THOMAS NAGEL

 

A cura di Alessandro Sangalli

 

 

 

«Il nucleo della filosofia sta in certe questioni che lo spirito riflessivo umano trova naturalmente sconcertanti, e il modo migliore per cominciare lo studio della filosofia è pensarci sopra direttamente».


 

1. Vita e opere

 

NAGELThomas Nagel nasce a Belgrado il 4 luglio del 1937, ma ha ottenuto la cittadinanza americana nel 1944. Prima di diventare professore di Filosofia e Diritto alla New York University, ha studiato alle università di Cornell, Oxford e Harvard; in quest’ultima ha conseguito il PhD nel 1963. È conosciuto soprattutto nel campo dell’epistemologia e della filosofia della mente, ma ha pubblicato lavori di rilievo anche in ambito morale (filosofia politica, etica, filosofia del diritto). Le sue opere principali sono: La possibilità dell’altruismo (1970); Questioni mortali (1979) raccolta di saggi e articoli, tra i quali “La bisezione del cervello e l'unità della coscienza” del 1971 e il famoso “Che effetto fa essere un pipistrello?” del 1974; Uno sguardo da nessun luogo (1986); Una brevissima introduzione alla filosofia (1987); I paradossi dell’uguaglianza (1991); L’ultima parola. Contro il relativismo (1997). Tra parentesi è indicata la data dell’edizione originale inglese.

Membro della American Academy of Arts and Sciences e della British Academy, Nagel ha più volte collaborato con la Guggenheim Foundation, la National Science Foundation e la National Endowment for the Humanities.

 

 

 

2. La filosofia della mente

 

Oramai da alcuni decenni la filosofia della mente sta alimentando un acceso dibattito, vivo in particolar modo nel mondo anglosassone. Autori come Chomsky, Putnam, Davidson, Fodor e Nagel propongono teorie molto differenziate, motivo di continue critiche, rielaborazioni, confronti e discussioni. Queste teorie sono spesso altamente articolate, in quanto coinvolgono a diversi livelli la filosofia, le neuroscienze e la scienza cognitiva, ma in tutte si può individuare come nucleo principale la riflessione sul tema dell’intenzionalità. L’idea di intenzionalità (dal termine scolastico intentio) risale all’opera di quello che forse può essere definito il primo filosofo della mente in senso moderno: l’austriaco Franz Brentano (1838-1917). Con ciò egli voleva significare quella caratteristica fondamentale dei fenomeni psichici, per cui essi si riferiscono necessariamente a un oggetto immanente (non si dà rappresentazione mentale senza un oggetto; o, in altri termini, la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa).

I diversi punti di vista su questo complesso fenomeno psichico si dividono solitamente in due grandi gruppi, caratterizzati da un differente approccio di base: si tratta della prospettiva esternista (externalism) e di quella internista (internalism). La prospettiva esternista sostiene una costante correlazione della mente col mondo in cui essa agisce. In tal maniera, viene meno l’idea tradizionale dell’autonomia delle dinamiche cognitive, e viene evidenziata l’essenza oggettiva e sociale del significato. La prospettiva internista afferma invece l’indipendenza dei fatti mentali, difende l’autonomia della mente rispetto al mondo esterno.

Thomas Nagel è uno dei maggiori esponenti della teoria internista, convinto che la coscienza e l’esperienza soggettiva non possano essere ridotti ad un’attività cerebrale basata su impulsi e sensazioni: un punto di vista che si può quindi definire come una forma di antiriduzionismo. Egli sostiene che l’esperienza soggettiva della coscienza non può in nessun modo essere colta attraverso i metodi oggettivi della scienza: la scienza, alla ricerca di una descrizione generale e oggettiva della natura, non potrà mai fare proprio il carattere costituzionalmente soggettivo della mente umana. Di conseguenza, Nagel ritiene che il problema mente-corpo non si ponga nemmeno, o se non altro non si possa porre in modo sensato, poiché sembra improbabile concepire una teoria fisicalistica della mente. Benché molti filosofi e neuroscienziati cognitivisti accettino la fondamentale distinzione tra soggettivo ed oggettivo, tuttavia spesso non accettano le conclusioni alle quali perviene il nostro autore.

Uno degli articoli più famosi di Nagel è certamente quello intitolato “Che effetto fa essere un pipi­strello?”, uscito nel 1974 su The Philosophical Review e ristampato nella raccolta Questioni mortali cinque anni più tardi. Si tratta di un punto di riferimento essenziale per chi nutre interessi filosofici e scientifici riguardo al tema della coscienza: questo scritto contiene infatti già buona parte delle argomentazioni che hanno animato il dibattito filosofico recente sulla natura della coscienza. Nagel ha anticipato molte considerazioni che sono state avanzate nei due decenni successivi, condensandole in un articolo breve ed efficace.

L’articolo nasce da una riflessione molto semplice: cosa significa condividere la stessa realtà per esseri con apparati sensoriali così diversi come l’uomo e il pipistrello? Nel testo, Nagel rivendica la necessità di una fenomenologia capace di mostrare i caratteri comuni della condivisio­ne di un mondo da parte di esseri che abbiano sensi e concetti differenti dai nostri: lo fa per risolvere il paradosso per cui, se definiamo le soggettività come monadi incomunicanti e l'og­gettività come ciò che può venir compreso dalla fisica, allora un pipi­strello e un uomo abiterebbero in due mon­di completamente diversi. Egli vuole affermare che la vera sfida per una teoria della mente che intenda confrontarsi anche con il problema dell'io e della soggettività è la coscienza, termine che – secondo la lezione di Brentano, poi ripresa da Husserl –  si connette strettamente a quello di intenzionalità, nel senso del riferirsi a o di dirigersi consapevolmente verso qualche cosa, sia esso un oggetto esistente o meno. Tale sfida è stata accolta in particolare da John R. Searle, sul versante filosofico, e da Gerald M. Edelman, sul versante delle neuroscienze: entrambi gli autori hanno elaborato una teoria naturalista della coscienza che, pur facendo riferimento ai dati sperimentali della neurobiologia, non accetta l'idea che la mente sia ridotta al cervello e tanto meno eliminata in favore di un agglomerato di neuroni e sinapsi. L'obiettivo comune di Searle e di Edelman è una teoria non-riduzionista ed evoluzionista della mente che riesca a tenere insieme le attuali conoscenze sull'architettura del nostro cervello, che ci portano a riconoscere la reale esistenza degli stati mentali e degli stati cerebrali.

La nostra domanda – forse banale – potrebbe essere questa: perché Nagel ha scelto proprio il pipistrello? È lui stesso a spiegarci il motivo di tale scelta:

 

«Ho scelto i pipistrelli invece delle vespe o dei passeri perché se ci si allontana troppo dall'albero filogenetico, gli uomini perdono gradualmente la fiducia sul fatto che vi sia realmente esperienza. I pipistrelli, benché più vicini a noi che le altre specie citate, presentano tuttavia una gamma di attività e un apparato sensorio così differenti dai nostri che il problema che desidero porre è eccezionalmente nitido (sebbene possa certamente essere sollevato anche a proposito di altre specie). Anche senza il beneficio della riflessione filosofica, chi ha passato un po' di tempo in uno spazio chiuso con un pipistrello agitato sa che cosa vuol dire incontrarsi con una forma di vita fondamentalmente estranea».

 

 

 

3. Filosofia morale e politica: contro il relativismo  

 

In L'ultima parola troviamo ancora una volta ribadita un’idea centrale nel pensiero di Nagel: oggi la filosofia analitica non può più essere considerata nemica della metafisica e dei valori assoluti come lo era ai tempi del neopositivismo; spesso, anzi, ne è una preziosa alleata. In quest'opera, l’autore sviluppa infatti una serie di importanti argomenti contro il relativismo, come recita il sottotitolo aggiunto nella versione italiana.

Schierarsi contro il relativismo significa per Nagel porsi a difesa della ragione, di una ragione intesa come punto di vista universale. Per il nostro «ragionare significa pensare in modi che chiunque dovrebbe poter riconoscere autonomamente come correnti», per cui la ragione è quello stesso logos che per primo Eraclito chiamò comune, universale, quel discorso razionale che permette a tutti di comunicare, di vivere nello stesso mondo, come accade a quanti sono svegli, e non ciascuno in un suo mondo particolare, come accade a coloro che sognano. La negazione di questa ragione, cioè il relativismo – sia teoretico che etico-morale – viene considerata da Nagel come l’espressione della pigrizia intellettuale della cultura contemporanea, come ostacolo insormontabile verso ogni discussione seria, come autocontraddizione e vacuità.

Contro il relativismo, Nagel ripropone come sempre valida, malgrado l'accusa di formalismo rivoltale da Martin Heidegger, la confutazione classica, secondo la quale il relativismo, applicato a se stesso, si autodistrugge. Ma oltre a questo egli porta anche numerosi altri argomenti, tra i quali è particolarmente interessante quello secondo cui il pensiero non può essere compreso dall'esterno e quindi non può essere interamente ricondotto a spiegazioni di tipo psicologico, sociologico o antropologico, perché queste a loro volta sono soggette alle leggi del pensiero, cioè della logica, che sono innegabili.

Oltre alla logica e al linguaggio, di cui mostra il carattere irriducibilmente intenzionale e quindi il necessario collegamento col pensiero, Nagel difende dagli attacchi del relativismo anche la scienza e l'etica. Chiunque faccia un'autentica esperienza di ricerca scientifica – egli osserva – sa che per mezzo di essa non si impone nessun ordine soggettivo al mondo, ma si cerca di scoprire un ordine non fatto da noi. Analogamente, chiunque discuta di etica non si limita ad esprimere semplici desideri, ma cerca delle giustificazioni, delle ragioni universalmente condivisibili. Un altro tema di particolare interesse, nel libro in questione, è la trattazione del naturalismo evoluzionistico, cioè del tentativo di spiegare la logica e l'etica per mezzo dell'evoluzionismo darwiniano. Contro di esso, l'autore fa valere l'argomento sopra esposto, secondo cui il pensiero non può essere spiegato dall'esterno, per cui “l'ultima parola”, in definitiva, spetta all'epistemologia, cioè ad una teoria razionale della conoscenza e della mente. Interessante è soprattutto l'osservazione secondo la quale l'evoluzionismo spesso è accolto per timore che l'unica alternativa ad esso sia la religione, nei cui confronti anche persone intelligenti nutrono una vera e propria paura, una paura tale da sperare, o volere, che Dio non esista. Secondo Nagel, il piano religioso e trascendente non è l’unica alternativa al naturalismo evoluzionistico: ne esistono anche altre, che rimangono sul piano della razionalità.

A riprova di questa sua posizione, nel campo della filosofia politica, Nagel sostiene una forma di liberalismo egualitario in contrasto con quello di stampo liberista: secondo quest’ultimo modello il rapporto tra individui e stato deve partire da una rigida definizione dei diritti di proprietà intesi come diritti naturali inalienabili. Per il nostro, al contrario, anche gli stessi diritti di proprietà esigono di essere definiti entro un quadro più ampio di valori e di ragioni che legittimano la cooperazione sociale e, dunque, un certo tipo di tassazione rispetto ad un'altra. A questi temi ha dedicato un libro scritto a quattro mani con Liam Murphy dal titolo The myth of ownership: taxes and justice (2002).    

 


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