che sono l’emanazione di un’illusione della ragione dogmatica e metafisica, ma al contempo riconosce anche l’inattuabilità di tale progetto, inattuabilità dipendente dall’eccessiva debolezza della nostra ragione, che può sì individuare i pregiudizi che la viziano, ma non è sufficientemente forte per congedarli una volta per tutte.
Lo scetticismo universale della filosofia
Nell’Apologie, l’esito, innovativo e sconcertante al tempo stesso, a cui la meditazione montaigneana approda è l’estensione del proprio antidogmatismo dubitante anche agli altri grandi pensatori del passato, ritenuti troppo grandi e acuti per presentare in via dogmatica le loro idee: “io non riesco facilmente a persuadermi che Epicuro, Platone e Pitagora ci abbiano dato per denaro contante i loro atomi, le loro idee e i loro numeri. Erano troppo saggi per stabilire i loro articoli di fede su una cosa tanto incerta e tanto discutibile”. Tutti i più illustri filosofi dell’antichità avevano perfettamente colto – stando a Montaigne – il carattere mai definitivo e sempre solo provvisorio della conoscenza umana e del suo incessante saltare da un dubbio ad un altro senza mai trovar la quiete della certezza: perfino Epicuro - che Montaigne non esita ad etichettare come “il principe dei dogmatici” - col suo molto sapere, ci insegna che occorre dubitare ancora di più.
Nel suo ardito tentativo di rinvenire la sua stessa matrice scetticheggiante anche nei più grandi filosofi del passato, Montaigne adduce come esempio particolarmente significativo il caso di Platone, e, per avvalorare questa sua tesi dello “scetticismo universale”, per cui non vi fu filosofo che non fosse dubitante di tutto, ne mette in luce lo scetticismo di fondo, o, almeno, quello che lui ritiene tale. Montaigne ci ricorda innanzitutto che dalla formulazione originaria della filosofia platonica trassero origine ben dieci sette diverse – prima prova della mobilità del platonismo e della molteplicità delle interpretazioni a cui esso si presta -, sottolineando come del resto il sommo padre delle idee sempre si servì del dialogo come strumento per filosofeggiare, frantumando e sparpagliando in tal modo in diverse bocche le contrastanti idee – mai certe ed ultime – che affollavano la sua eccelsa mente. Il fatto stesso che l’arrovellante “ti estin;” socratico, motore di buona parte dei dialoghi inscenati da Platone, resti sempre e comunque irrisolto non è forse una fulgida prova della perenne incertezza in cui brancola il nostro miserabilmente debole sapere? Così, nel Cratilo non si riesce a chiarire in via definitiva se i nomi nascano per una convenzione pattuita fra gli uomini o, piuttosto, se disvelino l’essenza stessa delle cose; analogamente, nel Lachete non viene diradato il dubbio intorno a che cosa realmente sia il coraggio, nel Liside non si perviene ad una definizione ultimale dell’amicizia, e così via. Tuttavia, pur nell’assoluta aporeticità in cui tali dialoghi restano sospesi, essi non sono meramente un divertissement letterario, ma hanno una veste profondamente educativa, nella misura in cui sgombrano il campo dalle errate convinzioni che ristagnano nelle nostre menti. Ciò significa, allora, che l’obiettivo che Platone si prefigge non è di guidarci alle certezze, ma piuttosto di dissipare i pregiudizi di cui siamo schiavi ignari: così nel Lachete viene abbattuta l’assurda convinzione che il coraggio consista nell’attendere a piè fermo il nemico, e nel Cratilo si mette in luce come la verità non sia in toto racchiusa nelle posizioni linguistiche – realmente rispecchianti la diffusa mentalità del V secolo a.C. – né del convenzionalismo di Ermogene né del naturalismo di Cratilo.
Tuttavia Montaigne, nell’entusiasmo in lui nato dall’aver ravvisato il suo stesso scetticismo anche in Platone, finisce forse per dimenticare come la filosofia del grande pensatore ateniese nascesse innanzitutto come rinforzo delle certezze (diciamolo pure: dei dogmatismi) di cui si sostanziava il pensiero di Socrate, sempre pronto, sì, a far vacillare i dogmatismi altrui, ma sempre e comunque nell’orizzonte dei suoi propri (il male come frutto dell’ignoranza, l’inconfutabilità della verità, l’immortalità dell’anima, ecc); l’operazione che compie Platone può essere – calcando volutamente la mano – sintetizzata come tentativo di far valere le certezze socratiche tenendo conto delle critiche ad esse (e – in generale – alla possibilità di conoscere il vero) mosse dai sofisti, che per primi avevano realmente sguinzagliato un dubbio divorante tutti i punti fermi su cui poggiava la poliV del V secolo.
Peraltro, proprio Montaigne si lamenta accesamente dell’uso troppo diffuso del pensiero platonico, un uso quasi degenerante nell’abuso, tale per cui non vi è concetto – anche il più impensabile - che non si possa a lui attribuire; ma verrebbe da chiedersi fino a che punto Montaigne stesso, facendo di lui il padre supremo dello scetticismo, non ricada nello stesso errore che egli stesso diagnostica agli altri.
L’Apologie si apre con un elogio della scienza e della sua utilità: ma, al contempo, accanto ai toni encomiastici con cui esordisce, Montaigne precisa immediatamente che non dobbiamo cadere nell’errore tipico di chi – come il citato filosofo Erillo, ma il discorso può essere esteso all’intera schiera di quelli che non hanno occhi che per essa -, tutto assorbito dalla scienza e dai suoi bagliori, finisce per conferirle dei poteri straordinari, facendone un onnipotente strumento con cui diradare tutte le incertezze in cui siam sommersi e – per così dire – un’infallibile guida nel dedalo di strade percorribili che ci si presentano ogni giorno dinanzi. Il rapporto che fin dall’inizio Montaigne intrattiene con la scienza si delinea come bicipite: da una parte, egli – da buon moderno - non può non apprezzare i vantaggi che essa comporta per la vita umana, il suo saper sempre più escogitare nuove finissime tecniche finalizzate ad un generalizzato “vivere meglio” che – secondo quello che sarà il motto dell’illuminismo utilitaristico – finisce con l’identificarsi con “la massima felicità per il maggior numero possibile di individui”; dall’altra parte, tuttavia, il filosofo francese – in forza del suo scetticismo e della sua convinzione della debolezza del pensiero umano – non può che disapprovare la pretesa, propria della scienza, di arrivare ad una graduale conoscenza, certa ed infallibile, dell’intero creato e delle leggi che lo regolano: sotto questo profilo, dunque, la scienza presenta l’ineluttabile inconveniente di alimentare incessantemente la superbia umana, fornendole combustibile per divampare: man mano che l’uomo acquisisce quelle conoscenze che la scienza garantisce esser certe, egli subito inorgoglisce e si fa altezzoso, fantasticando di aver dischiuso i misteri del mondo di esser entrato in contatto con la verità, dimentico tuttavia del fatto che “non siamo più vicini al cielo sul Moncenisio che in fondo al mare”. Eppure Montaigne è pienamente consapevole di come sia proprio quella scienza, che fomenta la nostra tracotanza e ci fa scordare di essere solo dei miseri esseri mortali, a farci a passo a passo procedere lungo l’interminabile via del progresso, guidandoci in direzione di un sempre più esteso dominio a nostro uso e consumo della natura: infatti, è proprio la ragione lungimirante e calcolatrice che, dismesso l’abito del dubbio e indossato quello di ricercatrice di certezze irremovibili, ci permette di disvelare i segreti della natura esterna e, per ciò stesso, di estendere ad essa il nostro dominio attraverso un’autentica antropizzazione, quella che Bacone, nei suoi scritti, etichetta come una vera e propria “violenza” della natura. Anche in questo caso, il pensiero montaigneano non può essere letto in maniera avulsa dal contesto storico in cui è fiorito: anzi, in certo senso, esso ne è un riverbero estremizzato. Così come il dubitar di tutto trae in Montaigne origine – oltrechè dalla sua indole naturalmente incline a non appagarsi delle certezze di comodo – soprattutto da quella strage di certezze compiute dai Luterani – i quali han fatto entrare in crisi la saldezza del credo religioso -, dai navigatori che han scoperto l’America e dalle rivoluzionarie teorie scientifiche prospettate da Copernico e condotte da Giordano Bruno (in sede filosofica) e da Galileo (in ambito scientifico) alle estreme conseguenze, tali per cui l’uomo europeo non sarebbe né al cuore della Terra né, tantomeno, al centro di un universo che potrebbe essere infinito e che comunque non vede la Terra in posizione preminente, cosicché egli – da copula mundi – diviene un mero atomo tra gli infiniti che compongono l’universo. Proprio dal grande fermento scientifico a cui assistiamo nell’età rinascimentale – che non a caso Hegel definisce come l’età della ragione ridestatasi dal letargo della coscienza infelice medioevale -, quel fermento che segna lo smarcarsi definitivo dai residui - accettati per autorità e troppo spesso fatti valere con la persuasiva arma della condanna a morte - dell’aristotelismo e del cristianesimo, Montaigne resta profondamente scosso, assumendo una posizione mediana che gli consente di approvare le migliorie introdotte dalla scienza, ma, non per questo, di non criticare gli esiti catastrofici a cui essa conduce se ne facciamo un uso smodato: il lato scettico di Montaigne – quel lato che fa leva sull’intrinseca debolezza con cui si muove il nostro pensiero – non può non avanzare le sue riserve di fronte ad una scienza che, diffondendosi sempre più, finisce – pur apportando innegabili migliorie e comodità alla vita - per infondere nell’uomo la superba arroganza di essere onnipotente sul piano conosc